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Teatro di conversazione

di Gilles De Van
  K...
Data di pubblicazione su web 20/02/2001  

È banale ricordare che Il processo di Kafka è uno dei grandi romanzi del Novecento. Meno facile capire perché questo testo abbia affascinato tanti artisti, registi o musicisti, come Orson Welles o Gottfried von Einem, oppure ora Philippe Manoury, che ne hanno tratto film o libretti d'opera. Infatti, l'inesauribile fascino di questo libro è in gran parte dovuto non tanto all'intreccio quanto al lavorio interiore, morale e intellettuale, che l'avvicendarsi delle peripezie genera nel lettore (superfluo ricordare l'enorme quantità di interpretazioni e commenti che la scrittura secca, neutra, quasi da accertamento clinico, del romanziere ha ispirato): la colpevolezza ingiustificata ma onnipresente, l'assurdità di una legge inspiegabile e irraggiungibile rodono fino a distruggerlo il protagonista di questa moderna favola, e soprattutto portano il lettore a riflettere sugli enigmi che Kafka non scioglie mai.

Non contano tanto gli avvenimenti quanto gli interrogativi che questi avvenimenti suscitano nella mente del lettore. Ora, l'immagine, anche se gestita da un regista geniale come Welles, e peggio ancora il libretto d'opera possono restituire i diversi momenti dell'esile trama del romanzo ma non la spirale intellettuale e morale nella quale ci fa sprofondare Kafka, spirale in cui si può vedere una straordinaria anticipazione di molti aspetti del mondo moderno, ma anche un'illustrazione del malessere della coscienza separata da qualsiasi ordine o legge ma non per questo estranea al bisogno di detta legge. Prima ancora di vedere lo spettacolo sorge questa perplessità nello spettatore.

Manoury è naturalmente conscio di questi ostacoli, come lo nota in una sua intervista del programma di sala : "Il existe une narration, mais sans lien de causalité; l'ordre des chapitres pourrait parfois y être différent: c'est précisément cet aspect fragmentaire du roman qui m'a intéressé pour la composition de mon opéra". Il musicista non è estraneo a questa tecnica narrativa che ha esplorato nella sua precedente opera 60ème parallèle (creata al Théâtre du Châtelet nel 1997) in cui varie storie s'incontrano nella sala d'aspetto di un aeroporto. Tuttavia, nonostante i vari accorgimenti tecnici di cui usa il compositore in K… (orchestra più o meno densa, associazione di musica elettronica e di un'orchestra sinfonica, sofisticata molteplicità delle fonti sonore assicurata dal potente sistema di amplificazione predisposto nella sala, trattamento elettronico della voce per un coro "virtuale"), manca una dinamica percepibile per l'ascoltatore, si ha l'impressione di un'incertezza compositiva, e ci si rassegna ad un rapporto episodico, saltuario, con la musica.

Manoury ha voluto creare un "teatro di conversazione", senza concertati, che poggia essenzialmente su un recitativo molto libero, dal secco all'arioso. La parte musicale è gestita con molta sicurezza da Russell Davies e nell'insieme la distribuzione vocale è di buon livello: ottimi A. Scheibner, S. Anthony, G. Reinhart o K. Riegel, buoni gli altri, sicché nell'insieme la distribuzione vocale era omogenea e di buon livello.

La realizzazione scenica (scenografia e regia) era buona: il dispositivo scenico di Rieti permetteva in poco tempo, senza rumore (non dimentichiamo che non c'era intervallo) e con pochi mezzi, di suggerire diversi luoghi, tribunale, cattedrale o appartamento. L'occhio era soddisfatto anche se l'orecchio lo era solo in parte.



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