Nel fiorire di mostre dedicate ai grandi artisti della prima metà del Seicento (a Firenze insieme a quella su Filippo Napoletano, a Napoli su Salvator Rosa e a Genova su Valerio Castello) quella su Francesco Furini ha il merito di portare alla coscienza del pubblico un artista eccelso la cui grandezza a poco a poco rivelata nellambito degli studiosi e dei collezionisti è ora resa evidente nella ricchezza del compendio offerto nelle stanze del museo degli argenti di Palazzo Pitti. Quella che era una grandezza ricercata con passione nellinvestigazione di molti ma professionali estimatori ha in questa sede una conferma non negabile: Francesco Furini è uno dei grandissimi (a nostro personale avviso forse il più grande) degli artisti del suo tempo. Lomaggio che gli viene dedicato è veramente loccasione (il risultato e insieme la causa) di un autentica epifania.
Non siamo qui di fronte alla pretestuosa occasione di un assemblaggio di pezzi posseduti e diversamente disposti rispetto alla normale collocazione museale; quante volte in questi anni ci sono state gabellate esposizioni che altro non erano che lo spostamento di opere dalle sale abituali del museo a quelle occasionali delle esposizioni e quante volte il pretesto delle contestualizzazioni ha allargato a dismisura presenze rachitiche enfatizzate da pletorici uffici stampa! Di risonanze mediatiche questa mostra non è certo priva ma le risonanze sono, appunto, risonanze di unimpresa, e non grancasse vuote di contenuti.
Francesco Furini, Sansone e Dalila, olio su tela,
cm 111,5 x 140,8, Parigi Galleria Canesso.
Tra disegni, pitture, affreschi (opportunamente il ciclo furiniano dedicato a LAccademia platonica e a Lorenzo il Magnifico nella sala di Giovanni da San Giovanni è parte integrante del percorso espositivo) sono stati scomodati musei e collezioni di mezzo mondo. A cominciare dal precoce, incantevole (promettiamo dora in avanti di non usare laggettivo “moderno” chiedendo in cambio una moratoria per laltrettanto incongruamente usato “teatrale”) Aurora e Cefalo del portoricano Museo di Ponce che replica dopo quasi quattro secoli lincantamento del mecenate Alessandro del Nero «che non poté mai saziarsi di riguardarla» e che parve al grande critico secentista Luigi Baldacci «Quasi un Caravaggio raccontato in un sogno di Shakespeare». Divenuto con questo quadro protegé di uno dei più influenti nobili della corte medicea il ventiduenne Francesco (figlio del pittore e improvvisatore Filippo in Arte scenica Pippo da Legnaia, allievo del grande Cristofano Allori e poi, a Roma nel secondo decennio del Seicento, in contatto con il circolo del giovane Virginio Cesarini, familiare tra gi altri di Maffeo Barberini, di Roberto Bellarmino, di Galileo, del Ciampoli, del Marino, del Chiabrera etc. e poi richiamato in patria dal padre che gli era stato accorto procacciatore di tele di soggetto religioso) verrà ammesso allaccademia del disegno con un altro quadro, Lallegoria della pittura e della poesia che susciterà il peculato del reggente dellAccademia, Donato dellAntella e la più pacifica ammirazione di Galileo che farà allartista corretta richiesta di una copia.
Michelangelo Buonarroti jr e soprattutto Andrea Salvatori lo introdurranno nei piani alti della committenza (dal rapporto con questultimo si potrebbe forse partire per uno studio che dia correttamente conto delle reciproche influenze tra pittura furiniana e pratica allestitoria in quegli anni): Giovan Battista Strozzi, Jacopo Salviati (che lo avvicinerà a Salvator Rosa e gli sarà fedelissimo per tutta la vita), fino ad Agnolo Galli (committente di opere pittoriche vistosamente desunte dalla pratica della compagnia dellArcangelo Raffaello e dalla drammaturgia cicogniniana studiata da Silvia Castelli: la benedizione di Jacob, Il Trionfo di David, Giuditta e Oloferne essendo invece da ricondurre tematicamente ad unazione sacra del Salvadori). La fama di Aci a Galatea e del notturno di Ila e le Ninfe condurranno il pittore nellambito mediceo, con la diretta e un po tirannica protezione di don Lorenzo al quale dedicò Il parto di Rachele e le Tre Grazie .
Francesco Furini, Giuditta e Oloferne, olio su tela,
cm 198 x 250, Firenze Collezione Ente Cassa di Risparmio.
La serie affascinante e perturbante dei nudi, non certo immorale e libertina come parve al Baldinucci, bensì derivante da una pratica sullantico volta non ad una regola, ma alla ricerca di una bellezza “altra” (donde il titolo della mostra) è il dono straordinario di questa mostra che procede con fare sostanzialmente cronologico, segnalando i bruschi mutamenti di stile dovuti probabilmente ad un clamoroso cambiamento di stato (nel 1633 Furini prenderà labito sacerdotale) e quindi di soggetto: dalla collaborazione col Mannozzi per le sale di Pitti alla specificità di soggetti religiosi, fino alla tarda ripresa di soggetti biblici e neotestamentari intrisi però di nuovo della velata sensualità della fase “mitologica”: La cacciata di Adamo ed Eva, Lot e le figlie, lamatissimo soggetto della Maddalena declinato in infinite variazioni, Giuditta,etc.
Al di là delle emozioni del visitatore, è doveroso segnalare la consistenza critica del catalogo, edito da Mandragora, che si pone nella linea fondante della storiografia artistica del Seicento che vede in Mina Gregori, inventrice e curatrice della mostra, il suo pilastro. Accanto a lei, in questopera più che ammirevole, da segnalare il contributo determinante di Rodolfo Maffeis, non solo curatore accanto alla sua “maestra” (Maffeis è un eccellente prodotto della sua scuola) ma autore del saggio portante del catalogo, delle schede (praticamente microsaggi) dei dipinti e dei disegni, nonché del regesto conclusivo. Il libro, che rende conto anche della produzione letteraria del Furini, si vale inoltre del contributo di specialisti di alto rango quali Catherine Monbeig Goguel, Roberto Contini, Massimiliano Rossi, Tristan Weddigen, Ladislav Daniel.
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