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Violenti relitti

di Sara Mamone
 
Data di pubblicazione su web 17/02/2010  

Con gli anni a Koj Wakamatsu, maestro del  Pinku eiga (genere giapponese di film pornografici softcore), convertito alle più profonde tematiche dell’ erotico filosofico, non è venuto meno il coraggio. L’anziano regista sa perfettamente quanto l’immagine sia il veicolo primo della trasmissione delle emozioni e quanto una situazione visiva “parli” molto più di un trattato. In questo caso quanto la visione di un corpo mutilato sia molto più pacifista di una manifestazione di massa o di un pamphlet. Ma è veramente un corpo quello che, tra le tante vedove di guerra (Seconda guerra cino-giapponese) Shinobu Terajima (Shigeko Kurokawa) si vede consegnare nella casa dove era vissuta con l’aitante Keigo Kasuya (Tadashi Kurokawa) senza braccia, senza gambe, sordo e incapace di esprimersi se non per suoni inarticolati, mezza testa bruciata, non può certo definirsi un uomo: è un relitto, un disgraziato pezzo di carne. O meglio, per la retorica del Sol Levante, per le sue regole ferree di devozione all’imperatore, un eroe. E come tale onore e vanto del suo villaggio ma soprattutto della sua privilegiata sposa. Che vinto il disgusto istintivo non solo fa prevalere il senso del dovere ma, vera vittima della situazione e della distorsione retorica, si immedesima nel suo ruolo in una tacita gara di eroismo.

 

Eroismo soprattutto privato, quando il coniuge le richiede a smorfie la ripetuta pratica del “dovere” coniugale o imperiosamente con lo sguardo esige per sé il poco cibo disponibile; ma anche eroismo pubblico (certamente il più gratificante) quando lei lo veste con i segni del suo merito (appuntandogli le numerose decorazioni) e se lo porta a spasso in un grottesco carrozzino infantile ammirata e compianta dall’intera comunità. Chi sia più vittima a questo punto è evidente e la compassione va tutta alla sposa anche perché, sottolineando inopportunamente la forza ripugnante delle immagini, il regista le dota di un surplus di informazioni, fornite dal flash back della memoria del reduce che, veniamo a vedere, era rimasto mutilato in un incendio mentre commetteva uno stupro. Inoltre, nell’inevitabile altalenare dei sentimenti nella sua pratica assistenziale, la sposa gli rimprovera a volte le quotidiane botte e la voracità sessuale d’antan.

 


 

Insomma il pregio maggiore del film e cioè la violenza primaria (e quasi insostenibile) della visione, si diluisce e si ottunde in una sovrastruttura ideologica più banale, con un corredo narrativo che leva, anziché dare, forza e dolore. Salvo nel muto finale, questo sì, più forte di un grido, quando, a guerra finita, con le inevitabili e ormai usurate immagini delle bombe su Hiroshima e Nagasaki e il nobile proclama di Hiro Hito l’antico Giappone sprofonda: nella pacata campagna strisciando sul ventre come un “millepiedi” (Caterpillar è, appunto, il titolo del film) l’eroe raggiunge il laghetto dinanzi a casa e si lascia annegare, il  corpo informe ondeggiante nel paludoso acquitrinio.

 

Kyatapirâ
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