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Isabella Innamorati

Una lettura ‘strutturale’ del testo

Data di pubblicazione su web 21/09/2014
La lettura “strutturale” del testo

1. Il disagio del teatro di rappresentazione

La lettura “strutturale” del testo ha costituito un fattore caratterizzante del lavoro di Luca Ronconi fin dai suoi primi, celebri spettacoli coordinandosi con la ricerca di uno spazio scenico non tradizionale, con il rifiuto dell’interpretazione psicologica dei personaggi e del realismo convenzionale, in vista di un teatro generatore di esperienza e quindi di conoscenza. In una prima fase tale elemento ha giocato un ruolo importante nel ricomporre in prassi registica coerente le spinte centrifughe dello sperimentalismo di Ronconi. Sperimentalismo che si contrapponeva alla cristallizzazione della produzione teatrale italiana – anche ai livelli più alti – e che nel 1966 spinse il regista a sottoscrivere, assieme ad altri attori, critici e letterati, il manifesto pubblicato su «Sipario» contro «l’inaridimento della vita teatrale».[1]Tale ricomposizione procedette empiricamente e per gradi, investendo in modo diseguale alcuni dei suoi maggiori spettacoli; ma intanto le tensioni innovative ronconiane scaturivano dal profondo disagio nei confronti del teatro italiano dei primi anni Sessanta, tanto da spingerlo ad abbandonare del tutto una carriera d’attore già bene avviata.[2]

L’“antigoldonismo naturalistico” della Buona moglie (1963) e la “crudeltà artaudiana” dei Lunatici (1966) erano stati segnali apparentemente irrelati dell’aspirazione ronconiana di allontanarsi dal paradigma registico vigente, vale a dire la generazione dei creatori della “regia critica” (giusta l’espressione unificante coniata da Luigi Squarzina, tra i più importanti e consapevoli rappresentanti di tale prassi), la quale, dalla fine degli anni Quaranta sino alla fine degli anni Sessanta, aveva costituito la principale direttrice della produzione teatrale nazionale. Rispetto ai suoi colleghi Ronconi andava elaborando nuovi “metodi di lavoro” e tra i più rilevanti c’era appunto il suo modo di confrontarsi con il testo.

Se, infatti, nella regia di Strehler, di Squarzina, di De Bosio il testo venivaanalizzato – avvalendosi del supporto della critica letteraria, dellafilologia, della storiografia e della storia della civiltà artistica – percoglierne il significato storico-sociale eletto a emblema di una condizione dicrisi rapportabile alla condizione attuale degli spettatori (la regia deldoppio percorso)[3] invista di una nuova ermeneutica della vicenda e dei personaggi, Ronconi, invece,poneva in secondo piano la linearità narrativa della fabula a vantaggiodi una giustapposizione di sequenze e considerava i personaggi nella lorovalenza di funzione drammaturgica – non di simulacri di individui – perevidenziare rapporti di identità, opposizione, subordinazione tra gli elementiformali del testo. Il punto di vista ronconiano si collocava all’internodell’opera e di essa mirava a evidenziare la molteplicità delle dinamiche dellinguaggio e della comunicazione. L’approccio non era certo meno scientifico diquello della regia critica, ma su un piano assolutamente diverso e innovativo,orientato verso le tendenze critiche strutturaliste più congeniali a unapoetica personale che fin dalle origini non era interessata alla psicologia ealla identificazione dell’attore con il personaggio.

Il primo spettacolo a porre in luce un assetto più funzionale del dinamismoinnovatore ronconiano fu l’Orlando furioso del 1969. Da questopunto di vista l’Orlando sembrò fissare un termine di non-ritorno nellapersonale maturazione del nuovo linguaggio della scena e lo stretto rapporto dicollaborazione e scambio culturale con Edoardo Sanguineti – estensore del testoteatrale ricavato dal poema ariostesco, poeta a sua volta ed esponente delGruppo ’63, intellettuale e studioso legato al versante italiano dellostrutturalismo – offrì a Ronconi l’occasione per un confronto più organicosulle potenzialità insite nell’orizzonte culturale dello strutturalismo. Non misoffermerò ulteriormente sull’Orlando; mi basti qui soltanto rilevareuna tappa significativa nel consolidamento della lettura strutturale del testoche conobbe sviluppi significativi con l’Orestea del 1972 e Utopiadel 1975.

2. Il lavoro drammaturgico del regista: per un nuovo segno teatrale

È, infatti, con l’Orestea (1972) che compare diffusamente – anche nellapubblicistica di settore –  l’aggettivo“strutturale” collegato al teatro di Luca Ronconi. In questo monumentalespettacolo compendiario di tutte e tre le tragedie, inteso a negare “l’ordinedel discorso” eschileo, il significante veniva dissociato dal significato dellaparola (pur rispettata e anzi acquisita nella rigorosa traduzione di MarioUntersteiner), per cui essa venne pronunciata nei suoi puri valori fonici,rivelatori di nuovi ritmi, ma svincolata dal significato che le apparteneva.D’altro canto i personaggi stessi cessavano di simulare la propria singolaindividualità per trasformarsi in entità senza tempo, principi assoluti etrascendenti: si pensi alla grandiosa Clitemnestra di Marisa Fabbri,raffigurazione vivente di una forza ancestrale e terribile. I significati,allora, prendevano corpo nelle immagini della scena, suggestivi tramitisimbolici che rinviavano al testo verbale, ma infondendo in esso nuova linfa escoprendo nuovi sensi. La drammaturgia era stata curata in prima persona da LucaRonconi, assistito da Cesare Milanese, studioso e traduttore italiano di alcunisaggi di Michel Foucault, autore di una personale analisi strutturalista dellospettacolo ronconiano,[4]più ortodossa dell’empirismo radicato del regista. Quel collocarsi all’internodei testi per coglierne le geometrie interne, quello scandagliare nelladuplicità intrinseca del segno verbale e nella stratificazione del senso eranoormai divenuti acquisizioni irrinunciabili che infatti guidarono la mano delmaestro anche in un successivo spettacolo, Utopia (1975), il cui copionefu il risultato della tessitura drammaturgica di varie commedie aristofanesche.

3. Lescoperte del laboratorio di progettazione teatrale di Prato. Esempi di lettura strutturaledel testo

Punto di confluenza e di riordino teorico-sperimentale di queste ed altre esperienze – non meno rivoluzionarie e grandiose –[5] fu il Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato diretto da Ronconi. Fin dall’inizio (1976), attorno a questo laboratorio si strinsero intellettuali di primo piano, la cui presenza, sia pure provvisoria o temporanea, manifestava l’immediato consenso nei confronti dell’indirizzo strutturalista e dell’impronta interdisciplinare dell’impresa: tra questi Gae Aulenti, autrice dei progetti per lo spazio teatrale, ma anche coordinatrice di un gruppo di architetti impegnati nello studio del territorio pratese che travalicava la specifica finalità degli spettacoli; e Umberto Eco (il cui Trattato di semiotica era uscito un anno prima dell’avvio del Laboratorio pratese), il quale suggerì l’idea del grandioso spettacolo intitolato Il segno della Croce, che avrebbe dovuto concludere l’attività del Laboratorio ma che non fu mai realizzato. L’idea era scaturita da un interrogativo di natura semiotica e non religiosa: come si sarebbe definita la civiltà occidentale cristiana se Cristo fosse morto in un modo diverso invece che sulla croce? In seguito Eco abbandonò l’impresa e fu sostituito da Dacia Maraini alla guida del gruppo L (Linguaggio). E poi si aggiunsero Luigi Nono e più tardi Claudio Abbado; Miklos Jancso, Roberta Carlotto, Franco Quadri, Ettore Capriolo e così via. Inauguratosi nel 1976, l’attività del Laboratorio si protrasse fino al 1979 fra crescenti difficoltà e polemiche di natura politica ed economica, non certo artistica o culturale. Ronconi avviò il lavoro partendo dall’osservazione dei tratti fondamentali dell’esperienza teatrale[6] (drammaturgia, attore, spazio) e della dinamica della comunicazione.

Un altro, se non il principale, tema del Laboratorio era la comunicazione, il rapporto col pubblico teatrale. Parlo intenzionalmente di pubblico teatrale e non di pubblico indiscriminato perché ritengo che a teatro sia necessaria una tecnica, non solo da parte degli attori, ma anche degli spettatori.[7]

Un’affermazione che andava contro l’ideologia diffusa, specialmente in quegli anni, del rapporto immediato tra scena e pubblico, eppure Ronconi sfidò il limite della capacità di comprensione del pubblico stimolandolo a un “rapporto difficile” in relazione al carattere sperimentale del Laboratorio stesso. Il regista era convinto che:

Non si può leggere nulla se prima non c’è un accordo su quello che è l’alfabeto, su alcuni segni. Prima si tratta di capire che è un alfabeto, poi bisogna studiarne le combinazioni, infine si riesce a capire che i segni sono combinati e che probabilmente danno origine a un sistema organizzato di comunicazione.[8]

Scardinamento dei ruoli e dei limiti tradizionali (ossia della netta separazione tra attori, scena e spettatori e del ruolo passivo di questi ultimi nei confronti della rappresentazione), nonché l’avvio di un’indagine sulle potenzialità comunicative di ogni singolo elemento fondativo del linguaggio teatrale (il personaggio, il testo, lo spettatore) da realizzarsi mediante il lavoro in teatro. Entro tale quadro teorico-programmatico Ronconi progettò ben cinque spettacoli: La vita è sogno di Calderón de la Barca, Le Baccanti di Euripide, La Torre di Hugo von Hofmannsthal, Calderón di Pasolini e Il segno della Croce cui si è accennato. Ne furono realizzati soltanto tre, a causa delle travagliate vicissitudini del Laboratorio dovute agli enti pubblici finanziatori, in conflitto tra di loro: Le Baccanti, Calderón e La Torre; ma il livello della loro ricerca sul piano del metodo strutturale, del lavoro sullo spazio, dell’approfondimento della tecnica di recitazione, costituì una tra le proposte più avanzate nel panorama della sperimentazione italiana di quegli anni.

Anche se non rappresentato, merita soffermarsi brevemente su La vita è sogno non soltanto in quanto testo archetipo della Torre e del Calderón, ma per l’articolarsi dell’approfondimento e dell’originalità delle soluzioni prospettate a livello di tecnica di recitazione e di proiezione visuale nello spazio scenico. La vita è sogno avrebbe dovuto svolgersi in tre luoghi distinti: il primo atto al Fabbricone, il secondo al teatro Metastasio, il terzo nella vasta aula a piano terra dell’ex-cementificio Marchino nella periferia pratese, a sottolineare la stretta interdipendenza dell’elaborazione spettacolare con la scelta dello spazio e la necessità di estrapolare lo spettacolo dal paradigma abusato e ormai privo di senso del palcoscenico tradizionale. Ronconi impostò la scomposizione di tutto il testo già nei primi otto versi della battuta di Rosaura. La complessità di questo personaggio venne scissa in otto aspetti, rappresentati, in fase provvisoria, da otto attrici diverse, situate entro un luogo-macchina impenetrabile ai tentativi di avvicinamento da parte del personaggio-servo, Clarino. Dell’intenso lavoro di analisi sulla Vita è sogno, restano i disegni in assonometria di Gae Aulenti che visualizzano non tanto i progetti della scena futura, bensì stadi consuntivi delle prove. In essi si possono riconoscere le otto Rosaure collocate dentro il proprio sistema chiuso e si vede Clarino, che col suo moto circonda il perimetro del luogo/personaggio che si trasforma. Egli, d’altra parte, è esterno alle vicende di Rosaura e Sigismondo; vi assiste senza potervi partecipare e in tal senso è anche «estensione dello spettatore».[9] I personaggi della Vita è sogno non vivono più negli attori, come nella consuetudine, ma sono luoghi dello spazio conquistando, in virtù di questo spiazzamento, una nuova evidenza e un inedito rilievo comunicativo.

Il primo spettacolo a essere presentato pubblicamente fu, invece, Le Baccanti di Euripide. Anche qui la sperimentazione di Ronconi si concentra sulla convenzione del personaggio, attribuendo tutte le parti del testo a una sola attrice, Marisa Fabbri, chiamata a costruire la performance confrontando ogni parola e proposizione del testo con tutte le possibili reazioni del piccolo gruppo dei  ventiquattro spettatori ammessi ogni sera. Le Baccanti furono il frutto della stretta collaborazione dell’attrice col regista, la cui funzione principale fu quella di porsi dalla parte del pubblico verificando le possibilità di ricezione da lei suscitate. Vanificato il racconto e il conflitto dei personaggi, la dinamica dello spettacolo si fondò sulla «evidenziazione»[10] della struttura del testo (nella sua scansione formale di prologo, parodo, episodio, stasimo eccetera) grazie al movimento dell’attrice da un ambiente all’altro del luogo spaziale deputato, ossia l’Istituto Magnolfi, un ex-orfanatrofio pratese. Marisa Fabbri, d’altro canto, «non riveste i panni dell’interprete, ma di chi riceve da altri una comunicazione; e infatti tenta continuamente di precedere col flusso delle sue parole e dei gesti la reazione dello spettatore, spossessato del suo ruolo di unico destinatario».[11]

Con Calderón, prima tappa del percorso originato dalla Vita è sogno, si è dinnanzi al massimo grado di schematizzazione per rendere intellegibile il testo pasoliniano. La caratteristica più interessante di questo dramma, secondo Ronconi, era la scrittura retorica, nel senso di uno stile univocamente finalizzato alla dichiarazione di una tesi ideologica a scapito della differenziazione dei personaggi e del dialogo intersoggettivo. La comunicazione, così, si svolgeva direttamente tra l’autore e il pubblico. Gli attori, trasformati in funzionali portatori di parole, pronunziavano i brani di pertinenza con recitazione atonale e rallentata e si muovevano lungo traiettorie geometriche luminose proiettate dall’alto sulla vasta pedana unificante scena e platea del teatro Metastasio, con il pubblico sistemato nei palchi. Il tracciato di Rosaura si svolgeva lungo l’asse centrale, dalla scena-Palazzo verso l’uscita: gli altri personaggi gravitavano attorno a lei reiterando spostamenti lungo i perimetri simbolici del cerchio e del quadrato. La scena-Palazzo del primo sogno di Rosaura accoglieva la ricostruzione tridimensionale di Las Meninas di Velázquez, dipinto espressamente citato da Pasolini recuperato da Ronconi per evidenziare la collocazione dell’autore dentro e fuori la propria opera, così come il pittore spagnolo che si autoeffigiò nel famoso e ambiguo quadro. All’artificio retorico pasoliniano, Ronconi affiancò l’artificio razionale della scena, correlativo visuale della struttura dei rapporti e delle situazioni del testo. Qui, come anche nella Vita è sogno, la «trasformabilità dei segni» dell’analisi semiotica[12] viene coscientemente utilizzata da Ronconi assegnando allo spazio il ruolo del personaggio e all’illuminotecnica il compito di teatralizzare situazioni e rapporti.

Con La Torre Ronconi tornò alla convenzione del personaggio restituito in chiave naturalistica per chiaroscurare nettamente l’ambivalenza intrinseca del testo di Hofmannsthal, il dramma del binomio realtà-inganno e della ricerca della identità. Analogamente la sala rettangolare del teatro Fabbricone venne interamente rivestita di falsi stucchi, marmi, vetrate e affreschi (realizzati in plastica, tela dipinta e legno) a immagine e somiglianza di una sala della reggia di Würzburg, scelta dall’architetto-scenografo Aulenti quale prototipo architettonico plausibile per questa moderna rimeditazione della Vita è sogno. Il pubblico era ammesso ad assistere schierato lungo le zone perimetrali della sala ed era costretto a uscire al termine di ogni quadro, sette in tutto, per consentire i cambi di scena. La recitazione permise di far emergere i diversi strati linguistici di questo dramma, il linguaggio della memoria e quello dell’azione, il linguaggio fondamentale e quello quotidiano della finzione, l’automatismo dei gesti che nasconde sempre un’altra verità, tanto è vero che il piano della vicenda si intreccia con la scomoda denuncia della crisi del mondo dell’autore, narrando nel contempo una parabola cristologica, resa con dura allusività, con distaccata ironia.[13]

In conclusione i fattori costitutivi dell’ottica strutturale all’interno del processo creativo dello spettacolo investirono il ruolo del testo e quello delle singole parole. Il testo divenne campo d’investigazioni potenzialmente inesauribile di significati e di relazioni. Fu messa in atto un’analisi formale volta a scansionare per grandi campiture e a estrarre, evidenziandoli, i rapporti fra le parti del testo in vista di un nuovo modo di comunicarlo e di ridargli senso. L’indagine fu, infatti, orientata verso la comunicazione di un’esperienza, costituita dallo spettacolo stesso, che doveva risultare inusuale, sorprendente, traumatizzante, comunque imprevedibile per lo spettatore.

Le singole parole del testo costituivano le fonti delle immagini dello spettacolo ma con intenzionali effetti di contraddizione tra significato e significante, di enfasi straniante, mai di mera illustrazione. Esse dovevano essere liberate dalle stratificazioni di senso accumulate nel corso della tradizione teatrale, in direzione di una nuova conoscenza che si attuava, appunto, proprio attraverso il teatro. Da questi pochi cenni si chiarisce che l’aggettivo “strutturale” non andrà inteso riduttivamente come meccanica applicazione di una tendenza culturale in auge negli anni Settanta e neppure come variante specifica dello strutturalismo in ambito teatrale, perché Ronconi ha sempre aspirato a infrangere le gabbie strette delle definizioni. L’impianto teorico complessivo del Laboratorio fu universalmente riconosciuto come coerente a un’impostazione metodologica strutturalista che tuttavia negli anni seguenti non poté ripetersi con la medesima coerenza. A chi gli chiedeva le ragioni di tale cambiamento Ronconi ha risposto con sereno pragmatismo, ma ribadendo la validità di quelle linee di ricerca:

Dopo il Laboratorio di Prato la committenza è profondamente cambiata. Per esempio, io mi sono sempre trovato a disagio nel fare spettacoli su un palcoscenico, non è una cosa che mi appartenga naturalmente. Fino agli anni del Laboratorio di Prato era possibile scegliere un altro luogo per allestire spettacoli. Dopo il laboratorio di Prato è stato difficile farlo, almeno per me, non per ragioni artistiche ma perché non veniva commissionata una realizzazione in luoghi che non fossero “canonici”. Ho quindi dovuto imparare a fare delle altre cose: mettere degli spettacoli su un palcoscenico e imparare un linguaggio che forse non mi era tanto congeniale.[14]

In realtà l’interesse perla lettura strutturale dei testi non s’interruppe con Prato. La si rintracciaanche negli spettacoli ibseniani immediatamente successivi al Laboratorio (L’anitraselvatica, 1977,;John Gabriel Borkman, 1982; Spettri, 1982)[15]nella funzione non descrittiva ma simbolica e connotativa della scenografia; analogamente il lavoro sul personaggio scopre la lettura antipsicologistica e strutturale del personaggio. Ma anche negli spettacoli più recenti come La compagnia degli uomini di Edward Bond e Lehman Trilogy di Stefano Massini si trovano tracce di tale punto di vista. Nella Compagnia degli uomini, l’attenzione del regista si è concentrata sulla struttura formale della pièce rilevandone la progressiva torsione formale: dal dramma realistico nel primo atto, alla tragedia nel secondo, per approdare al finale agghiacciante, ma ridicolo. Benché il regista abbia costruito lo spettacolo assegnando rilievo assoluto alla prova d’attore, e per giunta in un quadro scenico definito con tratto essenziale, la definizione dei comportamenti dei personaggi ha scartato sin dall’inizio gli interrogativi d’ordine psicologico sul “perché” delle azioni di ciascuno spostando l’attenzione sul quadro complessivo. Il suo avvicinamento al testo non si discostava, perciò, dalle fondamentali linee di investigazione sul linguaggio teatrale sulle quali mi sono soffermata.


[1] Per un convegno sul Nuovo teatro: «Sipario», novembre 1966, n. 247.

[2] Aveva iniziato precocemente, ancora allievo dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, inserendosi subito nel giro delle compagnie rinomate e sotto la guida dei registi più importanti della scena italiana, a cominciare da Luigi Squarzina, col quale condivideva la comune formazione all’Accademia, suo scopritore, suo primo regista e per certi aspetti anche antifrastico apripista di filoni drammaturgici poi percorsi in autonomia. Ma oltre a Squarzina aveva lavorato con: Orazio Costa, Giorgio Strehler, De Lullo e persino Antonioni, regista di un’inedita compagnia di giovani celebrità: Virna Lisi, Giancarlo Sbragia, Luca Ronconi, Monica Vitti.

[3] Cfr. C.MELDOLESI, Fondamenti del teatro italiano(1984), Roma, Bulzoni, 20082.

[4] Cfr. C. MILANESE, Luca Ronconi e la realtà del teatro, Milano, Feltrinelli, 1973.

[5] Esemplificando mi limito soltanto a rievocare i titoli di: 1) XX, 1971, commissionato da Action Culturelle du Sud-Est a Ronconi e coprodotto con Teatro Libero di Roma, su testo di Rodolfo Wilcock intitolato La Roue andato in scena a Parigi, al Théâtre Odéon (ovvero Thèâtre des Nations-Thèâtre de France), replicato poi a Zurigo; 2) Das Käthchen von Heillbron di Heinrich von Kleist, andato in scena nel 1972 in dimensioni drasticamente ridotte rispetto al grandioso progetto iniziale che prevedeva scena e pubblico collocati su zattere galleggianti sulla superficie del lago di Zurigo (scenografie di Arnaldo Pomodoro) a causa del tardivo divieto degli organi di sicurezza. Venne infine trasferito al chiuso, a causa della pioggia, presso la Schutzenhaus Albisgüetli.

[6] Cfr. L. RONCONI, Il linguaggio dell’attore, in F. QUADRI-ID.-G. AULENTI, Il Laboratorio di Prato, Milano, Ubulibri, 1981, p. 15.

[7] Ivi, p. 16.

[8] Ibid. Il tema della “comunicazione teatrale” era al centro degli interessi del regista già da Utopia: «l’importante è che si riesca a predisporre le cose in modo tale da consentire quel superamento del rapporto testo-spettacolo, spettacolo-pubblico che mi sta molto a cuore». Si legge in F. QUADRI, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Torino, Einaudi, 1973, p. 152.

[9] RONCONI, Il linguaggio dell’attore, cit., p. 16.

[10] K. ELAM, Semiotica del teatro, Bologna, il Mulino, 1988, p. 24.

[11] F. QUADRI, Nel territorio dell’utopia, in ID.-RONCONI-AULENTI, Il laboratorio di Prato, cit., p. 12.

[12] «Trasformabilità» ovvero «mobilità» e «dinamismo» dei segni. Cfr. ELAM, Semiotica del teatro, cit., p. 20.

[13] Cfr. QUADRI, Nel territorio dell’utopia, cit., p. 13.

[14] Luca Ronconi e il suo teatro. Settimanadel teatro (Gargnano del Garda, 8-15 aprile 1991), a cura di I. INNAMORATI,Roma, Bulzoni, 19912, p. 192.

[15] Cfr. F. GAVAZZI, “John Gabriel Borkman”: al di là del naturalismo, in Luca Ronconi e il suo teatro, cit., pp. 59-65.



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