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Mare nostrum

di Marco Luceri
  Harragas
Data di pubblicazione su web 05/09/2009  

Ancora una storia di sradicamento, immigrazione clandestina, sogni infranti. Di questa Mostra numero 66 tutto si potrà dire, tranne che manchi l’impegno e la forza di raccontare storie crude sulle tragedie che vivono milioni di persone alle porte dell’Europa. Harragas, presentato nelle Giornate degli Autori, è un piccolo-grande film, co-produzione franco-algerina, girato tra le due sponde del Mediterraneo: quella da abbandonare (l’Algeria) e quella da raggiungere (la Spagna).

Trasuda realismo e disperazione il film di Merzak Allouache, iniziando con una serie di caotiche panoramiche su una città portuale algerina traboccante di vitalità, la stessa che ritroveremo subito dopo nelle riprese sugli enormi caseggiati di periferia, dove si nasce e si muore ogni giorno e dove dietro ogni porta si nascondono le storie di migliaia di persone. E’ la voce off di uno dei protagonisti ad accompagnare lo spettatore all’interno della vicenda ed è l’unico intervento extra-diegetico del film, che infatti vira da subito verso la cruda rappresentazione realista di un paese che non ha futuro.

I protagonisti del film sono infatti tra giovani ragazzi alla soglia dei trent’anni (una coppia di fratelli e un amico) che sognano disperatamente di lasciare un presente fatto di povertà e ignoranza, per potersi ricostruire una vita al di là del mare, magari in Francia. Il loro viaggio viene organizzato clandestinamente da un uomo avido e senza scrupoli: sulla carretta che dovrà affrontare la traversata ci saranno un gruppo di sei africani provenienti dalle dune del Sahara e un ex-galeotto assai violento.

Una storia come tante, insomma, di quelle che fanno oggi parte del triste bollettino quotidiano di morti, dispersi e internati (come ci ricordano le didascalie finali del film) nei sedicenti centri d’accoglienza della civile Europa e che nell’indifferenza dei più scompaiono dalla faccia della terra con il loro carico di illusioni. Eppure Harragas, pur essendo un film strettamente legato alla contemporaneità ha il respiro, il ritmo e lo stile figurativo dell’epica senza tempo; se l’azione del film è infatti ridotta al minimo, Allouache costruisce gran parte delle inquadrature isolando i personaggi all’interno di un paesaggio misterioso, oscuro, metafora di una Natura attraente e pericolosa: spesso i protagonisti di questa tragedia corale guardano il mare, perdendo il loro sguardo all’orizzonte, oppure (è il caso soprattutto di Iméne, la bellissima ragazza dai tratti duri e dagli occhi dolcissimi) trasformando il loro stesso volto in un paesaggio fatto di angoscia, sogni, attese.

Il mare omerico, il Mediterraneo, la distesa d’acqua millenaria dove per secoli si sono consumati gli scontri di civiltà e le emigrazioni da tutti i sud del mondo, resta il luogo dell’infinito, del mistero della vita e dell’indeterminatezza dei destini. Nessuno può sapere cosa potrà succedere solcando le sue acque, se i desideri si avvereranno o se durante il viaggio saranno risucchiati e inabissati dalla morte. Perché, anche se questi moderni eroi dovessero riuscire ad arrivare a destinazione, potrebbe iniziare per loro un’altra storia di miseria e privazioni.

Il film, infatti, si chiude laddove era iniziato, ma in modo diverso. Mentre scorrono i titoli di coda, un lunghissimo carrello si muove nello spazio di un’altra affollatissima strada algerina, con il suo traffico, i suoi abitanti, i suoi rumori, i suoi profumi, la sua disperazione. La storia di ognuno scorre senza tempo, come la Storia, quella di tutti, avida e ingannatrice.

 




Harragas
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