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L'angelo sterminatore

di Giulia Tellini
  Isa Danieli
Data di pubblicazione su web 20/11/2006  
Campagna napoletana, agosto 1870: rimasta vedova, la baronessa Donna Clotilde Lucanegro si è rifugiata in una villa sulla costa dove passa le giornate a letto fra rosari e medicine, dichiarandosi sempre in fin di vita. A farle da infermiera e dama di compagnia è Gesualda, cugina povera,  inacidita dal nubilato e - si intuisce - amante di Don Catellino, prete di famiglia che tutti i giorni, alla stessa ora, ha l'abitudine di andare a bere un bicchierino al capezzale della presunta inferma. A sconvolgere lo stagnante e teso equilibrio domestico provvede Ferdinando, sedicenne dalla bellezza efebica che, rimasto orfano, viene mandato a vivere da Donna Clotilde di cui risulta essere un misterioso, lontano nipote.

Novembre 1870: dopo aver gradualmente risanato Donna Clotilde, in virtù di sistematici «rendez-vous» notturni, e aver anche provveduto a placare i pruriti dell'invidiosa Gesualda, Ferdinando seduce Don Catellino che, nominato suo precettore, gli ha affidato il ruolo di San Michele nella consueta recita parrocchiale natalizia.

Complice l'azione disturbante di Ferdinando, i sotterranei conflitti fra le due donne e Don Catellino esplodono rivelando cosa si nascondeva dietro il nulla della loro precedente esistenza: Clotilde, che aveva rubato anni orsono una cassetta di brillanti appartenuta al principe di San Marzano, confida a Ferdinando (e dunque indirettamente a Clotilde e Don Catellino) di tenerla in un segreto angolo della casa, Gesualda si rende conto che Don Catellino stava con lei solo perché la considerava l'unica erede di Clotilde, Don Catellino diventa facile preda di ricatti da parte di Clotilde e Gesualda da quando quest'ultima, rancorosa, gli confessa di essere a conoscenza dei suoi rapporti omosessuali col sagrestano.  

Dicembre 1870: avvelenato da Clotilde e Gesualda, Don Catellino muore un minuto prima di scoprire che Ferdinando, fatta irruzione nella stanza vestito da San Michele, non solo non è nipote di Clotilde ma, figlio del notaio Trinchera, è stato mandato in avanscoperta dal padre per  impadronirsi della famosa cassetta di brillanti rubata. 


Locandina dello spettacolo
Locandina dello spettacolo


 

Capolavoro del drammaturgo Annibale Ruccello, morto trentenne in un incidente automobilistico nel 1986, Ferdinando è un precipitato determinato dall'aggiunta di varie mitologie personali dell'autore (dalle Sorelle Materassi di Palazzeschi, non citate però fra i suoi modelli letterari, a Teorema di Pasolini) a una soluzione costituita da due desideri principali: quello di descrivere, nel personaggio di Clotilde, la ferita inflitta dai Savoia ai Borbone re di Napoli e quindi di riproporre, in versione Kammerspiel, il dramma della fine di un'epoca e infine quello di erigere un monumento alla lingua napoletana trasformata, nella rigogliosa scrittura drammaturgica, in una sensuale - e mai morbosa - amalgama di ironia, passione, aggressività, violenza e struggimento anche fisico. Una lingua madre, dunque, vitale, che schiude le porte a una miriade di sonorità, una lingua che, ricca di affascinanti contaminazioni, ha alle spalle una tradizione millenaria: «E non parlare italiano! – dice Clotilde a Gesualda – Hai capito! Nun voglio sentì 'o 'ttaliano dint'a sta casa… io e isse c'avimme appiccicate il 13 febbraio del 1861… Fra me e isse ce fuie nu duelle a Gaeta… Padrini, Francesco II e il generale piemontese Cialdini… Contemporaneamente all'ammainarsi della gloriosa bannera 'e re Burbone s'ammainaie pure ll'italiano dint''o core mio». Non è un caso che l'unico personaggio a parlare italiano, nello spettacolo, sia proprio Ferdinando: finchè si finge diverso da quello che in realtà è, parla infatti un perfetto, pulito, asettico, finto italiano. Non appena si leva la maschera, anche lui comincia a parlare napoletano. Non solo, invece di essere nipote di Clotilde, è in pratica un ladro ma - danno cui segue inevitabilmente la beffa - non si chiama neppure Ferdinando, come il re Borbone, bensì Filiberto, come un Savoia: «Gesualdì!… Gesualdì!… - dice, scoppiando a ridere, Clotilde alla fine - Ce pienze… Nun se chiamava manco Ferdinando!…». 

Ferdinando, atto I
Ferdinando, atto I

Diavolo travestito da angelo, Tartufo molieriano all'opera nella campagna napoletana in piena crisi postunitaria, Ferdinando, come il Remo palazzeschiano, porta lo scompiglio in un morto tran tran domestico, scatena tardive tempeste ormonali in due mature e austere signore per poi ridurle sul lastrico e provoca indirettamente addirittura la morte di un uomo. E cosa gli dice Clotilde quando lo vede andarsene, parato da San Michele, a rubarle la cassetta dei brillanti? Gli dice «Grazie»: «Grazie perché?», «Grazie». Lo ringrazia per averle donato un po' di vita prima della morte, prima di seppellirsi ancora e definitivamente, assistita dalla ormai fedele Gesualda, nel letto del primo atto, come l'Enrico IV di Pirandello, alla fine della sua farsa tragica, dopo aver ucciso, tornava a rinchiudersi, assistito dai suoi valletti, nella sua morta pazzia.

Al posto della gigantesca foto-feticcio di Remo appesa alla parete, a Clotilde e Gesualda rimangono solo due parti del costume di San Michele indossato da Ferdinando: le ali e l'elmo, le une, abbandonate sul letto, a rappresentare i piaceri del sesso e l'altro l'urto della sopraffazione, ricordi di un vento di vita (nei suoi aspetti tanto positivi quanto negativi) che, in mezzo a loro, è soffiato e che d'ora in poi probabilmente non soffierà più. A Gesualda che le domanda se Don Catellino, come fantasma, tornerà a visitarle, Clotilde risponde che, se prima i morti tornavano a infestare le case dei vivi, adesso scappano perché hanno paura di loro. Non sono più i vivi ad avere paura dei morti ma viceversa. E, mentre fuori una nuova generazione - senza storia, senza valori – si va sostituendo alla vecchia, le due donne scelgono di rinchiudersi nella loro roccaforte decadente, viscontiana, piena di mobili che evocano i tempi d'oro della famiglia Lucanegro, come in un caldo ventre materno che, in virtù di una illuminazione ora bianca ora rossiccia ora nera con bagliori dorati (a indicare ora il pomeriggio assolato del primo atto, ora il tramonto e la sera luttuosa del secondo), ricorda certi interni vermeeriani.


Ferdinando, atto II
Ferdinando, atto II


 

Straordinario il quartetto di attori: dal giovane Adriano Mottola nei panni di Ferdinando, che nonostante sia il motore della storia è un personaggio minore e piuttosto pretestuoso di cui non interessano i risvolti caratteriali, all'ambiguo Lello Serao che interpreta l'odioso e patetico Don Catellino, ruolo che fu, nel 1986, dello stesso Ruccello, fino alla bravissima Luisa Amatucci che rende con finezza il temperamento orgoglioso della ancora giovane e bella Gesualda, in bilico fra insofferenza e incontinenza, condannata a sopportare le angherie verbali di Clotilde e a portare sulle spalle come una croce il proprio destino di zitella. Quanto alla grande Isa Danieli, maestosa nella sua crepuscolare monumentalità, che ha anche ripreso e messo in scena lo spettacolo in occasione dei venti anni dalla morte di Ruccello, è l'attrice per cui è stato espressamente scritto il personaggio di Clotilde intorno al quale ruota tutto lo spettacolo. Isa Danieli, ha scritto Giuseppe Bertolucci, «metabolizza teatralmente questo testo e lo offre in dono (in pasto) al pubblico, come un vaso di miele, governando l'alveare della sua piccola compagnia con l'energia e il talento di un'ape regina».    





Ferdinando
cast cast & credits
 


Annibale Ruccello
Annibale Ruccello



Isa Danieli
Isa Danieli



Isa Danieli, II atto
Isa Danieli, II atto

 
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