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Ma le tenebre non l'hanno accolta

di Giulia Tellini
  Svet. La luce splende nelle tenebre
Data di pubblicazione su web 18/03/2008  

«L'uomo vive tre fasi, e io ora vivo la terza di queste. Prima fase: l'uomo vive solo per le sue passioni, mangiare, bere, divertimenti, caccia, donne, vanità, orgoglio e vita piena. Così è stato per me fino a trent'anni […]; poi è venuto l'interesse per il bene degli uomini, di tutti gli uomini, dell'umanità […]. Tutta la mia coscienza religiosa si è concentrata nell'aspirazione al bene degli uomini […]. E questa aspirazione era così forte, riempiva tutta la vita, come l'aspirazione al bene personale. Ora invece sento un indebolimento di questa aspirazione […]. In me, sento, sta crescendo una nuova base della vita; […]. Questa base è il servizio di Dio […]». Così Lev Tolstoj annota sul suo diario il 31 ottobre 1889, poco più che sessantenne. Sposato dal 1862 con Sof’ja Bers (che gli darà tredici figli), nel corso degli anni Settanta lavora nei campi con i suoi contadini, insegna, scrive testi di carattere morale e religioso, rinuncia a ogni privilegio e si dedica a lungo al lavoro manuale, nel 1883 con atto notarile nomina la moglie amministratrice di tutti i suoi beni, il rapporto con lei diventa sempre più teso tanto che nel 1884 lui pensa di abbandonare la famiglia, nel 1896 inizia a scrivere il testo teatrale E la luce splende nelle tenebre, che lascia e rimarrà incompiuto. Esasperato dalle continue crisi isteriche della moglie che non riesce a comprenderne le aspirazioni, tormentato dalle contraddizioni che lo tengono prigioniero, ovvero dal fatto di predicare la povertà e di vedersi costretto nello stesso tempo a vivere nel lusso, la notte del 28 ottobre 1910, di nascosto, fugge dalla sua tenuta: in viaggio si ammala e, il 7 novembre, muore.    

Mai rappresentato prima in Italia, il dramma E la luce splende nelle tenebre (pubblicato nel 1912), tradotto e adattato da Danilo Macrì (che ha riveduto e corretto il quarto atto e completamente scritto il quinto in base al veloce appunto di una pagina lasciato dall'autore), viene adesso proposto sulle scene nazionali, per la regia di Mario Sciaccaluga, dalla Compagnia del Teatro Stabile di Genova. 

Del tutto autobiografica, la storia gravita intorno alla figura di Nikolaj Ivanovič Saryncev, padre di famiglia che, in seguito alla morte della sorella, ha cominciato a dedicarsi a tempo pieno alla lettura dei Vangeli, a predicare il cristianesimo, a disinteressarsi dei sette figli, a delegare alla moglie Mar'ja ogni decisione relativa al loro futuro e a proporle infine di assecondare la sua volontà di dare tutte le loro terre ai contadini, trasformare la casa dove vivono in una scuola e andare ad abitare in due camere, nell'isbà del giardiniere. Piangendo, disperata perché lo ama ma non riesce a capirlo («tu non vuoi capire la mia vita, - le dice lui - la vita della mia anima», «io la vorrei capire. Ma non ne sono capace»), Mar'ja lo convince a farsi nominare amministratrice di tutti i beni: «Voi volete che passi la proprietà a te. Non posso […]. - esordisce lui - Se devo mettere una firma, la metto per quelli che la proprietà se la son vista portar via. I contadini […]»; «È una cosa cattiva, cattiva… - risponde lei - Ma perché? Se pensi che è peccato, dalla a me. Ti prego»; «Non sai quello che dici. Se la do a te, poi non ci posso rimanere con te, me ne devo andare. Scegli»; «Ma come fai a essere così spietato? Che cristianesimo è? Questa è malvagità. Non posso vivere come vuoi tu. Non posso levare ai miei figli per dare a uno qualsiasi […]». Due sole persone lo ascoltano e ne sperimentano gli insegnamenti nella vita reale: un giovane prete ortodosso e il principe Boris, il fidanzato della figlia Ljuba. Indotto dal protagonista a credere che la fede nella Chiesa allontani da quella in Cristo e in Dio, il primo rinuncerà alla parrocchia per poi andare alla deriva e ritornare, alla fine, «dalle sue anime» e da sua moglie, che l'aveva lasciato; contrario alla violenza, il secondo si rifiuterà di fare il soldato, verrà messo agli arresti, quindi in manicomio: destinato alla perdita di sé e alla morte.

Se è vero infatti che «la luce splende nelle tenebre», è vero anche, si legge all'inizio del Vangelo di Giovanni, che «le tenebre non l'hanno accolta»: Nikolaj sbaglia a misurare su standard di santità la condotta degli altri e le sue teorie, messe in pratica, sono votate al fallimento. Col figlio ormai in fin di vita, sfinita e fantasma di se stessa, la madre di Boris, la principessa Čeremšanova, alla fine andrà a trovare colui che, con le sue idee, l'ha portato alla rovina, Nikolaj Ivanovič, e si sentirà dire: «Siamo tutti nelle mani di Dio, e che cosa ha in mente Dio non lo sappiamo. E poi chi muore nella verità vive in eterno. Non dimenticatelo. C'è una sola cosa che potete fare: dovete sopportare con rassegnazione [...]». Parole che, provenienti dal carnefice di suo figlio e quindi dal proprio carnefice, non sortiranno certo l'effetto di calmarla: «più vi sento parlare, signor Saryncev, e più vi odio. Io so soltanto una cosa: mio figlio muore. E voi continuate a vivere».   

Orietta Notari e Vittorio Franceschi
Orietta Notari e Vittorio Franceschi


 
Mario Sciaccaluga ha detto che Svet ("luce" in russo). La luce splende nelle tenebre non descrive altro che la "tragedia di un uomo ridicolo": un uomo che ha una grande capacità affabulatoria, che si erige a predicatore ed educatore, ma che sragiona, i cui ragionamenti seguono percorsi mentali che per lui sono logici e accettabili, quasi obbligati, ma che agli altri (eccezioni a parte) appaiono invece assurdi, paradossali, impraticabili. È convinto e pretende tuttavia di avere ragione, e perciò fa rabbia ed è estremamente esasperante. È vero anche, però, che tutti esistono solo quando parlano di lui e che lui, come già Amleto, è il centro gravitazionale della storia: tutti discutono con lui, ruotano intorno a lui e si occupano di lui.

Da parte dello spettatore è impossibile - sostiene ancora Sciaccaluga (una sua intervista è pubblicata in appendice alla versione italiana del testo, ed. Il Melangolo, 2006) - non stare dalla parte della moglie Mar'ja, che si trova nella situazione di avere a che fare con un uomo che ama moltissimo ma che non riconosce più rispetto al passato. Un uomo che non sopporta più il lusso della sua casa e minaccia in continuazione di andarsene, e che lei a costo di pianti, collassi nervosi e ragionamenti vari, deve sempre riuscire a convincere a restare. Come ogni tragedia che si rispetti, comunque, tutti i personaggi principali sono buoni, tutti hanno ragione e nessuno torto: ha ragione Nikolaj Ivanovič perché le sue idee sono giuste (i poveri e i malati esistono ma gli uomini hanno la capacità di non vedere le sofferenze che causano, e pensano - come scrive Tolstoj nel suo diario - che ai gamberi piaccia essere cotti vivi); ha ragione la moglie che non vuole rinunciare a tutto e rovinare il futuro dei sette figli, e ha ragione la madre di Boris che si dispera perché il figlio muore per colpa delle idee del protagonista. 

Recuperato questo dramma poco conosciuto e da sempre considerato di ardua rappresentabilità, la Compagnia Stabile del Teatro di Genova lo ha dato da tradurre e adattare a uno specialista (Danilo Macrì, all'attivo l'adattamento del  Gabbiano di Čechov diretto da Valerio Binasco nel 2002) e, complici la regia critica di Sciaccaluga e le intuizioni scenografiche di Jean-Marc Stehlé, lo ha messo in scena - grande la cura di ogni dettaglio - con una levità e un senso del ritmo in grado di estinguerne l'apparente staticità, assecondare nel migliore dei modi la sua graduale climax tragica e potenziarne infine il raggelante effetto conclusivo.

Di fronte al pubblico, dall'inizio alla fine, a circondare un arredo scenico molto stilizzato, costituito quasi esclusivamente da una lunga tavola di legno (ora spoglia, ora ricca e imbandita) e alcune sedie, è quel bosco di scheletriche betulle che, «narrativamente» - spiega il regista - «è diventato l'ossessione di Nikolaj Ivanovič»: un uomo che possiede quasi mezzo milione di alberi e si adopera per fare in modo che i contadini che spesso li tagliano non finiscano in prigione. Si vengono così a creare ambienti quasi onirici, claustrofobici, sempre sovrastati da un labirinto di altissimi alberi che rappresentano, da una parte, l'idea fissa (per tutti opprimente e da tutti temuta) del protagonista e, dall'altra, il potere dei proprietari sui contadini, la prevaricazione dell'élite nobiliare sulla folla dei poveri.

A contribuire a fare dello spettacolo un'opera di grande valore è, infine, l’interpretazione di tutti gli attori, di cui molti diplomati presso la Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova negli ultimissimi anni. Oltre a quella di Alice Arcuri (Ljuba), Lisa Galantini (la sorella di Mar'ja) e Gianluca Gobbi (il giovane prete), si ricorda soprattutto quella di Vittorio Franceschi nel ruolo tanto discutibile e irritante quanto sofferto e patetico del protagonista; di una struggente Orietta Notari in quello della moglie; di Flavio Parenti alle prese con la fragilità e le rigidezze di Boris e, infine, di Fiammetta Bellone, che delinea con agghiacciata puntualità la parabola discendente della principessa Čeremšanova, inizialmente arroccata nel proprio sussiego aristocratico e alla fine lacera negli abiti e nell'anima, distrutta, svuotata, la testa una terra bruciata e l'ossessione della vendetta.

Davvero notevole (e opinabile, ma non da chi scrive) è la decisione del regista di mutare il finale rispetto alla indicazioni dell'autore: ovviamente i fatti rimangono immutati e solo una battuta viene cassata. Ma il senso della rappresentazione cambia. Dove negli appunti tolstojani il protagonista pare che riesca in qualche modo a uscire dalla tragedia in una luce positiva (la madre di Boris lo colpisce al cuore e, prima di morire, lui la scagiona dicendo a tutti quelli che sono accorsi di essersi sparato da solo, per errore), Sciaccaluga e Macrì non glielo permettono. E lo spettacolo si chiude in modo improvviso, netto, turbativo. Senza parole.

Sciaccaluga e Macrì lasciano il loro personaggio senza la possibilità di poter dire niente, di poter dare un senso alla propria vita, di poter mettere positivamente in pratica il proprio cristianesimo. Il suo tempo è ormai scaduto. E nel ricordo dello spettatore, a mente fredda, non rimane tanto la figura di Nikolaj Ivanovič, quanto quella della moglie Mar'ja e quella, tragica, della principessa Čeremšanova.    




Svet. La luce splende nelle tenebre
cast cast & credits
 


 




 




 


 

Vittorio Franceschi e Orietta Notari
Vittorio Franceschi e Orietta Notari


 

 

 



 


 


 


 

Fiammetta Bellone e Vittorio Franceschi
Fiammetta Bellone e Vittorio Franceschi

 
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