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La geometria crudele del linguaggio

di Lorenzo Mango
  Una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 08/07/2008  

Quarantacinque anni sono passati dal maggio 1963 quando The Brig del Living Theatre debuttò a New York al Teatro della Quattordicesima strada. Quarantacinque anni dopo Judith Malina ha riproposto – prima nuovamente a New York e poi in una tournée italiana che ha toccato Firenze, Roma e Napoli – il testo di Kenneth Brown e lo ha fatto in un momento della sua storia segnato, come tante volte già accaduto in passato, da un mutamento di rotta che è sempre anche un mutamento di vita. Le ragioni del mutamento, stavolta, sono due, una felice ed una drammatica: l’apertura, proprio con The Brig, di un nuovo teatro newyorkese (dopo che l’ultimo era stato chiuso con le repliche dello stesso spettacolo nel 1963) e la morte, prematura e drammatica, di Hanon Reznikov, condirettore del Living e compagno della Malina, avvenuta durante il tour europeo del gruppo.

Riproporre The Brig ha significato, dunque, per la Malina ed il suo gruppo, anzitutto confrontarsi con se stessi. Questa era l’intenzione del progetto, questo, ancor più ha finito col diventare. Il Living Theatre si trova ancora una volta a guardarsi allo specchio e ad interrogarsi sulla propria identità e, attraverso di essa, sull’identità stessa del teatro. D’altronde Julian Beck (l’anima visionaria e carismatica del gruppo, morto nel 1985) riteneva che un lavoro autenticamente di ricerca non potesse non porsi il problema del repertorio, non per istituire una tradizione o peggio edificarsi un monumento, ma per riattraversare il proprio vissuto e, tessendolo col proprio presente, continuare a tenerlo vivo nel rapporto col pubblico. Dunque The Brig dopo quasi mezzo secolo serve al Living non per far vedere come era ma per verificare come è.



Quando nel 1963 Julian Beck lesse il testo che gli aveva fatto pervenire Kenneth Brown era alla ricerca di uno stimolo che gli consentisse di spostare ancora più avanti la frontiera del proprio discorso teatrale. In quel dramma, così crudo così minimale così antiteatrale, scorse la possibilità di portare un ulteriore attacco alla logica della messa in scena e della rappresentazione che aveva sperimentato con straordinaria efficacia in The Connection, lo spettacolo con cui, convenzionalmente, si fa cominciare la vicenda “maggiore” del Living. Se in quella occasione, era il 1959, Julian Beck e Judith Malina avevano proposto una soluzione estrema di teatro nel teatro che straniasse pirandellianamente la percezione del pubblico fornendogli un piano di realtà ambiguo e sfuggente (erano veramente drogati quelli che il pubblico aveva di fronte? davvero stavano aspettando la connection del loro spacciatore? veramente lo spettacolo sarebbe cominciato quando questi fosse arrivato e cos’era, allora, quello che stava succedendo?); adesso, con The Brig, il gioco si spostava ancora più avanti, toccando il limite estremo del realismo.

Kenneth Brown aveva scritto il suo testo di ritorno dal servizio militare svolto in una base dei Marines in Giappone. Qui era stato internato, per motivi disciplinari, dentro un campo di prigionia (“the brig” appunto) e questa esperienza lo aveva provato duramente. Tornato a casa aveva scritto un testo che ricostruiva in dettaglio una giornata tipo di quel campo. Ci sono le guardie, ci sono i prigionieri, c’è la disposizione fisica della prigione proprio così com’era e c’è, soprattutto, la routine quotidiana, fatta di atti, di gesti, di punizioni, di ripetizioni ossessive. Brown prende tutti questi elementi e ne fa un dramma in due atti, ma ha l’accortezza di non trasformare il campo nello sfondo della vicenda. Non racconta insomma la giornata dei prigionieri all’interno del campo drammatizzandola attraverso il racconto del loro vissuto personale, ma di quella giornata fornisce una fotografia fredda, impersonale, spietata che può ricordare, per certi versi, il cinema di Andy Warhol.




Di fatto in The Brig non succede nulla. Non in senso aristotelico almeno. Manca, cioè, una vicenda che abbia un inizio e una fine, una sua logica evolutiva interna, che, in altri termini, determini uno sviluppo negli avvenimenti che mostra. Brown, invece, espone agli occhi del pubblico una serie di situazioni accostate paratatticamente tra loro. In ognuna di esse viene riprodotta fin nel dettaglio più minuto la ritualità ossessiva e spersonalizzante che caratterizza ogni singola fase della giornata ed ogni singola attività dei prigionieri. Alzarsi, andare al bagno, fumare, rifarsi il letto o ancora ripulire la prigione, farsi perquisire sono tutti atti costruiti in modo meccanico, esasperati fisicamente. Tipico è il saluto urlato che il prigioniero deve alla guardia, che tante volte da allora abbiamo visto nel cinema americano a cominciare dallo straordinario Full Metal Jacket di Kubrick, ma che allora giungeva nuovo, inquietante e misterioso all’orecchio degli spettatori. Dentro una drammaturgia di situazione così minimale ed estrema, restavano solo alcuni spunti più tradizionalmente narrativi, destinati a rappresentare lo scorrere del tempo rispetto ad una routine che, invece, è tragicamente e beckettianamente immobile: la liberazione del prigioniero numero cinque; l’arrivo di un nuovo soldato a sostituirlo e la sua “iniziazione” alla prigione; l’attacco di panico e di delirio di un altro dei reclusi. Sono flash, questi momenti più diegeticamente narrativi, frammenti che si vanno ad incastonare dentro la spietata macchina della ripetizione spersonalizzante progettata da Brown, senza smuoverla o incrinarla ma, semmai, ribadendola.




Fu proprio questo aspetto della forma drammatica del testo a colpire l’immaginario di Beck e della Malina, che firmò e firma anche oggi la regia dello spettacolo. «The Brig è un dramma costruttivista – scrive Judith Malina – La costruzione della scena detta e guida l’azione con la forza dei suoi vettori e dei suoi centri di gravità». La drammaticità del testo, dunque, consiste nella sua struttura più ancora che nella sua ambientazione. La forza che la regia può trarne risiede nell’implacabile assenza di ogni sguardo soggettivo, di ogni filtro personale. Ciò che accade è esattamente ciò che accade. Nient’altro. È quello che il Living cercava in quegli anni: una via per mettere in relazione teatro e realtà; una strategia per un realismo estremo, che superi e neghi la dialettica di segno ed oggetto tipica del realismo convenzionale e cerchi, invece, di attivare un corto circuito che faccia esplodere dall’interno la convenzione rappresentativa.

Per raggiungere un simile scopo la Malina fece ricorso ad una duplice strategia registica. Sul piano della costruzione dello spettacolo esasperò la drammaturgia di situazione del testo. Vale a dire che ampliò e redasse in termini di geometrica ossessione la partitura coreografica dell’azione. The Brig è una macchina scenica in continuo movimento. L’azione è la riproposizione esatta, ma come ritmicamente intensificata, degli atti e dei comportamenti descritti dalle didascalie di Brown. Ne nasce una trama continua, un flusso dei movimenti scenici ed un suono altrettanto continui. All’interno di una simile partitura le parole del testo sprofondano. Un po’ perché sono urlate fino a risultare distorte ed irriconoscibili, un po’ perché si confondono nell’azione, perdendo, così, di protagonismo.

L’efficacia registica dello spettacolo, dunque, consiste nella capacità di assumere e rielaborare – portandolo fino al diapason più estremo – il sentimento drammatico del realismo di Brown. Per riuscirci, però, fu necessario un passaggio che andasse oltre la costruzione formale e riguardasse, invece, il processo di gestazione del lavoro. È rimasta in una qualche misura leggendaria la decisione della Malina di imporre agli attori del Living (già allora anarchici ed anticonformisti anche se non si era ancora formata quella comunità nomade che caratterizzerà gli anni successivi) un codice di disciplina delle prove che fosse un po’ l’equivalente, in sedicesimo, del rigore della prigione. Questo perché il realismo cui la Malina e Beck aspiravano non doveva essere rappresentativo, ma toccare l’autenticità del sentire sia dell’attore che dello spettatore. Solo a questa condizione il realismo si sarebbe trasformato in ciò che doveva essere: iperrealismo, vale a dire l'aderenza totale tra segno e cosa, che annulla le differenze fra la copia e l'originale. Il realismo, così, anziché servire come una sorta di surrogato della realtà si trasforma in un processo di deformazione della rappresentazione e della sua percezione.




The Brig rappresentò la frontiera più estrema verso cui questo tipo di ricerca potesse essere condotto. Non a caso sia Beck che la Malina ne parlano come del compimento di una stagione di lavoro che era cominciata più di dieci anni prima, quando nel 1951 il Living aveva iniziato la sua attività al Cherry Lane Theatre investigando il linguaggio del teatro nei termini di quella estetica del moderno che aveva caratterizzato gli esordi di Beck come pittore (nel gruppo degli artisti dell’Action painting che ruotavano attorno a Peggy Guggenheim) e della Malina come allieva di Piscator. Nelle note di regia di Judith Malina questo dato è evidentissimo. The Brig è messo in relazione a tre figure cardine della riforma moderna del teatro: lo stesso Piscator, ma anche Mejerchol’d – proprio per l’idea di una scena che, facendosi struttura, divenga essa stessa protagonista – e soprattutto Artaud. Era stata questa la scoperta di quegli anni. Appena letto Il teatro e il suo doppio nella traduzione che ne aveva approntato Mary Caroline Richards (che, guarda caso, aveva preso parte al primo mitico happening di Cage al Black Mountain College, una delle pietre miliari nell’invenzione di un nuovo modo di concepire l’arte), Artaud era diventato un punto di riferimento assoluto, una meta, quasi un’ossessione. «Ad Artaud – scrive la Malina – mia folle musa, non mai assente dai miei sogni, io parlo un linguaggio segreto». E nei termini di Artaud è possibile, e forse necessario, leggere il rigore formale assoluto ed estremo che la Malina immette nella sua regia e cui chiama gli attori durante le prove. Artaudiano è The Brig non perché sia estremo e violento nella esecuzione scenica, ma perché estrema e violenta è la sua costruzione. Il rigore matematico cui Judith Malina fa ricorso non ha un’intenzione formale, ma serve per determinare quel senso di eccesso, quel senso di eccedenza del reale che giunge tutto, pesantemente, allo spettatore.

The Brig
, dunque, quando debuttò nel maggio del 1963 era uno spettacolo che da un lato si poneva come limite estremo di una ricerca, da un altro come momento di dialogo e di confronto con la tradizione del moderno. Voleva e doveva essere una “cosa ultima” e tale fu anche al di là delle intenzioni del Living. Il Teatro della Quattordicesima strada fu chiuso con un pretesto fiscale, i coniugi Beck processati, il gruppo partì per una tournèe in Europa destinata a trasformarsi in quello che fu definito l’esilio europeo. Dopo The Brig il Living non fu più quello che era stato fino a quel momento. Diventò una compagnia errante, si trasformò in una comune anarchica, abbandonò le forme di contestazione del teatro praticate all’interno della sua forma e si lanciò in una ricerca che sarebbe culminata di lì a cinque anni in uno spettacolo estremo, paradossale, impossibile, tutto pensato e giocato al di fuori dei canoni della messa in scena, della drammaturgia e della regia: Paradise now. The Brig, per sua stessa natura, e non solo per le nuove condizioni di contesto, rappresentava la soglia naturale tra un certo modo d’essere ed un altro, tutto diverso. Nella parte iniziale di Mysteries and smaller pieces - il primo degli spettacoli europei, realizzato senza un testo drammatico di riferimento (era la prima volta per il Living) come montaggio di tante situazioni sceniche nate dal qui ed ora degli attori in scena e dalla loro relazione col pubblico – restavano alcune delle assurde routine di The Brig, senza, però, costumi, scena, contesto che richiamassero alla situazione originale. Dell’iperrealismo della prigione non era rimasta che l’ossessione coreografica, l’esaltazione artaudiana di un corpo immesso dentro un regime di rigore assoluto, implacabile ed astrattamente crudele.




Quarantacinque anni dopo The Brig sta di fronte ai nostri occhi: per raccontare la storia di quello che il Living è stato, una sorta di documento di quell’archivio immateriale che è la memoria del teatro, o per dirci altro? Serve allo studioso per confrontare la fedelissima ricostruzione della regia originale con lo storico film che dalla prima versione dello spettacolo trasse Jonas Mekas o comunica qualcosa anche ad un ventenne che a stento sa chi sia il Living Theatre? Verrebbe da dire che, visto oggi, The Brig dialoga con noi su due orizzonti temporali diversi: il suo passato ed il suo presente. Avere un repertorio, per il Living, non vuol dire rifare The Brig in una maniera nuova, più attuale, ma riproporre fedelmente e filologicamente l’originale. Ed allora il primo impatto è di trovarsi di fronte un classico del teatro moderno, ma non un classico da ricostruire attraverso i documenti o custodire in un libro, ma un classico vivo, così come quando vediamo un quadro o leggiamo un romanzo. E, come ci accade in questi casi, quell’opera da un lato ci racconta la storia, dall’altro ci riguarda nel nostro presente. Se questo non accade quell’opera non è riuscita a diventare un classico, cioè qualcosa che ci parla di noi, e parla con noi, dalla distanza del tempo. Questa condizione, a teatro, non la sperimentiamo praticamente quasi mai, tanto più col teatro d’avanguardia che ha fatto dell’accelerazione dell’esperienza e del bruciare la storia una delle sue bandiere. Il teatro non ama il museo diceva, ed a ragione, Peter Brook, ma The Brig non è museo, almeno non nel senso polveroso del termine. È, invece, la scommessa di rigenerare una regia come si rigenera una drammaturgia. Vuole essere uno spettacolo del 2008, così come è stato uno spettacolo del 1963. È possibile? È una scommessa che ha un senso?

Staccare lo spettacolo di oggi da quello di ieri è, ovviamente, impossibile e non avrebbe senso farlo. Ma è altrettanto vero che lo spettacolo di oggi non esiste solo per testimoniare quello di un tempo. La nostra esperienza di spettatori è autentica e tutta presente. Cerchiamo, allora, di coglierla e di comprenderne la natura intrinseca. Cominciamo col dire che due degli elementi che rappresentarono, allora, la novità e lo scandalo dello spettacolo, oggi non sono più tali. Nel 1963 era tutt’altro che scontato vedere rappresentato il corpo dei Marines in una maniera così cruda e spietata e l’estremizzazione iperrealista per creare uno stato di turbamento nella rappresentazione veniva sperimentata, allora, per la prima volta. Oggi l’una e l’altra cosa non ci stupiscono più tanto: le abiezioni del militarismo sono pane quotidiano dell’informazione; quarant’anni di sperimentazioni ci hanno addestrato a navigare nelle più ardite decostruzioni del linguaggio. Eppure The Brig non risulta oggi uno spettacolo scontato, nel senso che colpisce ancora il nervo vivo di chi lo osserva. C’è da aggiungere, poi, che la compagnia, come è ovvio che sia, non è più la stessa, ma oggi è composta da un gruppo di giovanissimi attori, accompagnati e guidati, oltre che dalla Malina, da alcune delle figure storiche del Living: Steve Ben Israel, Gary Brackett, Tom Walker. Si tratta di attori scritturati, energici, efficaci sul piano gestuale, convinti nella realizzazione scenica, un gruppo perfettamente adatto a rendere l’impatto duro del testo, che ha lavorato, però, in un modo totalmente diverso dalla pratica coercitiva delle prove messa in gioco nel 1963. Che senso avrebbe farlo, infatti, con attori che non sono più ideologicamente motivati?




L’autenticità di oggi, dunque, affonda in ragioni diverse che riguardano unicamente la costruzione registica dello spettacolo. L’efficacia di The Brig – che si affida, comunque, alla capacità espressiva ed alla convinzione degli attori – è infatti tutta contenuta dentro quella paradossale logica della costruzione geometrica dell’azione che emerge adesso, probabilmente, con più evidenza di quanto non accadesse in passato. Dopo aver visto gli orrori di Abu Ghraib e Guantanamo come e perché ci colpisce ancora, suscitando un autentico disagio, il campo di punizione descritto da Brown? Qui non c’è sangue, non ci sono insolenze sessuali, né abiezioni volgari. Non c’è insomma l’orrore quotidiano cui ci hanno abituati. C’è un orrore diverso, più sottile, più subdolo, più inquietante. L’orrore di una implacabile macchina del vivere quotidiano in cui ciascuno perde la sua identità, la sua voce, il suo nome. Beck voleva che fosse questa la metafora che uscisse da The Brig. Quella prigione non è un altrove, non è un territorio militare: è il nostro mondo, siamo noi. L’estremo realismo dello spettacolo non rappresenta tanto l’oggetto che abbiamo di fronte, ma è uno specchio, uno specchio implacabile dentro cui si proietta la nostra immagine. Ed è tale perché la Malina ha trasformato la metaforica macchina della spersonalizzazione della prigione in una straordinaria macchina teatrale. Di “geometrica potenza”, come si disse tanti anni fa per il rapimento di Aldo Moro. Questa potenza geometrica è la matrice artaudiana dello spettacolo. Di un Artaud che non si vede, perché non è citato in nessuno dei suoi luoghi comuni, ma è espresso, invece, nella sua vocazione più intima, profonda e trasgressiva, come lì quando dice che crudeltà è rigore, applicazione estrema ed implacabile del linguaggio.

The Brig questa condizione teatrale, che è prima di tutto uno stato dell’essere, la realizza perché affronta la violenza, la spersonalizzazione, la disumanità senza accondiscendenze ideologiche, senza denunce, senza appelli alla complicità del pubblico. Non ammicca allo spettatore sussurrandogli all’orecchio: vedi, noi siamo diversi, ma gli espone il fatto senza commenti, senza pietà. Anzi eleva, tra palcoscenico e platea, una parete insormontabile di filo spinato. Un arredo della scena, certo - è il perimetro del campo di prigionia - ma anche, e soprattutto, qualcosa di altro. Quel filo spinato è esattamente ciò che rende impossibile la catarsi, la pietas, il contatto. Indica la separazione, denuncia l’impossibilità di quell’abbraccio umano che il Living, in tutta la sua storia, ha inseguito poi disperatamente. Quel filo spinato è ciò che ci lascia soli con noi stessi. È lo specchio dentro cui The Brig ci obbliga a rifletterci. È Artaud, infine, parola scomoda, maleducata, incontenibile e pazza. Parola che denuncia, e ci denuncia, attraverso il suo solo esserci.






The Brig
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