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Lorena Vallieri

Architetti-scenografi a Bologna (1515-1543)

Data di pubblicazione su web 20/03/2020
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Nel corso dei secoli Bologna ha dimostrato una naturale vocazione a punto di scambio e di incontro tra i vari centri della Penisola, il Mediterraneo e l’Europa.[1] Merito di una posizione geografica privilegiata, collegata a una efficace reticolo viario e fluviale,[2] a cui si aggiunse, in epoca medievale, l’attrazione esercitata dallo Studio,[3] uno dei più antichi del continente, e da centri religiosi come i conventi dei tre ordini mendicanti – francescani, domenicani e Servi di Maria – che favorirono la circolazione internazionale di testi e di idee, di saperi e di linguaggi artistici.[4] Tra Cinque e Settecento la città fu poi sede di importanti avvenimenti politico-diplomatici che richiamarono artisti e intellettuali che, come vedremo, trovarono negli aristocratici felsinei dei committenti privilegiati. Basti pensare all’incontro tra papa Leone X e Francesco I nel 1515,[5] all’incoronazione di Carlo V nel 1530 per mano di Clemente VII, o al loro secondo incontro nel 1533.[6] A Bologna si svolse anche parte del Concilio di Trento che portò in città numerosi prelati, cardinali e ambasciatori.[7]

Il suo ruolo di Crocevia e capitale della migrazione artistica è stato recentemente indagato da un quadriennale progetto di ricerca che ha dimostrato lo straordinario contributo che gli artisti e i letterati bolognesi dettero allo sviluppo delle arti, lasciando tracce profonde in molti paesi.[8] Ne sono un esempio eloquente i Bibiena, «una famiglia europea» per la quale:

non c’erano confini invalicabili, distanze troppo lunghe, disagi di viaggio, pericoli, impacci di idiomi diversi: questa famiglia per tre generazioni, per un secolo, dagli ultimi decenni del Seicento agli ultimi del Settecento, ha percorso instancabile l’Europa, dal Portogallo alla Svezia, alla Russia e ha costruito teatri grandi e piccoli per città, corti, accademie, allestito spettacoli e cerimonie, trasfigurato spazi, immaginato scene, sale reali, cortili magnifici, porti imperiali, regge del sole, logge grandiose.[9]

Bologna fu anche meta di artisti e studiosi stranieri. Tra questi Albrecht Dürer, che nell’ottobre 1506, da Venezia, espresse all’amico Willibald Pirckheimer il desiderio di recarsi a Bologna per studiare l’arte della prospettiva:

Rimango qui altri dieci giorni. In seguito ho intenzione di andare fino a Bologna per imparare l’arte della segreta prospettiva che uno mi vuole insegnare. Passeranno circa otto o dieci giorni prima di ritornare a Venezia. Poi rientrerò col primo corriere.[10]

L’identificazione dell’ignoto maestro, custode di un “segreto” tale da spingere Dürer a ritardare il rientro in patria, è ancora motivo di discussione. Molti i nomi proposti: da Luca Pacioli al matematico Scipione dal Ferro, da Donato Bramante ad Agostino da Lodi, fino a Leonardo da Vinci e Francesco Francia,[11] senza dimenticare Raffaello.[12] Negli ultimi anni si è fatta strada una ipotesi per noi del massimo interesse: Elisabetta Fadda, partendo da una originale interpretazione dei versi del Viridario di Giovanni Filoteo Achillini[13] riferiti ai De Marchi da Crema,[14] ha proposto di individuare il misterioso prospettico in uno di quegli intarsiatori «maestri di prospettiva»[15] così attivi in città.[16] Ritengo che proprio le esperienze nel campo della tarsia e il vivace clima culturale che si respirava nelle accademie felsinee della prima metà del Cinquecento, di cui Achillini fu tra i principali promotori, furono alla base della formazione di alcuni importanti architetti-scenografi del Cinquecento, nonché, come già notato da Sabine Frommel, il terreno ideale per la genesi dei trattati di architettura di Serlio e Vignola.[17]

Non va neanche sottovalutata l’importanza cruciale, nell’arte bolognese, della prospettiva e delle proporzioni. In accordo con i più recenti contributi storiografici,[18] credo che la fama internazionale di Bologna come centro di studi e applicazioni prospettiche – generalmente collegata al secondo libro del Trattato di Serlio (1545), alle pitture di Tibaldi, alla pubblicazione postuma delle Due regole della prospettiva di Vignola (1583) e, nel secolo successivo, ai Paradossi di Giulio Troili (1672) e alla fioritura del quadraturismo – vada anticipata almeno al Quattrocento. E se già nel 1501-1502 vi insegnò Pacioli, che lasciò in città l’unica copia esistente del manoscritto De viribus quantitatis,[19] allora è alla Signoria dei Bentivoglio che bisogna guardare.

Fortunatamente, gli studi più avveduti hanno ormai aperto la strada a una nuova comprensione del ruolo nient’affatto subordinato di Bologna nel più vasto contesto dell’Umanesimo europeo, eppure la città stenta ancora

a essere percepita come una capitale del Rinascimento italiano o quantomeno come portatrice di un’originale civiltà figurativa, architettonica e letteraria. Alla base di tale difficoltà si pone la necessità di ragionare non solo su quanto ci rimane, ma soprattutto sulle “assenze”, che nel caso del Rinascimento bolognese sono particolarmente forti. È di fatto pressoché impossibile farci un’idea completa del ruolo che la città dovette svolgere nella cultura padana in campo tanto architettonico quanto pittorico dopo la distruzione del palazzo di Giovanni II Bentivoglio in strada San Donato – del quale Leandro Alberti affermava «che ’l non fosse il pari in tutto il mondo» –, della cappella Garganelli in San Pietro – «una mezza Roma di bontà», secondo Michelangelo – e della Crocifissione affrescata da Guido Aspertini sotto il portico prospicente la stessa cattedrale. E a queste perdite, la cui eccellenza è almeno testimoniata dalle fonti, si aggiunge quella di qualsivoglia traccia del passaggio a Bologna di Piero della Francesca, circa il quale ci ragguaglia in modo troppo elusivo una fonte pur attendibile come il De divina proportione (1509) di Luca Pacioli […]. Il ricupero del tutto casuale di un affresco di Paolo Uccello in San Martino, riconosciuto nel 1980 da Volpe, ci fa comprendere del resto quali potessero essere stati il tono e la qualità delle presenze attive a Bologna, negli anni in cui doveva avervi lavorato anche lo stesso Donatello.[20]

Questo è tanto più vero per la storia dello spettacolo, dove le “assenze” che si registrano sono disarmanti. Salvo pochi, celebri episodi come le nozze di Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este nel 1487,[21] non sappiamo quasi nulla né della vita festiva bolognese del Quattrocento e della prima metà del Cinquecento, né delle ricadute che questo proficuo incrocio di esperienze e competenze artistiche e culturali ebbe nella storia del teatro. Sarà possibile comprenderlo solo dopo una nuova, accurata ricognizione delle fonti e una mappatura dell’attività delle maestranze e degli apparatori che, operativi a Bologna, o qui anche solo di passaggio, si trasferirono nelle altre città italiane, per arrivare poi in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia, Paesi Bassi e nell’area Imperiale. Solo così si potrà finalmente riconoscere in un più ampio arco cronologico il ruolo primario giocato a livello internazionale dalla scuola bolognese nella progettazione e nel restauro di edifici per lo spettacolo, nella scenotecnica e nella realizzazione di allestimenti d’occasione ben prima dell’affermazione dei Bibiena.[22]

Una mappatura da eseguire sul modello di quella condotta da Siro Ferrone per i comici dell’Arte per illustrare Le principali vie percorse dalle attrici e dagli attori in Europa tra il XVI e il XVIII secolo (fig. 1).[23] Una geografia del teatro che allarga gli orizzonti di una precedente indagine sui Principali circuiti e piazze teatrali italiane all’inizio del Seicento (fig. 2).[24] La posizione strategica di Bologna, collegata ai due principali assi viari della Flaminia Maggiore e Minore e della via Emilia, nonché a quel reticolo di strade d’acqua che formavano un agile sistema di comunicazione fra le città della pianura padana, la rendevano una comoda tappa per i faticosi viaggi di trasferimento delle troupes e un ideale centro di incontro. Qui gli attori erano infatti soliti ritrovarsi in tempo di Quaresima, quando le recite erano normalmente sospese, per formare quelle che sarebbero state le compagnie teatrali dell’anno comico successivo:

i comici italiani, almeno molti, si radunavano a Bologna nel tempo di Quaresima, nel quale non recitano; e che ivi si formano le compagnie, che poi durano per ordinario un anno; e che indi si spargono per le città d’Italia; e che alcune principali sogliono far questo giro. Da Bologna a Milano, da Milano a Genova, da Genova a Fiorenza, da Fiorenza a Venetia, ove stando il carnevale finiscono la compagnia.[25]

Se la testimonianza di padre Ottonelli sui percorsi dei comici è schematica e indicativa, circoscritta alla sola esperienza settentrionale e redatta allo scopo di suggerire un’idea unitaria dello spettacolo comico,[26] essa comunque conferma la centralità strategica di Bologna.

Non dimentichiamo che in molti casi nella seconda città dello Stato della Chiesa durante la quaresima si recitava. Ne abbiamo numerose testimonianze proprio per gli anni Quaranta del Cinquecento che qui ci interessano. Alludo all’Amor costante di Piccolomini[27] e alle commedie degli Affumati e dei Sonnacchiosi, allestiti rispettivamente nel 1542 e nel 1543 nel convento dei Servi di Maria,[28] e alla sorpresa di Aretino venuto a conoscenza della ripresa felsinea della sua Cortegiana nel 1537:


Dal cardinale de i Gaddi, pur troppo gran testimonio, ho inteso, figliuolo, come la prima settimana di quaresima la mia Cortigiana è suta recitata costí, cosa che mi parve strana, per essere Bologna ancilla de i preti e la comedia banditrice de i loro portamenti. E perché io mi indovino che il farmisi di cotanto onore è derivato dal conto che fate de le mie cose, ve ne son tenuto, perché non si poteva rappresentare in città di più giudizio, né di più gentilezza, né che più avesse in pratica la natura prelatesca. Ardisco dire che se il legno d’India conoscesse gli andari del mal francioso come ella intende il procedere de i reverendissimi, ognun potria acoccarla al puttanesimo senza avotirsi a Giobbe. Or sia con Dio poiché l’istoria de i suoi Evangeli ha sodisfatto; duolmi che non posso per ora fornivi d’una altra. E forse che sí; spettate pure che il grillo poetico mi levi in punta di piè la fantasia. In questo mezzo vi offero quel ch’io ho, e quel che io posso. E ben lo debbo fare, essendo voi il più fervido amante che abbino gli ingegni de i vertuosi. Di Vinezia il .xvi. di Decembre. m.d.xxxvii.[29]

Gli itinerari di viaggio degli attori furono percorsi anche dai cantanti e, ritengo, dagli altri professionisti del teatro: architetti, scenografi, pittori, ingegneri di scena, costumisti, falegnami, maestri vetrai che, come accennato, trovarono negli aristocratici bolognesi riuniti in accademia degli eccellenti committenti, troppo spesso trascurati dalla storiografia moderna perché non ritenuti all’altezza delle grandi corti di Antico Regime.

Una vita, quella accademica, che a Bologna iniziò presto. Già nel 1511 il ricordato Giovani Filoteo Achillini aveva fondato il Viridario,[30] uno dei più antichi sodalizi italiani.[31] Una data probabilmente da ripensare. Ritengo che quella del Viridario sia un’esperienza che merita di essere annoverata tra le protoaccademie quattrocentesche da cui, se una distinzione va fatta, si distacca per l’eccezionale durata. Sotterranea, nascosta, difficile da tracciare, la sua attività si dipana dalla fine del Quattrocento almeno fino alla morte di Achillini (1538) per poi confluire, quasi senza soluzione di continuità, nella ben più complessa esperienza dell’Hermatena di Achille Bocchi.[32] I confini tra le due istituzioni sono “sfumati”: entrambe sono caratterizzate dalla presenza sulle “scene” accademiche dei medesimi personaggi, ma soprattutto dalla comune attenzione data alla musica, allo spettacolo e all’architettura. Non sarà un caso se Serlio nel suo trattato annovera Bocchi tra gli intenditori in materia.[33]

Echi degli interessi artistici dei due sodalizi sono avvertibili sia in un noto passo del Viridario[34] sia nel libro V del Fidele,[35] due scritti strettamente legati alle attività accademiche.[36] In entrambi Achillini si esprime a favore dell’inserimento della pittura nel novero delle arti liberali e «un intervento così deciso […] non può che stupire soprattutto per la sua precocità e per la perifericità culturale dell’ambiente che la esprime».[37] D’altra parte, sono stati ampiamente dimostrati i suoi rapporti con l’ambiente artistico petroniano.[38] Si pensi, per fare un solo esempio, ad Amico Aspertini.[39] Se i primi contatti tra il poeta e il giovane artista nacquero grazie alla comune passione per l’antiquaria,[40] ben presto il loro legame si fondò su solide radici culturali, in particolare sulla condivisione degli studi della fisiognomica – portati avanti in quegli anni anche dal fratello di Giovanni Filoteo, Alessandro Achillini[41] – e sulle comuni posizioni politiche a favore dei Bentivoglio:

È rivelatrice l’argomentazione encomiastica e cortigiana di Achillini, che addirittura rivendica iperbolicamente il primato artistico della Bologna bentivolesca sulla Roma antica – col pensiero volto però, al momento della stampa, alla Roma moderna e papalina, responsabile dell’invasione e dominazione di Bologna, e tuttavia visivamente occupata nelle sue emergenze architettoniche più simboliche, il Palazzo dei Conservatori e il Palazzo Vaticano, dalle pitture dei bolognesi Jacopo Ripanda e, forse, Amico Aspertini, eclissati in breve – assieme a tutti i loro colleghi umbri, lombardi e persino toscani ivi attivi – dal divino Raffaello.[42]

Riflessioni sulla pittura, soprattutto in relazione alla poesia, si trovano anche nelle Symbolicae Quaestiones di Bocchi, edite nel 1555 con incisioni di Giulio Bonasone, spesso su disegno di Prospero Fontana.[43] Sebbene a firma di Bocchi, il volume è un’opera a più mani elaborata della «studiosa cohors»[44] dell’Hermatena. La galleria dei dedicatari delle singole Quaestiones permette di delineare sia l’orizzonte culturale sia il tessuto di relazioni dell’accademia, non circoscritto né al solo ambito bolognese, né, più in generale, ai circoli dei letterati e degli umanisti:

un’opera a tutti gli effetti plurale, che si presta a rappresentare la proiezione estrema degli ideali dell’Umanesimo e la percezione dell’imminente sconfitta di quegli stessi ideali, e che, per questo, si colloca sulla sottilissima linea di confine che separa l’Umanesimo dall’eterodossia, la critica filologica dal dissenso, il sincretismo dalla dissimulazione.[45]

In quelle pagine lo statuto dell’artista viene rivalutato in maniera innovativa e tragittato da quello di mero esecutore a quello di co-autore. Osserviamo il Simb. III (fig. 3): «Pictura gravium ostenduntur pondera rerum. Quaeque latent magis, haec per mage aperta patent». Suggestiva l’immagine abbinata alla sentenza: Socrate delinea il proprio ritratto, la sua mano è guidata da un angelo alle sue spalle; davanti a lui l’opera d’arte in cui il filosofo riconosce, insieme al proprio aspetto, l’ispirazione di cui fino a quel momento non aveva coscienza: «le immagini dipinte mostrano il peso delle cose». In altre parole: arte come sapienza. Si veda ancora il Simb. XXXVI con una donna (Ars) che ha in mano un doppio compasso con cui misura il «bonum» e il «verum», a sottolineare l’importanza del momento della creazione artistica. Nella stessa ottica possiamo leggere il Simb. I con il bucranio e due utensili da lavoro: esso illustra la finalità delle Quaestiones e coincide con il compito svolto dall’incisore, cioè quello della realizzazione dell’idea.[46] Una chiave di lettura che può essere proficuamente utilizzata anche per interpretare il palazzo che Bocchi stava facendo costruire in quegli stessi anni pensandolo come «domus academiae», ovvero come sede dell’accademia:


tra il simbolo, veste di un significato, e la domus academiae, riparo della studiosa cohors riunita da Bocchi, il rapporto è evidentemente molto stretto. Il palazzo è l’involucro che nasconde e contiene qualcosa di accessibile ad alcuni soltanto.[47]

Una sorta di ‘scrigno’ ad alto contenuto di significati.

L’edificio, oggi in via Goito al numero civico 16, è in pessimo stato di conservazione. Venne iniziato nel 1545, ma i lavori proseguirono lentamente tra difficoltà economiche e cambiamenti effettuati in corso d’opera.[48] Ancora una volta sono i simboli a rivelarlo. Nel CIX vediamo un angolo del palazzo decorato da un’erma, con davanti Achille Bocchi raffigurato nell’atto di invocare la munificenza del cardinale Alessandro Farnese, protettore dell’accademia dopo la scomparsa di Paolo III. Una richiesta illustrata anche dai versi che accompagnano l’immagine. Alla morte di Bocchi (1562) il figlio Pirro affidò la direzione della fabbrica a Ottavio Nonni detto Mascherino (Mascarino) che la portò a termine entro il 1574. Nel 1698, quando la famiglia si estinse, l’edificio divenne proprietà dei Piella che ne rinnovarono la facciata, come dimostra una veduta della fine del XVIII secolo.[49]

L’idea originaria del committente è ancora oggi attestata da due incisioni rispettivamente del 1545 e del 1555, anch’esse attribuite a Giulio Bonasone (figg. 4-5).[50] Entrambe mostrano il prospetto principale che corrisponde, in buona parte, a quello effettivamente realizzato. Numerose iscrizioni decorano la facciata: a sinistra del portale leggiamo, in ebraico,[51] il salmo 120.2: «Signore, libera l’anima mia da labbra bugiarde e dalla lingua ingannatrice»; a destra si individua invece una citazione dalle Epistole di Orazio (I,1, 59-61) che prosegue anche sul fianco orientale dell’edificio: «Rex eris, aiunt, si recte facies, hic murus aheneus esto nil conscire sibi, nulla pallescere culpa», «Sarai re, dicono, se agirai rettamente / Sia questo come un muro di bronzo: di nulla ti rimorda la coscienza e che per nessuna colpa tu possa impallidire». Due ‘inni’ alla sincerità e all’onestà intellettuale.

Nell’incisione del 1545 (fig. 4), dedicata a Paolo III, si legge inoltre: «Ex labore victoria» e «Sic mostra domantur», ovvero il motto dell’Hermatena. All’accademia Bocchiana fanno riferimento anche le due statue che concludono il prospetto dell’edificio: Hermes a sinistra, Atena a destra.[52] Una esplicita allusione all’impresa del sodalizio, che raffigura Pallade e Mercurio con in mezzo Amore che tiene legato il capo di un leone. Un emblema complesso, passibile di molteplici interpretazioni, che rimanda comunque all’idea di una scienza che nasce dal ‘matrimonio’ tra la saggezza di Pallade e l’eloquenza di Mercurio: «Sapientiam modestia, progressio eloquentiam, felicitatem haec perficit» (fig. 6).[53] Si tenga presente che la statua di Ermathena (alias di Pallade e Mercurio) era ricorrente nella teologia orfica: il doppio simulacro, esito della sovrapposizione di due divinità, fu venerato nell’accademia di Platone e poi in quella Ficiniana.[54] Bocchi rivendicava così l’eredità degli umanisti dello Studio, facendo proprio anche il patrimonio della tradizione antica. Senza sottovalutare il fatto che Ermes, dio dell’eloquenza e messaggero degli dei, è anche il protettore dell’arte e della scienza.

L’incisione successiva presenta varianti di rilievo e un’incongruenza: l’immagine, datata 1555, è dedicata a Pio IV, papa dal 1559 (fig. 5). Probabilmente l’impresa del pontefice venne aggiunta in un secondo momento, forse in occasione di una successiva richiesta di protezione e aiuto economico.[55] Al di là delle varianti architettoniche, volte generalmente a una semplificazione del progetto, spicca la scomparsa del motto accademico e delle statue delle divinità protettrici dell’accademia, sostituite da scenografici obelischi conclusi da sfere che richiamano alla mente la scena tragica serliana. I riferimenti all’accademia sono ora dislocati sull’angolo destro dell’incisione, a livello del terreno, dove si intravede un’erma che corrisponde a quella già vista nel simbolo CIX. Tale simbolo sembra fornire un’indicazione su come osservare al meglio la sede accademica nel palazzo: raffigurando/guardando non l’intera facciata, come parrebbe logico e attestato dalle due citate incisioni, bensì con una prospettiva d’angolo affollata di simboli, come poi si vede nel menzionato disegno settecentesco.[56] L’ipotesi sembra confermata da due riscontri: il primo è il simbolo CII dove sono raffigurati l’impresa bocchiana e, sullo sfondo, l’angolo di un edificio (fig. 6). Il secondo è dato dall’organizzazione planimetrica interna degli ambienti di palazzo Bocchi: qui gli spazi più importanti sono allogati non casualmente a «“prua” della fabbrica edilizia, determinando una originalità tipologica difficilmente riscontrabile».[57] La statua di Ermes e Atena, raffigurata solo nelle incisioni e mai realizzata, individuava, con ogni probabilità, nelle intenzioni del committente la zona in cui erano collocate le stanze destinate a sede dell’Hermatena.[58] Il palazzo, dunque, si svelava come il contenitore reale e simbolico della studiosa cohors, assumendo la funzione di sospendere la validità degli statuti sociali quotidiani e affermando l’autonomia dello spazio e del tempo accademico: un luogo ad alto potenziale connotativo. Opportuno ripeterlo.

Ancora irrisolto il problema della paternità dell’edificio. Egnazio Danti, nel 1583, pensava a Jacopo Barozzi da Vignola,[59] ma la moderna critica ha spesso messo in dubbio tale attribuzione propendendo per Sebastiano Serlio[60] o Giulio Romano.[61] Mentre è solo da registrare per completezza d’informazione l’ipotesi attributiva di Lino Sighinolfi ad Antonio Morandi detto il Terribilia.[62] Secondo Daniele Ravaioli[63] un intervento di Vignola in fase progettuale sarebbe credibile: l’artista rientrò da Fontainebleau nel 1543 e nel settembre dello stesso anno assunse l’incarico di architetto capo della basilica di San Petronio, compito affidatogli già nel 1541 per interessamento di Paolo III.[64] Tra l’altro, il trasferimento del giovane Barozzi a Roma, a metà degli anni Trenta, era stato favorito da Alessandro Manzuoli, che sappiamo collegato al circolo di Bocchi e tra gli animatori della romana accademia della Virtù.[65] D’altra parte non pochi elementi del palazzo bolognese rinviano al lessico di Giulio Romano: si veda, a titolo d’esempio, il trattamento plastico del bugnato.[66]

È nota la presenza dell’architetto a Bologna verso la metà degli anni Quaranta, interpellato per dare un parere sui progetti della facciata di San Petronio.[67] In quella occasione Romano disegnò il monumento sepolcrale nella chiesa di San Francesco per Ludovico Boccadiferro, medico e filosofo dello Studio, legato all’Hermatena.[68] Ebbe dunque occasione di intervenire nel progetto di palazzo Bocchi. Ma gli elementi giulieschi dell’edificio possono essere spiegati altrimenti: si pensi alla conoscenza dell’operosità di Romano da parte del Vignola.[69] Non solo. Alcuni degli aspetti che maggiormente richiamano lo stile giuliesco erano già stati presentati da Serlio nei due libri del suo trattato editi a Venezia nel 1537 e nel 1540.[70] L’influenza di Serlio nel progetto iniziale della residenza bocchiana, illustrato dall’incisione del 1545, è indiscutibile e i rapporti che egli ebbe con il committente già prima di questa data sono ampiamente documentati.[71] Sembra dunque plausibile la conclusione di Manfredo Tafuri:


all’origine delle due incisioni non sono da escludere, a nostro parere, modelli forniti da Sebastiano, forse prima del 1541, all’amico Bocchi. In particolare, la forma dell’attico è difficilmente spiegabile altrimenti, anche se l’ipotesi di interventi del committente andrebbe più attentamente considerata. L’«humore» del Bocchi potrebbe dunque aver avuto origine da un’idea serliana, poi modificata e «raffreddata» da Barozzi. Che Achille abbia almeno consultato l’amico, in previsione dell’impresa edilizia concretatasi poco più tardi, è congruente, almeno, con quanto sappiamo delle relazioni che legano la cerchia che fa capo al bolognese.[72]

Un suggerimento, quello di considerare più attentamente il ruolo di Bocchi come committente, fondamentale sul piano del metodo e che è stato alla base delle mie primissime indagini: mi ha aiutato infatti a meglio capire la centralità dell’interesse dell’accademia per le arti visive. Come vedremo, l’agire dei sodali di Bocchi appare in molti casi come una sorta di ‘tutoraggio’, una benevola ‘promozione’ degli artisti, resa esplicita, pur sotto il velo del simbolo, sin dall’impresa dell’Hermatena, ma già propria della precedente esperienza del Viridario.

Il discorso vale anche per gli scenografi, a cominciare almeno dal 1515, quando è attestata la presenza a Bologna di Baldassarre Peruzzi in occasione dell’incontro felsineo tra Leone X e Francesco I. A quella occasione è riferibile, con ogni probabilità, il disegno con lo Studio per una scena comica oggi conservato alla Biblioteca Reale di Torino.[73] L’architetto fu invitato nuovamente in città tra il 1521 e il 1523, ospite del conte Battista Bentivoglio, accademico bocchiano, per il quale disegnò il celebre cartone con l’Adorazione dei Magi: un ‘modello’ destinato ad avere ampia eco nella città petroniana.[74] Replicata a metà degli anni Venti da Serlio[75] e da Girolamo da Treviso,[76] quell’opera segnò anche l’immaginario di Alfonso Lombardi che, giunto in città nell’estate del 1519, se ne ricordò nell’Adorazione dei Magi per il gradino dell’Arca di San Domenico nell’omonima chiesa, realizzata su richiesta – anche questo non è un caso – dell’accademico bocchiano Leandro Alberti.[77] E se l’opera che maggiormente consacrò la fama felsinea di Peruzzi fu la cappella Ghisilardi nella medesima chiesa di San Domenico,[78] non bisogna dimenticare che in quegli anni l’artista elaborò alcuni progetti per il palazzo di famiglia del conte Lambertini (sodale di Bocchi), mentre la Fabbriceria di San Petronio lo incaricò dei disegni per il completamento della basilica, incarico in cui venne affiancato da Serlio.[79] Quel Serlio la cui presenza a Bologna tra il 1520 e il 1523 è documentata.[80] Venne così a crearsi in seno alla cerchia accademica una proficua occasione di dibattito e confronto fra due protagonisti dell’architettura e della scena della prima metà del Cinquecento. E non mi pare che tutto ciò all’oggi sia stato adeguatamente considerato e posto in valore dagli storici dello spettacolo.

Negli stessi anni è accreditato a Bologna anche Niccolò Tribolo, coinvolto, tra il 1525 e il 1527, nella realizzazione delle sculture per le porte minori di San Petronio.[81] Il fiorentino tornò in città nove anni dopo, forte della protezione medicea e di una salda esperienza come apparatore grazie alla partecipazione agli allestimenti realizzati nel 1536 in onore di Carlo V e per le nozze di Alessandro de’ Medici con Margherita d’Austria. L’incarico che gli venne affidato era di primo ordine: realizzare una monumentale pala marmorea raffigurante l’Assunzione della Vergine e i dodici Apostoli, da collocare sull’altare che Serlio stava completando per la chiesa della Galliera. Quell’impresa

più volte vagliata anche su fonti documentarie – non sempre trascritte integralmente –, non pare essere mai stata posta direttamente in relazione con quei consessi eruditi, ai quali afferivano invece alcuni dei suoi protagonisti più illustri, da Bartolomeo e Ludovico Ghisilardi, Giovanni Beroaldo e Achille Bocchi, ad Alessandro Manzuoli e Ludovico Lambertini: tutti intellettuali a vario titolo coinvolti con l’Accademia del Viridario, e più volte menzionati nelle carte della Galliera. Questa disattenzione stupisce, specie a fronte della paternità progettuale dell’intero altare per il quale Tribolo eseguiva la sua pala, notoriamente riconosciuta a Sebastiano Serlio, vero e proprio genius loci. L’architetto emiliano, cresciuto nel mito di Vitruvio, non aveva certo nascosto la propria consentaneità con la passione filologico-antiquaria di quegli studiosi, e neppure la sua piena adesione agli ideali estetici tosco-romani da loro prediletti, che assegnavano a Baldassarre Peruzzi, suo maestro, un ruolo del tutto privilegiato. Ciò lo aveva naturalmente condotto a militare a più riprese tra le fila del Viridario, mentre l’artista senese, a Bologna una prima volta nel 1515, e poi ancora nel 1522-1523, aveva progettato i suoi interventi edilizi proprio per i Ghisilardi e i Lambertini, e aveva dipinto per i Bentivoglio. A sottolineare la perfetta sintonia di questi indizi non si potrà allora mancare di rilevare come del sodalizio Peruzzi-Serlio si sarebbe avvantaggiato lo stesso Tribolo. Questi ne avrebbe ricavato con probabilità il trasferimento petroniano degli anni venti.[82]

Una conferma, anche nell’ambito della scultura, di quanto sin qui sostenuto.

Poniamo allora una lente di ingrandimento su un’altra delle commissioni avviate in quegli anni a Bologna: il progetto iconografico per il prezioso arredo ligneo intarsiato da Fra Damiano Zambelli per la chiesa di San Domenico.[83] Ispiratore e mecenate dell’impresa fu il più volte evocato storico, umanista e accademico bocchiano Leandro Alberti[84] che si avvalse della collaborazione dei citati Serlio e Vignola.[85] È stato rilevato come l’impostazione delle storie narrate nelle tarsie che decorano la spalliera, databili nell’arco cronologico 1530-1535,[86] rimandi alla codificazione parigina delle tre celebri scene – comica, tragica e satirica – serliane (1545).[87] Si osservi specialmente il Martirio di Santa Caterina (fig. 7): un palcoscenico sopraelevato comunica con la ‘platea’, cioè con la «piazza della scena»,[88] grazie a due rampe di scale affrontate come nella xilografia della scena comica; del resto anche la bocca di lupo che illumina una cantina o una prigione rinvia ai fornici del sottopalco visibili nella medesima vignetta; e analogo è il trattamento grafico diversificato per la zona praticabile e per la prospettiva illusionistica. Il tema delle scale, ma declinato come nella scena tragica, torna nella Circoncisione di Gesù (fig. 8), una delle tarsie del coro, datata «Maggio 1541».[89] Meno pregnanti invece il balcone e gli archi in prospettiva in scene quali il Battesimo di San Domenico (fig. 9), il citato Martirio di Santa Caterina (fig. 7) e, infine, il Miracolo di San Domenico (fig. 10).[90] Alla luce di tutto ciò si può concludere senza forzature, credo, che tra gli interessi del milieu accademico bolognese facente capo a Bocchi e Achillini vi furono l’architettura e la scena. D’altronde, lo si è detto, Serlio annovera Bocchi (e Manzuoli) tra gli intenditori di architettura e i rapporti che il circolo bolognese ebbe con la romana accademia della Virtù impegnata, in quegli stessi anni, nello studio del De architectura di Vitruvio, furono stretti.[91] Indiscutibile dunque l’importanza di quegli anni bolognesi, che videro la compresenza dei tre maggiori architetti-scenografi della prima metà del Cinquecento. E mi piace pensarli impegnati a confrontarsi sulle novità della scena prospettica. Dibattiti che vennero poi codificati nel 1545 da Serlio.

Purtroppo non sappiamo se ci furono ricadute immediate nella prassi accademica coeva e seriore. Allo stato attuale delle indagini non abbiamo notizie di eventi teatrali in cui furono coinvolti i due sodalizi. Occorre infatti attendere il 1559 per avere una prima, seppur incerta, testimonianza di un interessamento diretto del circolo di Bocchi alle tematiche teatrali. Il documento in questione fa parte di un corpus di dieci lettere di Annibal Caro indirizzate a mittenti bolognesi, spesso anonimi, in cui si parla in maniera generica di un’accademia felsinea intervenuta nella disputa contro Castelvetro.[92] Riferite dall’erudizione settecentesca all’Hermatena, le missive sono ricondotte a quell’ambiente culturale anche dai moderni editori. Si prenda la lettera del Caro datata 21 ottobre 1559 e indirizzata a « M..., a Bologna»:


Quanto al parere che mi chiedete de la tragedia io non posso rispondere così determinatamente come io vorrei, che non avendo mai essaminata questa materia come si converrebbe, ed essendovi molto che dire da ogni parte. Ben dirò che, essendo la tragedia una specie di poesia, mi pare che necessariamente richieggia il verso, pure ancora la comedia è tale, e ne la prosa pare che riesca meglio che nel nostro verso. Credo ancora che ’l mover de gli affetti, ch’è principale intento della tragedia, si farebbe di gran lunga più efficacemente in questo modo che in quello, cioè meglio ne la prosa. Ma, in qualunque modo si faccia, pur che abbia l’altre sue parti, io per me non lo riprenderei. E, secondo che vi porterete del resto, credo che si giudicherà s’arete bene o mal fatto. Mi pare ben necessario che i cori sieno in verso come voi dite. E di questo non avete a mancare. Ma di tutto mi rimetto al giudicio di quelli che meglio hanno essaminato questo articolo. Che s’io medesimo avessi a pigliar ora questa impresa non sono ancora risoluto come ve la facessi. E altro non mi occorrendo, a tutta l’Academia, e a V. S. specialmente mi raccomando e offero. Di Roma, a li XXI d’ottobre MDLIX.[93]

Sono gli anni dei rovelli delle «Poetiche» cinquecentesche. Dietro richiesta dell’anonimo, Caro offre un breve saggio di poetica tragica, ma la mancanza di un riscontro diretto con altre testimonianze documentali felsinee non permette purtroppo di stabilire se la richiesta del misterioso accademico bolognese fosse dettata da riflessioni teoriche o da esigenze di spettacolo. Sappiamo però che alcuni dei protagonisti delle due accademie capitanate da costoro furono implicati nell’attività di due accademie teatrali felsinee fondate all’inizio degli anni Quaranta del Cinquecento. I poco noti sodalizi degli Affumati e dei Sonnacchiosi[94] di cui fece parte, opportuno rilevarlo, il vicentino Marco Thiene, che soggiornò a Bologna 1539 al 1542. La sua presenza allargava indubbiamente gli orizzonti culturali degli intellettuali felsinei. I Thiene, è noto, erano una delle più ricche e importanti casate vicentine del Cinquecento, committenti di Palladio che per costoro realizzò sia il palazzo di famiglia a Vicenza che le ville di Quinto Vicentino e di Cicogna di Villafranca Padovana.[95] All’anno del suo arrivo nella città petroniana si data l’operina Tutte le donne vicentine maritate, vedove e dongelle di «Lucrezio Beccanuvoli Bolognese».[96] Dietro lo pseudonimo di Lucrezio Beccanuvoli è stata ipotizzata una sorta di operazione di “relazioni pubbliche” realizzata a più mani proprio da Marco Thiene, da Giambattista Maganza e da un altro vicentino: Ercole Fortezza.[97] In quel raro libricino si parla con accenti ammirati del celeberrimo apparato e della commedia che, in quello stesso 1539, Serlio realizzò a Vicenza nel cortile di palazzo Porto. Non solo. Nel 1545, il Thiene si recò a Roma al seguito di Giangiorgio Trissino: compagni di viaggio il Maganza e Palladio. Un fitto intreccio di relazioni e confronti in ampia parte ancora da chiarire.

Ciò che qui più ci interessa è che partecipò attivamente alla vita teatrale accademica di quegli anni anche un giovanissimo Gabriele Paleotti che divenne poi implacabile alfiere della Controriforma e severo censore delle commedie «lascive et dishoneste» dei comici dell’Arte.[98] Sua la firma su un contratto stipulato il 5 gennaio 1543 con il pittore Prospero Fontana, che si impegnava a «fare una scena finta Ferrara» per la commedia e inoltre a fornire i costumi e a realizzare le scenografie per gli intermezzi di argomento mitologico. Motivi di spazio non mi permettono di illustrare quel contratto e tanto meno la memorabile serie di spettacoli che le due accademie misero in scena, congiuntamente, tra carnevale e quaresima,[99] ma preme rilevare come Fontana ebbe significativi rapporti di collaborazione con Giorgio Vasari, per il quale realizzò, tra l’altro, la «scena e prospettiva» per la Cofanaria di Francesco d’Ambra, allestita nel 1565 nel fiorentino Salone dei Cinquecento.[100] Rapporti che vanno anticipati agli anni Quaranta, aprendo così orizzonti interpretativi inediti che consentono (e consentiranno) di meglio comprendere la storia dello spazio scenico cinquecentesco in un momento cruciale, in bilico tra le esperienze romane, quelle fiorentine e la trattatistica serliana.



[1]  Per un primo, sintetico, quadro storico cfr. R. DONDARINI, Breve storia di Bologna, Ospedaletto (Pi), Pacini, 2007.

[2]  Sul sistema delle acque a Bologna, interessante capitolo della storia della città, cfr. almeno: A. ZANOTTI-F. Giordano, Bologna labirinti d’acque. Guida, itinerari e percorsi, Bologna, Persiani, 2015; M. POLI, Bologna: la città delle acque e della seta, Argelato, Minerva, 2017; Il Nettuno architetto delle acque. Bologna. L’acqua della città tra Medioevo e Rinascimento, a cura di F. Ceccarelli e E. Ferretti, Bologna, Bononia University Press, 2018.

[3]  Sullo Studio felsineo, in particolare nel Cinque-Seicento, cfr. G.P. BRIZZI, Matricole ed effettivi. Aspetti della presenza studentesca a Bologna fra Cinque e Seicento, in Studenti e università degli studenti dal XII al XIX secolo, a cura di G.P. BRIZZI e A.I. PINI, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», n.s., 1988, 7, pp. 225-259; ID., Lo Studio di Bologna tra “orbis academicus” e mondo cittadino, in Storia di Bologna, 3/II. Bologna nell’età moderna (secoli XVI-XVIII). Cultura, istituzioni culturali, Chiesa e vita religiosa, a cura di A. Prosperi, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 5-113; D.A. Lines, The University and the City: Cultural Interactions, in A companion to Medieval and Renaissance Bologna, a cura di S.R. Blanshei, Leiden-Boston, Brill, 2018, pp. 436-473.

[4]  Cfr., per i Domenicani: A. D’Amato, I Domenicani a Bologna, Bologna, Edizioni studio domenicano, 1988; ID., I Domenicani e l’Università di Bologna, Bologna, Edizioni studio domenicano, 1988; Università, teologia e Studium domenicano dal 1360 alla fine del Medioevo, a cura di R. LAMBERTINI, Firenze, Nerbini, 2014. Per i Francescani: C. Piana, Chartularium Studii Bononiensis S. Francisci: (saec. 13.-16.), Firenze, X Typographia Collegii S. Bonaventurae, 1970; ID., Postille al “Chartularium Studii Bononiensis S. Francisci”, Grottaferrata, Collegio S. Bonventura, 1986. Sui Serviti mi permetto di rimandare a L. VALLIERI, Il convento di Santa Maria dei Servi: un luogo teatrale ritrovato nella Bologna del Cinquecento, in «Strenna Storica Bolognese», LXX, 2020 (in corso di stampa). Più in generale: A.M. Matteucci Armandi, Originalità dell’architettura bolognese ed emiliana, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 3-16 e passim; M. Turrini, L’insegnamento della teologia, in Storia di Bologna, cit., pp. 437-494.

[5]  Cfr. G. Evangelisti, Leone X e Francesco I a Bologna nel dicembre 1515, in «Strenna Storica Bolognese», XXVIII, 1978, pp. 153-178; N. Rubello, Una solenne entrata? Leone X a Bologna nel dicembre del 1515, in «Schifanoia», 2010, 38-39, pp. 261-270.

[6]  Cfr. G. Sassu, Il ferro e l’oro. Carlo V a Bologna, Bologna, Compositori, 2007; ID., La seconda volta. Arte e artisti intorno a Carlo V a Bologna nel 1532-1533, in Les Poètes de l’Empereur. La cour de Charles-Quint dans le renouveau littéraire du ‎XVIe siècle (1516-1556), a cura di M. Blanco e R. BÈHAR, «e-Spania», 2012, 3, http://e-spania.revues.org/21366 (ultima data di consultazione: 26 febbraio 2020); G. SASSU, Carlo V, Tiziano e il ritratto ‘tutto armato’ dell’imperatore, in «Schifanoia», 2017, 52-53, pp. 299-312. Più in generale: Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, a cura di E. Pasquini e P. Prodi, Bologna, il Mulino, 2002.

[7]  Cfr. A. Prosperi, Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001. Per le ricadute sugli artisti bolognesi: I. Bianchi, La politica delle immagini nell’età della Controriforma: Gabriele Paleotti teorico e committente, Bologna, Compositori, 2008; P. Prodi, Arte e pietà nella Chiesa tridentina, Bologna, il Mulino, 2014.

[8]  Il progetto è stato promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna in collaborazione con il Centro studi sul Rinascimento e l’École pratique des Hautes Études di Paris-Sorbonne. Cfr. Crocevia e capitale della migrazione artistica: forestieri a Bologna e bolognesi nel mondo, a cura di S. Frommel, Bologna, Bononia University Press, 2010-2013, 3 voll.; Da Bologna all’Europa: artisti bolognesi in Portogallo (secoli XVI- XIX), a cura di S. Frommel e M. Antonucci, Bologna, Bononia University Press, 2017.

[9]  I Bibiena. Una famiglia europea, a cura di D. LENZI e J. BENTINI, Venezia, Marsilio, 2007, p. 7.

[10]  Lettera di Albrecht Dürer a Willibald Pirckheimer, Venezia, 13 ottobre 1506 ca., in A. Dürer, Lettere da Venezia, a cura di G.M. Fara, Milano, Electa, 2007, pp. 17, 24, 63-64, 71, 81, 85 (p. 64 per la citazione). Sul soggiorno di Dürer a Bologna cfr. G.M. FARA, Sul secondo soggiorno di Albrecht Dürer in Italia e sulla sua amicizia con Giovanni Bellini, in «Prospettiva», 85, 1997, pp. 91-96; M. Walcher Casotti, Un episodio controverso del soggiorno di Dürer a Venezia: il viaggio a Bologna, in «Arte veneta», 2004, pp. 187-198; M. Mende, Norimberga, Dürer, Roma, In Dürer e l’Italia, a cura di C. Herrmann Fiore, Milano, Electa, 2007 pp. 23-31; L. Aldovini, Bologna 1506: l’incontro grafico tra Marcantonio Raimondi e Dürer, in Crocevia e capitale della migrazione artistica, cit., vol. I, pp. 133-146; A. De Benedictis, Un umanista tedesco tra Bologna e Norimberga, tra le guerre d’Italia e la Riforma in Germania: Christoph Scheurl (1481-1542), ivi, pp. 81-101; A. Grebe, Albrecht Dürer e “l’Arte segreta della prospettiva”. La sintesi di arte e scienza a Bologna nel 1506, ivi, pp. 105-118; S. Ferrari, I viaggi di Dürer in Italia e nei Paesi Bassi: occasioni, motivazioni, incontri, in Dürerweg. Artisti in viaggio tra Germania e Italia, a cura di R. Pancheri, Trento, Giunta della Provincia autonoma di Trento, 2015, pp. 27-50.

[11]  Oltre alla bibliografia registrata alla nota precedente, si veda G.M. Fara, Albrecht Dürer teorico dell’architettura. Una storia italiana, Firenze, Olschki, 1999, pp. 31-39.

[12]  Secondo alcuni studiosi Raffaello soggiornò a Bologna tra il 1506 e il 1507 e in questa occasione entrò in contatto con Dürer. Ma che l’artista fosse al seguito di Giulio II quando questi entrò in città l’11 novembre 1506 è ipotesi tanto seducente quanto indimostrata e (a oggi) indimostrabile. Cfr. G. Perini, Bologna e la letteratura artistica tra Quattro e Cinquecento, in Crocevia e capitale della migrazione artistica, cit., vol. I, pp. 91-101: 100.

[13]  Cfr. Il Viridario de Gioanne Philoteo Achillino bolognese, Bologna, Hieronimo di Plato, 1513. Il poema è tramandato da pochissime copie a stampa; una di queste, conservata all’Archiginnasio, reca numerose correzioni autografe (coll. 16.P.IV.21). Cfr. C. Di Felice, L’esemplare di lavoro del Viridario di Giovanni Filoteo Achillini (Bologna 1513), in «La lingua italiana. Storia, struttura, testi», II, 2006, pp. 43-60. Per un primo inquadramento su Achillini si veda L. Vallieri, «E spe in spem». Accademie, cultura e spettacolo a Bologna nel Cinquecento, tesi di dottorato in Storia dello spettacolo, Università degli Studi di Firenze, Scuola dottorale in Storia dello spettacolo, XXII ciclo, 2010 (tutor: prof. Stefano Mazzoni), pp. 3-59; A. Comboni, Giovanni Filoteo Achillini, in Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, a cura di A. C. e T. Zanato, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2017, pp. 7-13.

[14]  A loro si deve, tra l’altro, la decorazione lignea della cappella Vaselli in San Petronio. Cfr. M. Verga Bandirali, Una famiglia lombarda di maestri del legno: i De Marchi da Crema, in «Arte lombarda», 10, 1965, 2, pp. 53-66; S. Guarino, De Marchi, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1990, vol. 38, pp. 433-435; A. Serrani, Per un riesame della cappella Vasetti in San Petronio: il coro intarsiato e la bottega di Giacomo de Marchi, in Arte e Umanesimo a Bologna. Materiali e nuove prospettive, a cura di D. Benati e G.A. Calogero, Bologna, Bononia University Press, 2019, pp. 211-232.

[15]  Cfr. M. Ferretti, I maestri di prospettiva, in Storia dell’arte italiana, Torino, Einaudi, 1982, vol. XI, pp. 459-585.

[16]  Cfr. E. Fadda, L’Apelle vagabondo e Agostino delle Prospettive: riflessioni sul soggiorno di Dürer in Italia, in Crocevia e capitale della migrazione artistica, cit., vol. I, pp. 119-132.

[17]  Cfr. S. Frommel, Sebastiano Serlio architetto, Milano, Electa, 1998, pp. 98-99; ID., Serlio pittore: fantasia o reltà?, in Arti a confronto. Studi onore di Anna Maria Matteucci, a cura di D. Lenzi, Bologna, Compositori, 2004, pp. 85-95: 95.

[18]  Cfr. Perini, Bologna e la letteratura artistica, cit., pp. 98-99; Arte e Umanesimo a Bologna, cit., passim (volume a cui rimando per la bibliografia precedente).

[19]  Bologna, Biblioteca Universitaria (d’ora in avanti BUB), ms. 250.

[20]  Arte e Umanesimo a Bologna, cit., pp. IX-X.

[21]  Cfr. Bentivolorum Magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. BASILE, Roma, Bulzoni, 1984; F. Bortoletti, Egloga e spettacolo nel primo Rinascimento. Da Firenze alle corti, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 199-226; Le nozze dei Bentivoglio (1487). Cronisti e poeti, a cura di B. Basile e S. Scioli, Napoli, La scuola di Pitagora, 2014.

[22]  Cfr. A.M. Matteucci, La cultura dell’effimero a Bologna nel XVII secolo, in Barocco romano e barocco italiano. Il teatro, l’effimero, l’allegoria, a cura di M. Fagiolo e M.L. Madonna Roma, Gangemi, 1985, pp. 158-173: 159.

[23]  Cfr. S. Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014, pp. XIV (per la cartina), 62-83 (sul tema del viaggio).

[24]  Cfr. S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento (1993), Torino, Einaudi, 2011, pp. 3-51 e fig. 2.

[25]  G.D. Ottonelli, Della christiana moderatione del theatro. Libro quarto detto L’ammonitioni a’ recitanti, per avvisare ogni christiano a moderarsi da gli eccessi nel recitare, Firenze, Bonardi, 1652, p. 128.

[26]  Cfr. Ferrone, Attori mercanti corsari, cit., p. 4.

[27]  Cfr. L. Vallieri, Drammaturgie imperiali a Bologna: l’‘Amor costante’ di Alessandro Piccolomini (1542), in «Drammaturgia», XV / n.s. 5, 2018, pp. 291-323.

[28]  Cfr. L. Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna (1543), in «Drammaturgia», XI / n.s. 1, 2014, pp. 347-368; Teatro ed eresia a Bologna nel Cinquecento. Con edizione critica della “Tragedia” e de “La Fante” di Giuseppe Baroncini, a cura di M. Canova e R. Trovato, Canterano (RM), Aracne, 2019; Vallieri, Il convento di Santa Maria dei Servi, cit.

[29]  Lettera di Pietro Aretino a Jacopo Gigli, Venezia, 16 dicembre 1537. La testimonianza si può ora leggere nell’Edizione nazionale delle opere di Pietro Arentino curata da Paolo Procaccioli (Roma, Salerno editrice, 1997, to. I, libro I, pp. 404-405, lettera n. 293). Mio il corsivo.

[30]  Cfr. Vallieri, «E spe in spem». Accademie, cultura e spettacolo a Bologna, cit., pp. 3-59; F. Lucioli, Intorno all’accademia del Viridario, in Le virtuose adunanze. La cultura accademica tra XVI e XVIII secolo, a cura di C. Gurreri e I. Bianchi, Avellino, Sinestesie, 2015, pp. 237-248.

[31]  Così M. Maylender, Storia delle accademie d’Italia, Bologna, Cappelli, 1926-1930, vol. V, p. 477.

[32]  Cfr. almeno A. Angelini, Simboli e questioni. L’eterodossia culturale di Achille Bocchi e dell’Hermatena, Bologna, Pentragon, 2003; I. Bianchi, Iconografie accademiche. Un percorso attraverso il cantiere editoriale delle “Symbolicae Quaestiones” di Achille Bocchi, Bologna, Clueb, 2012.

[33]  Cfr. Il terzo libro di Sebastiano Serlio Bolognese, nel qual si figurano, e descrivono le antiquità di Roma, e le altre che sono in Italia, e fuori d’Italia. Venezia, Marcolino, 1540, p. 155.

[34]  Cfr. Il Viridario de Gioanne Philoteo Achillino bolognese, cit., p. 187. Ma si pensi anche al ‘catalogo’ dei maggiori artisti contemporanei dipanato nell’opera.

[35]  Composto presumibilmente tra il 1512 e il 1513 e tutt’oggi inedito, è conservato in due copie manoscritte rispettivamente alla Biblioteca Universitaria di Bologna (ms. 410) e all’Archiginnasio (ms. B. 3131). Secondo alcuni eruditi esisterebbe un’edizione a stampa (Bologna, Girolamo di Plato, 1523) oggi perduta, ma si tratta probabilmente di un errore. Sull’opera cfr. P. Traversa, Il Fidele di Giovanni Filoteo Achillini. Poesia, sapienza e «divina» conoscenza, Modena, Mucchi, 1992.

[36]  Cfr. Vallieri, «E spe in spem». Accademie, cultura e spettacolo a Bologna, cit., pp.16-25.

[37]  G. Perini, La storiografia artistica a Bologna e il collezionismo privato, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe in Lettere e Filosofia, s. III, XI/1, 1981, pp. 181-243: 186 (poco condivisibile la definizione di «perifericità culturale»). Posizione che la studiosa ha recentemente ripreso: «confermo perciò qui la mia ormai trentennale rivendicazione a Giovanni Filoteo Achillini, al suo Viridario (in una data che per pubblicazione è il 1513, anno VII di dominio ecclesiale, ma in realtà è il Natale 1504, penultimo di dominio bentivolesco) della prima certa ed inequivoca affermazione felsinea di partecipazione alla disputa sulla nobiltà dell’arte figurativa e di conseguente schieramento quasi obbligato sul fronte maggioritario della pittura – in un’ottica che potremmo tanto indifferentemente quanto impropriamente definire albertiana (“la pittura essere maestra, o certo non picciolo ornamento a tutte le cose”), leonardesca (“la pittura è di maggiore discorso mentale e di maggiore artifizio e maraviglia che la scultura”) o semplicemente – e più correttamente a quanto s’è visto – cortigiana» (Perini, Bologna e la letteratura artistica, cit., pp. 92-93).

[38]  Cfr. C. Franzoni, Le raccolte del “Theatro” di Ombrone e il viaggio in oriente del pittore: le “Epistole” di Giovanni Filoteo Achillini, in «Rivista di letteratura italiana», VIII, 1990, 2, pp. 287-335.

[39]  Su di lui cfr. almeno M. Faietti-D. SCAGLIETTI KELESCIAN, Amico Aspertini, Modena, Artioli, 1995, in partic. pp. 89-94 (per i rapporti con Achillini); Amico Aspertini 1471-1552. Artista bizzarro nell’età di Dürer e Raffaello, a cura di A. Emiliani- D. Scaglietti Kelescian, Milano, Silvana, 2008.

[40]  Cfr. Faietti-SCAGLIETTI KELESCIAN, Amico Aspertini, cit., p. 90. Su Achillini come collezionista e antiquario cfr. Perini, La storiografia artistica a Bologna e il collezionismo privato, cit., pp. 185-187; S. De Maria, Artisti, «antiquari» e collezionisti di antichità a Bologna fra XV e XVI secolo, in Bologna e l’Umanesimo 1490-1510, a cura di M. Faietti e K. Oberhuber, Bologna, Nuova Alfa, 1988, pp. 17-42; ID., Fra corte e Studio. La cultura antiquaria a Bologna nell’età dei Bentivoglio, in Il contributo dell’Università di Bologna alla storia della città. L’evo antico, a cura di G.A. Mansuelli e G.C. Susini, Bologna, Comune di Bologna, 1989, pp. 151-216: 193-198.

[41]  Cfr. Faietti-SCAGLIETTI KELESCIAN, Amico Aspertini, cit., pp. 90-91, 93. Ad Aspertini si deve, tra l’altro, il Ritratto di Alessandro Achillini (1515-1521, olio e tempera su tavola) conservato alle Gallerie degli Uffizi (inv. 1890 n. 10556) assieme al disegno con il Ritratto di Giovanni Achillini detto il Filoteo, realizzato da Francesco Francia intorno al 1507-1509 (Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi [d’ora in avanti GDSU], inv. 1445 F). Cfr. D’odio e d’amore. Giorgio Vasari e gli artisti a Bologna, a cura di M. Faietti e M. Grasso, Firenze, Giunti, 2018, pp. 100-101.

[42]  Perini, Bologna e la letteratura artistica, cit., p. 94.

[43]  Pubblicate una prima volta nel 1555 nella stamperia dell’accademia, le Quaestiones vennero ristampate dalla Società tipografica Bolognese nel 1574 con i simboli ritoccati dai Carracci. Si tratta di una raccolta di 151 simboli, ciascuno dei quali composto da un testo latino in versi e da un’incisione e titolato a un diverso dedicatario da collegare alla variegata cerchia delle frequentazioni bocchiane: inquisitori e alti prelati, appartenenti ai circoli antitrinitari e sociniani, Gaspare Contarini e il milieu degli Spirituali. Né da sottovalutare la protezione accordata all’accademia dal cardinale Farnese e da papa Paolo III. Su Achille Bocchi e sull’accademia, bastino i già ricordati Angelini, Simboli e questioni, cit. e Bianchi, Iconografie accademiche, cit. Per una edizione critica dell’opera rimando a A. Rolet, Les Questions symboliques d’Achille Bocchi. Symbolicae quaestiones, 1555. Introduction et édition critique du texye latin, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2015. Alla studiosa si devono numerosi approfondimenti sui simboli bocchiani, solo in parte raccolti in Dans le cercle d’Achille Bocchi. Culture emblématique et pratiques académiques à Bologne au XVIe Siècle, Tours, Presses Universitaires François-Rebelais, 2019.

[44]  Così Bocchi definisce l’accademia nel Simb. CXXVI. Cfr. A. Angelini, La domus academiae, in Le virtuose adunanze, cit., pp. 287-301.

[45]  Angelini, Simboli e questioni, cit., p. 8.

[46]  Per i simboli che non ho potuto pubblicare rimando alle riproduzioni del volume di Bocchi liberamente consultabili su Google books.

[47]  Palazzo Bocchi, a cura di M. Danieli e D. Ravaioli, Bologna, Minerva, 2006, p. 15.

[48]  Sul palazzo cfr. J.K. Schmidt, Zu Vignolas Palazzo Bocchi in Bologna, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XIII, 1967, pp. 83-94; D. Monari, Palazzo Bocchi e l’opera rustica secondo il Vignola, in Natura e artificio. L’ordine rustico, le fontane, gli automi nella cultura del Manierismo europeo, a cura di M. Fagiolo, Roma, Officina edizioni, 1979, pp. 113-128; ID., Palazzo Bocchi: il quadro storico e l’intervento del Vignola, in «Il Carrobbio», VI, 1980, pp. 263-272; R. Scannavini, MDXLV Palazzo Bocchi. Una dimora nobile d’alta epoca rinascimentale, Bologna, Grafis, 1991; Palazzo Bocchi, cit.; Matteucci Armandi, Originalità dell’architettura bolognese ed emiliana, cit., pp. 250-254; F. Mattei, Architettura, committenza, eterodossia: Palazzo Naselli a Ferrara e Palazzo Bocchi a Bologna (1530-1555), in «Schifanoia», 2011, 40-41, pp. 165-182. Da integrare con la bibliografia fornita nelle prossime note. La data 1545 ricorre nell’iscrizione sotto la finestra del piano nobile: «supra petram verbi Dei / Domum hanc Achillis Bocchius / fundavit MDXLV» e trova un riscontro documentale in alcuni contratti stipulati da Bocchi per la fornitura e la realizzazione dei conci e delle bugne per la scarpa e il toro. Cfr. Contratti di Achille Bocchi, 28 luglio e 25 settembre 1545, Bologna, Archivio di stato, fondo notarile, Notaio Pietro Zanettini, ms., 24/116 24/175 e 24/194.

[49]  Cfr. Gaetano Ferratini, Palazzo Buchi ora de Pielli, sec. XVIII, disegno, Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio (d’ora in avanti BCAB), ms. Gozz. 79-81. Sugli interventi successivi alla morte di Bocchi cfr. M. Orietti, Cronica o sia diario nel quale si descrivono le opere di pittura e tutto ciò che accade intorno alle Belle Arti in Bologna, 1764-1786, BCAB, ms. B. 106, c. 142. E v. Scannavini, MDXLV Palazzo Bocchi, cit., pp. 25-28, 61-73.

[50]  Giulio Bonasone, Progetto per la facciata di palazzo Bocchi a Bologna, 1545, incisione, Roma, Istituto centrale per la grafica, inv. F.C. 71269, vol. 26 M 26; Progetto per la facciata di palazzo Bocchi a Bologna, 1555, incisione, Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. ua 12232. Per una lettura critica delle due immagini: Giulio Bonasone, a cura di S. Massari, Roma, Quasar, 1983, vol. I, pp. 52-53; Palazzo Bocchi, cit., pp. 24-26.

[51]  Sulla diffusione dell’ebraico a Bologna tra Medioevo e Rinascimento cfr. La cultura ebraica a Bologna tra Medioevo e Rinascimento, a cura di M. Perani, Firenze, La Giuntina, 2002. Più specificatamente sull’uso dell’ebraico da parte di Bocchi cfr. Verso l’epilogo di una convivenza. Gli ebrei a Bologna nel XVI secolo, a cura di G. Muzzarelli, Firenze, La Giuntina, 1996, pp. 130-131; G. Busi, L’enigma dell’ebraico nel Rinascimento, Torino, Aragno, 2007, pp. 187-195.

[52]  Mentre nella cornice di coronamento della facciata si alternano delle protomi leonine e dei bucrani; e abbiamo già visto il significato dei due simboli.

[53]  Il significato dell’impresa viene esplicitato da G. Sambigucci, In Hermathenam Bocchiam interpretatio, Bologna, Antonio Manuzio, 1556, pp. 120-150.

[54]  Cfr. E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Milano, Adelphi, 1958, p. 249.

[55]  Cfr. Palazzo Bocchi, cit., p. 25.

[56]  Cfr. Scannavini, MDXLV Palazzo Bocchi, cit., p. 53.

[57]  Ibid.

[58]  Cfr. ivi, p. 54.

[59]  Sull’attribuzione a Vignola cfr. almeno M. Walcher Casotti, Il Vignola, Trieste, s.e., 1960, pp. 60-62, 143-146; Schmidt, Zu Vignolas Palazzo Bocchi in Bologna, cit.; G. Cuppini, I palazzi senatorii a Bologna. Architettura come immagine del potere, Bologna, Zanichelli, 1974, pp. 26-28; Monari, Palazzo Bocchi e l’opera rustica secondo il Vignola, cit.; ID., Palazzo Bocchi: il quadro storico e l’intervento del Vignola, cit.; R. Tuttle, Jacopo Barozzi da Vignola, Milano, Electa, 2002, pp. 43-45, 72-75, 149-152.

[60]  Cfr. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino, Einaudi, 1985, pp. 98-101 (attribuzione negata da Frommel, Sebastiano Serlio architetto, cit., p. 61).

[61]  Cfr. B. Adorni, Giulio Romano architetto in Emilia: un successo irresistibile negli anni Quaranta del Cinquecento, in Arti a confronto, cit., pp. 97-102.

[62]  Cfr. L. Sighinolfi, Nuova guida di Bologna, Bologna, Cappelli, 1915, pp. 45-47.

[63]  Cfr. Palazzo Bocchi, cit., pp. 26-38.

[64]  Cfr. A.M. Orazi, Jacopo Barozzi da Vignola 1528-1550. Apprendistato di un architetto bolognese, Roma, Bulzoni, 1982, pp. 171-205; A. Belluzzi, La facciata: i progetti cinquecenteschi, in La basilica di San Petronio in Bologna, a cura di M. Fanti, Cinisello Balsamo (Mi), Amilcare Pizzi, 1983-1984, vol. II, pp. 7-28: 16-17; La basilica incompiuta. Progetti antichi per la facciata di San Petronio, a cura di M. Faietti e M. Medica, Ferrara, Edisai, 2001, pp. 90-94; Tuttle, Jacopo Barozzi da Vignola, cit., pp. 29-31, 139-148.

[65]  Cfr. ivi, pp. 28-29. Sui rapporti tra Vignola e Manzoli cfr. anche M. Daly Davis, Jacopo Vignola, Alessandro Manzuoli und die Villa Isolani in Minerbio: zu den frühen Antikenstudien von Vignola, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XXXVI, 1992, pp. 287-328.

[66]  Cfr. Adorni, Giulio Romano architetto in Emilia, cit., pp. 97-98.

[67]  Cfr. Belluzzi, La facciata: i progetti cinquecenteschi, cit., pp. 17-18; Giulio Romano, a cura di E.H. Gombrich et al., Milano, Electa, 2019, pp. 548-549 (scheda curata da Richard Tuttle); La basilica incompiuta, cit., pp. 95-98.

[68]  Cfr. Giulio Romano, cit., pp. 572-573 (scheda curata da Richard Tuttle). Sui rapporti tra Bocchi e Boccadiferro cfr. Angelini, Simboli e questioni, cit., pp. 12-13.

[69]  Cfr. Giulio Romano, cit., pp. 536-537 (scheda curata da Manfredo Tafuri); Palazzo Bocchi, cit., pp. 30-31.

[70]  Cfr. S. Serlio, Regole generali di architettura sopra le cinque maniere de gli edifici, cioè, thoscano, dorico, ionico, corinthio, et composito, con gli esempi dell’antiquità, che, per la maggior parte concordano con la dottrina di Vitruvio, Venezia, Marcolini, 1537; Il terzo libro di Sebastiano Serlio Bolognese, nel qual si figurano, e descrivono le antiquità di Roma, cit. L’intero corpus delle opere di Serlio è oggi leggibile nell’edizione curata da Francesco Paolo Fiore nel 2001 per la casa editrice milanese Il Polifilo.

[71]  Cfr. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, cit., pp. 96-101; A.M. Matteucci, Per una preistoria di Sebastiano Serlio, in Sebastiano Serlio, a cura di C. Thoenes, Milano, Electa, 1989, pp. 19-21; R. Tuttle, Sebastiano Serlio bolognese, ivi, pp. 22-29: 27-29; Frommel, Sebastiano Serlio architetto, cit., pp. 14-15; Palazzo Bocchi, cit., pp. 32-33.

[72]  Tafuri, Venezia e il Rinascimento, cit., pp. 100-101. E cfr. D. Lenzi, Palazzo Fantuzzi: un problema aperto e nuovi dati sulla residenza di Serlio a Bologna, in Sebastiano Serlio, cit., pp. 30-38: 31.

[73]  Inv. 15728, IT.45. Cfr. C.L. Frommel, «Ala maniera e uso delj bonj antiqui». Baldassarre Peruzzi e la sua quarantennale ricerca dell’antico, in Baldassarre Peruzzi 1480-1536, a cura di C.L. F., Venezia, Marsilio, 2005, pp. 3-30: 30 (per l’ipotesi sul disegno). Su Peruzzi scenografo cfr. F. Cruciani, Gli allestimenti scenici di Baldassarre Peruzzi, in «Bollettino del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio», XVI, 1974, pp. 155-172; ID., Teatro nel Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma, Bulzoni, 1983, passim.

[74]  Baldassarre Peruzzi, Adorazione dei Magi, 1522-1523, disegno, Londra, British Museum, Departement of Prints and Drawings, inv. 1944-5-14-49. Cfr. V. Fortunati, Spie indiziarie per la storia di una committenza: Battista Bentivoglio, in Il Cinquecento a Bologna. Disegni dal Louvre e dipinti a confronto, a cura di M. Faietti, Milano, Electa, 2002, pp. 17-24.

[75]  Cesena, Crédit Agricole-Fondazione cassa di risparmio di Cesena.

[76]  Londra, National Gallery.

[77]  Cfr. A. Giannotti, Bologna crocevia di forestieri: la scultura 1520-1540, in Alfonso Lombardi. Il colore, il rilievo, a cura di M. Calogero e A. G., Rimini, NCF, 2020, pp. 41-57: 41.

[78]  Cfr. C. Acidini Luchinat, Nota preliminare al restauro della cappella Ghisilardi a Bologna, in Baldassarre Peruzzi. Pittura, scena e architettura nel Cinquecento, a cura di M. Fagiolo e M.L. Madonna, Roma, Treccani, 1987, pp. 79-102; S. Bettini, Baldassarre Peruzzi e la cappella Ghisilardi. Origine, occultamento e recupero di un’opera nella basilica di San Domenico a Bologna, Reggio Emilia, Diabasis, 2003.

[79]  Cfr. Belluzzi, La facciata: i progetti cinquecenteschi, pp. 7-16; R. Tuttle, Baldassarre Peruzzi e il suo progetto di completamento per la Basilica petroniana, in Una basilica per una città, cit., pp. 243-250. Sulla presenza di Peruzzi a Bologna cfr. anche M. Faietti, Peruzzi e i bolognesi: indizi per la ricostruzione di un rapporto privilegiato, in Baldassarre Peruzzi 1480-1536, cit., pp. 155-167.

[80]  Cfr. Tuttle, Sebastiano Serlio bolognese, cit., p. 27.

[81]  Cfr. A. Giannotti, Tribolo giovane e le figure “meravigliose” di San Petronio, in «Nuovi studi», 2012, 18, pp. 167-184.

[82]  A. Giannotti, Sebastiano Serlio, Niccolò Tribolo e l’eredità di Baldassarre Peruzzi: l’altare della Madonna della Galliera a Bologna, in «Prospettiva», 2015, 159-160, pp. 174-196: 174.

[83]  Cfr. V. Alce, Sebastiano Serlio e le tarsie di fra Damiano Zambelli in San Domenico, in «La famèia bulgnèisa. Strenna», 1957, pp. 7-21; ID., Fra Damiano Zambelli da Bergamo († 1549): regesto dei documenti, in «Bergomum», 1991, pp. 77-149; ID., La basilica di San Domenico in Bologna, Bologna, Edizioni studio domenicano, 1997; ID., Il coro intarsiato di San Domenico in Bologna, Bologna, Edizioni studio domenicano, 2002 (con ricco apparato iconografico). E v. Ferretti, I maestri di prospettiva, cit., pp. 554-560; M. Ricci, «Varietà» e «bizzarria». Baldassarre Peruzzi e la tarsia lignea di fra’ Damiano Zambelli con il ‘Battesimo di San Domenico’, in La percezione e la rappresentazione dello spazio a Bologna e in Romagna nel Rinascimento tra teoria e prassi, a cura di M. PIGOZZI, Bologna, Clueb, 2007, pp. 87-112.

[84]  Cfr. G. Donati, Il ruolo dell’arte in Leandro Alberti, in L’Italia dell’Inquisitore. Storia e geografia dell’Italia del Cinquecento nella ‘Descrittione’ di Leandro Alberti, a cura di M. Donattini, Bologna, Bononia University Press, 2007, pp. 117-133: 124-128; Alce, Il coro intarsiato di San Domenico in Bologna, cit., pp. 44-47.

[85]  Cfr., oltre alle referenze fornite alle note precedenti, M. Trionfi Honorati, Una tarsia di Fra Damiano da Bergamo con la Flagellazione e la figura di Papa Paolo III, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XLIII, 1999, pp. 639-644.

[86]  Cfr. Alce, Sebastiano Serlio e le tarsie di fra Damiano Zambelli in San Domenico, cit.; ID., Il coro intarsiato di San Domenico in Bologna, cit., pp. 32-87.

[87]  Sui complessi rapporti tra arte prospettica, tarsie lignee e teatro cfr. Ferretti, I maestri di prospettiva, cit., pp. 569-574; ID., Casamenti seu prospective. Le città degli intarsiatori, in Imago urbis. Dalla città reale alla città ideale, a cura di C. De Seta e M. F., Milano, Franco Maria Ricci, 1986, pp. 75-104; A. Chastel, Nelle città di legno. Musaici di legname cioè tarsie, in «FMR», VI, 1987, 50, pp. 76-82. Con la avvertenza che tali rapporti impongono la massima cautela critica.

[88]  Il passo in cui Serlio descrive la «piazza della scena» può ora essere letto in F. Marotti, Storia documentaria del teatro italiano. Lo spettacolo dall’Umanesimo al Manierismo. Teoria e tecnica, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 195.

[89]  Cfr. ALCE, Il coro intarsiato di San Domenico in Bologna, cit., p. 195.

[90]  Cfr. Frommel, Serlio pittore: fantasia o reltà?, cit., pp. 85-95; Ricci, «Varietà» e «bizzarria», cit., pp. 87-112. Negli studi indicati vengono presi in esame i singoli elementi delle tarsie in un serrato confronto con le incisioni delle tre scene di Serlio. A questi rimando per analisi più dettagliate.

[91]  Cfr. almeno Daly Davis, Jacopo Vignola, Alessandro Manzuoli und die Villa Isolani in Minerbio, cit. Non dimentichiamo che già l’erudito Cesare Nappi, cortigiano dei Bentivoglio e amico di Achillini, si era interessato al testo di Vitruvio di cui aveva studiato la trattazione degli ordini architettonici e riprodotto alcuni disegni esemplificativi, oggi visibili nel suo inedito zibaldone Palladium eruditum (BUB, ms. 52). Cfr. De Maria, Fra corte e Studio. La cultura antiquaria a Bologna nell’età dei Bentivoglio, cit., pp. 189-192.

[92]  Cfr. A. CARO, Lettere familiari. Volume secondo: luglio 1546-luglio 1559. Edizione critica con introduzione e note di Aulo Greco, Firenze, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento-Le Monnier, 1959, pp. 195-196, 229-230, 232-233, 312-313; ID., Lettere familiari. Volume terzo: agosto 1559-luglio 1566. Edizione critica con introduzione e note di Aulo Greco, Firenze, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento-Le Monnier, 1961, pp. 7-10, 94-95.

[93]  Lettera di Annibal Caro a M…, Roma, 21 ottobre 1559, ora ivi, pp. 7-9.

[94]  Cfr. Vallieri, «E spe in spem». Accademie, cultura e spettacolo a Bologna, cit., pp. 61-198; Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna, cit., pp. 347-368.

[95]  Cfr. L. Puppi-D. Battilotti, Andrea Palladio, Milano, Electa, 2006, pp. 251-254, 261-265, 311-313, 401-403, 447, 450-452, 479, 488-489 (e relativa bibliografia); Palladio, a cura di H. Burns e G. Beltramini, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 40-43; Vallieri, «E spe in spem». Accademie, cultura e spettacolo a Bologna, cit., passim.

[96]  Cfr. L. Beccanuvoli, Tutte le donne vicentine maritate, vedove e dongelle (1539), Vicenza, Editrice veneta, 2008.

[97]  Cfr. F. Bandini, La letteratura in dialetto dal Cinquecento al Settecento, in Storia di Vicenza, III/2. L’età della Repubblica veneta (1404-1797), a cura di F. Barbieri e P. PRETO, Vicenza, Neri Pozza, 2008.

[98]  Cfr. Vallieri, «E spe in spem». Accademie, cultura e spettacolo a Bologna, cit., passim.

[99]  Cfr. Vallieri, Prospero Fontana pittore-scenografo a Bologna, cit.

[100]  Si riveda la bibliografia registrata alla nota precedente. Su Vasari e gli artisti bolognesi cfr., da ultimo, D’odio e d’amore. Giorgio Vasari e gli artisti a Bologna, cit.



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