logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Francesca Rigato

Tino Carraro: l’attore di regia prima della regia. Il lavoro e gli spettacoli della compagnia Adani-Carraro-Calindri-Gassman diretta da Luchino Visconti

Data di pubblicazione su web 13/11/2020
.

Carraro e le compagnie teatrali italiane

Tino Carraro è l’attore di regia italiano per eccellenza, colui che è stato protagonista di tutti gli spettacoli strehleriani più importanti. Agostino Carraro nasce il 1° dicembre 1910 in corso Magenta a Milano, primogenito di Ernesto e di Giulia Massimo, entrambi originari della provincia di Rovigo.[1] Gli anni dell’infanzia sono segnati dagli avvenimenti della Prima guerra mondiale: dopo aver frequentato la scuola, ottiene il primo impiego come bancario al Banco di Roma, che deve presto abbandonare per la leva obbligatoria. Al suo ritorno, dopo diciotto mesi, approda alla vendita di automobili francesi Renault ma le sanzioni decretate dall’Italia fascista e l’autarchia costringono la concessionaria a chiudere.

È la fortuna di Carraro: decide di seguire finalmente quello che è un sogno nel cassetto e nel 1938 si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, scuola che paga lavorando come venditore di pezzi di ricambio per quelle stesse automobili che non potevano più essere vendute. 

La scuola dei Filodrammatici, diretta in quegli anni da Emilia Varini ed Ettore Berti ha tra gli allievi di dizione e recitazione Franco Parenti e Giorgio Strehler. Durante il saggio finale Carraro vince il premio accademico per la sua interpretazione disinvolta e matura nel primo atto della Porta chiusa di Marco Praga e ne Il Poeta, atto unico di Dario Niccodemi. 

Un ricordo di quegli anni in Accademia sono i prematuri progetti con Giorgio Strehler e Paolo Grassi, dei quali racconta: 

Eravamo sempre i soliti, davanti a un fiasco di vino, in una pizzeria vicino all’Accademia, che alla sera facevamo le ore piccole perdendoci in progetti più grandi di noi: Giorgio Strehler, Paolo Grassi e io. Ma fra i compagni d’accademia c’era una ragazza buona, meravigliosa, di nome Maria, che mandò in fumo tutte le mie bellicose idee di scapolo. La sposai nel 1940, la buona e meravigliosa Maria.[2]

Nel 1940 sposa l’attrice Mary Mayer dalla quale ha due figlie, Anna Maria, nata nel 1944, e Roberta, nata nel 1947. La moglie gli resta a fianco per tutta la vita, abbandonando la professione d’attrice per restare a casa con le figlie.

Carraro e il mondo del teatro all’antica italiana

Carraro assiste e partecipa come attore al declino del sistema professionista della compagnia: quelli della sua formazione in Accademia sono anni di svolta per il teatro italiano che nel decennio che va dalla fine degli anni Trenta all’inizio degli anni Cinquanta è investito da diversi cambiamenti. Innanzitutto il modello produttivo della compagnia teatrale italiana all’antica, basata sui ruoli, lascia spazio a una nuova figura, quella del regista, che pone ordine e razionalità nell’organizzazione dello spettacolo. In secondo luogo si afferma il teatro di rivista: un nuovo genere, rinforzatosi a seguito della crisi del varietà e dell’operetta, di enorme attrattiva per il pubblico. Infine molte compagnie si sciolgono: nel 1935 ne sono riconosciute come primarie solo ventidue.[3]

 Negli anni Trenta il regime fascista interviene sulla scena italiana condizionando la vita del teatro. Dal punto di vista drammaturgico è un’epoca di stagnazione, in cui le opere della tradizione sono regolarmente messe in scena, là dove invece non c’è molto spazio per le nuove tendenze e la sperimentazione. In questo periodo emerge un diverso tipo di compagnia in cui il ruolo del capocomico è assunto da un impresario-finanziatore e il primo attore è scritturato al pari degli altri attori. Ci sono ancora i ruoli fissi, ma non c’è differenza di stipendio tra i membri della troupe.

Nel corso degli anni Quaranta la regia e il ruolo del regista iniziano a espandersi. In un primo momento i registi sono a capo delle compagnie, sostituendo la direzione del capocomico, in una fusione che mostra come due modalità di approccio alla scena apparentemente opposte si completino a vicenda. Carraro entra a far parte di alcune compagnie italiane proprio durante questo periodo di transizione, nel quale l’arrivo di Visconti con il suo nuovo metodo di lavoro è certo l’evento che più radicalmente contribuisce a cambiare il teatro italiano. La carriera artistica dell’attore ha una svolta nel 1939 grazie a due importanti avvenimenti: debutta in Molto rumore per nulla di William Shakespeare, con la regia di Domenico Benassi, ed entra a far parte della Reale Compagnia dell’Accademia di Roma diretta da Silvio D’Amico, che vedendolo recitare nel saggio finale della scuola dei Filodrammatici lo assume in formazione già nel 1940. Da questo momento inizia la militanza di Carraro nelle migliori troupes italiane.

L’attore ricorda i primi anni della sua carriera con queste parole:

mi iscrissi all’Accademia Filodrammatici di Milano, avendo come maestri la Varini e Berti. Al saggio finale con La porta chiusa di Marco Praga, fui notato da Silvio d’Amico, il quale l’indomani m’inviò il regista Brissoni per offrirmi di far parte della compagnia della Accademia di Roma, in formazione. Accettai con entusiasmo, tanto più che la paga, uguale per tutti i componenti quel complesso, era fissata in lire 75 giornaliere. Una paga rispettabile per l’anno 1940, anno del mio esordio sulle scene, diremo così ufficiali. Iniziare la mia carriera d’attore e prender moglie fu tutt’uno. Il viaggio di nozze lo facemmo girando con la compagnia e quelle 75 lire il giorno non solo ci concessero tanto lusso, ma ci permisero anche di fare risparmi onde trascorrere il periodo di vacanze estive nel più meritato dei riposi. Dopo la compagnia dell’“Accademia”, con la quale rappresentammo al “Nuovo” di Milano Arrivi e partenze e Lungo pranzo di Natale di Thornton Wilder, entrai nella compagnia Maltagliati-Cimara. Naturalmente, oramai, a far l’attore ci provavo gusto, e quel filodrammaticare di prima mi si rivelava come segno premonitore di quella che avrebbe dovuto essere in definitiva la mia carriera. Carriera di attore e di padre (ho due figlie che vivono con la mamma a Roma, perché ho casa in quella città). Fra le interpretazioni che mi hanno dato maggiori soddisfazioni quella de L’abisso di Giovaninetti con Diana Torrieri. Vorrei anche poter raccontare qualche cosa di eccezionale occorsomi durante il mio continuo apparire alla ribalta ma lo dovrei inventare, perché a me non è capitato mai nulla di eccezionale. Una vita del tutto normale. Naturalmente se fossi un attore d’oltre oceano questa sarebbe cosa imperdonabile. E allora ci penserebbero gli specialisti della pubblicità ad inventarne di cotte e di crude.[4]

Negli anni successivi fa parte di altre compagnie, tra cui la Maltagliati-Cimara[5] (1941-1942) con la quale, sotto la direzione di Ettore Giannini,[6] esordisce nel 1941 interpretando il personaggio di Wronskj in Anna Karenina. Successivamente lavora per un anno nella Compagnia Drammatica dell’E.T.I. (1943-1944). Dal 1944 al 1946 è attore della compagnia Adani-Carraro-Calindri-Gassman, diretta inizialmente da Ernesto Sabbatini,[7] attore di tradizione, che impone alla troupe la distribuzione delle parti per ruoli, obbligo dovuto anche all’esigenza di variare continuamente il repertorio.

Nel 1946, alle porte dell’estate, Carraro fa parte della compagnia Maltagliati-Randone diretta da un venticinquenne Strehler intento ad affrontare, in meno di due mesi, quattro titoli diversi da rappresentare all’Odeon: Teresa Raquin di Émile Zola, Desiderio sotto gli olmi di Eugene O’Neill, Una donna libera di Armand Salacrou e Winterset (Sotto i ponti di New York) di Maxwell Anderson. Oltre ai due attori principali e a Tino Carraro, la compagnia alterna nel corso degli spettacoli altri nomi, come Bella Starace Sainati, Mario Feliciani, Franco Parenti, Hans Hinrich e Gianrico Tedeschi. 

Nel medesimo periodo, Carraro interpreta con la Compagnia del Piccolo Teatro di Roma (1951-1952) diretto da Orazio Costa Le colonne della società di Ibsen e Così è (se vi pare) di Pirandello. Durante questi primi anni di carriera l’attore accetta tutti i ruoli che gli sono proposti per riuscire a mantenere la sua famiglia e poter comunque continuare a lavorare in teatro. Entra a far parte di numerose compagnie anche solo per un anno o due come la Torrieri-Carraro (1949-1950).    

Collabora con le più grandi personalità dell’epoca, da Domenico Benassi a Ruggero Ruggeri, da Renzo Ricci a Luchino Visconti. Pian piano, soprattutto con l’arrivo di Visconti, in Italia il teatro si trasforma: il regista abolisce il suggeritore, impone che lo spettacolo inizi in orario, che non sia più solo un luogo d’incontro per fare conversazione, e dà una struttura ben definita alla scena. Così ricorda: «Più che un lavoro d’invenzione, da principio il nostro fu un lavoro di ripulitura. Bisognava mettere ordine sul palcoscenico, imporre una disciplina di tipo nuovo agli attori, e dare allo spettacolo una precisa impronta di verità».[8]

Il lavoro di Visconti con l’attore inizia con le prove a tavolino:

Io faccio delle lunghissime prove a tavolino: dieci, quindici, venti giorni, secondo quanto è necessario, in cui ognuno prende possesso del suo personaggio, del suo testo che viene corretto, ricorretto, tagliato, messo a punto, perché lascio a tutti la libertà di lavorare a fondo il personaggio, guidando naturalmente verso la direzione giusta.[9]

Le prove sul palco poi sono sempre seguite dal regista che, nel caso di Visconti, impone la sua idea all’attore: «l’attore può avere il suo punto di vista; ma siccome io ho il mio, poi lo porto sul mio, evidentemente; non è che poi io vada sul suo, lo convinco».[10] L’ammirazione di Carraro per la professionalità e la bravura di Visconti lo porta a sapersi adeguare al meglio a questo metodo, con una duttilità per nulla scontata per un attore dell’epoca.

In questi anni i modelli di recitazione di Carraro sono quelli della grande tradizione all’italiana, da cui impara le basi della sua arte prima del grande sodalizio con Strehler e il Piccolo Teatro di Milano, che lo segna per il resto della sua vita. In un’intervista Carraro spiega la differenza della sua recitazione prima e dopo Strehler:

Volendo cercare una differenza fra la recitazione all’italiana di allora e il dopo Strehler potremmo dire che allora c’era più Diderot e meno Brecht. Più naturalismo, più attenzione alla resa veristica e meno ricerca delle possibilità del testo, mancava un metodo scientifico nella sua penetrazione e nella sua resa. Nonostante i progressi di questi ultimi anni, resta valida la grande eredità della recitazione all’italiana, soprattutto per due aspetti: la pulizia nella recitazione e l’onestà nel credere al personaggio. Pulizia nella recitazione significa non ricorrere agli spilli del sarto per sistemare le cose; credere nel personaggio non significa identificarsi con lui, ma credere nel senso che ha proporlo, presentarlo al pubblico.[11]

In effetti il metodo di recitazione formulato da Diderot contiene elementi sviluppati in seguito da Brecht: il primo svela che l’interprete non è né un passivo imitatore, né un artista che basa la sua arte sulla sola sensibilità o sullo slancio romantico delle passioni. C’è bisogno che l’attore non solo studi i grandi modelli precedenti, ma si affidi, nell’interpretazione, alla razionalità che gli permette così di ottenere risultati costanti. In questo modo, Diderot assegna all’attore lo statuto di creatore e non di imitatore, mettendolo al pari dell’autore teatrale: è questo l’aspetto che più si addice a Carraro.

Il lavoro della compagnia Adani-Calindri-Carraro-Gassman e il metodo di Visconti

Prendiamo ora in esame il lasso di tempo che va dal 1940 al 1946 quando Carraro, diplomato da poco, si trova a Roma dove lavora in diverse compagnie. Tra di esse vi è la Adani-Calindri-Carraro, cui aggiunge nel 1944 il nome in ditta Vittorio Gassman. Questa troupe, nata nel 1940, collabora con svariati registi, fino ad approdare nel 1945 nelle mani di Luchino Visconti. Dal 1943 al 1945 la compagnia gira principalmente i teatri milanesi, con piccole trasferte in città vicine quali Como, Bergamo, Lecco e Varese. Sono gli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, l’Italia è distrutta dai bombardamenti. Carraro ricorda in un’intervista che recitavano sempre, persino nei giorni cruciali della Liberazione.

Si lavorava in condizioni molto difficili, ma era bellissimo… Viaggiavamo in camion. Io avevo una bambina, la prima, di tre mesi, e la tenevo nella carrozzina, sul camion. Mi ricordo che andavo a teatro in bicicletta… […]. Mi ricordo che ogni tanto sparavano, e allora ci si nascondeva in un portone… D. Ma recitavate anche nei giorni della liberazione? R. Certo. D. E la gente? R. Veniva a teatro. Erano tempi così.[12]

Erano molto amati dal pubblico e facevano sempre il tutto esaurito in sala. Gassman ricorda questi anni con queste parole:

Questa compagnia fu per due anni, la beniamina del pubblico milanese, anche perché stavamo sempre a Milano. Ci spostavamo dall’Olimpia al Nuovo e all’Odeon, i tre teatri allora di Milano, con un grande successo sempre teatri pienissimi, e con delle piccole trasferte […]. Quindi eravamo obbligati a rinnovare il repertorio continuamente, […] mi pare che in un anno facemmo trentasei commedie, cioè ogni lunedì una diversa.[13]

Il continuo bisogno di rinnovare il repertorio per proporre sempre qualcosa di nuovo a quello che ormai era il solito pubblico porta gli attori, e in particolare Carraro, a uno sforzo di memoria e a uno studio della tecnica attoriale considerevolmente impegnativo. Il lavoro mnemonico sia sul testo che sui movimenti scenici non stupisce quando lo vediamo negli anni successivi interpretare ruoli molto complessi, che richiedono la facoltà di ricordare più di quattro ore di spettacolo.

I ruoli nella compagnia erano fissi e per prassi ogni attore inscenava costantemente il medesimo personaggio. «Carraro faceva una serie enorme di mariti cornuti».[14] E ancora: «Carraro si occupava degli artisti introversi, dei mariti becchi e degli ufficiali di marina».[15] L’attività di questo periodo ha soprattutto il merito di mettere l’interprete faccia a faccia con la tecnica del mestiere. Carraro ricorda: «facevo le capriole sul palcoscenico del teatro Odeon di Milano, con Ernesto Calindri, Laura Adani e Vittorio Gassman, in una di quelle riviste con la passerella finale».[16]

Data l’uniformità di testi e personaggi gli attori dovevano lavorare su piccole variazioni per evitare la monotonia. Questo comportava un esercizio tecnico e la ricerca di una propria collocazione nella complessiva distribuzione scenica. Inoltre nelle compagnie bisognava imparare a lavorare per lungo tempo con le stesse persone e questa convivenza portava a una certa libertà di improvvisazione, derivata dall’affiatamento degli attori.

Il primo testo che la compagnia e Visconti mettono in scena nel 1945 è Adamo, una commedia in tre atti di Marcel Achard. Il secondo nello stesso anno è La via del tabacco di Erskine Caldwell nella riduzione teatrale di Jack Kirkland del 1933.

Il regista scardina la tradizione dell’attore che ha un ruolo già definito all’interno di una compagnia e lo inserisce in un progetto più ampio, dove niente è più lasciato all’improvvisazione, ma attiene allo studio analitico del testo e alla memoria precisa delle parole.

L’attore, per contro, diviene strumento a servizio del progetto collettivo, cui può certamente apportare il proprio contributo personale, ma a patto di adeguarsi con duttilità all’armonia dell’insieme lasciandosi in questo guidare dall’occhio esterno del regista. Per l’attore di tradizione italiana, abituato ad essere il perno dello spettacolo e a muoversi in autonomia sulla scena, specialmente se scritturato per un ruolo principale o addirittura con il nome in ditta,[17] a pensarsi e a vedersi come desiderava essere visto e giudicato dal pubblico, tale concezione dello spettacolo e il metodo di lavoro che ne deriva non possono che essere sconvolgenti e causare perplessità e ribellioni.[18]

Il lavoro con Visconti porta la Compagnia fuori dai binari prestabiliti e rassicuranti a cui il pubblico borghese era ormai abituato, mettendo in scena un teatro realistico che parla di omosessualità e realtà contadina. Il linguaggio usato nei testi scelti dal regista è acerbo e senza sottigliezze da commediola.

Le prove con gli attori iniziano a tavolino, dove tutti devono leggere la propria parte. Visconti è molto categorico nel suo metodo di lavoro: si adira se qualcuno sa già a memoria la parte durante la prima fase delle prove, perché è convinto che se l’attore la impara portando con sé dei difetti poi è impossibile eliminarli. Durante la lettura a tavolino, non solo il regista corregge gli attori, ma impara a memoria la parte di tutti e la legge con l’intonazione giusta che poi pretende da loro. E durante le prove sul palco mostra all’interprete ciò che desidera da lui, recitandogli la sua parte. La convinzione di Visconti è che ogni attore presentasse dei difetti e che in quanto osservatore imparziale lui fosse l’unico a poterli correggere. Così spiega:

Naturalmente il vecchio attore portava con sé parecchi difetti: però facilmente correggibili. Su un violino che suona bene, se uno suona con cattivo gusto, lo correggi facilmente, gli dai un gusto migliore, voglio dire come esecuzione. Io quando ho avuto dei buoni strumenti, anche se avevano abitudini cattive, le hanno perse immediatamente.[19]

Per Visconti bisogna rimettere ordine a teatro: l’attore non può dirigere sé stesso e tanto meno gli altri attorno a sé. Il regista ha un rapporto duplice con gli interpreti; da un lato improntato a totale adorazione dall’altro sostenuto da una critica che sfocia in un’imperiosità estrema.

L’attore rimane il mezzo con cui non solo è espresso il testo, e quindi l’autore, ma anche l’interpretazione dello stesso regista, che dipende necessariamente dall’interprete per portare al pubblico il suo messaggio artistico.

In un suo scritto Visconti usa il termine “ripulitura”,[20] intendendo far emergere in opere molto note qualcosa di inedito attraverso un’azione che è contro la tradizione scenica. Il suo metodo parte da uno studio analitico del testo, che porta all’interpretazione più approfondita degli attori.

Come si arriva a una regia teatrale? Vi si arriva attraverso uno studio approfondito del testo, con gli attori naturalmente, ai quali si chiede di spogliarsi completamente della loro individualità, di entrare nel personaggio. Si indirizzano, si guidano, si aiutano si consigliano e, finché essi non siano perfettamente maturi nei loro personaggi, non si dà inizio alla parte spettacolare, scenica della regia. Io seguo questo metodo che ormai è diventato comune.[21]

Paolo Stoppa, che nel dopoguerra conosce Visconti col quale forma la Stoppa-Morelli-Visconti o meglio la Compagnia Italiana di Prosa[22] diretta dallo stesso Visconti, ricorda l’approccio del regista nella guida dell’interprete:

In quanto al modo che ha Visconti di dirigere gli attori, la mia lunga esperienza mi consente di affermare che esso è un vero e proprio fenomeno medianico. Luchino possiede quella indefinibile forza interna, per cui il suo dirigere non è un insegnamento ma un agire sul subcosciente dell’attore. […]. Pochissimi al mondo posseggono questo potere, ripeto, quasi medianico: e questi pochi sono i soli che dall’attore – sia esso professionista o un semplice uomo della strada – riescono a ottenere quello che vogliono.[23]

Il regista infatti non insegna, ma ha un rapporto quasi extrasensoriale nei confronti prima del personaggio e, in secondo luogo, dell’attore: egli scava nelle profondità intime di quello che una persona può dare. «Si può ben parlare di funzione “maieutica” del regista, capace di far affiorare potenzialità nascoste nell’interprete».[24]

Nel suo metodo basato sul primato registico nella progettazione dello spettacolo, il conte mostra infatti di tenere in grandissima considerazione l’elemento umano rappresentato dall’attore al cui lavoro intende, al contrario, restituire dignità d’arte, inserendolo entro un quadro di elevata qualità professionale sotto ogni profilo. All’interprete egli chiede un iniziale atto di fiducia e di abbandono ad una guida esterna, capace di indirizzarlo in un percorso di ricerca personale che, oltre alla espressività dei mezzi tecnici, si nutra della sensibilità individuale e delle esperienze vissute nel privato. Solo in questo modo l’attore riesce a far affiorare sulla scena tutte le sue potenzialità creando un canale comunicativo privilegiato con il pubblico.[25]

“Adamo” di Marcel Achard, uno scandalo nel 1945 e le reazioni del pubblico

Adamo di Marcel Achard, scritto nel 1938, viene rappresentato in Italia, si è detto, con la regia di Luchino Visconti. La prima avviene al Teatro Quirino di Roma il 30 ottobre del 1945.[26]

La distribuzione dei personaggi è la seguente: La sconosciuta, ovvero Caterina, è Laura Adani; Ugo Saxel, Vittorio Gassman; Lancelot, Ernesto Calindri; Gian Francesco, Tino Carraro; Carlos, Nino Capuana.

Questa commedia in tre atti è considerata il primo vero scandalo di Visconti a teatro; suscita non solo risentimenti da parte della critica, ma anche reazioni vivaci da parte del pubblico. Principalmente scandaloso è il suo tema: l’omosessualità. Così ne parla in una dichiarazione Visconti:

L’omosessualità esiste, non dobbiamo tapparci gli occhi e fingere di non accorgersene […]. Ma io ho scelto Adamo perché è la commedia che meglio si poteva prestare per certe esigenze sia del teatro sia della Compagnia sia ancora del pubblico. La commedia […] per la formazione Adani si prestava benissimo in quanto a me stava a cuore che la figura del M° Saxel fosse fatta da un giovane piuttosto che da un attore più maturo. D’altra parte è innegabile che la commedia sia abile, ben costruita, e tutta teatrale.[27]

La pièce racconta di un uomo, Ugo Saxel, il cui amore è conteso tra una donna e un altro uomo (Massimo, che non compare mai sulla scena). La trama è brevemente spiegata in questo articolo:

Una donna abbandonata dall’amante, spasima durante i tre atti di Adamo nelle torture dell’amore tradito. Se causa dell’abbandono fosse una donna, questa nuova commedia di Marcel Achard non sarebbe che un’altra variazione del suo tema preferito: quello dell’amore come dolore. Ma – ecco la gran novità – la rivale di Caterina è invece un rivale: chi le ha rapito il suo Massimo è un maestro di musica, Ugo Saxel, sulle cui particolari tendenze amorose vorremmo che i lettori ci capissero a volo.[28]

Già da questo breve scritto si può intuire la nota polemica con cui il dramma è stato principalmente accolto dalla critica; è infatti su questi toni che i vari articoli si riferiscono a questa messa in scena. I problemi di quest’opera considerata scabrosa si manifestano principalmente durante il terzo atto, quando la questione dell’omosessualità diventa evidente e la contesa di Massimo tra Caterina e Ugo Saxel porta il primo al suicidio: in sala si sentono urla, fischi e il pubblico che, con frasi e proteste, ad alta voce interrompe lo spettacolo.

Nonostante ciò, la bravura degli attori viene ammirata da tutti; in primis si loda Gassman, poi la Adani e infine Carraro che, insieme a Calindri, ha una parte secondaria in questa commedia.

Su Carraro vengono spese poche ma efficaci parole: «Benissimo anche il Calindri, il Carraro e il Capuana. […] Desidero chiudere ringraziando la Compagnia Adani che offrendoci la produzione moderna, invece di cristallizzarsi nei soliti pezzi forti del passato, ci dà modo di farci ritrovare con lo spirito nel tempo nostro».[29]

La reazione del pubblico e della critica è divisa a metà tra opinioni moralistiche, che condannano l’opera, e ovviamente idee opposte, che si schierano contro gli insulti sollevati durante lo spettacolo. Questo allestimento è un chiaro esempio di quella fama di Visconti regista dello scandalo, che suscita una reazione contrastante nel pubblico, come testimoniano gli articoli della prima del 30 ottobre 1945:

un altro grida: “Il teatro deve tornare ad educare”, un terzo e un quarto mettono mano e bocca alle chiavi, mentre certo pubblico, soprattutto certo pubblico femminile, impellicciato, ingioiellato, dalla sigaretta tra le labbra e dal viso impiastricciato, si accalora ad applaudire.[30]

Se il quotidiano appena citato dà voce ai difensori della morale, un altro di orientamento comunista completa il quadro:

Questi moralisti colla lezione a memoria si tappano occhi e orecchie e dicono di no, di no, di no. Essi, e in ciò applicano a rovescio, una lezione eterna, non affrontano il male, ma se lo nascondono, lo negano. […] Ieri sera questo gruppo di scandalizzati ottimisti è insorto a interrompere il terzo atto urlando: “Andate a Villa Borghese!”.[31]

Lo stesso articolo prosegue descrivendo la «foga del pubblico che batteva le mani gridando ai fischiatori: “Andate in sacrestia! Capite solo il rosario!” e commentava: “Finalmente anche noi abbiamo il nostro dopoguerra!”».[32] Tutto ciò era mescolato agli applausi entusiastici per i «bravissimi attori».[33]

Su «Avanti!» il tono è più pacato rispetto alle precedenti recensioni citate:

Agli entusiasmi esagerati del partito dei presunti omosessuali, si contrapposero i fischi dei donnaioli intransigenti, di quelli che vogliono sempre e senza tregua adulteri. La battaglia, condotta abbastanza bene, senza interruzioni troppo lunghe, finì con la vittoria travolgente dei presunti omosessuali.[34]

Inizialmente lo spettacolo ha buona accoglienza ed è replicato a Roma fino all’11 novembre dello stesso anno. Ma l’idillio dell’esordio non dura molto, poiché il testo deve fare i conti con la censura.

Un mese e mezzo dopo, quando l’allestimento giunge a Milano, si ripete puntualmente lo scontro in platea e le repliche si contano sulle dita di una mano, fino a quando il sindaco decreta la sospensione.[35]

Nel gennaio successivo lo spettacolo arriva a Venezia e lo scandalo sembra ormai sedato. La prima si svolge, infatti, senza scontri e le critiche sono come quelle già apparse a Roma e a Milano; giunge però inattesa la sospensione da parte del Patriarca della città il 15 gennaio 1946. Le sventure per questo testo non sono ancora finite, poiché «il 20 febbraio 1946 Luigi Visconti scrive al fratello Luchino di essere stato convocato dal Prefetto di Torino, perché “l’arcivescovo lo aveva pregato a mezzo lettera di non far rappresentare una commedia che ai Democristiani non piaceva”. […] Torino è l’ultima tappa della contrastata tournée di Adamo».[36]           

Anche se ha recitato una parte secondaria in questo spettacolo Carraro è recensito dalla critica nei migliori dei modi, come si legge in alcuni articoli: «eccellenti il Calindri e il Carraro. Sei chiamate al primo atto, undici al secondo e più di quaranta al terzo».[37] Ancora: «l’interpretazione è stata ottima. Calindri e Carraro sono stati bravi e sinceri».[38] Sulla stessa linea si legge un riassuntivo: «vivo il Carraro».[39]

Sono apprezzamenti che fanno capire ancora poco di quella che sarà la grandezza dell’attore durante gli anni successivi; ma in queste parole, che comunque sono di lode, si può individuare un breve profilo del Carraro di allora. Nel 1945 è un uomo di trentacinque anni che fa le sue prime importanti esperienze professionali con registi come Visconti, a fianco di attori quali Laura Adani e un giovane Gassman.

La via del tabacco (1945)   

Durante lo stesso anno di Adamo, Carraro va in scena sempre sotto la guida di Visconti con La via del Tabacco di Kirkland. «La Compagnia si preparava a rientrare a Roma. Montò ancora un paio di spettacoli per assolvere agli impegni milanesi e torinesi, il mitico Visconti […] ci raggiunse per dirigere La via del tabacco».[40]

Attraverso le parole di Gassman si può ricostruire una parte del lavoro di Visconti per questo spettacolo. Ancora più che in Adamo, il richiamo al realismo è palese, non solo per la recitazione degli attori, ma soprattutto per l’impianto scenico. Visconti è sostenitore del valore documentario del teatro, tanto quanto lo erano stati Stanislavskij e il Teatro d’Arte di Mosca a inizio Novecento.

La riforma teatrale di Visconti inizia abolendo il suggeritore, aumentando i giorni di prove a tavolino e in piedi e pretendendo una scenografia il più possibile realistica:

Per prima cosa soppresse fisicamente il suggeritore; voleva tutto perfetto, documentato, vero. Per il dettaglio di un mobile o di una stoviglia, era capace di sospendere le prove per due ore, mentre i trovarobe si sguinzagliavano terrorizzati nelle boutiques degli antiquari. Per il testo di Caldwell, coprì tutto il palcoscenico di terriccio, e ci fece mangiare quintali di rape. Anche la scelta del personaggio della vecchia nonna fu condotta sui canoni di implacabile realismo. Finì per trovarla in un ospizio per anziani; la vecchina ci seguì con ardore e incantata curiosità per il teatro, che non aveva mai visto. Quando la invitammo, prima del debutto, ad assistere a una nostra recita, si piazzò tutta contenta in un palco e si divertì follemente.[41]

Così iniziano le prove per il testo di Kirkland, che narra di una famiglia di poveri contadini: i Lester, che vivono nell’entroterra della Georgia, un paese arido e desolato. Jeeter Ada e Laster sono i capifamiglia; essi hanno due figlie, Elly May e Pearl. La prima è innamorata di Low (Carraro), mentre Pearl è sua moglie, anche se non ama il marito.

Rispetto al romanzo di Caldwell, il testo teatrale di Kirkland ha destato maggior scandalo sul pubblico in quanto:

in teatro le parole hanno un peso che spesso non fanno sentire nel testo d’una narrazione, dove esse si traducono facilmente in immagine, in idea. Forse la regia di Luchino Visconti, così accurata nella tecnica della recitazione, delle luci, ha spostato l’accento dal motivo religioso, preponderante nel testo a quello politico che nel testo è accessorio.[42]

Infatti, non è tanto la trama a interessare, quanto la messa in scena e il modo in cui i personaggi vengono interpretati. La scenografia è composta da una vera “baracca” di legno, con oggetti reali del mondo contadino, sassi e terra sparsi sul palcoscenico, il tutto illuminato da poche luci, come se l’atmosfera fosse sempre in penombra.

L’attore deve lavorare in una situazione diversa con Visconti: «donne e uomini si sono assoggettati di buon grado al tormento di lavorare a piedi nudi sulla “vera” polvere e sul terriccio del palcoscenico».[43]

Terra, sassi e polvere conducono l’attore all’immedesimazione, lo portano a creare quella seconda realtà che è tipica della scena, che resta pur sempre un’illusione, ma che deve comunque accadere, come se fosse un sogno vivido. Visconti crea il vero e non il verosimile a teatro, vuole suscitare un forte impatto nello spettatore. Paolo Grassi descrive così la messa in scena:

Attraverso un minuziosissimo, direi capillare processo di interpretazione, Visconti si è staccato dal realismo originale dell’opera (in cui facile sarebbe stato cadere nei cosiddetti toni di folclore) e l’ha portato su un piano squisitamente intellettuale, di un intellettualismo raffinato e decadente, scarnificante ogni sentimento nelle sue componenti, aggiungente ad ogni atto una carica di subcosciente. Coloro che ancor oggi si permettono di discutere sulla necessità della regia, vedano questa Via del tabacco e, dal pittoricismo della scenografia ad ogni movimento di ogni personaggio, constateranno una precisa volontà, un ugual intuito.[44]

Visconti ha spostato il lavoro su un piano realistico, ma allo stesso tempo plastico e puramente intellettuale; si è concentrato soprattutto sui rapporti tra i personaggi.

Si prenda ad esempio quel piccolo capolavoro che è lo strisciare di Elly verso Low, nel primo atto: in esso, come nella scena della pettinatura di Pearl, oltre la misura del regista, si avrà anche l’immagine del piano assolutamente plastico sul quale Visconti ha spostato il lavoro.[45]

“La via del tabacco” debutta al Teatro Olimpia di Milano il 4 dicembre 1945

Luchino Visconti, per la prima volta a Milano in veste di regista, ci ha dato uno spettacolo di classe internazionale e una prova completa delle sue qualità.[46]

Carraro dalla critica è descritto con poche ma efficaci parole: «gli attori sono stati bravi, specialmente la Seripa e il Carraro».[47] Più che dei singoli attori, in questo caso, si parla della Compagnia in generale: «Gli attori hanno sostenuto con uguale precisione e abilità la fatica del regista da Laura Adani a Calindri al Carraro […], che accumuniamo tutti in questa festa spettacolare sottolineata da interminabili applausi».[48]

Lo nota soprattutto Grassi, con il quale qualche anno dopo inizierà una lunga collaborazione che sarà quella con Strehler e il Piccolo Teatro. «Interpretazione amorosa, generosa, accuratissima: ciascuno ha dato il possibile al proprio personaggio, anche se in qualche caso lontano da esso come temperamento e gusto. […] Carraro ha detto la propria parte con efficacissima misura».[49]

Nessuno aveva mai osato tanto come Visconti nella scelta dei testi e della loro rappresentazione, ma è opportuno rimarcare che solo grazie a compagnie come la Adani-Calindri-Carraro-Gassman il regista ha potuto mostrare quello che aveva da dire al pubblico. Grassi lo riconosce dopo la visione dell’opera:

La rappresentazione della Via del tabacco di Erskine Caldwell costituisce di per sé un’alta benemerenza per la compagnia di Laura Adani. […] Laura Adani ha diritto al nostro “grazie”, grazie che noi qui le significhiamo di cuore: perché, ad un dato momento, il teatro non è soltanto “emozione immediata”, ma anche aspetto di civiltà, mezzo di conoscenza.[50]

Il ricordo di Carraro della collaborazione con Visconti non è ben definito; su di esso non si trovano molte informazioni, ma solo qualche piccolo accenno in alcune interviste ci fa capire come sia stato il lavoro con lui soprattutto rispetto a quello che poi ha fatto con Strehler:

Ho lavorato molto e con simpatia anche con altri registi. Ad esempio con Luchino Visconti, il quale, con gusto stupendo e con un alto senso estetico, più che dare spunti, consigli, “dimostrava” il personaggio, rifacendolo all’attore. Diversamente da Strehler che lavora in modo più tecnico, meno dimostrativo, accettando anche il ragionamento e il pensiero dell’attore sul personaggio.[51]

Lo ricorda anche Gassman, che così descrive il lavoro con il regista: «duro, rigoroso, esigentissimo sul lavoro. Specie quando si cominciava: conferenze interminabili, affascinanti. Era un uomo di prim’ordine, un vero duca di Milano, in tutti i sensi…».[52]

Indubbiamente recitare con Visconti era diverso. Fino ad allora nessuno aveva osato tanto nel teatro italiano, sia a livello di testi sia sul piano delle esigenze degli attori. «L’impatto con Luchino fu galvanizzante. Portava addosso il fascino della nobiltà autentica, e un rigore fino allora ignoto a me e al resto del teatro italiano».[53]

Conclusioni

Gli anni qui presi in esame, cioè quelli della formazione di Carraro, sono fondamentali per la sua carriera e per il successo futuro. La palestra del recitare nelle compagnie professionistiche ha formato l’attore secondo vari punti di vista: in primo luogo quello della collaborazione con gli altri attori; in secondo luogo un allenamento costante della memoria, e infine lo spirito di adattamento al regista. Inoltre, grazie ad attori quali Laura Adani e Luigi Cimara, Carraro ha imparato l’arte della recitazione osservando i protagonisti dell’epoca e imitandoli.

Molte delle esperienze nelle compagnie hanno aiutato Carraro nei lavori successivi, in particolare nella sua lunga collaborazione col Piccolo Teatro di Milano. Lui stesso in un’intervista conferma l’importanza dei lavori svolti prima del sodalizio con Strehler:

Direi che [le esperienze nelle compagnie] sono state tutte positive per cui alla fine mi ritrovo con una specie di addizione di tutti i sistemi sperimentali. Ho cominciato con la “Compagnia dell’Accademia” di Roma diretta da Silvio D’Amico che è venuto a Milano e mi ha pescato. Ho debuttato in Molto rumore per nulla, un titolo che è tutto un programma e mi ha dato molta soddisfazione, perché Shakespeare è un autore modernissimo e classico nello stesso tempo, come non ce ne sono altri. Più tardi ho fatto tanto Pirandello, direi quasi il suo intero repertorio.[54]

Un esempio tra gli altri è quando nell’Opera da tre soldi, diretta da Strehler, deve rispolverare le doti canore e soprattutto il tema del cabaret anche se con una tecnica più raffinata. La versatilità invece lo porta a passare dalla radio alla televisione fino alle canzoni popolari milanesi. Si potrebbe certamente definirlo un interprete eclettico che, grazie alla sua formazione, ha saputo trarre vantaggio da tutte le occasioni che gli venivano offerte, sfruttandole come base per diventare in seguito un grande attore di regia.


Ringrazio: la Professoressa Mariagabriella Cambiaghi, l’Archivio Storico del Piccolo Teatro di Milano, l’Archivio della Fondazione Antonio Gramsci di Roma e l’Archivio AMAtI.



[1] In un’intervista Carraro ricorda la figura del padre che per primo gli tramanda la passione per il teatro: «Era grande, un omone che parlava poco, faceva il tipografo e, qualche volta recitava in una filodrammatica». Il padre prova a dedicarsi seriamente alla professione dell’attore per un anno, ed entra a far parte della compagnia di Ermete Novelli, come generico. Proprio in quell’anno però muore il nonno di Tino e Ernesto deve abbandonare il suo sogno per ritornare a gestire gli affari di famiglia. In seguito Carraro dirà: «iscrivermi all’Accademia dei Filodrammatici, in fondo, volle dire fare un regalo a mio padre» (R. ASUNI, Tino Carraro, Signori, il teatro, «Milano ’90», agosto-settembre 1989, p. 148).

[2]  P. MOSCA, Quel milanista di Re Lear, in «La Domenica del Corriere», 28 novembre 1972.

[3]  Sul panorama teatrale di questi anni: R. TESSARI, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture, 1906-1976, Firenze,Le Lettere, 1996, pp. 51-75.

[4]  T. CARRARO, Tino Carraro si confessa,in «Milano Sera», 20 novembre 1953.

[5]  La Compagnia Italiana di Prosa Maltagliati-Cimara fu formata da Evelina Maltagliati (Firenze, 11 luglio 1908-Roma, 27 aprile 1986) e Luigi Cimara (Roma, 19 luglio 1891-ivi, 26 gennaio 1962) nei primi anni ’40. La Compagnia era diretta da Ettore Giannini e in seguito diventò la compagnia Maltagliati-Randone-Carraro. Cfr. le rispettive voci nell’Archivio Multimediale degli Attori Italiani (AMAtI), http://amati.fupress.net/Main.uri; ultimo accesso: 5 novembre 2020.

[6]  Ettore Giannini (Napoli, 1912-Massa Lubrense, 1990), regista e sceneggiatore. Nel 1936 si iscrive presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma dove studia regia. Lavora inizialmente come regista di prosa per approdare al cinema nel 1941 come sceneggiatore. Vince nel 1954 il Premio internazionale della giuria al Festival di Cannes con Carosello napoletano,che precedentemente aveva debuttato come spettacolo teatrale.

[7]  Ernesto Sabbatini (Padova, 8 settembre 1878-Milano, 5 ottobre 1954), attore di tradizione. Figlio d’arte, discendente da una dinastia di attori e pronipote di Adelaide Ristori. Esordisce nel 1899 a fianco di Ermete Novelli e prende parte alla Compagnia Stabile di Milano diretta da Marco Praga. Lavora come primo attore e come capocomico.

[8]  L. VISCONTI, Vent’anni di teatro,in «L’Europeo», 1966, 13-14.

[9]  L. VISCONTI, I demiurghi e il mestiere dell’attore,in «Sipario», XX, 1965, 236, pp. 9-13.

[10]  Ibid.

[11]  Incontri difficili, a cura di R. MOLINARI, in «Sipario», XXXV, 1980, 405, pp. 48-49.

[12]  G. GUERRIERI, Confidenze reticenti, Roma,Curcio, 1981, p. 18 (D sta per Guerrieri, R per Carraro).

[13]  G. GAMBETTI, Vittorio Gassman, Roma,Gremese, 1999, p. 270.

[14]  Ivi, p. 270.

[15]  V. GASSMAN, “Un grande avvenire dietro le spalle”: il mattatore del teatro italiano racconta se stesso. Come si comincia a diventare Vittorio Gassman, in «Corriere della sera», 27 settembre 1981.

[16]  MOSCA, Quel milanista di Re Lear, cit.

[17]  Si osservi che nel 1945 anche Carraro è attore della compagnia di Laura Adani con il nome in ditta: Adani-Calindri-Carraro-Gassman.

[18]  M. CAMBIAGHI, La scuderia teatrale del conte: Visconti maestro d’attori, in Luchino Visconti e il suo teatro, a cura di N. PALAZZO, Roma, Bulzoni, 2008, p. 134.

[19]  VISCONTI, I demiurghi e il mestiere dell’attore, cit., p. 13.

[20]  «La parola, minimizzante e un po’ deludente, vorrebbe rassicurare sul fatto che la novità della regia in Italia sia consistita soprattutto nell’azione congiunta di Visconti stesso, Ettore Giannini e i giovani Costa e Strehler, gli uomini di teatro che sente più vicini dal punto di vista culturale, per migliorare il livello medio del professionismo teatrale: pretendere più cura nell’approccio allo spettacolo, scenografie appropriate, l’eliminazione del suggeritore, regole per gli attori, che devono deporre ogni velleità divistica, e per gli spettatori, sintetizzate queste ultime nel divieto, sempre scritto in grande nei programmi degli spettacoli viscontiani, di entrare in teatro a recita cominciata. Pur legata al rigore e alla meticolosità, la “ripulitura” acquista pieno valore se ricongiunta alla qualità che appare oggi la più stimolante del lavoro viscontiano» (F. MAZZOCCHI, Le regie teatrali di Luchino Visconti: dagli esordi a “Morte di un commesso viaggiatore”, Roma, Bulzoni, 2010, p. 171).

[21]  L. VISCONTI, Esperienze di un regista sul palcoscenico e nello studio di Luchino Visconti,in Cinema e teatro, a cura di G. CALENDOLI, Roma,Edizioni Dell’Ateneo, 1957, pp. 348-352.

[22]  La Compagnia Italiana di Prosa nasce nell’ottobre 1946 ed è formata da Rina Morelli, Paolo Stoppa, Giorgio De Lullo e Tatiana Pavlova, ai quali si aggiungono per alcuni spettacoli Ruggero Ruggeri, Arnoldo Foà, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. La Compagnia mette in scena testi memorabili tra cui Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller e L’Arialda di Giovanni Testori, allestimento che per il suo scandalo porta la Compagnia allo scioglimento nel 1961.

[23]  Rocco e i suoi fratelli. Storia di un capolavoro, introduzione di G. FOFI, Roma,Minimum fax, 2010, p. 29.

[24]  CAMBIAGHI, La scuderia teatrale del conte,cit., p. 139. Per il termine “maieutica” si veda F. MAZZOCCHI, Luchino Visconti,in Storia della regia teatrale in Italia, a cura di P. BOSISIO,Milano, Mondadori, 2003, p. 71.

[25]  Ivi,p. 136.

[26]  La traduzione portata sulle scene da Visconti era ad opera di Antonio Pietrangeli. Il testo però fu stampato in Italia solo nel 1947 tradotto da Carlo Lari e pubblicato ne «Il Dramma», XXIII, 1947, 29, pp. 9-36.

[27]  L. VISCONTI, “Moralità” e “vizio” sulla scena, in «Il Dramma», XXI, 1945, 2-3, p. 52.

[28]  Adamo di Achard, in «Giornale della sera», 31 ottobre 1945.

[29]  C. VENEZIANI, Olimpia: Adamo di M. Achard, in «Il Mattino d’Italia», 13 dicembre 1945.

[30]  C. TRABUCCO, Al Quirino, in «Il Popolo», 31 ottobre 1945.

[31]  G. GUERRIERI, Adamo di Achard, in «l’Unità», 31 ottobre 1945.

[32]  Ibid.

[33]  Ibid.

[34]  Adamo al Quirino, in «Avanti!», 31 ottobre 1945.

[35]  Cfr. M. GIORI, L’esperienza artistica di Luchino Visconti in chiave performativa,in «Mantichora», I, 2011, 1, p. 338.

[36]  MAZZOCCHI, Le regie teatrali di Luchino Visconti, cit., p. 88.

[37]  E. CONTINI, Adamo al Quirino, in «Il giornale del mattino», 31 ottobre 1945.

[38]  P.M. TARICCO, Adamo di Achard al Quirino,in «L’Italia libera», 31 ottobre 1945.

[39]  S. D’AMICO, Adamo,in «Il Tempo», 31 ottobre 1945.

[40]  GASSMAN, “Un grande avvenire dietro le spalle”, cit.

[41]  Ibid.

[42]  A. BENEDETTI, All’Olimpia. Luchino in Rosso, piace al sangue blu,in «Corriere Lombardo», 5 dicembre 1945.

[43]  Taccuino, in «Il Dramma», XXII, 1946, 5, p. 7.

[44]  P. GRASSI, “La via del tabacco” di Erskine Caldwell,in «Avanti!», 5 dicembre 1945.

[45]  Ibid.

[46]  Ibid.

[47]  BENEDETTI, All’Olimpia,cit.

[48]  G. STREHLER, “La via del tabacco” di Erskine Caldwell,in «Milano sera», 5 dicembre 1945.

[49]  GRASSI, “La via del tabacco” di Erskine Caldwell,cit.

[50]  P. GRASSI, Palcoscenico di Milano: “La via del tabacco”, in «Cinetempo», 5 dicembre 1945.

[51]  G. RAIMONDI, Sulle scene l’antidivo Carraro nel “Temporale”,in «l’Unità», 7 marzo 1985.

[52]  E. MANCA, La mia vita in teatro. A combattere,in «l’Unità», 4 febbraio 1993.

[53]  GASSMAN, “Un grande avvenire dietro le spalle”,cit.

[54]  R. PIERI, Tino Carraro, ai limiti del teatro,in «Il Resto del Carlino», 4 dicembre 1985.



© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it




 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013