Nel corso dei secoli Bologna ha dimostrato una naturale vocazione a punto di scambio e di incontro tra i vari centri della Penisola, il Mediterraneo e lEuropa. Merito di una posizione geografica privilegiata, collegata a una efficace reticolo viario e fluviale, a cui si aggiunse, in epoca medievale, lattrazione esercitata dallo Studio, uno dei più antichi del continente, e da centri religiosi come i conventi dei tre ordini mendicanti – francescani, domenicani e Servi di Maria – che favorirono la circolazione internazionale di testi e di idee, di saperi e di linguaggi artistici. Tra Cinque e Settecento la città fu poi sede di importanti avvenimenti politico-diplomatici che richiamarono artisti e intellettuali che, come vedremo, trovarono negli aristocratici felsinei dei committenti privilegiati. Basti pensare allincontro tra papa Leone X e Francesco I nel 1515, allincoronazione di Carlo V nel 1530 per mano di Clemente VII, o al loro secondo incontro nel 1533. A Bologna si svolse anche parte del Concilio di Trento che portò in città numerosi prelati, cardinali e ambasciatori. Il suo ruolo di Crocevia e capitale della migrazione artistica è stato recentemente indagato da un quadriennale progetto di ricerca che ha dimostrato lo straordinario contributo che gli artisti e i letterati bolognesi dettero allo sviluppo delle arti, lasciando tracce profonde in molti paesi. Ne sono un esempio eloquente i Bibiena, «una famiglia europea» per la quale: non cerano confini invalicabili, distanze troppo lunghe, disagi di viaggio, pericoli, impacci di idiomi diversi: questa famiglia per tre generazioni, per un secolo, dagli ultimi decenni del Seicento agli ultimi del Settecento, ha percorso instancabile lEuropa, dal Portogallo alla Svezia, alla Russia e ha costruito teatri grandi e piccoli per città, corti, accademie, allestito spettacoli e cerimonie, trasfigurato spazi, immaginato scene, sale reali, cortili magnifici, porti imperiali, regge del sole, logge grandiose. Bologna fu anche meta di artisti e studiosi stranieri. Tra questi Albrecht Dürer, che nellottobre 1506, da Venezia, espresse allamico Willibald Pirckheimer il desiderio di recarsi a Bologna per studiare larte della prospettiva: Rimango qui altri dieci giorni. In seguito ho intenzione di andare fino a Bologna per imparare larte della segreta prospettiva che uno mi vuole insegnare. Passeranno circa otto o dieci giorni prima di ritornare a Venezia. Poi rientrerò col primo corriere. Lidentificazione dellignoto maestro, custode di un “segreto” tale da spingere Dürer a ritardare il rientro in patria, è ancora motivo di discussione. Molti i nomi proposti: da Luca Pacioli al matematico Scipione dal Ferro, da Donato Bramante ad Agostino da Lodi, fino a Leonardo da Vinci e Francesco Francia, senza dimenticare Raffaello. Negli ultimi anni si è fatta strada una ipotesi per noi del massimo interesse: Elisabetta Fadda, partendo da una originale interpretazione dei versi del Viridario di Giovanni Filoteo Achillini riferiti ai De Marchi da Crema, ha proposto di individuare il misterioso prospettico in uno di quegli intarsiatori «maestri di prospettiva» così attivi in città. Ritengo che proprio le esperienze nel campo della tarsia e il vivace clima culturale che si respirava nelle accademie felsinee della prima metà del Cinquecento, di cui Achillini fu tra i principali promotori, furono alla base della formazione di alcuni importanti architetti-scenografi del Cinquecento, nonché, come già notato da Sabine Frommel, il terreno ideale per la genesi dei trattati di architettura di Serlio e Vignola. Non va neanche sottovalutata limportanza cruciale, nellarte bolognese, della prospettiva e delle proporzioni. In accordo con i più recenti contributi storiografici, credo che la fama internazionale di Bologna come centro di studi e applicazioni prospettiche – generalmente collegata al secondo libro del Trattato di Serlio (1545), alle pitture di Tibaldi, alla pubblicazione postuma delle Due regole della prospettiva di Vignola (1583) e, nel secolo successivo, ai Paradossi di Giulio Troili (1672) e alla fioritura del quadraturismo – vada anticipata almeno al Quattrocento. E se già nel 1501-1502 vi insegnò Pacioli, che lasciò in città lunica copia esistente del manoscritto De viribus quantitatis, allora è alla Signoria dei Bentivoglio che bisogna guardare. Fortunatamente, gli studi più avveduti hanno ormai aperto la strada a una nuova comprensione del ruolo nientaffatto subordinato di Bologna nel più vasto contesto dellUmanesimo europeo, eppure la città stenta ancora a essere percepita come una capitale del Rinascimento italiano o quantomeno come portatrice di unoriginale civiltà figurativa, architettonica e letteraria. Alla base di tale difficoltà si pone la necessità di ragionare non solo su quanto ci rimane, ma soprattutto sulle “assenze”, che nel caso del Rinascimento bolognese sono particolarmente forti. È di fatto pressoché impossibile farci unidea completa del ruolo che la città dovette svolgere nella cultura padana in campo tanto architettonico quanto pittorico dopo la distruzione del palazzo di Giovanni II Bentivoglio in strada San Donato – del quale Leandro Alberti affermava «che l non fosse il pari in tutto il mondo» –, della cappella Garganelli in San Pietro – «una mezza Roma di bontà», secondo Michelangelo – e della Crocifissione affrescata da Guido Aspertini sotto il portico prospicente la stessa cattedrale. E a queste perdite, la cui eccellenza è almeno testimoniata dalle fonti, si aggiunge quella di qualsivoglia traccia del passaggio a Bologna di Piero della Francesca, circa il quale ci ragguaglia in modo troppo elusivo una fonte pur attendibile come il De divina proportione (1509) di Luca Pacioli […]. Il ricupero del tutto casuale di un affresco di Paolo Uccello in San Martino, riconosciuto nel 1980 da Volpe, ci fa comprendere del resto quali potessero essere stati il tono e la qualità delle presenze attive a Bologna, negli anni in cui doveva avervi lavorato anche lo stesso Donatello. Questo è tanto più vero per la storia dello spettacolo, dove le “assenze” che si registrano sono disarmanti. Salvo pochi, celebri episodi come le nozze di Annibale Bentivoglio e Lucrezia dEste nel 1487, non sappiamo quasi nulla né della vita festiva bolognese del Quattrocento e della prima metà del Cinquecento, né delle ricadute che questo proficuo incrocio di esperienze e competenze artistiche e culturali ebbe nella storia del teatro. Sarà possibile comprenderlo solo dopo una nuova, accurata ricognizione delle fonti e una mappatura dellattività delle maestranze e degli apparatori che, operativi a Bologna, o qui anche solo di passaggio, si trasferirono nelle altre città italiane, per arrivare poi in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia, Paesi Bassi e nellarea Imperiale. Solo così si potrà finalmente riconoscere in un più ampio arco cronologico il ruolo primario giocato a livello internazionale dalla scuola bolognese nella progettazione e nel restauro di edifici per lo spettacolo, nella scenotecnica e nella realizzazione di allestimenti doccasione ben prima dellaffermazione dei Bibiena. Una mappatura da eseguire sul modello di quella condotta da Siro Ferrone per i comici dellArte per illustrare Le principali vie percorse dalle attrici e dagli attori in Europa tra il XVI e il XVIII secolo (fig. 1). Una geografia del teatro che allarga gli orizzonti di una precedente indagine sui Principali circuiti e piazze teatrali italiane allinizio del Seicento (fig. 2). La posizione strategica di Bologna, collegata ai due principali assi viari della Flaminia Maggiore e Minore e della via Emilia, nonché a quel reticolo di strade dacqua che formavano un agile sistema di comunicazione fra le città della pianura padana, la rendevano una comoda tappa per i faticosi viaggi di trasferimento delle troupes e un ideale centro di incontro. Qui gli attori erano infatti soliti ritrovarsi in tempo di Quaresima, quando le recite erano normalmente sospese, per formare quelle che sarebbero state le compagnie teatrali dellanno comico successivo: i comici italiani, almeno molti, si radunavano a Bologna nel tempo di Quaresima, nel quale non recitano; e che ivi si formano le compagnie, che poi durano per ordinario un anno; e che indi si spargono per le città dItalia; e che alcune principali sogliono far questo giro. Da Bologna a Milano, da Milano a Genova, da Genova a Fiorenza, da Fiorenza a Venetia, ove stando il carnevale finiscono la compagnia. Se la testimonianza di padre Ottonelli sui percorsi dei comici è schematica e indicativa, circoscritta alla sola esperienza settentrionale e redatta allo scopo di suggerire unidea unitaria dello spettacolo comico, essa comunque conferma la centralità strategica di Bologna. Non dimentichiamo che in molti casi nella seconda città dello Stato della Chiesa durante la quaresima si recitava. Ne abbiamo numerose testimonianze proprio per gli anni Quaranta del Cinquecento che qui ci interessano. Alludo allAmor costante di Piccolomini e alle commedie degli Affumati e dei Sonnacchiosi, allestiti rispettivamente nel 1542 e nel 1543 nel convento dei Servi di Maria, e alla sorpresa di Aretino venuto a conoscenza della ripresa felsinea della sua Cortegiana nel 1537:
Dal cardinale de i Gaddi, pur troppo gran testimonio, ho inteso, figliuolo, come la prima settimana di quaresima la mia Cortigiana è suta recitata costí, cosa che mi parve strana, per essere Bologna ancilla de i preti e la comedia banditrice de i loro portamenti. E perché io mi indovino che il farmisi di cotanto onore è derivato dal conto che fate de le mie cose, ve ne son tenuto, perché non si poteva rappresentare in città di più giudizio, né di più gentilezza, né che più avesse in pratica la natura prelatesca. Ardisco dire che se il legno dIndia conoscesse gli andari del mal francioso come ella intende il procedere de i reverendissimi, ognun potria acoccarla al puttanesimo senza avotirsi a Giobbe. Or sia con Dio poiché listoria de i suoi Evangeli ha sodisfatto; duolmi che non posso per ora fornivi duna altra. E forse che sí; spettate pure che il grillo poetico mi levi in punta di piè la fantasia. In questo mezzo vi offero quel chio ho, e quel che io posso. E ben lo debbo fare, essendo voi il più fervido amante che abbino gli ingegni de i vertuosi. Di Vinezia il .xvi. di Decembre. m.d.xxxvii. Gli itinerari di viaggio degli attori furono percorsi anche dai cantanti e, ritengo, dagli altri professionisti del teatro: architetti, scenografi, pittori, ingegneri di scena, costumisti, falegnami, maestri vetrai che, come accennato, trovarono negli aristocratici bolognesi riuniti in accademia degli eccellenti committenti, troppo spesso trascurati dalla storiografia moderna perché non ritenuti allaltezza delle grandi corti di Antico Regime. Una vita, quella accademica, che a Bologna iniziò presto. Già nel 1511 il ricordato Giovani Filoteo Achillini aveva fondato il Viridario, uno dei più antichi sodalizi italiani. Una data probabilmente da ripensare. Ritengo che quella del Viridario sia unesperienza che merita di essere annoverata tra le protoaccademie quattrocentesche da cui, se una distinzione va fatta, si distacca per leccezionale durata. Sotterranea, nascosta, difficile da tracciare, la sua attività si dipana dalla fine del Quattrocento almeno fino alla morte di Achillini (1538) per poi confluire, quasi senza soluzione di continuità, nella ben più complessa esperienza dellHermatena di Achille Bocchi. I confini tra le due istituzioni sono “sfumati”: entrambe sono caratterizzate dalla presenza sulle “scene” accademiche dei medesimi personaggi, ma soprattutto dalla comune attenzione data alla musica, allo spettacolo e allarchitettura. Non sarà un caso se Serlio nel suo trattato annovera Bocchi tra gli intenditori in materia. Echi degli interessi artistici dei due sodalizi sono avvertibili sia in un noto passo del Viridario sia nel libro V del Fidele, due scritti strettamente legati alle attività accademiche. In entrambi Achillini si esprime a favore dellinserimento della pittura nel novero delle arti liberali e «un intervento così deciso […] non può che stupire soprattutto per la sua precocità e per la perifericità culturale dellambiente che la esprime». Daltra parte, sono stati ampiamente dimostrati i suoi rapporti con lambiente artistico petroniano. Si pensi, per fare un solo esempio, ad Amico Aspertini. Se i primi contatti tra il poeta e il giovane artista nacquero grazie alla comune passione per lantiquaria, ben presto il loro legame si fondò su solide radici culturali, in particolare sulla condivisione degli studi della fisiognomica – portati avanti in quegli anni anche dal fratello di Giovanni Filoteo, Alessandro Achillini – e sulle comuni posizioni politiche a favore dei Bentivoglio: È rivelatrice largomentazione encomiastica e cortigiana di Achillini, che addirittura rivendica iperbolicamente il primato artistico della Bologna bentivolesca sulla Roma antica – col pensiero volto però, al momento della stampa, alla Roma moderna e papalina, responsabile dellinvasione e dominazione di Bologna, e tuttavia visivamente occupata nelle sue emergenze architettoniche più simboliche, il Palazzo dei Conservatori e il Palazzo Vaticano, dalle pitture dei bolognesi Jacopo Ripanda e, forse, Amico Aspertini, eclissati in breve – assieme a tutti i loro colleghi umbri, lombardi e persino toscani ivi attivi – dal divino Raffaello. Riflessioni sulla pittura, soprattutto in relazione alla poesia, si trovano anche nelle Symbolicae Quaestiones di Bocchi, edite nel 1555 con incisioni di Giulio Bonasone, spesso su disegno di Prospero Fontana. Sebbene a firma di Bocchi, il volume è unopera a più mani elaborata della «studiosa cohors» dellHermatena. La galleria dei dedicatari delle singole Quaestiones permette di delineare sia lorizzonte culturale sia il tessuto di relazioni dellaccademia, non circoscritto né al solo ambito bolognese, né, più in generale, ai circoli dei letterati e degli umanisti: unopera a tutti gli effetti plurale, che si presta a rappresentare la proiezione estrema degli ideali dellUmanesimo e la percezione dellimminente sconfitta di quegli stessi ideali, e che, per questo, si colloca sulla sottilissima linea di confine che separa lUmanesimo dalleterodossia, la critica filologica dal dissenso, il sincretismo dalla dissimulazione. In quelle pagine lo statuto dellartista viene rivalutato in maniera innovativa e tragittato da quello di mero esecutore a quello di co-autore. Osserviamo il Simb. III (fig. 3): «Pictura gravium ostenduntur pondera rerum. Quaeque latent magis, haec per mage aperta patent». Suggestiva limmagine abbinata alla sentenza: Socrate delinea il proprio ritratto, la sua mano è guidata da un angelo alle sue spalle; davanti a lui lopera darte in cui il filosofo riconosce, insieme al proprio aspetto, lispirazione di cui fino a quel momento non aveva coscienza: «le immagini dipinte mostrano il peso delle cose». In altre parole: arte come sapienza. Si veda ancora il Simb. XXXVI con una donna (Ars) che ha in mano un doppio compasso con cui misura il «bonum» e il «verum», a sottolineare limportanza del momento della creazione artistica. Nella stessa ottica possiamo leggere il Simb. I con il bucranio e due utensili da lavoro: esso illustra la finalità delle Quaestiones e coincide con il compito svolto dallincisore, cioè quello della realizzazione dellidea. Una chiave di lettura che può essere proficuamente utilizzata anche per interpretare il palazzo che Bocchi stava facendo costruire in quegli stessi anni pensandolo come «domus academiae», ovvero come sede dellaccademia:
tra il simbolo, veste di un significato, e la domus academiae, riparo della studiosa cohors riunita da Bocchi, il rapporto è evidentemente molto stretto. Il palazzo è linvolucro che nasconde e contiene qualcosa di accessibile ad alcuni soltanto. Una sorta di ‘scrigno ad alto contenuto di significati. Ledificio, oggi in via Goito al numero civico 16, è in pessimo stato di conservazione. Venne iniziato nel 1545, ma i lavori proseguirono lentamente tra difficoltà economiche e cambiamenti effettuati in corso dopera. Ancora una volta sono i simboli a rivelarlo. Nel CIX vediamo un angolo del palazzo decorato da unerma, con davanti Achille Bocchi raffigurato nellatto di invocare la munificenza del cardinale Alessandro Farnese, protettore dellaccademia dopo la scomparsa di Paolo III. Una richiesta illustrata anche dai versi che accompagnano limmagine. Alla morte di Bocchi (1562) il figlio Pirro affidò la direzione della fabbrica a Ottavio Nonni detto Mascherino (Mascarino) che la portò a termine entro il 1574. Nel 1698, quando la famiglia si estinse, ledificio divenne proprietà dei Piella che ne rinnovarono la facciata, come dimostra una veduta della fine del XVIII secolo. Lidea originaria del committente è ancora oggi attestata da due incisioni rispettivamente del 1545 e del 1555, anchesse attribuite a Giulio Bonasone (figg. 4-5). Entrambe mostrano il prospetto principale che corrisponde, in buona parte, a quello effettivamente realizzato. Numerose iscrizioni decorano la facciata: a sinistra del portale leggiamo, in ebraico, il salmo 120.2: «Signore, libera lanima mia da labbra bugiarde e dalla lingua ingannatrice»; a destra si individua invece una citazione dalle Epistole di Orazio (I,1, 59-61) che prosegue anche sul fianco orientale delledificio: «Rex eris, aiunt, si recte facies, hic murus aheneus esto nil conscire sibi, nulla pallescere culpa», «Sarai re, dicono, se agirai rettamente / Sia questo come un muro di bronzo: di nulla ti rimorda la coscienza e che per nessuna colpa tu possa impallidire». Due ‘inni alla sincerità e allonestà intellettuale. Nellincisione del 1545 (fig. 4), dedicata a Paolo III, si legge inoltre: «Ex labore victoria» e «Sic mostra domantur», ovvero il motto dellHermatena. Allaccademia Bocchiana fanno riferimento anche le due statue che concludono il prospetto delledificio: Hermes a sinistra, Atena a destra. Una esplicita allusione allimpresa del sodalizio, che raffigura Pallade e Mercurio con in mezzo Amore che tiene legato il capo di un leone. Un emblema complesso, passibile di molteplici interpretazioni, che rimanda comunque allidea di una scienza che nasce dal ‘matrimonio tra la saggezza di Pallade e leloquenza di Mercurio: «Sapientiam modestia, progressio eloquentiam, felicitatem haec perficit» (fig. 6). Si tenga presente che la statua di Ermathena (alias di Pallade e Mercurio) era ricorrente nella teologia orfica: il doppio simulacro, esito della sovrapposizione di due divinità, fu venerato nellaccademia di Platone e poi in quella Ficiniana. Bocchi rivendicava così leredità degli umanisti dello Studio, facendo proprio anche il patrimonio della tradizione antica. Senza sottovalutare il fatto che Ermes, dio delleloquenza e messaggero degli dei, è anche il protettore dellarte e della scienza. Lincisione successiva presenta varianti di rilievo e unincongruenza: limmagine, datata 1555, è dedicata a Pio IV, papa dal 1559 (fig. 5). Probabilmente limpresa del pontefice venne aggiunta in un secondo momento, forse in occasione di una successiva richiesta di protezione e aiuto economico. Al di là delle varianti architettoniche, volte generalmente a una semplificazione del progetto, spicca la scomparsa del motto accademico e delle statue delle divinità protettrici dellaccademia, sostituite da scenografici obelischi conclusi da sfere che richiamano alla mente la scena tragica serliana. I riferimenti allaccademia sono ora dislocati sullangolo destro dellincisione, a livello del terreno, dove si intravede unerma che corrisponde a quella già vista nel simbolo CIX. Tale simbolo sembra fornire unindicazione su come osservare al meglio la sede accademica nel palazzo: raffigurando/guardando non lintera facciata, come parrebbe logico e attestato dalle due citate incisioni, bensì con una prospettiva dangolo affollata di simboli, come poi si vede nel menzionato disegno settecentesco. Lipotesi sembra confermata da due riscontri: il primo è il simbolo CII dove sono raffigurati limpresa bocchiana e, sullo sfondo, langolo di un edificio (fig. 6). Il secondo è dato dallorganizzazione planimetrica interna degli ambienti di palazzo Bocchi: qui gli spazi più importanti sono allogati non casualmente a «“prua” della fabbrica edilizia, determinando una originalità tipologica difficilmente riscontrabile». La statua di Ermes e Atena, raffigurata solo nelle incisioni e mai realizzata, individuava, con ogni probabilità, nelle intenzioni del committente la zona in cui erano collocate le stanze destinate a sede dellHermatena. Il palazzo, dunque, si svelava come il contenitore reale e simbolico della studiosa cohors, assumendo la funzione di sospendere la validità degli statuti sociali quotidiani e affermando lautonomia dello spazio e del tempo accademico: un luogo ad alto potenziale connotativo. Opportuno ripeterlo. Ancora irrisolto il problema della paternità delledificio. Egnazio Danti, nel 1583, pensava a Jacopo Barozzi da Vignola, ma la moderna critica ha spesso messo in dubbio tale attribuzione propendendo per Sebastiano Serlio o Giulio Romano. Mentre è solo da registrare per completezza dinformazione lipotesi attributiva di Lino Sighinolfi ad Antonio Morandi detto il Terribilia. Secondo Daniele Ravaioli un intervento di Vignola in fase progettuale sarebbe credibile: lartista rientrò da Fontainebleau nel 1543 e nel settembre dello stesso anno assunse lincarico di architetto capo della basilica di San Petronio, compito affidatogli già nel 1541 per interessamento di Paolo III. Tra laltro, il trasferimento del giovane Barozzi a Roma, a metà degli anni Trenta, era stato favorito da Alessandro Manzuoli, che sappiamo collegato al circolo di Bocchi e tra gli animatori della romana accademia della Virtù. Daltra parte non pochi elementi del palazzo bolognese rinviano al lessico di Giulio Romano: si veda, a titolo desempio, il trattamento plastico del bugnato. È nota la presenza dellarchitetto a Bologna verso la metà degli anni Quaranta, interpellato per dare un parere sui progetti della facciata di San Petronio. In quella occasione Romano disegnò il monumento sepolcrale nella chiesa di San Francesco per Ludovico Boccadiferro, medico e filosofo dello Studio, legato allHermatena. Ebbe dunque occasione di intervenire nel progetto di palazzo Bocchi. Ma gli elementi giulieschi delledificio possono essere spiegati altrimenti: si pensi alla conoscenza delloperosità di Romano da parte del Vignola. Non solo. Alcuni degli aspetti che maggiormente richiamano lo stile giuliesco erano già stati presentati da Serlio nei due libri del suo trattato editi a Venezia nel 1537 e nel 1540. Linfluenza di Serlio nel progetto iniziale della residenza bocchiana, illustrato dallincisione del 1545, è indiscutibile e i rapporti che egli ebbe con il committente già prima di questa data sono ampiamente documentati. Sembra dunque plausibile la conclusione di Manfredo Tafuri:
allorigine delle due incisioni non sono da escludere, a nostro parere, modelli forniti da Sebastiano, forse prima del 1541, allamico Bocchi. In particolare, la forma dellattico è difficilmente spiegabile altrimenti, anche se lipotesi di interventi del committente andrebbe più attentamente considerata. L«humore» del Bocchi potrebbe dunque aver avuto origine da unidea serliana, poi modificata e «raffreddata» da Barozzi. Che Achille abbia almeno consultato lamico, in previsione dellimpresa edilizia concretatasi poco più tardi, è congruente, almeno, con quanto sappiamo delle relazioni che legano la cerchia che fa capo al bolognese. Un suggerimento, quello di considerare più attentamente il ruolo di Bocchi come committente, fondamentale sul piano del metodo e che è stato alla base delle mie primissime indagini: mi ha aiutato infatti a meglio capire la centralità dellinteresse dellaccademia per le arti visive. Come vedremo, lagire dei sodali di Bocchi appare in molti casi come una sorta di ‘tutoraggio, una benevola ‘promozione degli artisti, resa esplicita, pur sotto il velo del simbolo, sin dallimpresa dellHermatena, ma già propria della precedente esperienza del Viridario. Il discorso vale anche per gli scenografi, a cominciare almeno dal 1515, quando è attestata la presenza a Bologna di Baldassarre Peruzzi in occasione dellincontro felsineo tra Leone X e Francesco I. A quella occasione è riferibile, con ogni probabilità, il disegno con lo Studio per una scena comica oggi conservato alla Biblioteca Reale di Torino. Larchitetto fu invitato nuovamente in città tra il 1521 e il 1523, ospite del conte Battista Bentivoglio, accademico bocchiano, per il quale disegnò il celebre cartone con lAdorazione dei Magi: un ‘modello destinato ad avere ampia eco nella città petroniana. Replicata a metà degli anni Venti da Serlio e da Girolamo da Treviso, quellopera segnò anche limmaginario di Alfonso Lombardi che, giunto in città nellestate del 1519, se ne ricordò nellAdorazione dei Magi per il gradino dellArca di San Domenico nellomonima chiesa, realizzata su richiesta – anche questo non è un caso – dellaccademico bocchiano Leandro Alberti. E se lopera che maggiormente consacrò la fama felsinea di Peruzzi fu la cappella Ghisilardi nella medesima chiesa di San Domenico, non bisogna dimenticare che in quegli anni lartista elaborò alcuni progetti per il palazzo di famiglia del conte Lambertini (sodale di Bocchi), mentre la Fabbriceria di San Petronio lo incaricò dei disegni per il completamento della basilica, incarico in cui venne affiancato da Serlio. Quel Serlio la cui presenza a Bologna tra il 1520 e il 1523 è documentata. Venne così a crearsi in seno alla cerchia accademica una proficua occasione di dibattito e confronto fra due protagonisti dellarchitettura e della scena della prima metà del Cinquecento. E non mi pare che tutto ciò alloggi sia stato adeguatamente considerato e posto in valore dagli storici dello spettacolo. Negli stessi anni è accreditato a Bologna anche Niccolò Tribolo, coinvolto, tra il 1525 e il 1527, nella realizzazione delle sculture per le porte minori di San Petronio. Il fiorentino tornò in città nove anni dopo, forte della protezione medicea e di una salda esperienza come apparatore grazie alla partecipazione agli allestimenti realizzati nel 1536 in onore di Carlo V e per le nozze di Alessandro de Medici con Margherita dAustria. Lincarico che gli venne affidato era di primo ordine: realizzare una monumentale pala marmorea raffigurante lAssunzione della Vergine e i dodici Apostoli, da collocare sullaltare che Serlio stava completando per la chiesa della Galliera. Quellimpresa più volte vagliata anche su fonti documentarie – non sempre trascritte integralmente –, non pare essere mai stata posta direttamente in relazione con quei consessi eruditi, ai quali afferivano invece alcuni dei suoi protagonisti più illustri, da Bartolomeo e Ludovico Ghisilardi, Giovanni Beroaldo e Achille Bocchi, ad Alessandro Manzuoli e Ludovico Lambertini: tutti intellettuali a vario titolo coinvolti con lAccademia del Viridario, e più volte menzionati nelle carte della Galliera. Questa disattenzione stupisce, specie a fronte della paternità progettuale dellintero altare per il quale Tribolo eseguiva la sua pala, notoriamente riconosciuta a Sebastiano Serlio, vero e proprio genius loci. Larchitetto emiliano, cresciuto nel mito di Vitruvio, non aveva certo nascosto la propria consentaneità con la passione filologico-antiquaria di quegli studiosi, e neppure la sua piena adesione agli ideali estetici tosco-romani da loro prediletti, che assegnavano a Baldassarre Peruzzi, suo maestro, un ruolo del tutto privilegiato. Ciò lo aveva naturalmente condotto a militare a più riprese tra le fila del Viridario, mentre lartista senese, a Bologna una prima volta nel 1515, e poi ancora nel 1522-1523, aveva progettato i suoi interventi edilizi proprio per i Ghisilardi e i Lambertini, e aveva dipinto per i Bentivoglio. A sottolineare la perfetta sintonia di questi indizi non si potrà allora mancare di rilevare come del sodalizio Peruzzi-Serlio si sarebbe avvantaggiato lo stesso Tribolo. Questi ne avrebbe ricavato con probabilità il trasferimento petroniano degli anni venti. Una conferma, anche nellambito della scultura, di quanto sin qui sostenuto. Poniamo allora una lente di ingrandimento su unaltra delle commissioni avviate in quegli anni a Bologna: il progetto iconografico per il prezioso arredo ligneo intarsiato da Fra Damiano Zambelli per la chiesa di San Domenico. Ispiratore e mecenate dellimpresa fu il più volte evocato storico, umanista e accademico bocchiano Leandro Alberti che si avvalse della collaborazione dei citati Serlio e Vignola. È stato rilevato come limpostazione delle storie narrate nelle tarsie che decorano la spalliera, databili nellarco cronologico 1530-1535, rimandi alla codificazione parigina delle tre celebri scene – comica, tragica e satirica – serliane (1545). Si osservi specialmente il Martirio di Santa Caterina (fig. 7): un palcoscenico sopraelevato comunica con la ‘platea, cioè con la «piazza della scena», grazie a due rampe di scale affrontate come nella xilografia della scena comica; del resto anche la bocca di lupo che illumina una cantina o una prigione rinvia ai fornici del sottopalco visibili nella medesima vignetta; e analogo è il trattamento grafico diversificato per la zona praticabile e per la prospettiva illusionistica. Il tema delle scale, ma declinato come nella scena tragica, torna nella Circoncisione di Gesù (fig. 8), una delle tarsie del coro, datata «Maggio 1541». Meno pregnanti invece il balcone e gli archi in prospettiva in scene quali il Battesimo di San Domenico (fig. 9), il citato Martirio di Santa Caterina (fig. 7) e, infine, il Miracolo di San Domenico (fig. 10). Alla luce di tutto ciò si può concludere senza forzature, credo, che tra gli interessi del milieu accademico bolognese facente capo a Bocchi e Achillini vi furono larchitettura e la scena. Daltronde, lo si è detto, Serlio annovera Bocchi (e Manzuoli) tra gli intenditori di architettura e i rapporti che il circolo bolognese ebbe con la romana accademia della Virtù impegnata, in quegli stessi anni, nello studio del De architectura di Vitruvio, furono stretti. Indiscutibile dunque limportanza di quegli anni bolognesi, che videro la compresenza dei tre maggiori architetti-scenografi della prima metà del Cinquecento. E mi piace pensarli impegnati a confrontarsi sulle novità della scena prospettica. Dibattiti che vennero poi codificati nel 1545 da Serlio. Purtroppo non sappiamo se ci furono ricadute immediate nella prassi accademica coeva e seriore. Allo stato attuale delle indagini non abbiamo notizie di eventi teatrali in cui furono coinvolti i due sodalizi. Occorre infatti attendere il 1559 per avere una prima, seppur incerta, testimonianza di un interessamento diretto del circolo di Bocchi alle tematiche teatrali. Il documento in questione fa parte di un corpus di dieci lettere di Annibal Caro indirizzate a mittenti bolognesi, spesso anonimi, in cui si parla in maniera generica di unaccademia felsinea intervenuta nella disputa contro Castelvetro. Riferite dallerudizione settecentesca allHermatena, le missive sono ricondotte a quellambiente culturale anche dai moderni editori. Si prenda la lettera del Caro datata 21 ottobre 1559 e indirizzata a « M..., a Bologna»:
Quanto al parere che mi chiedete de la tragedia io non posso rispondere così determinatamente come io vorrei, che non avendo mai essaminata questa materia come si converrebbe, ed essendovi molto che dire da ogni parte. Ben dirò che, essendo la tragedia una specie di poesia, mi pare che necessariamente richieggia il verso, pure ancora la comedia è tale, e ne la prosa pare che riesca meglio che nel nostro verso. Credo ancora che l mover de gli affetti, chè principale intento della tragedia, si farebbe di gran lunga più efficacemente in questo modo che in quello, cioè meglio ne la prosa. Ma, in qualunque modo si faccia, pur che abbia laltre sue parti, io per me non lo riprenderei. E, secondo che vi porterete del resto, credo che si giudicherà sarete bene o mal fatto. Mi pare ben necessario che i cori sieno in verso come voi dite. E di questo non avete a mancare. Ma di tutto mi rimetto al giudicio di quelli che meglio hanno essaminato questo articolo. Che sio medesimo avessi a pigliar ora questa impresa non sono ancora risoluto come ve la facessi. E altro non mi occorrendo, a tutta lAcademia, e a V. S. specialmente mi raccomando e offero. Di Roma, a li XXI dottobre MDLIX. Sono gli anni dei rovelli delle «Poetiche» cinquecentesche. Dietro richiesta dellanonimo, Caro offre un breve saggio di poetica tragica, ma la mancanza di un riscontro diretto con altre testimonianze documentali felsinee non permette purtroppo di stabilire se la richiesta del misterioso accademico bolognese fosse dettata da riflessioni teoriche o da esigenze di spettacolo. Sappiamo però che alcuni dei protagonisti delle due accademie capitanate da costoro furono implicati nellattività di due accademie teatrali felsinee fondate allinizio degli anni Quaranta del Cinquecento. I poco noti sodalizi degli Affumati e dei Sonnacchiosi di cui fece parte, opportuno rilevarlo, il vicentino Marco Thiene, che soggiornò a Bologna 1539 al 1542. La sua presenza allargava indubbiamente gli orizzonti culturali degli intellettuali felsinei. I Thiene, è noto, erano una delle più ricche e importanti casate vicentine del Cinquecento, committenti di Palladio che per costoro realizzò sia il palazzo di famiglia a Vicenza che le ville di Quinto Vicentino e di Cicogna di Villafranca Padovana. Allanno del suo arrivo nella città petroniana si data loperina Tutte le donne vicentine maritate, vedove e dongelle di «Lucrezio Beccanuvoli Bolognese». Dietro lo pseudonimo di Lucrezio Beccanuvoli è stata ipotizzata una sorta di operazione di “relazioni pubbliche” realizzata a più mani proprio da Marco Thiene, da Giambattista Maganza e da un altro vicentino: Ercole Fortezza. In quel raro libricino si parla con accenti ammirati del celeberrimo apparato e della commedia che, in quello stesso 1539, Serlio realizzò a Vicenza nel cortile di palazzo Porto. Non solo. Nel 1545, il Thiene si recò a Roma al seguito di Giangiorgio Trissino: compagni di viaggio il Maganza e Palladio. Un fitto intreccio di relazioni e confronti in ampia parte ancora da chiarire. Ciò che qui più ci interessa è che partecipò attivamente alla vita teatrale accademica di quegli anni anche un giovanissimo Gabriele Paleotti che divenne poi implacabile alfiere della Controriforma e severo censore delle commedie «lascive et dishoneste» dei comici dellArte. Sua la firma su un contratto stipulato il 5 gennaio 1543 con il pittore Prospero Fontana, che si impegnava a «fare una scena finta Ferrara» per la commedia e inoltre a fornire i costumi e a realizzare le scenografie per gli intermezzi di argomento mitologico. Motivi di spazio non mi permettono di illustrare quel contratto e tanto meno la memorabile serie di spettacoli che le due accademie misero in scena, congiuntamente, tra carnevale e quaresima, ma preme rilevare come Fontana ebbe significativi rapporti di collaborazione con Giorgio Vasari, per il quale realizzò, tra laltro, la «scena e prospettiva» per la Cofanaria di Francesco dAmbra, allestita nel 1565 nel fiorentino Salone dei Cinquecento. Rapporti che vanno anticipati agli anni Quaranta, aprendo così orizzonti interpretativi inediti che consentono (e consentiranno) di meglio comprendere la storia dello spazio scenico cinquecentesco in un momento cruciale, in bilico tra le esperienze romane, quelle fiorentine e la trattatistica serliana.
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