1. Laffiorare del sommerso: una “Memoria” riesumata Nello stato italiano che era diventato «esemplare focolare dei lumi, alla fine degli anni sessanta del Settecento», si produssero, comè noto, esperienze decisive anche sul piano artistico: Parma fu infatti insignita del blasone di «Atene dItalia», sostanzialmente in virtù delloperoso attivismo del suo primo ministro, Guillaume-Léon Du Tillot, uno degli statisti più stimati in Europa, nonché «regista delle arti nelletà dei Lumi». Altrettanto noto è che la politica culturale di Du Tillot si espresse ad ampio raggio anche in campo teatrale. Così, di recente, sono state sintetizzate le sue «tre iniziative più significative»: il tentativo di riforma del teatro in musica, perseguito dal ministro sul finire degli anni Cinquanta del Settecento e affidato a Carlo Innocenzo Frugoni e Tommaso Traetta, la chiamata a Parma di una compagnia di teatrale stabile e di elevata qualità come quella di Jean Philippe Delisle e infine listituzione nel 1770 del celebre, anche se sostanzialmente infruttuoso, concorso di drammaturgia. Ciascuna di queste imprese è stata fatta oggetto di fruttuose indagini: ma, per lultima citata, il focus analitico sembra essere stato viziato e distratto da una prospettiva eminentemente letteraria. Si trattava – come si ricorderà – del concorso istituito nel 1770 dal duca Ferdinando per premiare opere teatrali «degne dessere coronate dalla reale munificenza», e perché «la nostra Nazione» non abbia «più ad invidiare alle altre la scenica dignità»: uniniziativa sino ad allora inedita in Italia (e anche in Europa) che aveva suscitato subito plauso e aspettative grandi. I criteri del Programma offerto alle Muse Italiane (da cui la precedente citazione), redatti da colui che, sotto altri profili, era stato il maggior artefice della politica culturale parmense, il teatino Paciaudi, erano improntati al più vieto classicismo e concorsero, insieme alle carenze della commissione giudicante, a un sostanziale e rapido fallimento delliniziativa; ma contenevano – su molto probabile input di Du Tillot – unimportante indicazione di metodo, che avrebbe dovuto stimolare la ricerca storiografica in àmbiti non meramente letterari: Lesperienza fa vedere che la desiderata perfezion del Teatro dipende non tanto dalla bontà de Drammi, quanto dalla vera, e giudiziosa maniera di animarli, ingegnosamente appellata la magia delle Scene. Lignoranza, lirreflessione, linsufficienza degli Attori recano sovente freddezza, languore, confusione nel Dramma il più espressivo, il più toccante, il meglio ordinato. […] Per ristabilire anche in ciò la gloria del Teatro Italiano Sua Altezza Reale manterrà una scelta Società di oneste persone, civilmente educate, le quali rappresenteranno ogni anno la Tragedia, e la Commedia, che saranno state premiate. Verranno gli Attori ammaestrati, e diretti da persona capace dinspirar loro il giudizio, e il sentimento, che sono i due principi atti a produrre il desiderato successo. Il Direttore prescelto, esperto conoscitore, comegli sarà, delle bellezze de Teatri delle colte Nazioni, si occuperà tutto, onde risulti a quello di Parma anche lesattezza, e la proprietà convenienti ai due generi di rappresentazione. Non aveva certo potuto essere lillustre ed eruditissimo antiquario Paolo Maria Paciaudi a ideare e esprimere tale sensibilità verso limprescindibile “inveramento” rappresentativo della «bontà de Drammi»; ma per certo lo era stato quel Du Tilllot che – già dagli anni Trenta addetto ai Menus-Plaisirs di Don Filippo, e divenuto sin dal 1749, allatto dellinsediamento dellInfante nel ducato, sovrintendente allorganizzazione teatrale dello stato – dal 1753 aveva avocato a sé anche le mansioni impresariali. Si avvaleva di una rete di fidati collaboratori, ma controllava sempre di persona i contratti degli artisti (che fossero cantanti, ballerini o attori), le scenografie, i costumi, il repertorio: si occupava insomma dei «minimi dettagli dellorganizzazione materiale degli spettacoli», e non mancava di tenersi informato «sugli spettacoli delle principali città italiane, come testimoniano le lettere dei vari ambasciatori a Milano, Venezia, Verona, Torino, Genova, Modena, Bologna». Dal carteggio confidenziale che intrattenne a lungo con Girolamo Grimaldi, primo ministro in Spagna, si può desumere quanto Du Tillot investiva sul Programma, e come le sue idee evolvessero al riguardo. In data 29 aprile 1770, dopo aver – in una precedente missiva – informato il suo illustre corrispondente delliniziativa intrapresa nel ducato, gli scriveva: Je suis bien content que Votre Excellence ait été satisfait de notre Programme, et bien aize davoir eu en quelque façon lidée quelle a concue. Nous avons beaucoup de lettres dauteurs qui se preparent a travailler […]. Au reste notre idée, Monsieur, est dintroduire, ou de retablir un genre plus utile, et plus epuré. Mais il ne faut pas détruire dans une autre classe les Masques genre si original, ou il y a tant de merite, et dont on pourroit tirer un si grand parti, si on navoit pas toujours a faire au bas Peuple. Le Roy avoit protégé a Naples un genre nouveau et singulier, plein desprit, de naturel, et de merite, dont on ma beaucoup parlé, et que je ne connois que par relation. Cétoit un gentilhomme, ou cavalier qui en étoit le mobile, et cétoit pour le palais. Tre sono le informazioni interessanti che emergono da tale testimonianza: quella, abbastanza scontata, che la paternità del progetto era di Du Tillot; una seconda, molto meno prevedibile, sulla necessaria preservazione delle rappresentazioni allimprovviso, del teatro delle maschere: un accorgimento che è ben chiaro al profondo conoscitore dellestetica teatrale, del valore nevralgico che in essa riveste la pluralità repertoriale (tanto più in presenza di una tipologia spettacolare dal collaudato valore e dalla persistente originalità), ma che risulta completamente rimosso dalla redazione del Programma, dove anzi «les Masques» sono espressamente proscritte. Lapparente contraddizione si spiega probabilmente col fatto che nel Programma poteva trovare esplicito spazio solo lidea di un «genre plus utile, et plus epuré», ma che questo non escludeva – per le future pratiche rappresentative della compagnia da formarsi alluopo – la presenza delle maschere. È quanto si può desumere da una lettera di Pietro Chiari, datata Venezia 17 febbraio 1771 e indirizzata probabilmente a Giuseppe Pezzana, il segretario della «Regia Accademica Deputazione» preposta al concorso, su cui avremo presto modo di tornare; la lettera è interessante anche per registrare come le posizioni di un Chiari fossero meno sensibili verso le concrete dinamiche spettacolari di quelle di un Du Tillot: Si dice, e autenticato sembra dal fatto, che nelle Commedie accennate dal Programma costà pubblicato si voglia dar luogo alle Maschere, quali si costumano nelle Burlette italiane, che abusivamente si chiamano Commedie dellArte. Per quanto vede il mio cortissimo intendimento ripugnano queste Maschere al Programma suddetto; perocché da Poeti Comici far non si può senza molta violenza, che parlino in verso; siccome ho fatto io medesimo qualche rarissima volta del solo Arlichino, per accomodarmi ad un fanatismo allora corrente. […] Non si creda ciò detto in discredito delle Maschere Comiche. Troppo io venero le vastissime idee di quella mente sì illuminata [Du Tillot], che stender vuole sin dove umanamente si può lonore, e il diletto delle Scene italiane. […] necessarie io confesso anche le Burlette correnti, e indispensabili a queste anchio conosco le Maschere. Così si trovasse persona dabilità, e di esperienza che tutte prendesse per mano queste Burlette dellArte, e ne rimpastasse, come si potrebbe assai meglio, gli antichi Soggetti; ne levasse linverosimile; ne regolasse il ridicolo; o ne scrivesse a disteso le parti serie, per non sentire almeno dagli Attori, e dalle Attrici inesperte tanti spropositi ditaliana grammatica. Allora sì che questo genere ancora di teatrale divertimento riuscirebbe più dilettevole e più decoroso allItalia nostra. Ma torniamo alla lettera di Du Tillot a Grimaldi del 29 aprile 1770, e alla terza, alla più significativa, informazione che essa ci fornisce: il modello di riferimento a cui aveva guardato lo statista parmense – pur non avendone avuta conoscenza diretta, ma solo «par relation» – era stato quello della singolarissima esperienza del commediografo, ma soprattutto metteur en scène, Domenico Luigi Barone, marchese di Liveri, attivo a Napoli alla corte di Carlo di Borbone negli anni Trenta-Quaranta: è senzaltro lui il «mobile» del «genre nouveau et singulier» menzionato nella lettera, una personalità di peso nel teatro italiano settecentesco, in questo stesso giro di tempo conosciuto e ammirato – sempre «par relation» – da un Diderot, e in anni precedenti emulato da un Goldoni. Il modello-Liveri era quello in cui leccezionalità della resa spettacolare era garantita non certo dalla qualità dei testi dellautore, ma dalla sua leggendaria abilità e puntigliosità concertativa (le scene multiple sapientemente orchestrate, il sospiro fatto provare per ben trentadue sere consecutive, di cui Francesco Cerlone tramanda il ricordo ammirato), resa possibile peraltro solo dalla privilegiata condizione di poeta di corte che agisce in uno spazio sottratto alle leggi del teatro impresariale e commerciale. Non pare insomma un caso se una personalità come Du Tillot, così attenta alla dimensione concreta, performativa, delleccellenza teatrale, avesse coltivato dentro di sé lidea di rinnovare a Parma lesperienza che era stata propria della corte di Napoli. Daltro canto, le condizioni finanziare del ducato, di cui il primo ministro aveva attenta cognizione, non avrebbero mai potuto rendere possibile il replicarsi di quellesperienza, né essa avrebbe potuto essere proponibile come unica risorsa spettacolare dello stato. Du Tillot dovette presto rendersi conto della necessità di correggere il tiro: mancavano il tempo, le “risorse umane” e quelle economiche per dar vita allideazione originaria; né per certo il clima a corte (funestato dalle capricciose cabale di Maria Amalia, lottava figlia di Maria Teresa dAustria che nel 1769 aveva sposato lInfante Don Ferdinando) agevolava limpresa. E così, sempre a Grimaldi, il 28 ottobre 1770 comunicherà che aveva dovuto mettere da parte lo studio dellorganizzazione impresariale legata al Programma, «livré au duc de Sforza, et dechu aujourdhui par le peu de goût de notre cour au ton le plus abject et le plus bas». Nel giro di poco più di un mese, tuttavia, faceva di necessità virtù; e, laddove il Programma aveva previsto la formazione di una «Società di oneste persone, civilmente educate», «ammaestrate, e dirette» da un direttore «esperto conoscitore […] delle bellezze de Teatri delle colte Nazioni», Du Tillot si orientò verso lutilizzo di una compagnia formata da attori italiani già in esercizio. Così infatti scriveva a Grimaldi in una lettera del 2 dicembre 1770: Il nest plus le tems davoir ici des spectacles françois dispendieux. Une troupe comique a peu de frais, Italienne comme du tems des Farnezes, bien instruitte, sera lamusement de la cour pour le nouveau genre des Pieces que commence a nous envoyer lItalie, et diminuera ce desir que nos Princes ont de se mettre eux-même sur le Theatre dune maniere trop publique, et que nous tachons de combattre. Non ci si lasci ingannare dal richiamo alle pratiche spettacolari dei Farnese, che Du Tillot senzaltro impiega per porgere la notizia con un exemplum analogico quanto generico, che fosse cioè dimmediata (ma anche semplificata) comprensibilità per il suo lontano corrispondente. I Farnese avevano certamente fatto parte della categoria dei «principi impresari», ma le compagnie da loro sostenute – come altrove in casi consimili – non erano affatto stanziali, e se garantivano una sorta di diritto di prelazione sulle proprie prestazioni alla casa regnante del cui patronage si avvalevano, e se costituivano un importante strumento politico-diplomatico, non per questo rinunciavano alla propria indipendenza artistica e al richiamo del mercato, secondo quella che è stata felicemente definita una dialettica di «sottomissione e autonomia». Rispetto a consolidate tradizioni, nella Parma di Du Tillot le cose andarono diversamente: qui, proprio in relazione al Programma, si avviò una radicale riconsiderazione dellorganizzazione spettacolare, quasi prefigurando lesperienza che sarà propria delle compagnie “privilegiate” di primo Ottocento. È quanto appunto testimonia la nostra Memoria riesumata. 2. Contorni e retroscena del sommerso Il documento che qui si pubblica – rimasto non solo inedito, ma del tutto incognito alle pur rigogliose indagini di settore – getta luce su quello che fu realmente il cuore pulsante, ancorché nascosto, del Programma parmense: la formazione di una compagnia stabile (dove alla stabilità ineriva anche, per la prima volta, una fondamentale stanzialità). Se il “pretesto” era quello di allestire con il debito decoro le opere annualmente coronate dal concorso, il vero obiettivo divenne garantire una permanente eccellenza degli allestimenti, dando slancio alla riqualificazione dellarte attorica italiana. Comera venuto profilandosi questaudace progetto? Quando Du Tillot aggiornava Grimaldi sullevoluzione delliniziativa (siamo – come si ricorderà – ai primi di dicembre del 1770), aveva per certo già messo in moto il suo piano: affidare a una persona di fiducia il compito di effettuare una «scelta, e proposizione de migliori soggetti delle comiche compagnie che girano lItalia» per realizzare la compagnia che avrebbe dovuto prendere servizio a Parma, anche (ma non solo) al fine di garantire il decoroso allestimento delle opere premiate. La persona incaricata dovette essere, quasi per certo, Giuseppe Pezzana (1735-1802), uomo di assoluta fiducia del primo ministro: il quale gli aveva fra laltro affidato, dal 1764, la redazione della «Gazzetta di Parma», strumento indispensabile di difesa e propaganda a sostegno del radicale piano riformistico in atto nel ducato, e laveva “infiltrato” nel seno stesso dellAccademica Deputazione che presiedeva al concorso drammatico, facendolo eleggere segretario. Il solerte funzionario – futuro editore della sontuosa edizione parigina delle opere di Metastasio – aveva diligentemente compilato la sua Memoria intorno la scelta di unaccademia dattori tragici e comici. Aveva tenuto conto delle specifiche indicazioni operative che Du Tillot gli aveva impartito, e in particolare la cura nello scegliere talenti giovani, malleabili, da poter educare in uno stile recitativo più evoluto di quanto non apparisse quello corrente sulle scene italiane; un “prerequisito” che Pezzana stentò moltissimo a garantire, e che, di fatto, restò circoscritto al solo caso della servetta. Aveva, soprattutto, operato una cèrnita ponderata, il cui punto di forza erano state la conoscenza diretta e la valutazione in atto degli attori da cui estrarre la rosa dei papabili («il fiore della Compagnie Italiane», § 4): proprio tale circostanza – come vedremo – è allorigine di uno degli elementi di maggior interesse della Memoria, il saperci restituire uno sguardo “tecnico”, interno, sullaffollata fauna attorica di fine Settecento, al di là dei clichés rappresentativi cui siamo abituati, oscillanti tra le prevedibili polarità della retorica dellelogium (Francesco Bartoli) e di quella del vituperium (Antonio Piazza). Aveva, infine, condotto le sue indagini (e le proposte che ne seguirono) alla luce di una conoscenza intima delle regole della scena, e di una percezione esatta dei limiti dello stile attorico italiano, entrambe singolarmente consonanti – anche di questo ci renderemo conto – con il punto di vista del pur mai menzionato Carlo Goldoni. Anche se il documento, oltre che anonimo, è non datato, elementi interni consentono di ancorare la redazione del testo al dicembre del 1770. Du Tillot, acquisiti i risultati dellindagine, li trasforma in un progetto della cui necessità persuade abilmente la Regia Accademica Deputazione preposta al concorso, accampando limpossibilità di fare leva, per la dovuta rappresentazione delle opere coronate, sullarruolamento di gioventù “indigena” da educare alla bisogna (impegno che non era previsto in questi termini nel Programma). Ecco quanto scrive ai «colendissimi deputati», in data 26 gennaio 1771: Quanto più si considera larticolo del Programma, che risguarda la rappresentazione dei Drammi da coronarsi, tanto più difficile sembra il poter trovare nel Paese Gioventù, che sia capace, e voglia addossarsi simile impegno. Oltre luso necessario del Teatro, e della pura Lingua Italiana, converrebbe supporre ne giovani un ozio perfetto dalle cure domestiche, dagli studi, e da ognaltra seria occupazione: oppur temere che una tale applicazione non li distraesse dai doveri di Figli, e di Cittadini, o non ispirasse loro una smoderata inclinazione al teatro non conveniente al loro grado […]. Non sarebbe minore la difficoltà nel ritrovar Donne, che in uno stato civile volessero dedicarsi a tale occupazione. Presentato in questo modo, il progetto non può che «incontrare», da parte dellAccademica Deputazione, «lunanime approvazione, ed applauso in tutte le sue parti», come viene comunicato a Du Tillot già il 28 gennaio dal segretario della Deputazione: cioè quel medesimo Giuseppe Pezzana che aveva dato corpo, mandante il primo ministro, alla Memoria su cui era basato il progetto stesso. Il gioco delle parti tra lo statista e il suo uomo di fiducia dovette servire anche a dissimulare – agli occhi di quello che avrebbe dovuto essere lente proponente e giudicante – una macchina organizzativa già vigorosamente messa in moto: ben prima che il nuovo progetto fosse sottoposto al vaglio della Regia Accademica Deputazione, Pezzana aveva suggerito a Du Tillot quello che avrebbe potuto essere il giusto referente per avviare le contrattazioni con gli attori “di stanza” a Venezia (la maggior parte, come vedremo, di quelli destinati a formare il nuovo complesso): e cioè lattore Luigi Bissoni. Al Pantalone della compagnia Medebach, infatti, già il 29 gennaio, il segretario Pezzana scrive una lettera “di ingaggio”, che merita citare per esteso: Padrone, ed amico carissimo
Eccole un pacchetto di lettere, che deve giungerle franco. Ho partecipata la mia idea dindirizzarlo a lei a Sua Eccellenza il Sig.r Marchese Ministro, il quale si è degnato dapprovarla, soggiugnendo che laffare veniva così fidato a persona savia, prudente, e di suo genio, che saprebbe far buon uso delle convenienze della Corte, e servirla nello stesso tempo a dovere.
Si tratta di formare unaccademia Reale, comella comprenderà dalla sua lettera dufizio; si tratta di scegliere per il meglio e di servir bene lInfante relativamente al Programma delle Tragedie, e delle Commedie. I soggetti da fermare per ora in questa Piazza [Venezia], sono quelli di cui le dirigo le lettere. Essi, come ella, non sono che per istar bene; ma bisogna chella prenda le cose con tutta la prudenza, e la cautela.
Mincarica Sua Eccellenza singolarmente di pregarla di prendere il mezzo più conveniente per la distribuzion delle lettere, sicché tutti portino senza strepito le loro difficoltà, e dubbj a lei; ed ella abbia la bontà di annunziare a me le opposizioni, e i mezzi più savj di superarle, in caso che ne insorgano. Pare che in questo fatto convenisse a tutti gli prescelti di convenire insieme, dandar di concerto, di prender le misure necessarie, di confidare il tutto a lei, e di disporre le cose in maniera che senza precisa necessità la Corte non abbia ad incomodare veruna persona di riguardo. Dico in caso di precisa necessità, perché si suppone che qualunque de soggetti preferiti, penserà alla solida sua sussistenza, al suo onorifico, e alla distinzione che questa determinazione del R. Infante porta alla nuova accademia, sopra tutte le compagnie comiche dItalia, ad onore dellItalia medesima; saprà anche onestamente disimpegnarsi mettendo in vista il desiderio della R. Corte di Parma.
Tutti i suggerimenti onesti, pronti, e convenienti che da lei verranno, serviranno a noi di regola in caso diverso. Intanto sia ben persuaso, gentilissimo Sig.r Luigi, che linteresse chella prenderà in questa circostanza, sarà una prova evidente della sua stima verso S. E. il Sig.r Marchese Ministro, e di vera sincerissima amicizia, e bontà per me, che amo di eseguire a dovere gli ordini di S. E. In Luigi Bissoni, il civile mercante che per necessità si era dovuto fare comico, viene riposta – come si vede – la fiducia degna di un diplomatico: un Pantalone già noto e stimato dal primo ministro (probabilmente durante le trasferte parmensi della compagnia Medebach), che ora viene insignito del ruolo di sensale di comici, in alternativa alle consuete, potenti strategie proprie delle Corti (si pensi alla prescrizione di «disporre le cose in maniera che senza precisa necessità la Corte non abbia ad incomodare veruna persona di riguardo»). Da questo momento in poi, sino al luglio 1771, si svilupperà un fitto carteggio tra Bissoni e i referenti della Corte parmense: la corrispondenza del Pantalone, per lesattezza, correrà lungo un duplice binario, dovendo tenere informato non solo Giuseppe Pezzana, ma anche Pio Quazza, l«Incaricato degli affari Teatrali di S. A. R.», il funzionario responsabile, fra laltro, della definizione tecnica dei contratti con gli artisti. Un carteggio, soprattutto, in cui si inseriscono le voci degli attori coinvolti nelle trattative – personalità di prima grandezza nel panorama coevo: Agostino Fiorilli, Giuseppe Majani, Caterina Manzoni, Margherita Gavardina, Tommaso Grandi, Regina Marchesini, Giuseppe Lapy, Felice Sacchi – e che pertanto costituisce un assieme documentario unico nel suo genere. Non è purtroppo questa la sede per dedicarvi lattenzione che pur merita, e sarà piuttosto utile limitarsi a delineare le tappe fondamentali della trattativa. Merita tuttavia citare almeno in parte, per il suo gustoso valore documentario, la lettera del 9 febbraio 1771 con cui Bissoni informa Pio Quazza sullavvio della contrattazione con i colleghi di stanza a Venezia: Padrone, ed Amico Carissimo
Come intenderà dallaltra mia qui annessa ho eseguiti glordini con la maniera più destra perché tutto riesca con buon ordine. Ho fatto venire separatamen.te gli Uomini ad un Caffè, dove ristrettam.te ho loro detto le intenzioni della Reale Direzione, lasciando ad essi la libertà di rispondere a suo senno, insinuandoli solo lutile suo, e il suo onorifico per tal proposizione. Dalle Donne mi sono portato a sua casa. La Manzoni mi ha fatto lobietto del Marito, chè a parte ancor lui, e in questanno tra netti tutti due avranno dutile da Ducati 1.600, ed io le ho detto, che nella let.a di risposta scriva quello crede a proposito, e mi pare potrebbe essere al caso per P.mo Zanni cioè Brig.a. Facciano essi quello credono. La Margherita [Gavardina] ha accettato con piacere. Ho raccomandato a tutti il silenzio, ma inutilmente mi sono affaticato perché il Maianino [Giuseppe Maiani] e la Margherita (credo per vanità) non si sono potuti tenere, e lhanno pubblicato. Si può figurare il bisbiglio! ma sono cose da ridere, e da divertirsi. «La prudenza, e la cautela» dellaccorto Pantalone Bissoni nulla avevano potuto contro la «vanità» dei comici, né tanto meno contro lallegro e tumultuoso chiacchiericcio che si propagò come unonda irrefrenabile sulla “scena” veneziana. Il divertimento, cui faceva riferimento nella sua missiva il nostro sensale di comici, dovette per certo essere garantito; ma il diffondersi della notizia – una grande novità nella routine del mercato teatrale – comportò anche ricadute incresciose nello sviluppo delle trattative. Prima fra tutte, la levata di scudi che venne dal fronte dei capocomici esposti al “furto” dei loro attori: Antonio Sacco, che dopo aver subito la perdita, appena un anno prima, del grandissimo Pantalone DArbes, si vedeva ora portar via un elemento altrettanto essenziale della sua troupe (il Tartaglia Fiorilli); Giuseppe Lapy, cui si prospettava addirittura la perdita in blocco delle due coppie di innamorati (Giuseppe Majani, Tommaso Grandi; Caterina Manzoni, Margherita Gavardina). E se il primo fece valere il peso e lautorità del proprietario del teatro, Francesco Vendramin, tentando di adire le vie legali; il secondo, molto più ribaldo e insinuante, avviò una trattativa segreta con la Corte parmense, cercando di sponsorizzare la propria persona per la Direzione della costituenda compagnia reale in cambio di informazioni segrete sui reali compensi dei suoi attori (spesso accortamente mistificati), o sui loro limiti, o sui loro vizi. Va anche detto, però, che nella controparte faceva fronte la salda consapevolezza che «sotto a questo benedetto Cielo, chiamata di Principe scioglie li impegni». Non secondaria la ricaduta che la notizia del prestigioso incarico ebbe sul narcisismo degli attori prescelti, che avanzarono, con baldanza proterva, imbarazzanti pretese. Tranne Caterina Manzoni, che con la sua signorile eleganza si limitò a chiedere informazioni supplementari sulla durata dellingaggio e garanzie per il marito, i suoi tre colleghi del SantAngelo si accordarono per chiedere la cifra stellare di quattrocento zecchini (per rendersi conto dellenormità, si pensi che era circa il doppio di quanto prevedevano i loro – già cospicui – utili nella compagnia Lapy). E altri non furono da meno (Felice Sacchi, della compagnia Medebach, arrivò a chiederne seicentocinquanta!); tutti inoltre accampavano il riconoscimento di ulteriori garanzie: chi di portarsi appresso, ingaggiati a loro volta, la madre (Grandi), chi il marito (Manzoni e Marchesini), chi la moglie (Majani, Sacchi)… Ce nera abbastanza per far saltare il banco; e difatti il saggio Pezzana mise per tempo sullavviso Bissoni: Padrone, ed amico stimatis.o
Mille grazie, Sig.r Bissoni gentilissimo, per tanti disturbi. Io ho ricevute, e lasciate alla Real Direzione le risposte degli attori scelti. Non ho fin qui ordini ulteriori; e a dirgliela tra lei, e me, dubito molto che la Direzione non sia stata sorpresa dalle eccedenti domande. I migliori attori di Francia non costavano alla Corte quello, che domandano in oggi il Majani ed altri; e venivano di lontano, ed erano esercitati, studiosi, e finiti. Se io fossi allorecchio di codesti Signori, direi loro: credete voi che a Parma non si sappia quanto abbiate attualmente dassegno? Capisco che devono guadagnar di più alla nostra Corte, e so che la nostra Corte aveva a ciò pensato; ma temo che in vista delle stravaganti richieste questa non muti di parere; tanto più che quattro eccellenti attori toscani, ognuno de quali può star per lo meno a fronte di codesti serj migliori, sono stati tanto modesti, e discreti nel domandare, che la Corte stessa ha loro spontaneamente accresciuto. […] Eccole quanto ho sentito alla sfuggita senza che nulla ancora mi venga ordinato di scrivere. Il riferimento comparativo alle fin troppo modeste richieste degli attori fiorentini – che forse veniva accampato con qualche consapevole astuzia di mercanteggiamento – suscitò, non a caso, solide perplessità nel pur collaborativo Bissoni. È un dato su cui merita indugiare, perché getta luce sul diverso statuto professionale che, anche in pieno Settecento, poteva esser proprio dei comici di area toscana. Il nostro Pantalone infatti, ossequioso eppur fermo, così rispose a Pezzana in data 23 febbraio: Rilevo, che leccedenti domande abbino quasi fatto perdere il genio a chi voleva far risorgere il Teatro Italiano; io non accorderò mai che si debbano chiedere spropositi ma mi creda Sig.r Abb.e Stimati.mo, che un comico buono di Ven.a non vorrà mai quel prezzo, che vorrà un Accademico di Firenze, uso ad avere otto o dieci scudi al Mese. In forma più distesa, nella stessa data, Bissoni veniva spiegando allesperto Quazza le ragioni della discrepanza tra le «dimande alterate» dei comici veneziani e la «discrezione di quelli di Firenze»: C.a li Accademici poi conviene che rispetosam.nte le dica il mio sentim.to: quelli sono usi ad avere otto, o dieci scudi il mese, ed hanno professione particolare; li Comici di Ven.a non hanno alcun mestiere, e vivono colla sola comica. Quelli di S. Angelo questanno (ed è fatto di verità) hanno fatto a parte D.ti 800. Li Accademici recitano solo nel studiato, e questi allimproviso se occore, onde qualche distinzione conviene accordare a questi di Ven.a in confronto di quelli, che saranno eccelenti. Anche gli attori, dal canto loro, non mancarono di far rilevare – talora con pacatezza – la medesima discrasia. Così, ad esempio, Margherita Gavardina: Se glAccademici Fiorentini sono stati ristreti nelle loro domande, ciò proviene senza dubio dalle ristretezze de loro guadagni comici appoggiato il loro mantenimento sulle particolari professioni, ed arti, che esercitano indipendentemente dallAccademico, a diferenza de Veneti, che civilmente si mantengono con la comica sola. Quello dei comici fiorentini, dallo statuto dilettantesco o semiprofessionista, è un fenomeno di lunga durata, la cui fisionomia originaria è stata sapientemente illuminata dagli studi di Sara Mamone. Per quanto riguarda il secondo Settecento, è ben nota la testimonianza di un viaggiatore attento come Jérôme Richard (1766): Je nai rien remarqué de bien brillant dans les théâtres de Florence, ni pour la construction, ni pour la grandeur. […] Les acteurs son toujours des marchands, des petits bourgeois de la ville, & quelquefois des artisans qui ont du talent pour le théâtre, & qui, moyennant une médiocre rétribution, représentent presque tous les jours; ils trouvent dans les magasins du théâtre les habits qui leur sont nécessaires. Ma, nonostante gli importanti studi sulla vita teatrale della Firenze lorenese, poco ancora sappiamo sugli attori “di prosa”, sulla tipologia di contratti che li riguardavano (come sempre, è il côté musicale ad essere particolarmente ricco di documentazione, anche a tale riguardo), sicché il profilo sociale e artistico di questi attori “a mezzo servizio” continua a rimanere alquanto sfuggente, e tanto più quindi appaiono significative le testimonianze che ci vengono dai documenti che stiamo analizzando. È tuttavia ora di ritornare allo sviluppo delle trattative. Di fronte alle difficoltà che abbiamo sinora considerato (e altre che non mancarono di aggiungersi), il Pantalone Bissoni si mostrò un paziente tessitore e un abile mercate (come da suo ruolo?). Di fronte alle perplessità, espresse da tutti gli autori coinvolti, di non poter stracciare contratti appena firmati, spiegò dettagliatamente ai referenti parmensi le norme in uso sulla piazza veneziana per la formazione delle compagnie, persuadendoli a posticipare lingaggio degli attori dal programmato luglio allanno comico successivo, e suggerì lopportunità – accolta dalla Deputazione – di dettagliare in un significativo arco temporale la durata del contratto. Per temperare le esose richieste dei suoi colleghi – pur nella consapevolezza, come sè visto, della loro incomparabilità rispetto ai comici fiorentini – esercitò su di loro un pressing diplomatico ma fermo, mettendo in evidenza i molteplici vantaggi dellingaggio stabile presso una Corte, dellonorario dignitoso e soprattutto sicuro a fronte degli incerti del mestiere, del prestigio sociale e artistico che ne sarebbe derivato, e che essi avrebbero potuto fruttuosamente far valere in quella stagione annuale in cui – dietro le sue sollecitazioni – la Corte avrebbe lasciato la compagnia in libertà. Bissoni lavorò indefessamente, lungo ben cinque mesi (il carteggio giunge fino al 31 luglio), con tutte le difficoltà che da un certo momento in poi derivarono dallinizio delle stagioni primaverile ed estiva, in cui ciascuna delle compagnie (compresa la sua) lasciava Venezia per le piazze di terraferma (la Medebach a Milano e Torino; la Sacco a Mantova e Verona; la Lapy a Ferrara e a Milano), e più difficile diventava dunque la comunicazione con i singoli attori coinvolti nel progetto. Teneva comunque costantemente aggiornati i suoi corrispondenti parmensi, e – particolare di sicuro interesse – li rassicurava sul suo prodigarsi a raccogliere «tutti i capitali necessarj dellarte, e altre Comedie per poter divertire nelle sere che non si faranno le destinate da loro, e dove lavorino le maschere». Le laboriose, se non estenuanti, trattative diedero luogo a tre diversi preventivi, di cui è rimasta una documentazione che meriterebbe ampie riflessioni; alla fine, «la spesa fu considerata discreta, e certamente sarebbesi lopera condotta a fine, se le successive vicende non avessero somministrate più rilevanti preoccupazioni». «Un impetuoso vento di reazione» soffiava sullItalia, e nellautunno del 1771 ne fu travolto anche Du Tillot, «il superbo e stolido / fellone di Fellino» che aveva avuta, tra le altre, laudacia di «religion sopprimere». Roventi manifestazioni di piazza, durante lestate precedente, e un duca come Ferdinando – «bigotto, danimo chiuso e meschino», sempre più incline a dare ascolto agli avversari delle riforme – indussero allincarcerazione di alcuni importanti funzionari, alla relegazione in un convento di Paciaudi e allumiliante esilio di Du Tillot. Con lui se ne andava anche un progetto di riforma teatrale che si ispirava innanzitutto a una cognizione intima ed evoluta de «la magia delle Scene», dellimportanza degli attori-stregoni; e Parma avrebbe così perso per sempre loccasione di essere la grande fucina del nuovo teatro italiano. Stralciato via dalla scena della storia, quel progetto tuttavia riappare oggi su quella della storiografia: e la memoria di ciò che non è stato, per felice paradosso, diventa particolarmente eloquente. 3.1 La “Memoria” riesumata: «trattasi dintrodurre una riforma nella maniera di recitare…» Lo sguardo che, sotto le indicazioni registiche di Du Tillot, il redattore della Memoria intorno la scelta di unaccademia dattori tragici, e comici esercita sulle scene italiane è inevitabilmente orientato da una prospettiva filofrancese, egemone nel ducato anche in termini di gusto e cultura teatrali. Non per questo, tuttavia, la necessità – cui lintera Memoria si ispira – «dintrodurre una riforma nella maniera di recitare» (§ 1) – si deve ascrivere a uninerte soggezione al modello doltralpe. Per certo il pubblico teatrale di Parma – sotto le energiche direttive del primo ministro – era stato educato a un galateo fruitivo che non aveva uguali nel panorama italiano; un pubblico, inoltre, che aveva, lungo cinque anni, familiarizzato con lo stile attorico francese e la correlata «verità, decenza, e buon gusto» (§ 1) degli allestimenti. Carlo Goldoni ne era stato testimone deccezione, e imbarazzante, nel suo soggiorno parmense del 1756; allora, assistendo a una rappresentazione della compagnia Delisle, dovette vedere materializzarsi davanti ai suoi occhi tanta parte della “pedagogia teatrale” con cui aveva intessuto il disegno programmatico del Teatro comico (1750): cétoit pour la premiere fois que je voyois les Comédiens François; jétois enchanté de leur jeu, et jétois étonné du silence qui régnoit dans la salle: je ne me rappelle pas quelle étoit la Comédie que lon donnait ce jour-là; mais voyant, dans une scene, lamoureux embrasser vivement sa maîtresse, cette action, daprès nature, permise aux François et défendue aux Italiens, me plut si fort que je criai de toutes mes forces, bravo. Ma voix indiscrette, et inconnue, choqua lassemblée silencieuse; le Prince voulut savoir doù elle partoit; on me nomma, et on pardonna la surprise dun Auteur Italien. Laddove la nostra Memoria descrive «i difetti generali de comici Italiani» (§ 5), agisce per certo la familiarità del riferimento comparativo (peraltro, affatto tacito) con gli attori francesi; ma levidenza dello scarto doveva essere ineludibile anche in più ampi perimetri, in autori meno sospetti di un Goldoni inurbato a Parigi, e per ben altre coordinate politico-culturali, se ci si arrendeva finanche il “misogallico” Carlo Gozzi, in quello stesso torno di tempo: Non è giustizia il tacere sul merito de Comici Francesi, e sulla differenza che passa tra i nostri Comici, e i Comici di quella Nazione […]. Oltre ad una decenza teatrale francese, che deve piacere, sanno a memoria le opere che rappresentano, e tutti la parte di tutti in modo che lazione sembra improvvisa, e vera. Hanno tante, e tali modulazioni di voce studiate, e unissone alla circostanza, che incatenano spezialmente chi gli capisce. Lesattezza con cui partono, escono, si guardano, stupiscono, si addolorano, ridono, dileggiano, bilanciano, si arrabbiano, dipinge la verità, e la natura. […] Quantunque noi abbiamo de Comici, che hanno tutta la disposizione di pareggiare i francesi nelleccellenza di rappresentare la verità, e la natura educata tra noi, essi non giungono tuttavia alla quarta parte del merito di quelli. Se si potesse riparare a questa picciola sciagura dellItalia, non si farebbe cattiva opera, e si formerebbe una porzione di stimolo a buoni talenti degli Scrittori nostri, i quali oltre al non aver nessun frutto dallopere loro, o allaver un frutto meschino collavvilirsi, hanno per lo più la mortificazione di vederle languire sulle nostre scene. Ricordato tutto ciò, non si può non riconoscere, nei rilievi della Memoria, la precisa eco di quella che era stata una via italiana alla ridefinizione “dal basso” e dallinterno, non cattedratica, dellarte attorica. La «poca educazione, e coltura» che, con piglio classista, vengono qui imputate ad attori per statuto «ignoranti, venali» (§ 5), riflettono in controluce la fattiva fiducia goldoniana, espressa a più riprese nel Teatro comico, in una nuova generazione di «comici onorati», colti e «illuminati»; analogamente, le conseguenze dellincultura attorica, che la Memoria individua ne «il gesto scomposto, e il passeggiar contorto, e la negligenza nel pantomimico, e la stupidità degli occhi, del volto, e del corpo» (§ 5), erano state contrastate nel dialogo pedagogico che, in quella commedia, il capocomico Ottavio-Medebach (alias del poeta-direttore artistico Goldoni) intratteneva con laspirante attrice Eleonora. In maniera ancora più evidente, lesperienza, e la lezione, goldoniane si riflettono nella principale soluzione che la Memoria addita: lavveduta distribuzion delle parti, tanto trascurata ne Comici. È questo per lo più lo scoglio degli attori primari, che credendo di perder di credito, se non agiscono sempre da primi, sagrificano sovente il Poeta, il Dramma, e i caratteri alla mal intesa ambizione di primeggiare (§ 6). La rimodulazione delle gerarchie comiche e laggiornamento del sistema dei ruoli che, sotto un profilo teorico e pratico, la Memoria suggerisce, e sia pur ascrivendone il “copyright” all«Accademia Toscana» (§ 6), aveva ricevuto, come è già stato ormai ampiamente dimostrato, un esemplare inveramento nel teatro goldoniano, un teatro in cui peraltro le maschere – a differenza di quanto appare in questa Memoria – non sono costrette ad un compartimento stagno, ma, secondo la più genuina tradizione dellArte, “slittano” elasticamente in altri ruoli (caso estremo, ma non certo unico, il Brighella Antonio Martelli su cui viene cucita addosso la parte del “Tiranno” Todero), o, per converso, nascondono dietro la propria larva personaggi tipologicamente nuovi (il Pantalone DArbes protagonista eponimo del prediderottiano Padre di famiglia). Nel 1770 la lezione di Goldoni poteva sembrare appannata (ma non per tutti…) e dalla specola parmense doveva apparire più immediatamente evidente la spendibilità dellesperienza che, anche in campo teatrale, si era andata maturando nella Toscana lorenese. Qui, il riformismo granducale aveva energicamente avviato la riorganizzazione della vita scenica dello stato, promuovendo nella capitale, sotto unegida protezionista, un «teatro disciplinato, morale e di pubblica utilità»: I Lorena attuano in materia di spettacoli una politica amministrativa molto sensibile alle ragioni delletica, con una particolare attenzione, quindi, per la riqualificazione degli attori, protetti, fin dal 1759, dalle durezze della concorrenza attraverso un rigido protezionismo nei confronti delle compagnie straniere; ciò consente agli attori toscani, che spesso si dedicano allarte da semiprofessionisti allinterno di accademie di buon livello […], di guadagnare una certa media qualità espressiva, dove non si registrano certamente gli splendori divistici ancora possibili in altre parti dItalia, ma restano comunque banditi gli eccessi istrioneschi. Ben si comprende allora perché la nostra Memoria possa guardare all«Accademia Toscana» come a un modello da cui trar frutto; ma anche perché quel modello – agli occhi di un esperto «conoscitore dellaura teatrale, e non stitico pedante», per dirla con Gozzi – non poteva certo incarnare, di per sé, lo spirito di una vera «riforma nella maniera di recitare» (§ 1). Il freddo decoro degli attori fiorentini non avrebbe mai potuto garantire la desiderata «magia delle Scene»; era necessario creare piuttosto un amalgama nuovo, gettare un ponte tra genio/sregolatezza e mediocrità/compostezza: Ho scelti gli attori da due scuole, dalla Veneziana, e dalla Fiorentina; luna un po più sregolata, ma viva, ma suscettibile di modificazione; laltra più composta, ma fredda. Questa mescolanza dovrebbe giovare vicendevolmente alle due porzioni. I Toscani insegneranno la buona pronunzia, e il contegno ai Veneziani; questi inspireranno anima, fuoco, elasticità ai primi. (§ 3) 3.2 La “Memoria” riesumata: i veneziani (comè giusto) fanno la parte del Leone Nonostante la dichiarata equanimità nella scelta del «fiore delle Compagnie Italiane», con espresso riferimento alle due «scuole» veneziana e fiorentina, la Memoria registra un sensibilissimo divario tra le due componenti. Non solo per vanità, un Pietro Chiari, nella già citata lettera del 16 febbraio 1771, poteva dichiarare: La scelta fatta da codesta sua Serenissima Corte dalcuni Attori, ed Attrici di merito per incominciar prestamente, ed efficacemente promuovere il progettato decoro del Teatro Italiano, esser non potrà a giudizio di tutti migliore. Avendo ella meritato lammirazione, e lapplauso di questa istessa Metropoli [Venezia], che gli ha a tanto onore allevati, e se li vede improvvisamente rapiti, meritava ancora questo allegro trasporto da chi fece per venti e più anni quanto potea a sì nobile ogetto. In effetti, dei ventitré attori menzionati e descritti, ben diciassette sono veneziani o di “scuola” veneziana; dei rimanenti sei, solo quattro sono certamente di area toscana (di cui tre, non a caso, attivi al Cocomero, il teatro fiorentino “privilegiato” per la prosa), mentre resta incerta lidentità degli ultimi due. È vero che lestensore della Memoria riserva al fiorentino Jacopo Corsini quello che è forse lelogio più incondizionato, non esitando a definirlo «nato fatto per dirigere una compagnia collesemplarità, e col sapere» (§ 15) e a suggerirlo infatti come capo «dellAccademia, […] Direttore in tutto ciò che riguarda azioni teatrali» (§ 16). Per quanto l“agente teatrale” della corte parmense ha avuto modo di osservare in teatro, Corsini «recita naturalmente più di nessun altro: è regolato nel gesto, e nel portamento», ma è fuori dalla scena che «ne ha fatto maggior concetto»: perché «è uomo che parla profondamente dellarte sua, savio, composto, zelante, e povero». In che senso la povertà possa essere un requisito dirimente per la scelta di un attore di cotanto peso, è domanda da lasciare prudentemente in sospeso; per certo, qualche influenza avrà esercitato il credito, di cui già allora Corsini godeva, di essere un valente «Improvvisatore», che «lascia uscire, di tratto in tratto, sul finir delle recite, ottave degne del Tasso e dellAriosto» (sic, § 15), quelle stesse che di lì a qualche anno cominciarono a essere stampate e vendute nel «Negozio di Cartoleria del Sig. Gioacchino Ferrini in Piazza del Gran-Duca [lattuale piazza della Signoria]», e il cui editore si spingeva ad asserire che se Scipione Maffei avesse conosciuto Corsini, lo avrebbe additato come terzo dopo Fagiuoli e Goldoni tra i «restitutori dellonesto moderno Teatro». Ma degli altri tre fiorentini, se al Faloppa Gaspero Valenti – di formazione accademica, poi però comico itinerante – viene riconosciuta la palma di «buffone ingegnoso, e veramente faceto. […] buon comico non da smorfie […] ma per naturalezza, talento, e sali, e lazzi di buon conio» (§ 21), di Baldassare Bosi – proposto come seconda scelta per il medesimo ruolo di «servitore comico» – viene detto che è «cosa assai mediocre, tutto stento, e sforzo, senza naturalezza e facilità» (§ 22), nonostante il suo pedigree lo segnalasse come uno dei membri storici della compagnia del Cocomero. Quanto al terzo elemento, la servetta Rosa Roffi che pur tanto entusiasma lestensore della Memoria, viene candidamente riconosciuto che al suo posto sarebbe stato senzaltro da preferire «la celebre Serva dItalia, la Maddalena, […] che malgrado letà, e i piccioli difetti, piace ancora» (§ 18): il solerte funzionario di Du Tillot non ha ardito proporla solo per due ragioni, «cioè per letà, e per poter pur dire davere una giovinetta quale V. E. si compiacque di descrivermela, atta a prendere qualunque piega» (§ 19). Maddalena Marliani, ormai alla soglia dei cinquantanni, è una vecchia gloria senza età, una star fuori del tempo; e non si può non ricordare che di qui a qualche mese, allinizio del 1771, uscirà a stampa il più compiuto encomio dellattrice, dovuto alla penna del pur feroce Antonio Piazza: Una memoria felicissima che mai non le lascia del suggeritore aver duopo; uneloquenza fiorita che allimprovviso le mette in bocca le parole più scelte e i termini più eleganti, in quelle Commedie che si chiaman dellarte; un tuono di voce chiaro, armonioso, soave; una grazia di gestire chesprime le cose prima del labbro; un possesso di scena che la rende padrona di tutto, sono le qualità che formano di lei la Comica migliore de vostri Teatri. Sebbene ora sia avanzata negli anni pure conserva tutto lo spirito della fresca sua giovinezza. La gracilità della Persona, la vivezza degli occhi che le brillano in fronte, lagilità con cui opera, non lascia sì facilmente distinguere sella sia giovine, o vecchia. Anche del marito Giuseppe, che ormai va per la sessantina, la nostra Memoria fa menzione, allatto di proporlo come seconda scelta per il ruolo di Brighella. Ma nel suo caso, pur parendo «migliore» rispetto ad altri, il tempo è stato meno generoso, rendendolo «uomo avanzato assai, corpulento, e ormai inabile» (§ 29): una testimonianza del tutto in controtendenza con quanto, dieci e più anni dopo, asserirà il «Plutarco dei comici italiani» («Vive [1782] il Marliani in età avanzata, e tuttavia si esercita ancora nella sua Maschera, ed è applaudito sui Teatri come eralo negli anni suoi meno senili»). Analoga sorte quella di un altro celeberrimo attore di formazione goldoniana, Cesare DArbes: se la commossa testimonianza del Bartoli lamenterà che «non è rimasto allArte Comica un Pantalone, per cui da altri possa nutrirsi la speranza, di vederlo in questi tempi uguagliato giammai», la Memoria lo rubrica ancora come il primo Pantalone dItalia: ma dopo aver lasciato la compagnia Sacco, per passare a quella Lapy con funzioni direttive, «non recita quasi mai», e si presenta «più tosto avanzato in età, e pingue assai» (§ 27). Un altro Pantalone goldoniano, il veneziano Pietro Rosa, viene menzionato come terza scelta per il ruolo: è sicuramente «da mettere tra i buoni», ma, oltre a essere divenuto capo di compagnia (e dunque soluzione scarsamente praticabile), anche per lui il tempo incalza («avvicina i 60 anni»), e poi contamina il suo ruolo con quello del Dottore («quando invece «Pantalone non vuol essere che un Mercante economico, un Padre di famiglia rigoroso, e un vecchio avaro. La letteratura, e lerudizione non è per lui», (§ 27). Mentre i Marliani e DArbes si erano formati nella compagnia goldoniana del SantAngelo, Rosa, di formazione dilettante, era stato figura di spicco di quella del San Luca, dove era stato appunto arruolato nel 1754, a séguito della morte del celebre Francesco Rubini, a sua volta successore del leggendario Pantalone Garelli. Sempre alla compagnia goldoniana del San Luca si erano formati altri due attori repertoriati nella nostra Memoria: Giuseppe Majani, di cui si dirà, e Antonio Martelli. Questultimo, bolognese – come Rosa di formazione dilettante e anchegli arruolato nel 1754, in qualità di “versatile” Brighella – viene menzionato come seconda scelta per due possibili ruoli: quello del «servitore comico», e quello del Brighella. Leleggibilità nel ruolo di primo zanni si basa solo sullattuale qualifica dellattore nella compagnia del SantAngelo, e sullopinione corrente circa le sue qualità, ma non sulla conoscenza diretta dellestensore della Memoria (cfr. § 29); conoscenza invece garantita per laltra opzione, che prevede un «carattere caricato»: lattore, «di buona età, e corporatura», è stato visto una volta in una « commediaccia sguaiata, in cui facea la parte di vecchio borbottatore, e mi parve cosa molto forzata» (§ 23). La commediaccia sguaiata è il Todero brontolon, il cui personaggio eponimo era stato da Goldoni costruito proprio sulla misura interpretativa di Martelli (carnevale 1761-1762); è lecito chiedersi, alla luce della nostra testimonianza, se lattore, che del Todero aveva poi fatto un suo cavallo di battaglia, non avesse nel tempo – e lontano ormai dalla direzione del suo ex-poeta di compagnia – reso manieristica la propria interpretazione del personaggio, con quel suo «gran tuono di voce da spaventare unarmata, tuono che mai non si cangia e che stordisce ludienza», una «voce da bufalo» che rendeva lattore idolo dei gondolieri e delle loro «mani callose» («con coloro, chi grida più ha più merito, e dove trovare tra i comici una voce da stali e premi [allocuzioni che i gondolieri urlano allincrocio di un rio] più sonora di quella?»). La rassegna della scena italiana contemporanea che la Memoria dispiega, non condizionata da prospettive retoriche dalcun genere, può risultare irritualmente irriverente verso stelle del firmamento teatrale settecentesco ancora ben lucenti: è il caso del «celebre Sacco – pur repertoriato come prima scelta per lArlecchino –, ormai troppo vecchio, ed impinguato, sempre troppo licenzioso, e motteggiatore anche di là dai limiti» (§ 30); ma anche di sua sorella Andriana, incidentalmente definita come «cattivissima servetta nella medesima compagnia» (§ 29), laddove Bartoli rimarcherà come «nel carattere della Serva […] riuscì spiritosissima, dilettando infinitamente co gustosi suoi detti, colla pantomima, e con i lazzi caricati, e graziosi» (ma Goldoni lascerà trasparire insofferenza per qualche sua outrance, e Piazza, in simultanea con la nostra Memoria, ne disegna un ritratto impietoso quanto memorabile). Il dato è tanto più curioso – o sintomatico – in considerazione del fatto che appena un anno prima, in occasione dei festeggiamenti per le nozze del duca Ferdinando con Maria Amalia dAustria, Sacco e la sua compagnia erano stati ingaggiati dalla corte di Parma per un ciclo estivo di ventidue rappresentazioni, dietro il cospicuo compenso di cinquecento zecchini romani, illuminazione del teatro e orchestra spesati, più garanzia di «quartieri con letti, mobili ed utensigli di cucina per convivere la compagnia tutta assieme». Ma se Antonio Sacco (con sorella al séguito) viene così sommariamente liquidato, dalla sua compagnia – tanto rappresentativa della scuola veneziana – risultano selezionati ben tre attori: Regina Marchesini, Agostino Fiorilli e Atanasio Zanoni. Zanoni (per lapsus calami menzionato come «Campioni»), viene scelto perché «ha il corpo, la voce, e il gesto dun vero Brighella», anche se è «a dire il vero, un po troppo verboso» (§ 29): una notazione che fa da sapido contrappunto alla retorica dellelogium con cui lavrebbe consegnato alla storia Bartoli («non ha certamente chi lagguagli nella facondia delle parole»). Daltro canto, «valentissimo Comico, onestuomo, e dindole dolcissima», lo avrebbe definito con cognizione di causa Carlo Gozzi: e i requisiti dellonestà e della malleabilità dovevano per certo essere congeniali ai desiderata di Du Tillot. Unico attore a essere menzionato con il nome del ruolo e non con quello anagrafico (§ 26), Fiorilli è anche lunico a imporsi senza riserva alcuna (salvo quella di essere «un po troppo avanzato [in età]», riserva vanificata peraltro dallottimo «stato di salute» in cui è stato trovato lattore): Tartaglia è, né più né meno, «quelleccellente comico nato fatto, in cui larte serve solamente per far sempre più spiccare la natura» (§ 26). Una volta tanto, licona che ne creò Bartoli riceve piena conferma dalla nostra Memoria, nonché dalle calde e ripetute raccomandazioni che Luigi Bissoni rivolgeva ai suoi corrispondenti parmensi per non lasciarsi in alcun modo sfuggire un capitale così prezioso: Il Fiorilli è sulla Scena un gran Comico, e per tale fu adottato da tutta lItalia. Una buona voce, un personale vantaggioso, un lazzo spiritoso, e pronto, sono i capitali in lui meno stimabili. Il suo profondo intendere larte con cui si alletta il Popolo in certe situazioni, che devonsi afferrar di volo, e che sfuggite non lasciano luogo di far colpo alla Scenica arguzia; e lessere grazioso naturalmente senza stento, senza affettazione, o durezza; il mostrarsi pronto ritrovatore dun vivace motteggio, che altro ne ribatta, ed avvilisca; il sapere con immensa perizia tutta la Commedia a memoria senza dimenticarsi giammai alcuna ancorché menoma cosa; questi sono finalmente tutti quei pregi rari, che in lui abbondevolmente si trovano, e che lo costituiscono un perfetto originale del vero Comico pronto, spiritoso, ed arguto. Quanto infine a Regina Marchesini, prima donna e, come da testimonianza del suo “poeta di compagnia” Carlo Gozzi, «valentissima comica, che con tutto il di lei valore» Sacco avrebbe licenziato proprio a partire dallanno comico successivo per dotarsi di una prima donna più avvenente, è unattrice un po agée (trentacinque-trentasei anni…): proprio per questo, e nonostante alcuni malvezzi interpretativi, viene selezionata per «Parti di Regina, e di Madre» (§ 14). Ma al “segugio” parmense non sfugge la giovane promessa che sta per prendere il posto di Regina: Teodora Ricci, prossima musa del pigmalione Gozzi. Egli non sa nemmeno che è già stata reclutata dalla compagnia Sacco; ma il suo radar ha captato che ha il requisito principe della gioventù («di 19 in 20 anni»), inoltre «gli è stata «annunziata» come «di bellissima figura, e molta aspettativa», e si ripromette di andarla a vedere a Lodi, dove la compagnia Rossi (in cui ancora milita Teodora) terrà le rappresentazioni del prossimo carnevale (§ 25); né trascurerà di tenersi in séguito aggiornato, interrogando a più riprese il Pantalone sensale di comici, il suo agente segreto a Venezia. Accanto alle vecchie glorie – ancora fulgenti o prossime al disarmo – dalla scuola veneziana vengono ovviamente selezionati anche gli astri nascenti, tra i venti e i trentanni. Oltre al quartetto degli innamorati, di cui si dirà, la cèrnita individua due personalità di ben diverso destino: Felice Sacchi e Petronio Zanerini, come seconde scelte, rispettivamente, per le parti di Arlecchino e «di Padre, di Re, di Tutore, di Tiranno ecc.». Formatosi nella compagnia Medebach, Felice vi era stato addestrato «nel faticoso mestiere di secondo Zanni» da Giuseppe Marliani, ma a quella formidabile palestra, sotto la spinta di un tenace spirito emulativo, aveva affiancato la frequentazione assidua degli spettacoli del suo leggendario omonimo, «procurando dimparare tutto il buono che da lui [Antonio Sacco] sentiva, e dalle altre Maschere della stessa Compagnia. Quindi formatosi un generico di cose graziose, usavalo a tempo con prontezza, e capacità, e ne riscuoteva delle lodi dagli spettatori». Grazie alla mediazione di Goldoni, Sacchetto – questo lappellativo che si era guadagnato – era stato chiamato alla Comédie Italienne, in sostituzione di un altro secondo zanni-mostro sacro, Carlin Bertinazzi: dopo un esordio deludente (8 maggio 1767), con ferrea determinazione aveva cercato, nel volgere di pochi giorni, di conformarsi «au goût de la Nation», e a chi gli chiedeva se dei progressi così rapidi gli fossero costati molto, «Jai beaucoup pleuré, dit-il, avec une sensibilité vraiment touchante, & une modestie digne dencouragement». Tornato in Italia, e riunitosi alla compagnia Medebach, continuò a distinguersi per il suo physique du rôle, e difatti la Memoria lo indica come quello che «meglio conviene a noi. Il corpo, la struttura, e il volto mi sono sempre paruti da vero Arlecchino. Egli è di buona età, più circospetto di Sacco, e più docile alla correzione» (§ 30). Ma altro destino attendeva questo cultore entusiasta ed umile della propria professione: a detta di Bartoli, infatti, la sua «salute mal ferma […] lo ridusse in breve alla Tomba morendo danni 36. in Milano pieno di Cristiana rassegnazione, e ciò fu nella Primavera del 1771»: nel bel mezzo, dunque, della trattativa che avrebbe dovuto condurre alla formazione della compagnia «più eccellente dItalia». Tuttaltra la sorte di Petronio Zanarini. Lestensore della Memoria lo tratta con qualche sufficienza: lo propone come sostituto estemporaneo di Jacopo Corsini nelle parti «di Padre, di Re, di Tutore, di Tiranno ecc.», o «per una terza parte interpretata nelle Tragiche azioni; e per qualunque altra nelle Commedie, e nelle farse a soggetto», limitandosi ad annotare che «recita con naturalezza, e può diventare bravo attore sotto la guida del Corsini» (§ 17). Bolognese di origine e di formazione dilettante, Zanarini era stato arruolato da Sacco nella sua compagnia nel 1767 e per certo dovette in breve tempo guadagnarsi una buona reputazione, se lo troviamo protagonista eponimo del diderottiano Père de famille, allestito in traduzione dalla compagnia Sacco a Venezia già l11 gennaio 1769. Il grande e replicato successo dellallestimento era stato dovuto anche alla prestazione di Zanarini, come narra la testimonianza di un suo collega, Francesco Bartoli, anche lui membro della compagnia Sacco: Una magistrale intelligenza, una bella voce sonora, un personale nobile, e grandioso, unanima sensibile, ed unespressiva naturale, ma sostenuta, formano in lui que tratti armonici, e varj, co quali sa egli così ben piacere e dilettare a segno di strappare dalle mani, e dalle labbra degli uditori i più sonori applausi. Eccolo nel Padre di famiglia di Monsieur Diderot, a sostenere tutti gli affetti dun Genitore pieno di zelo, ed amante della sua cara prole; ma sdegnato rimproverare al figlio le sue debolezze, e da lui cimentato dargli fuor di stesso la paterna maledizione. Del resto, ben prima che Zanarini fosse giudicato – da pubblico, autori e attori – come «il più grande fra tutti gli attori» del Settecento italiano, il riconoscimento maggiore gli sarebbe venuto proprio da Parma, nel 1774, allorché, nella costituenda «Accademica Unione Teatrale al servigio di S. A. R.», gli sarebbe stato affidato il compito di «Primo Serio, accordato non solamente a recitare continuatamente, ma inoltre ad istruire la Gioventù, che verrà di mano in mano aggregata allAccademia». E se quelliniziativa – come abbiamo già avuto modo di considerare – si sarebbe spenta nel volgere di qualche mese, a siglare il culmine del destino artistico di Zanarini sarà ancora una volta Parma: a lui infatti si deve la celeberrima interpretazione, rimasta immortalata nei ricordi di Goethe, dellAristodemo di Vincenzo Monti, lultima opera a essere premiata, e sia pur “fuori tempo massimo”, dal concorso parmense. 3.3 La “Memoria” riesumata: il prisma delle fonti Il fascino forse maggiore di questa “memoria ritrovata” – lo si sarà già intuito – è nel suo restituirci uno sguardo particolare, uno sguardo a cui non siamo abituati, su alcuni tra i principali attori del secondo Settecento italiano. Per cogliere tale aspetto in tutta la sua suggestiva pienezza, converrà conclusivamente soffermarci sul quartetto degli innamorati: tralasciando qualsiasi raccordo narrativo e affidando al mero allineamento di voci altrui il compito di illuminarsi reciprocamente. Le voci in questione, relative a ciascuno degli attori, saranno allineate cronologicamente: la nostra Memoria (1770), la Giulietta (1771) di Piazza, le Notizie istoriche (1782) di Bartoli. La progressione cronologica, come si avrà modo di considerare, per fortuita coincidenza va di pari passo con lascesa da un “grado zero”, o quasi, del referto a un grado massimo di manipolazione fictional (che non per questo trascura di rastrellare brandelli di “realtà”, e, a volte, di restituirli come una lente dingrandimento, deformante e fedele al tempo stesso). Caterina Manzoni, «per le parti tenere damante». Di statura mezzana, volto più tosto bello, carnagione fresca, voce bella, e pastosa, capegli biondi, occhi tra neri, e azzurri, danni 28 in circa. Recita con anima, con intendimento, e bastante riflessione. Porta la testa un po troppo avanti, e bassa; difetto, credio, cagionato dallessere un poco alta di spalle. Disdice per alcune contorsioni di bocca, e principalmente del labbro inferiore alquanto grosso. È figura da piacere; e sente con attenzione chi la corregge. (§ 8) La sua [di Margherita Gavardina] Compagna ha una lettera di raccomandazione nel volto che dovunque presentasi non le manca mai un accoglimento umanissimo. Giovine, ben fatta, di statura mediocre, e duna bellezza particolare, le si farebbe un torto a non applaudirla ma in vece di brava sarebbe meglio gridare bella per non ingannarla. In lei merita una gran lode il suo buon volere che fa tutti i sforzi possibili per renderla capace della sua professione ma la meschina non è nata per la medesima e mancando allarte quelle naturali disposizioni che, son necessarie, ogni cura e ogni fatica riesce inutile e vana. Colla vita sempre piegata in arco pare che voglia prender qualche cosa dal suolo. Colla voce mai sempre flebile divide il senso delle parole tra le pause e i singhiozzi e pare che ci reciti un Piagnisteo quandancor è interessata in qualche scena brillante. (pp. 76-77) Fu la Manzoni una pregiatissima attrice: bella di presenza, ornata di grazia, spiritosa, e fornita di molti altri pregi. Se recitava nelle Commedie una parte brillante, tutta vestivasi di quel gioioso carattere, e mostravalo collo sguardo, e col riso, facendo gioire gli spettatori insieme con essa. Nelle gravi rappresentazioni internavasi nella forza degli affetti più intensi, ed afflittivi, mostrandone la doglia più viva, e sospirando, e piangendo con quella verità, che richiede il Teatro, e che deve spiccarsi dallingegnoso, ed eccellente attore. Chi fu a godere il Disertor francese [carnevale 1771], e la Gabriella di Vergy [autunno 1771], potrà ben dire, e nel carattere di Clerì, e specialmente in quello di Gabriella, come la Manzoni sapesse dimostrare la forza delle passioni negli estremi più forti, sino a languire, e far vedere come veracemente di dolore si muoia. (II, pp. 21-22) Margherita Gavardina, «per le parti più ardite». Di bella statura, bella carnagione, volto rotondo, aria greca, voce bella, e forte, occhi neri, capegli tiranti nel biondo. Recita con fuoco, con espressione nellardito; ma con poca riflessione. Porta la testa bassa: ha il labbro inferiore anchessa mal fatto; ma è bella, figura in teatro. Età 28 in 29 anni. Amendue queste attrici [Manzoni e Gavardina] fanno sentire di quando in quando nella pronunzia laccento Veneziano. Gestiscono, e passeggiano male. (§§ 9-10) Luna [delle due prime donne attive al SantAngelo: laltra è Caterina Manzoni] mozza di lingua e soltanto capace di sostenere un carattere basso e plebeo, non sa più cosa si dica quando sollevasi un poco dalla sua sfera, ma il Popolo le batte sempre le mani faccia bene, o male, e ad applaudirla comincia prima ancor chElla parli. Una vantaggiosa figura, un viso che non dispiace, un certo brio da Teatro che chiama a sé dellocchiate, unetà ancor capace di far fortuna, coprono i suoi difetti al guardo del Pubblico meno colto, e la fanno stimare una brava Donna. (p. 76) recitò alcuni anni a vicenda colla Caterina Manzoni, e furono sempre buone amiche, e compagne; ed una virtuosa emulazione vi fu tra di esse, la quale cagionò de buoni effetti per larte del recitare in queste due Attrici. La Gavardina in molte cose si distinse […]. Recita la Gavardina anche le Tragiche parti con molto sentimento investendosi delle passioni, sentendole vivamente nellanimo, e dimostrandole in modo, e colla voce, e colle smanie, e co sospiri affannosi ed interrotti, che nulla resta a desiderarsi dal suo tragico stile di rappresentare. Che se poi si volesse alla di lei pronunzia qualche ostacolo opporre per scemarle il merito, e levarle parte di quella lode che giustamente le viene concessa, noi rispondiamo, che se la Gavardina fosse stata allevata in Toscana, e non in una Provincia, dove la pronunzia dellArno non si conosce, ella non avrebbe avuta alcuna Comica ad eguagliarla capace. (I, pp. 259-260) Giuseppe Maiani, «per le parti tenere, e ardite». Di bella, e grande statura, bella figura, bel corpo, color vivo, aria spiegata, voce bella, e forte. Recita con sentimento, con passione, e con ilarità. Si dimentica qualche volta. È affettato nel gesto, ne movimenti, e ne passi smisurati. Grida un po troppo ne tratti indifferenti; e dà di quando in quando nella declamazione: ma ad onta di questi difettucci, è il migliore di tutti. Danni 23 o 24 in circa. (§ 11) Luno [dei due primi uomini attivi al SantAngelo: laltro è Tommaso Grandi] dessi sembra nato veramente per la sua professione e pare che voglia opporsi direttamente alle qualità che diedegli la natura per esercitarla quanto peggio è possibile. La statura sua, un viso che par bello in Teatro, un tuono di voce che formica nel sangue, una portentosa memoria che gli fa imparare e ritenere qualunque parte più lunga con somma facilità, una franchezza di scena che pochi posseggono, e un discernimento finissimo di ben saper adattare, quando nha voglia, al senso delle parole i movimenti, il gesto, ed il passo, sono attributi poco comuni che potrebbero renderlo il miglior Comico de Teatri Italiani. Tanto è più riprensibile ne massimi suoi difetti quanto più i medesimi inerenti sono alla cattiva sua volontà. A cagione desempio nel fare la parte di Cesare io lho veduto in Senato parlar a Consoli colla faccia ridente mentre il carattere, il luogo, e loggetto del suo intervento, non meno che il sentimento del suo discorso, esigevano gravità, compostezza, e mestizia. Lho veduto nel meglio di qualche scena interessante e piacevole volgere il tergo a chi gli parlava e vagheggiare le bellezze delle Loggie vicine sino che il Suggeritore lavvisava col percuotere il Palco chera tempo di rimetterli al primo suo sito e di rispondere al Personaggio che recitava con lui. E non avrò ragion di ripetere che il Pubblico del vostro Paese è il più docile che al Mondo ci sia quando tollera chun temerario Istrione così di rispetto gli manchi? Molti altri sono i difetti che ho considerati in quellAtore, tra i quali il più massiccio è quello di gridar e durlare dove ci vogliono delle pause e un tuono di voce flebile e basso, e di tremolar allincontro e parlar con un filo di voce da moribondo, quando fa duopo un ragionare vibrato. E poi quel terminarli da lui ogni Scena masticando lultime parole che dice senza che mai lUdienza ne intenda alcuna, quel riderle in faccia senza ragione o proposito, come farebbe un Ubbriacco od un Pazzo, non sono cose da riscaldare la bile allUomo più tranquillo del Mondo? (pp. 77-79) Un personale gracile e gentile; una voce pieghevole a voler suo; una memoria felicissima, e gagliarda sono i naturali di lui pregi, pe quali nulla ha egli da invidiare agli altri Comici emuli suoi. La sua intelligenza perspicace; una vera conoscenza del Teatro; e qualche studio fatto sullopere de Comici scrittori gli hanno agevolati i mezzi di rendersi singolare nella sua professione. Dicanlo Venezia, e Milano, lo palesino Genova, e Torino, lo confessino Mantova, e Parma, se videro mai altro Comico più pronto e più trasformato ne caratteri che rappresenta, di quello che si fa distinguere il valoroso Majanino. Anche laddove si tratta di recitare allimprovviso non mancangli mai le parole, e sa mostrarsi verboso, ed elegante a un tempo istesso. […] Comico impareggiabile, e nellarte sua puntualissimo, ed indefesso. […] con un semplice abbozzo mostreremo del Majanino gli spiritosi raggiri […]. Predominato il Majanino dalla passione del gioco, a quello pensa, in quello trattiensi, e trova in esso lunico suo compiacimento. […] Fra le turbolenze de suoi casi ricorre a stratagemmi, ed in virtù delle sue parole il rame in galloni tessuto, oro, ed argento diventa; i zargoni, pietre di poco conto, cangiansi in brillanti di pregio, e vendendo, o impegnando queste sue merci, al suo bisogno provede, e traffica, e spende più i suoi talenti, che i suoi beni; ed in questa alternativa di cose va passando la vita tranquillamente, né mai è per esso dagitazioni turbata. […] Che si dirà se asseriremo, che alcuni creditori lo fuggono per non essere costretti dallincantesimo della sua favella a fargli nuove prestanze? Eppure ella è così. Affabile e sommesso; ilare, e piangente; consolato ed afflitto sa egli dimostrarsi nelle varie occasioni, che lo imbarazzano per poco, e dalle quali si scioglie collarmi de suoi ragionamenti efficacissimi ad acchetare, ed a persuadere anche talvolta chi ha gran ragione di temere di lui. Egli non ha certamente niente meno di quello spirito astuto, e raggiratore, del quale furono ben proveduti que celebri bizzarri Uomini della Toscana Barlachia, Gonnella, ed Arlotto tanto famosi per le burle loro; ed anzi io credo che se vivessero ancora, farebbero di cappello a Majanino, ed a lui cederebbero la palma nella scuola della più fina, ed accorta furberia. Scaramuccia istesso, Comico di simil tempra, di cui diamo la vita in queste Notizie, rimarrebbesi molto addietro nelle sue invenzioni, se tutte quelle del Majanino con simile precisione raccontar si volessero. (II, pp. 7-11) Tommaso Grandi, «per le parti miste, e non decise». Giovane anchesso di buona figura, e statura, corpo ben fatto, color vivo, aria ilare, e spiegata, età fresca di 25 in 26 e forse meno: dindole docile, ma viva, adattato per li caratteri misti dindifferenza, e passione, e per altri caricati con nobiltà. Questi due attori [Maiani e Grandi] abbisognano di correzione nel gesto, nel passeggio, nella modulazion della voce, e nello sceneggiar Pantomimico. (§§ 12-13) Laltro Compagno suo [di Maiani] riesce mirabilmente soltanto nellimitare un italianato Francese. Negli altri caratteri è affettato non poco. Si move sempre colle ginocchia indurite, tutti i passi suoi sono misurati ed eguali, talché sembra affatto una Figura che dalle suste riceva i suoi movimenti. Tenero e molle come un dilicato Narciso va sempre a caccia cogli occhi per saettar tutte le Donne che vede affacciate ne Palchetti proscenii. Quando ha tempo che bastigli per mancar dalle Scene alcun poco, senzommissione del suo dovere, scende tosto nel Parterre e va a far la sua cerca dapplausi, e a mostrar più dappresso le dipinte sue guancie alle Bellezze donnesche. (pp. 79-80) Uno studio indefesso, una buona presenza, una espressiva naturale senza bassezza alcuna, una pulitezza lodevole, ed uno spirito pronto e vivacissimo lo condussero a non temere il suo emulo [Maiani], ad eguagliarlo ne meriti, e ad acquistarsi una pari riputazione sulle Venete Scene, ed in altre Provincie. […] LAnno 1779, abbandonando la Compagnia della Battaglia [in cui si era trasferito dal 1776] si portò a Napoli, e vi fece dello strepito. […] Egli continua a dimorare in quella Reale Città, ed ha avuto lonore di essere chiamato alla deliziosa Villa di Caserta a divertire sua Maestà col Pimmalione [di Rousseau]; ed è stato molto gradito, e generosamente con doni riconosciuto alla regia munificenza. Alla stessa Maestà Napolitana ha pur egli fatto vedere un ballo spagnolo, che chiamasi il Fandangh; eseguito da lui ad occhi bendati in mezzo a un numero dOva, che movendosi ancora restano sempre illese, e non schiacciate da piedi. Questa, ed altre abilità (non escludendo quella del Canto) possiede il Pettinaro oltre lesercizio della Comica Professione; e tutto gli giova a stabilirsi il nome duomo instancabile nella servitù del Pubblico, il quale lo stima, e lapplaude, avendogli oggimai conceduto il nome di Commediante rinomatissimo, e di spiritoso insieme, ed infaticabil talento. (I, pp. 273-275) Ci si potrà rallegrare, forse, nello scoprire alcune singolari tangenze tra la recensione tecnica della Memoria e il livore deformante di Piazza: la «statura mezzana» della Manzoni riflessa nella «statura mediocre», o il suo «portare la testa un po troppo avanti, e bassa» echeggiato nello sprezzante «colla sua vita sempre piegata in arco pare che voglia prender qualcosa dal suolo»; la «poca riflessione» rimproverata alla recitazione della Gavardina che tracima nel «non sa più cosa si dica quando sollevasi un poco dalla sua sfera»; per non parlare della divertita (ma a suo modo anche ammirata) ipertrofia cui, nelle pagine di Giulietta, vengono sottoposti i cenni che la Memoria riserva allindisciplina del geniale Maianino. E si potrà, forse, osservare con qualche perplessità la pronunciata divaricazione delle testimonianze tra il referto parmense e il “romanzo” di Bartoli, o tra questo e il romanzo (vero) di Piazza: dalla «bella, e grande statura» di Maiani, registrata nella Memoria, che diventa «un personale gracile e gentile» nel resoconto dello storiografo teatrale; dalle «ginocchia indurite» che il romanziere rimprovera a Grandi alla memoria che ne lascia Bartoli, come di chi è capace di ballare il fandango a occhi bendati in mezzo a uova che restano miracolosamente illese. È linevitabile natura prismatica delle fonti. Ma per certo si rimarrà grati a un documento che ricorda particolari altrimenti inimmaginabili: come gli «occhi tra neri, e azzurri» della Manzoni; l«aria greca» e i «capegli tiranti nel biondo» della Gavardina; l«aria spiegata» di Maianino e il suo recitare «con sentimento, con passione, e con ilarità»; il gestire della Marchesini «che pare operato con molle»; la «statura alta», il «viso rotondo» e «di color vivo» della servetta Roffi, per la sua giovanissima età ancora «imbrogliata ne movimenti delle mani, de piedi e di tutto il corpo»… Particolari talora minimi, sempre effimeri – e, proprio per questo, tanto più preziosi. In realtà, lunico veritiero ritratto di questi artisti, il vero “grado zero” della loro rappresentazione, resta consegnato allimmagine delle loro firme, davanti alle quali deve tacere ognaltra voce: NOTA AL TESTO Il fascicolo intitolato Memoria / intorno la scelta di unaccademia dattori / tragici, e comici, indirizzata a Sua Eccellenza / Il Sig.r Marchese di Felino / Ministro, e segretario di stato / di S.A.R., si conserva presso lArchivio di stato di Parma, allinterno del fondo Teatro e spettacoli, b. 1; è composto di complessive dieci carte, con numerazione seriore a matita. Nonostante limpaginato calligrafico, e lassenza di firma, è stato possibile attribuirne la redazione a Giuseppe Pezzana grazie al confronto con gli autografi dellabate parmense, uomo di fiducia di Du Tillot, conservati alla Biblioteca Palatina di Parma (Fondo Pezzana, cass. 671, b. 1) e nellAutografoteca Campori (fasc. Pezzana Giuseppe) dellEstense di Modena. Come si è avuto modo di considerare (cfr. supra), Pezzana, oltre che lestensore materiale della Memoria, fu con ogni probabilità anche la persona cui Du Tillot aveva commissionato lincarico di selezionare i più abili attori attivi in Italia per la formazione dellAccademia parmense, e dunque a lui andrebbe riconosciuta la paternità anche contenutistica della Memoria stessa. Per agevolare la lettura e la comprensione del testo, la riproduzione è stata accompagnata da annotazioni di carattere linguistico e, soprattutto, storico-critico; fermo restando che per linquadramento complessivo del suo valore documentario si rimanda al saggio introduttivo. Salvo diversa indicazione, le annotazioni linguistiche sono effettuate sulla base di N. TOMMASEO-B. BELLINI, Vocabolario della lingua italiana [1861-1879], consultabile allindirizzo http://www.tommaseobellini.it/#/) I rari ripensamenti che si registrano nella trascrizione in bella copia del testo sono stati segnalati con parentesi uncinate nel caso di aggiunte a margine o in interlinea, in nota nel caso di parola cassata da sovrascritta. I criteri di trascrizione sono stati sostanzialmente conservativi: si sono preservati laccurata paragrafazione delloriginale, provvedendo però alla sua numerazione; luso delle maiuscole e la punteggiatura (tranne nel caso di virgola nella demarcazione reggente-subordinata completiva, nella scansione delle relative con funzione limitativa, nella separazione del che relativo da un antecedente pronominale di tipo dimostrativo); le rarissime forme scempie. Sono stati invece regolarizzati laccentazione (pochissimi peraltro i casi necessari) e luso dellapostrofo, distinguendo tra elisione e troncamento; la j per il plurale dei nomi in -io, o nel caso di occorrenza intervocalica, è stata trascritta i. Le abbreviazioni sono state sciolte; la messa in rilievo di un nome proprio o di un termine, che nelloriginale è effettuata tramite sottolineatura, è stata resa attraverso il corsivo. Memoria
Per
Sua Eccellenza
Il Signor Marchese di Felino
Ministro, e segretario di stato
di Sua Altezza Reale Memoria
intorno la scelta di unaccademia
dattori tragici, e comici 1 Dal punto in cui piacque a Vostra Eccellenza dincaricarmi della scelta, e proposizione de migliori soggetti delle comiche compagnie che girano lItalia, per formarne unaccademia, mi proposi meco stesso due riguardi; quello cioè del teatro su cui dovevano comparire, e quello della circostanza in cui dovevano comparirvi. Questi due riguardi principalmente hanno regolato la elezione di cui offro a Vostra Eccellenza la nota nella presente Memoria. Trattasi del teatro di Parma, noto sì per la varietà degli spettacoli, come per la magnificenza, verità, decenza, e buon gusto con cui sono stati eseguiti. Trattasi dintrodurre una riforma nella maniera di recitare, e di recitare opere coronate per la riforma del Teatro Tragico, e Comico dItalia: riforme, che possono amendue formare unepoca gloriosa per lInfante Duca di Parma. 2 Fra i soggetti che propongo, non ve nè neppur uno chio non abbia veduto. Gli ho sentiti quasi tutti, e il giudizio generale delle persone colte mi ha servito di regola per quelli che non ho potuto sentire. Vostra Eccellenza minculcò particolarmente di preferire la gioventù, e la buona disposizione. Confesso sinceramente che avrei sagrificato volentieri alla molta abilità la gioventù, riflettendo alla circostanza, e al molto tempo, di cui vi sarebbe stato bisogno per ridurre a buon segno giovanetti inesperti, o male ammaestrati; ma quandanche avessi voluto donare qualche cosa alletà fresca, ed alla buona figura, non ero in grado di farlo. Fuori della Servetta toscana non ho veduto neppur una giovanotta di garbo, che convenisse al caso. 3 Ho scelti gli attori da due scuole, dalla Veneziana, e dalla Fiorentina; luna un po più sregolata, ma viva, ma suscettibile di modificazione; laltra più composta, ma fredda. Questa mescolanza dovrebbe giovare vicendevolmente alle due porzioni. I Toscani insegneranno la buona pronunzia, e il contegno ai Veneziani; questi inspireranno anima, fuoco, elasticità ai primi. 4 Quantunque le persone da me scelte siano per consenso universale il fiore della Compagnie Italiane, non ardirei dire che messe insieme siano tali da formare lAccademia che Vostra Eccellenza ed io supponevamo; (e questo in grazia della verità): dico bensì francamente che mi pare impossibile il trovarne altre più atte a diventar buone, ed a conformarsi con profitto ai suggerimenti che verranno loro dati. 5 I difetti generali de comici Italiani derivano dordinario da poca educazione, e coltura, e da irriflessione. Un animo educato volgarmente non sente, e non può per conseguenza esprimere le passioni a quel punto di forza, e di verità conveniente. Di là vengono e il gesto scomposto, e il passeggiar contorto, e la negligenza nel pantomimico, e la stupidità degli occhi, del volto, e del corpo. Lavvertenza al carattere rappresentato, in persona di qualche talento, corregger potrebbe in parte questi difetti, e supplirebbe in certo modo anche alla natura. Ma non era possibile lo sperar tutto ciò da attori ignoranti, venali; e che oltre i propri dovevano acquistare i vizi de rispettivi teatri, e società. Pare sperabile che lonore di servire stabilmente un Principe grande, e la sicurezza del soldo, uniti ad una specie di emulazione che deve destarsi nella nuova società, ed alle buone instruzioni, debbano diminuire di gran lunga, se non distruggere questi difetti. 6 Molto potrà forse a ciò contribuire lavveduta distribuzion delle parti, tanto trascurata ne Comici. È questo per lo più lo scoglio degli attori primari, che credendo di perder di credito, se non agiscono sempre da primi, sagrificano sovente il Poeta, il Dramma, e i caratteri alla mal intesa ambizione di primeggiare. LAccademia Toscana sembra aver rimediato in certa maniera a questo disordine, escludendo nel suo metodo i titoli di primo, di secondo ec., e ricompensando ognuno a misura della di lui abilità. Ottima precauzione, che io ardisco di proporre a Vostra Eccellenza nella formazione della nostra Accademia, per quanto verrà fatto di metterla in esecuzione. Ciò sarà tanto più necessario nella nuova società, quanto che gli attori sono tutti scelti, e forse tutti ambiranno moltissimo. 7 Dalla Compagnia di SantAngelo di Venezia, che è la migliore di quante ne ho sentite; e che per tale mi è stata predicata dal Marchese Albergati, e dallAbate Chiari, ho trascelto quattro de soggetti più importanti, cioè gli amanti; collidea che debbano tutti e quattro fare indistintamente da primi, e da secondi, a norma della rispettiva abilità, e de caratteri meglio adattati alla loro disposizione. Nella nota, che di essi presento qui a Vostra Eccellenza colle necessarie particolarità, si chiarirà essa dei meriti, e difetti di ciascheduno. Per le parti tenere damante 8 La Signora Caterina Manzoni. Di statura mezzana, volto più tosto bello, carnagione fresca, voce bella, e pastosa, capegli biondi, occhi tra neri, e azzurri, danni 28 in circa. Recita con anima, con intendimento, e bastante riflessione. Porta la testa un po troppo avanti, e bassa; difetto, credio, cagionato dallessere un poco alta di spalle. Disdice per alcune contorsioni di bocca, e principalmente del labbro inferiore alquanto grosso. È figura da piacere; e sente con attenzione chi la corregge. Per le parti più ardite 9 La Signora Margherita Galletti. Di bella statura, bella carnagione, volto rotondo, aria greca, voce bella, e forte, occhi neri, capegli tiranti nel biondo. Recita con fuoco, con espressione nellardito; ma con poca riflessione. Porta la testa bassa: ha il labbro inferiore anchessa mal fatto; ma è bella, figura in teatro. Età 28 <in 29 anni>. 10 Amendue queste attrici fanno sentire di quando in quando nella pronunzia laccento Veneziano. Gestiscono, e passeggiano male. Per le parti tenere, e ardite 11 Il Signor Majani figlio. Di bella, e grande statura, bella figura, bel corpo, color vivo, aria spiegata, voce bella, e forte. Recita con sentimento, con passione, e con ilarità. Si dimentica qualche volta. È affettato nel gesto, ne movimenti, e ne passi smisurati. Grida un po troppo ne tratti indifferenti; e dà di quando in quando nella declamazione: ma ad onta di questi difettucci, è il migliore di tutti. Danni 23 o 24 in circa. Per le parti miste, e non decise 12 Il Signor Tomasini. Giovane anchesso di buona figura, e statura, corpo ben fatto, color vivo, aria ilare, e spiegata, età fresca di 25 in 26 e forse meno: dindole docile, ma viva, adattato per li caratteri misti dindifferenza, e passione, e per altri caricati con nobiltà. 13 Questi due attori abbisognano di correzione nel gesto, nel passeggio, nella modulazion della voce, e nello sceneggiar Pantomimico. Parti di Regina, e di Madre 14 La Signora Regina Marchesini Toscana, sentita qui anni sono. Donna di 35 in 36 anni, figura scarma; ma faccia caratterizzata. Personale in tutto troppo contegnoso, e manierato; ma persona di bastante intelligenza. Statura più tosto alta. Non lho veduta recitare in Venezia; ma mi ricordo daverla sentita qui con piacere quanto allanima, ed al sentimento. Laffettazione, ereditata più tosto dal Paese, che dalla natura, deve diminuire sensibilmente in un carattere che dordinario non porta seco le dilicatezze di un amore, e di una passione, quali si desiderano in due amanti di vario sesso. Vuol essere corretta nel gesto, che pare operato con molle, e nelle smorfie, ed allungamenti di labbra, che sono lordinario vizio di chi vuol pronunziare con soverchia avvedutezza. È questa la prima attrice nella Compagnia di Sacco. Parti di Padre, di Re, di Tutore, di Tiranno ec. 15 Il Signor Giacomo Corsini Fiorentino. Statura grande, figura esprimente, corpo regolare, uomo di 40 anni in circa. Recita naturalmente più di nessun altro: è regolato nel gesto, e nel portamento: tale mi è sembrato sul teatro. Ne ho fatto maggior concetto fuori. È uomo che parla profondamente dellarte sua, savio, composto, zelante, e povero. Sono stato assicurato esser egli pieno dingegno, e di giudizio, capace di comporre farse in prosa, e in verso, nato fatto per dirigere una compagnia collesemplarità, e col sapere. Oltre a ciò egli è Improvvisatore accreditato in Toscana; e sono informato chegli lascia uscire, di tratto in tratto sul finir delle recite, ottave degne del Tasso, e dellAriosto. Recita nel Teatro del Cocomero <a Firenze>. 16 Ma siccome troppo grave riuscirebbe a questo degno soggetto il dover adempiere tutte le diverse parti che cader possono sotto il titolo di vecchio nelle Commedie, e nelle Tragedie, così natural cosa era che si dovesse avere in vista qualche altra persona, capace di sollevarlo in certi caratteri di minore importanza. Cautela tanto più necessaria, se venisse deciso, come io ardisco suggerire, che il Corsini fosse alla testa dellAccademia, e ne fosse per così dire il Direttore in tutto ciò che riguarda azioni teatrali. Lattore da sostituirsi alle parti, a cui bastar non potesse il Corsini, è 17 Il Signor Cenerini, che recita in Venezia nella Compagnia di Sacco, di buona statura, e figura, che quantunque di buona età, per una discreta ripienezza, e per certi lineamenti di volto composto, e caratterizzato, mostra dessere di 45 in 50 anni. Recita con naturalezza; e può diventare bravo attore sotto la disciplina del Corsini. Conveniente sarebbe pure il Cenerini per una terza parte interpretata nelle Tragiche azioni; e per qualunque altra nelle Commedie, e nelle farse a soggetto. Parte di Serva 18 La Signora Rosa Roffi, giovanetta di 16 in 17 anni, ottima figura in teatro, piena di vivacità, cosa senza esempio ne recitanti toscani; che mostra moltissima disposizione, la quale avrei forse potuto riconoscer di più, se avessi avuto comodo di sentirla più duna volta. È di statura alta, di viso rotondo, di color vivo, piuttosto scarma: aria graziosa, e nobile; ma imbrogliata ne movimenti delle mani, de piedi, e di tutto il corpo, forse per difetto detà, di pratica, e di ammaestramento. 19 Dopo la celebre Serva dItalia, la Maddalena, che è tuttavia attrice nella Compagnia del Medebac; e che malgrado letà, e i piccioli difetti, piace ancora, la Roffi è quella che secondo me potrebbe riuscire in questa parte. Avrebbe bisogno di studiare per due, o tre anni le finezze dellaltra, che io non ho ardito di proporre a Vostra Eccellenza per due ragioni: cioè per letà, e per poter pur dire davere una giovinetta quale Vostra Eccellenza si compiacque di descrivermela, atta a prendere qualunque piega. È questa la sola da me veduta. 20 La Roffi recita essa pure cogli Accademici toscani nel Teatro Via del Cocomero in Firenze. Spererei che la sua vivacità, e figura potessero supplire alle altre mancanze, finché letà, luso, e lesempio de buoni la rendano buona attrice. Servitore comico 21 Il Signor Gaspero Valenti, detto Faloppa, è in sommo credito in tutta la Toscana di buffone ingegnoso, e veramente faceto. Quanti lhanno sentito, protestano esser egli buon comico non da smorfie, contorsioni, e motti liberi, e scandalosi; ma per naturalezza, talento, e sali, e lazzi di buon conio. Come ho avuto lonore di accennare a Vostra Eccellenza in una delle mie lettere, potrebbe forse bastare, per autenticarne labilità, la lite insorta in Firenze tra due Compagnie di Comici, che lo pretendevano; e che costò ad amendue 100 zecchini per cadauna. Non ho avuto il piacere di sentirlo, perchegli non recita, se non il Carnovale, benché sia pagato per tutto lanno. Non ho fatto che vederlo, e parlargli. Egli è di statura tirante al basso, più tosto grasso, di buon colore, di faccia spiegata, in cui si ravvisa certaria buffonesca, e da eccitar riso. È uomo che mostra davere 40 anni in circa. 22 Nella Compagnia degli Accademici di Via del Cocomero ho sentito in una commedia studiata altro servo, il quale per quanto mi è stato detto, sa anche cantare. Mi parve cosa assai mediocre, tutto stento, e sforzo, senza naturalezza, e facilità. Si chiama Bosi. È picciolo anchesso, men grasso del Faloppa, e forse più giovane. Converrebbe averlo sentito in una commedia di maggior azione per lui, per poter giudicare segli fosse in caso di sostenere la parte di soggetto comico più caricato, come lo domanda la nota di Vostra Eccellenza sulla quale mi sono regolato. Vè in Firenze chi fa caso anche del citato Bosi; ma il Faloppa è generalmente preferito. 23 Sentirò lo Sgherli a Lodi, il quale mi viene descritto per buon comico, e per un eccellente stoppabuchi, in caso di mancanza di certe date parti. Nella Compagnia di SantAngelo in Venezia trovasi un certo Martelli, che mi si fa credere a proposito per diversi caratteri caricati. Egli è di buona età, e corporatura. Lho sentito in una sola commediaccia sguaiata, in cui facea la parte di vecchio borbottatore, e mi parve cosa molto forzata. Se ne prenderanno ulteriori informazioni in caso di bisogno. 24 Eccole in vista i migliori attori Comici, che calchino presentemente i palchi dItalia, e che siano generalmente accreditati. Mancano qui e terze, e quarte parti, che neppur Vostra Eccellenza ha segnate nella sua nota. Io non le ho però dimenticate. Vostra Eccellenza si compiaccia di sentire su queste il mio sentimento. 25 Dopo daver seriamente riflettuto alla circostanza, in cui la nuova Compagnia doveva comparire sul nostro Teatro; circostanza che merita tutta lattenzione, sì per riguardo allimportanza della cosa, come per riguardo alla brevità del tempo, mi parve di dovermi decidere più per il merito, che per la gioventù, e per la bellezza; avendo però sempre in vista queste due particolarità essenziali. Dissi dunque: andiamo al sicuro quanto alle prime parti, e pensiamo al bello, al giovinetto, al ben disposto per le seconde, e terze parti. Due vantaggi potrebbero da ciò derivare: il primo daver gente già formata ed abile per le parti primarie; il secondo di potere col mezzo delle prime ammaestrare le seconde, e terze parti comodamente, e senza che il teatro abbia a risentirsi dellinsufficienza delle medesime. Ciò premesso, dissi fra me, o si trovano giovanotti dei due sessi di buona figura, detà fresca, e con qualche disposizione, ed ecco ottenuto lintento; o non si trovano; e chi ne impedisce di scegliere tra nostri ballerini, e cantanti <quelli> che hanno la disgrazia di non riuscire in queste due Professioni, e le abilità richieste per recitare; e di cominciare ad addestrarli nella comica professione? Di fatti Vostra Eccellenza non saprebbe credere quanta scarsezza vi sia in tutte le Compagnie vedute in genere di gioventù nascente! La sola solissima Roffi è da me stata trovata di qualche merito, e speranza fra le donne. Non ho trovato che inesperienza, ignoranza, e freddezza negli uomini. Mi resta a sentire nella Compagnia Rossi, che fa il Carnovale in Piacenza, una certa Teodora Ricci, annunziatami per una giovane di 19 in 20 anni, di bellissima figura, e molta aspettativa. La vedrò nellatto che anderò a Lodi al principio dellanno venturo, quando le Commedie saranno già bene avviate. Frattanto Vostra Eccellenza si degnerà di pensare, e decidere intorno al mio progetto. Veniamo alle Maschere. Maschere 26 Tartaglia. È tuttavia vegeto, e robusto, e quelleccellente comico nato fatto, in cui larte serve solamente per far sempre più spiccare la natura. Questo soggetto è troppo noto, e gradito a Vostra Eccellenza perché io debba estendermi a fargliene la descrizione. Dirò soltanto, che non solo è capace di supplire per un Dottore nelle commedie; quanto sarebbe ottimo, se volesse occuparsi, per tutte le parti di vecchio caricato nelle commedie studiate. Peccato chegli sia un po troppo avanzato; ma torno a replicare, io lho trovato nel migliore stato di salute. Pantalone 27 Tre sono i migliori Pantaloni che ha presentemente lItalia: DArbes, che è nella Compagnia di SantAngelo, e che non recita quasi mai; ma che io credo alla testa di essa in compagnia di certo Lappi, capo della medesima. Io lho sentito; ma appena me ne ricordo; e in tanto lo metto il primo, in quanto che tale viene generalmente reputato. È più tosto avanzato in età, e pingue assai. Il secondo è Bissoni, noto a Vostra Eccellenza, uomo dintendimento, di qualche erudizione, di molta onestà, e zelo, di circa 40 anni, affezionatissimo, ed estimatore di Vostra Eccellenza, che sta volentieri in Parma; e che limita la sua parte al semplice suo carattere. Il suo difetto è di essere un poco freddo. Credo che sia originato dal temperamento. Lo preferisco agli altri due per letà, per la figura, e per la sua abilità ad altri caratteri. Il terzo Pantalone è un certo Rosa, da me sentito a Livorno in una commedia a soggetto. Non si può negare chegli non sia da mettere tra i buoni; ma oltre lesser egli capo della sua compagnia, da lui denominata, è uomo che avvicina i 60 anni, e che vuol fare anche il Dottore. Pantalone non vuol essere che un Mercante economico, un Padre di famiglia rigoroso, e un vecchio avaro. La letteratura, e lerudizione non è per lui. Dottore 28 A questa parte per noi deve supplir Tartaglia. Non ve nha neppur uno che sia compatibile, per quanto io sappia. Dallaltra parte il compenso è per noi sì vantaggioso, chio ho creduto di non dovermi dare la menoma premura per venire in chiaro se ve ne sia alcuno che meriti dentrare nella nuova società. Brighella 29 Campioni, cognato di Sacco, e che recita nella compagnia del medesimo, è, a mio giudizio, il Brighella che fa al caso nostro. Egli ha il corpo, la voce, e il gesto dun vero Brighella. È, a dire il vero, un po troppo verboso; ma questo vizietto è più perdonabile in lui, che in qualunque altra maschera. Dopo di lui, che è di buonissima età, il migliore parmi il vecchio marito della Serva della compagnia Medebac, uomo avanzato assai, corpulento, e ormai inabile. Vè pure nella compagnia di S. Angelo il Martelli, di cui ho scritto allarticolo che riguarda un servitor caricato. Non mi sovviene daver sentito costui a far da Brighella; egli è però in tal carattere nella citata Compagnia SantAngelo; e segli <è> veramente comico, come alcuni lo pretendono, giacché io non lo posso dire, per non averlo udito che una volta, ardisco proporlo nel caso che il Cognato <di Sacco>, (il quale naturalmente sarà legato strettamente con esso, per avere in moglie la di lui sorella, cattivissima servetta nella medesima Compagnia), non accettasse la proposizione. Arlecchino 30 Tre sono i soggetti, che piacciono al publico sotto questa maschera, il celebre Sacco, ormai troppo vecchio, ed impinguato, sempre troppo licenzioso, e motteggiatore anche di là dai limiti; e forse per ciò preferito agli altri due dalle persone meno assennate. La difficoltà di averlo, essendo egli capo della sua compagnia, mi fa tacere le ragioni delletà, e della soverchia libertà, per cui non ardirei di proporlo. Sacchetto, che recita nella Compagnia di Medebac; e che devesser noto anche a Vostra Eccellenza è a mio avviso quello che meglio conviene a noi. Il corpo, la struttura, e il volto mi sono sempre paruti da vero Arlecchino. Egli è di buona età, più circospetto di Sacco, e più docile alla correzione. Non manca dingegno: ha una moglie di buona figura, e capace di recitare allimprovviso nelle farsette a soggetto; cosa che potrebbe fare al caso nostro. Il terzo Arlecchino, che non avevo mai sentito, e che mi è dato nel genio, è un certo Balughi, da me trovato in Livorno nella Compagnia Rosa; uomo di circa 50 anni, più tosto pingue, che non mendica i sali, che è pronto, e felice ne lazzi; e che deve piacere a chiunque gusta un carattere limitato ne suoi confini, ma sempre uguale, e sempre soddisfacente. 31 Ecco esposto a Vostra Eccellenza il bene, e il male degli Attori che mi do lonore di proporle. Il debole mio giudizio è il puro risultato della sensazione da ognun dessi in me prodotta: la verità, quale io lho veduta, mi ha somministrate le espressioni. Ogni altro, dotato di maggiore intendimento, e dilicatezza <di me>, e non vi vuol certo molto, avrebbe forse potuto trovare in essi più pregi, e più difetti; ma son sicuro che non ne avrebbe potuto sceglier di meglio. Penso daltronde che qualunque altro Italiano non sarebbe stato tanto scrupoloso quantio nel rilevarne i difetti; ardisco assicurare Vostra Eccellenza che ad onta dei piccioli nèi correggibili, che le accaderà di scorgere ne soggetti proposti, la nostra Compagnia sarà la più atta a ricevere le correzioni, e le modificazioni, che potranno renderla perfetta; e verrà sempre considerata da miei Nazionali per la più eccellente dItalia.
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