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Un Arlecchino tra Strehler e Fo

di Simone Azzoni
  Arlecchino servitore di due padroni
Data di pubblicazione su web 10/09/2001  
Debutta la nuova Compagnia Teatro di Verona, nata con l'appoggio dell'Estate Teatrale, che produce annualmente gli spettacoli del Festival Shakespeariano. La compagnia si pone il duplice obiettivo di valorizzare una già fervida realtà teatrale veronese (numerosissime sono infatti le compagnie amatoriali di città e provincia) e creare una struttura professionistica aperta alla formazione dell'attore con l'intervento di registi e artisti di livello internazionale: maestri che si mettono annualmente a disposizione per un progetto drammaturgico e per seminari di formazione paralleli alla compagnia.

Primi compagni di viaggio per l'avventura sono stati il regista Giuseppe Emiliani e l'attore Marcello Bartoli, quest'ultimo è stato, fra l'altro, protagonista del Ruzante diretto da Gianfranco De Bosio (Teatro Romano di Verona 1981). Questa eredità colora a tinte forti la sua maschera d'Arlecchino,facendone un rude e spigoloso epigono dello zanni-servo, contadino, ignorante, affamato popolano disceso dalle valli bergamasche, demonio sovvertitore e deus ex-machina. L'Arlecchino di Emiliani parte da qui, arretrando Goldoni verso la Commedia dell'arte.

Antropomorfe sono le maschere che indossano gli attori a creare volti modiglianeschi dalle orbite tristemente vuote e bocche angosciate all'ingiù. Oltre all'atto metateatrale di indossarle e levarle davanti al pubblico al cambiare di lingua (italiano o dialetto), è la scena elegante di Graziano Gregori e Carla Teti a ribadire con leggerezza e forza l'invenzione teatrale. Una pedana rossa su cui grandi botole alzate diventano pareti per lo spazio fittizio del copione goldoniano: una locanda e una strada per il rifugio di ritmi e trovate sceniche fuori dalla vita e dal mondo, spazio perso nell'invenzione e nel puro movimento. La pedana è circondata da alte pareti nere su cui si aprono feritoie luminose e sopra le panchine ai suoi piedi sono appesi specchi e candele per simulare camerini a vista.

Ci sembra il kabuki, teatro giapponese che ha il palcoscenico collegato ai camerini con pedane e i cambi di scena e costumi sono in vista come i trucchi di trabocchetti e pareti. Anche qui il ritmo è prodotto percuotendo legni sulla pedana. Anche qui come là l'azione s'arresta al suo climax con gli attori per qualche istante fermi o che ripetono e cambiano rotta al copione. E anch'essi, come usciti da un quadro del Longhi, vittime della macchina teatrale s'accasciano (memoria di Strehler) nell'oscurità, ai lati del palco: burattini esausti prima di riprendere vita al richiamo del testo. Copione dove la legge è dettata da due funzioni cardine: travestimento e sdoppiamento. Il primo origina le scene patetiche, il secondo quelle comiche trasformando lo spazio in mero circo per il gioco. Ma nella regia le vicende amorose scompaiono dietro la comicità delle situazioni, idilli "inutilmente" languidi deformati da amanti caricaturali e da una Beatrice "en travestì" (un Dario Cantarelli che cela dietro la sua dirompente fisicità una forte caratterizzazione grottesca).

Operazione efficace che vorrebbe trasformare gli ingranaggi del gioco e i filtri delle maschere, il tourbillon di lingue (pugliese, torinese, veneziano, bergamasco, francese..), le improvvisazioni, le tracce rimaste dalla Commedia dell'Arte (vedi il riuscito Pantalone) in un ridicolo paradossale, caotico, a volte ingenuo, spesso prevedibile. Ma c'è un vuoto malinconico che avvolge inesorabilmente la ragione ultima di tanto ridere.

 


Arlecchino servitore di due padroni
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