Riproponiamo qui lo scritto di Lionello Puppi Un “mistero buffo” per Palladio (a proposito della mostra “Andrea Palladio. Il mistero del volto” presso il CISA, ora Palladio Museum) apparso sulla rivista «Arte / Documento», 2017, n. 34, pp. 46-51.
Il catalogo di una recente mostra dedicata a
risolvere, con la collaborazione della Polizia di Stato, un mistero che da più
di duecentocinquantanni non lo è più, sapre con un quesito innescato da una
discutibile affermazione su cui insisteremo fra poco. Conviene, infatti e
anzitutto, chiarire che la succitata esposizione fu ospitata a Vicenza dal 3
dicembre 2016 al 4 giugno 2017 negli spazi di quel palazzo Barbaran da Porto
ultimamente e ad ogni buon conto denominato “Palladio Museum” (dotato,
beninteso, della sua “Palladio Library”), dato che la miserevole povertà
lessicale della lingua italiana e la rigidità delle sue potenzialità
sintattiche non dispongono dei vocaboli e dei dinamismi che esprimessero il
concetto, e posto che la lezione architettonica del Maestro padovano si invera
in Jefferson, il quale opportunamente mai mise piede in edifici di Andrea, e
rifulge a Charlottesville e nella Casa Bianca (Andrea Palladio. Il mistero
del volto, a cura di G. Beltramini, Milano, Officina Libraria, 2016, pp. 171
con numerose illustrazioni in b/n e a colori; saggi del curatore, di F. Magani,
di H. Burns, di F. Marías – ma già edito in lingua castigliana negli «Annali di
Architettura», 18-19, 2006-2007, pp. 105-114 –, di F. Rigon Forte; indagini
conoscitive su tre dipinti, a cura del Laboratorio di Restauro della
Soprintendenza per lArcheologia, Belle Arti e Paesaggio delle Province di
Rovigo, Verona e Vicenza; Schede essenziali delle cinquantaquattro opere
esposte).
Ma eccoci allintrigante quesito e alla sua
premessa. Contrariamente alla consuetudine che vorrebbe, e con più stringente
occorrenza nella trattatistica architettonica, lassociazione del volto
dellautore al suo testo scritto, i Quattro Libri di Andrea non la propongono,
e il perché dovrebbe essere ovvio. Il sistema spaziale che configurano sarebbe stato
in effetti concepito per vincere il tempo talché in esso si annullerebbero la
realtà esistenziale del suo autore nonché le contingenze del presente. «Vive
nel futuro [quel sistema], attraverso chi vorrà usarlo: con i Quattro Libri in
mano, noi siamo Palladio». Tratteniamo il magari! in cui stavamo per
sbottare, annotando che linvocata consuetudine di una dialettica
ritratto-testo, in verità, è abbastanza labile – non la ossequiano, per far
solo un paio di nomi eloquenti, né un Serlio, né un Cataneo –, ma non senza riconoscere
che comunque risulta ben frequentata, così che non meraviglia che possa esser
stata avvertita imperativa nel corso del tempo. A riprova, la volontà di
ripristinarla, e proprio risarcendo lomissione lamentata e denunciata
nellavvio del catalogo sul quale stiamo riflettendo, anima Colen Campbell,
lautore del Vitruvius Britannicus (inesplicabilmente ignorato dal
catalogo in questione), allorché nel 1729 «for S. Harding, at the Bible and Anchor», manda fuori gli Andrea
Palladios Five Orders of Architecture e assicura di avervi «all the Plates exactly copied from the First
Italian Edition [dei Quattro Libri] printed in Venice 1570». Ne aveva, tuttavia e per la verità,
manipolato il frontespizio (fig. 1), e se, entro lo scudo inferiore aveva
inserito le insegne del proprio editore, nella porzione centrale superiore,
alla figura della Regina Virtus, la quale come tosto vedremo è lemblema
delleditore veneziano, sostituisce la finzione del busto marmoreo di un
giovane che ripropone, copiandola, limmagine dellideale Palladio quale era
stata incisa da Bernard Picart per Giacomo Leoni e posta al centro dellallegoria
dispiegata nellantiporta di The Architecture of A. Palladio in Four Books datata
1715 [1721], sul disegno di Sebastiano Ricci, che esplicitamente lo sottoscrive
(«Sebastianus Riccius Invenit»), mascherandosi però da Veronese nella segnatura
posta a piè del ritratto in ovale dello stesso personaggio diversamente
abbigliato e con berretta, che accampa la seconda antiporta dellopera
monumentale del Leoni («Paulus Caliarii Veronensis efigiem pinxit»).
Appuntiamo, en passant, che quanto qui
sopra sè ridotto a sintesi estrema pertiene a vicenda solidamente impostata
da Wittkower (1954 e 1970) e ampiamente dibattuta da Raffaella Piva (1980), ma
già frequentata da chi qui scrive (1973 e 1976) e dallo stesso rifinita qualche
anno dopo in un saggio (Per la storia del Palladianesimo: lavventura
europea di Giacomo Leoni, in Studi di Storia dellArte in memoria di
Mario Rotili, Napoli, Banca sannitica, 1984, pp. 463-480) ignorato, come
anche i precedenti (peraltro elencati nella bibliografia delle Schede),
dallestensore in catalogo del capitolo dedicato al Leoni (pp. 126-136), per
registrare il dato interessante della fortuna di quellimmagine. Costituisce,
infatti, il modello del ritratto, veramente mediocre, apparso come lotto 110
allasta Christies di New York del 16-17 dicembre 2010, acquisito dal C.I.S.A.
e presente in mostra (cat. 11) come opera di Scuola inglese del XVIII secolo;
della figura parietale di Schloss Wörlitz (non dibattuta in catalogo); del
busto in piombo del R.I.B.A. di Londra, parimenti esposto (cat. 20) con
attribuzione dubitativa di John Chere. E, questultimo, tuttavia, non appare
inconsapevole del ritratto immaginario che frattanto era stato disegnato da
William Kent e inciso da Paul Faudrier per il frontespizio delle Fabbriche
antiche di Lord Burlington (1720), ricomparendo, sempre sul disegno del
Kent ma per lincisione di Isaac Ware, nel suo The First Book of Andrea
Palladio (1742) – entrambi presenti in mostra (cat. 18 e 19) – e puranche
scolpito, sempre per conto del Burlington, da Michael Rysbrack, in busto e a
figura intera, ora a Chatsworth House e a Chiswick, solo citati in catalogo (p.
28) e apparentemente come un unico oggetto. Era tale lo stato delle cose, quando
in uno dei sei medaglioni dedicati ai sommi architetti di ogni tempo incisi da
Francesco Zucchi per il tomo III dellArchitettura di Andrea Palladio di
Francesco Muttoni stampato dal Pasinelli in Venezia nel 1741, troviamo esibita
unimmagine (cat. 27), non solo sin là inedita ma di tale convincente autorità
da esser ripresa, in controparte e in ovale, da Antonio Balestra alla p. 36 de Li
cinque ordini di architettura di Alessandro Pompei, impresso a Verona dal
Vallarsi nel 1735 (cat. 26) e dal disegno di Giambattista Mariotti per il
bulino di Francesco Zucchi, non già nella prima edizione del Discorso del
Teatro Olimpico uscito a Padova per i tipi di Giambattista Conzatti nel
1733 (come erroneamente asserito in cat. 25) (fig. 2), ma nella riedizione dellopera “nella Stamperia del
Seminario” di Padova nel 1749 (fig. 3)
col corredo della Vita di Andrea Palladio scritta da Paolo Gualdo, di
una lettera di Giovanni Poleni e di unaltra dellautore.
E rivendicavano, le incisioni pubblicate nel
primo e nel terzo dei succitati volumi, la loro condizione di copie di un
originale pittorico che, allepoca, si sarebbe trovato «apud marchiones Capra patricios vicentinos»: vi compariva il
busto di un uomo barbuto in abito borghese colto nellatto di srotolare, con la
mano destra reggente un compasso, un cartiglio che lo identificava come Andrea/Palladio/Architetto/Vicentino/1576
(oggi in villa Valmarana ai Nani presso Vicenza! cat. 24 e, per le indagini
diagnostiche che non ne negano la compatibilità con materiali e tecniche del
Cinquecento, pp. 143-146) (fig. 4).
Sarà forza tornare su codesto dipinto che si affermava come la vera imago – mai
più revocata in dubbio – del Maestro padovano, annullando lattendibilità, a
quel riguardo, dogni precedente proposta, nonché del Ritratto di un giovane
architetto firmato dal Licinio e datato 1541 che, con liscrizione
posticcia Andreas Paladio a[rchitectus]
annor [XXIII], era stato
rifilato al console Joseph Smith, residente britannico presso la Serenissima
(cat. 14; il dipinto trovasi ora ad Hampton Court), il quale, in momento imprecisato,
aveva provveduto a farlo riprodurre a stampa da Pietro Monaco (cat. 15).
Intendeva, in effetti, anteporre quello che, nel testamento dettato il 5 aprile
1761, dichiarerà «bel ritratto», alla vita di Palladio, cui Tommaso Temanza si
andava applicando e che sarebbe stata alla sua volta anticipata al fac-simile, ma con le illustrazioni,
«fatte in rame», dei Quattro Libri, lesecuzione delle quali era già
conclusa allorché il personaggio esprimeva le sue ultime volontà.
Si tratta di circostanze tutte ben note al curatore
del Catalogo che stiamo commentando (pp. 23-27) che savvede, inoltre,
dellapparizione in busto dellarchitetto spacciato per Palladio nellantiporta,
disegnata da Pietro A. Novelli e incisa da Giambattista Brustolon, del primo volume
delledizione postuma della Dactyliotheca Smithiana di Anton Francesco
Gori (fig. 5), stampata nel 1767 da quello stesso Tipografo Pasquali chera puranco
leditore del fac-simile del ritratto palladiano e della biografia del
Temanza, già apparsa nel 1762. Erano, però, sfuggiti al summentovato curatore,
non solo la lettera del Temanza allAlgarotti addì 9 aprile 1760 («la vita del
Palladio tarderà ancora qualche poco a uscire alla luce» – vi leggiamo – e si
prevede «di porla in fronte» della «nuova e corretta edizione dei Quatto Libri
dellArchitettura del Palladio sulla edizione del 1570»: vedasi L. Olivato, Temanza
su Palladio: note a quattro lettere inedite, in «Odeo Olimpico», IX-X,
1972-1973, p. 210), ma un dettaglio quanto mai eloquente. Nel frontespizio,
infatti, di quella “vita del Palladio”, benché impressa dal solito Giambattista
Pasquali, il personaggio rappresentato dal Brustolon in busto ed entro una
edicola che vagamente riecheggia quella inventata dal Ware per le Fabbriche
Antiche del Burlington, obbedisce (fig.
6), riproponendola, alla vera imago sfoderata per la prima volta
dallo Zucchi per il Muttoni nel 1741, e scarta così la riproduzione, cui Pietro
Monaco aveva provveduto, del ritratto manipolato del Licinio, mentre sorprendentemente
il Temanza accetta, generando una lunga confusione, la datazione fasulla (1518)
della nascita di Palladio deducibile dalliscrizione abusiva.
È doveroso riconoscere al curatore della
mostra in oggetto il grande merito di aver recuperato e presentato almeno un
paio di ritratti di Palladio dipinti ancor vivendo larchitetto (la cui vantata
riluttanza a farsi riprendere ne vien resa dubbia, e sarà stata, semmai,
indifferenza) talché lassenza del suo volto nel frontespizio de I Quattro
Libri potrebbe imputarsi al fatto che esso celebra, come qualcuno a buon
diritto ha suggerito e qui indietro si è adombrato, piuttosto leditore nel
contesto della frettolosità affannosa con cui in realtà viene messa in luce
solo una parte dei “libri” che Palladio aveva in mente (mi si permetta
rinviare, a sintesi degli studi in proposito di chi qui scrive, alla edizione
del secondo libro nel confronto speculare con gli appunti preparatori del
Codice Cicogna: A. Palladio, Delle case di villa, a cura di L. Puppi,
Torino, Allemandi, 2005: Introduzione) e della dipendenza di
quellimmagine da una miniatura cinquecentesca acquisita dal Museo Correr nel
1956 (si ricordi il dibattito tra R. Fontana, S. Tosato in La biblioteca dellarchitetto
del Rinascimento. Antichi libri della Biblioteca Universitaria di Padova,
catalogo della mostra a cura di P. Gnan [Padova, 6 maggio-8 giugno 2008],
Padova, Ministero per i beni e le attività
culturali-Biblioteca Universitaria di Padova, 2008, cap. Tempo e fatica:
lenigma del frontespizio palladiano e C. Bellinati, Il frontespizio del
trattato di Andrea Palladio e il suo modello, in «Padova e il suo Territorio», XIII, 2008, 134, pp.
24-25 con replica di R. Fontana, S. Tosato, Ancora sul modello del
frontespizio dei “Quattro Libri” di
Palladio nello stesso periodico, XIII, 2008, 1, pp. 24-28).
Tanto più spiace, allora, ravvisare che i
documenti quanto mai significativi e sin qua sconosciuti, anziché essere
inseriti, e parlare, allinterno di un contesto storiografico precostituito
da un processo rigoroso di indagini, siano stati affossati e resi insignificanti
nellavvilimento di un gioco irresponsabile modellato sugli exploits più
dozzinali della letteratura poliziesca insistente sulle peripezie del cosiddetto
cold case. Per far audience (ci si potrebbe chiedere adeguandoci
al massacro della lingua italiana) e cassetta? Né si capisce come, con similari
trastulli che pur son riusciti ad abbagliare uno studioso accorto e altamente
benemerito per generose battaglie in difesa di una cultura non inquinata, quale
Tomaso Montanari (In visita a Vicenza nella testa del Palladio, in “Robinson”,
«La Repubblica», 18 giugno 2017, p. 31), si possa realizzare la «saldatura
rarissima tra ricerca e grande pubblico», dato che la ricerca, se cè (di
sicuro non ha ancora prodotto il codice diplomatico dei documenti concernenti
Palladio, il catalogo scientifico completo dei suoi disegni al R.I.B.A., il corpus
esaustivo dei rilievi delle sue architetture), vien stravolta, rendendo
funzionali i suoi esiti alle mode transitoriamente in voga presso un indefinito
“grande pubblico”.
Si alludeva, dunque, più indietro, a una
straordinaria accoppiata inedita di ritratti che costituivano, a nostro avviso,
i gioielli della mostra: luno appartenente a una privata collezione di Mosca
(un olio su tela di cm 73,5 x 62,9: recante liscrizione «Andrea Palladiu[s]») (fig.
7); laltro anche di proprietà particolare (un olio su tavola di cm 22,8 x 16,8
e alla sua volta con iscrizione «Andreas Palladius architectus») (fig. 8).
Orbene, il curatore che – sulle tracce fissate da Silvia Cavinato con la sua
bella tesi di laurea discussa allUniversità Ca Foscari nellanno accademico
2007-2008 essendone relatore Sergio Marinelli – correttamente identifica i
precedenti di collezione del primo a partire dalla presenza della “Rotonda”
palladiana alla sua riproduzione a stampa di Giovanni Ciani su disegno di
Giovanni Orsino Bellio, per la monografia del Magrini (1845), ma ne lascia
sfocato il legame con la tela ora in villa Valmarana ai Nani di Vicenza, di cui
dianzi sè detto. La ritiene infatti eseguita sul finir del Settecento dal modesto
Francesco Boldrini, pur con estrema cautela, insinuando che essa riproduca –
con laggiunta del cartiglio abusivamente introdotto con variazioni
nelliscrizione dagli incisori – la pittura oggi a Mosca che, forse per rendere
omaggio al Vasari il quale aveva narrato di un ritratto di Palladio eseguito da
Orlando Flacco (e di cui si son perse le tracce), vien accreditata a un
improbabile ambito di questultimo (pp. 36-38; cat. 24), con cui però poco o
nulla ha da spartire, mettendo viceversa in gioco proprio una responsabilità
esecutiva di Giambattista Maganza. Con egual approssimazione, poi, vien
liquidato il secondo numero della sullodata accoppiata, visto che appare
esibito (pp. 41-41; cat. 28) quale possibile copia tarda del dipinto dallIndia
eseguito per il «bellissimo museo» con i «veri ritratti dei principi e de gli
huomini più segnalati nelle scienze e nelle arti liberali di tutti i tempi» di
cui scrive Cristoforo Sorte nelle sue Osservazioni nella pittura (1580),
da Bernardino India, ed è invece uno dei pochi originali sopravvissuti,
databile tra il momento in cui il pittore era impegnato nella decorazione a
fresco di villa Poiana – del quale piace render qui nota una spettacolare
testimonianza grafica già nella Collezione René Huyghe di Parigi ed esposta poi
alle Adelson Galleries in The Mark Hotel a New York dal 26 gennaio al 12
febbraio 1999 (fig. 9) – e
quello (ante 1570) dellapplicazione a realizzar le immagini di figura
per I Quattro Libri.
Sbrigativi, e inesplicabili, son poi la liquidazione
(p. 42) del ritrattino inserito da Giannantonio Fasolo in un affresco di villa
Caldogno a Caldogno e il disinteresse per lapparizione del volto di Palladio
nel bronzo che conclude in basso a sinistra la sequenza dei profeti,
rappresentati con i connotati di personaggi contemporanei e con un proprio
autoritratto, dal Sansovino nella cancellata daccesso alla sacristia della basilica
di San Marco, che ha non più che una striminzita scheda (cat. 35), eludendo
linvito ad approfondire adombrato dalla compianta Raffaella Piva nel suo capitale
profilo della ritrattistica palladiana del 1980, appena menzionato, mentre vien
taciuto del tutto il saggio specifico, ed esaustivo, di B. Boucher, Il
Sansovino e i Procuratori di San Marco, in «Ateneo Veneto», n.s., XXIV,
1986, in particolare pp. 69-71.
E tanto basti, con la giunta, peraltro, della
constatazione dellaffollamento, in mostra, del ridondante contributo della
plastica ottocentesca in obbedienza fedele ai tratti della vera imago apparsa
nel 1741, e del rammarico per la dimenticanza della copia, incisa da Vivant
Denon, di un altro ritratto di Palladio, sinora non reperito, e che è sorprendentemente
inserita, come con squisita cortesia mi segnala Giulio Zavatta, nella serie di
quarantacinque acqueforti intitolata Ritratti dei più celebri pittori
dipinti da loro stessi, esistenti nella Galleria di Firenze, stampata a Parigi
“chez N.C. Aubourg” e ivi distribuita dallo stesso editore presso l“Hotel
Bullion, rue J.J. Rousseau” (e si veda in The Illustrated Bartsch Vivant
Denon Etchings, nn. 212-257) (fig. 10).
Ci sia concesso di concludere con una postilla
che vorrebbe valere una sommessa raccomandazione. Quando occorresse confrontar
fisionomie per constatarne o respingerne uneventuale identità, non si scomodi
la Polizia scientifica che ha ben altre gatte da pelare (e lo sa far
encomiabilmente), ma si ricorra a chi un simile impegno esercita ex professo
attraverso lestrazione dei punti di repere, per una valutazione
comparativa, dal volto di soggetti dipinti rivolgendosi alla cortese disponibilità
dellAssociazione italiana per lInformatica e il Calcolo automatico,
presieduta da Giuseppe Mastronardi chè assoluta autorità in materia: magari in
vista di una risposta scientifica risolutiva alla domanda – che, per la statura
dei protagonisti è la più inquietante tra quante possano concernere
liconografia palladiana – se i tratti del personaggio rappresentato da El
Greco nel quadro oggi nei Reali Musei di Copenaghen, sono davvero quelli del
sommo architetto padovano.
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