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Annamaria Cascetta

Rovesciamento della tradizione: Cristo e Eschilo inattuali? “Orestea e sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci

Data di pubblicazione su web 10/01/2017
Rovesciamento della tradizione

Rovesciamento della tradizione: Cristo e Eschilo inattuali? “Orestea” e “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci

All’area del “teatro performativo” – cui penso si possa attribuire lo sforzo e l’intenzione di essere sia una sorta di laboratorio e di incubazione dell’arte dal vivo nel quadro del mutato orizzonte della comunicazione e dell’espressione artistica, sia una lucida, spregiudicata e spesso allarmante  diagnosi dei tempi nostri, a cui ho dedicato già precedenti interventi in Teatri del mondo [link] –[1] riconduco il teatro di uno dei più interessanti e internazionalmente noti maestri della scena contemporanea: Romeo Castellucci e la Societas Raffaello Sanzio,[2] di cui analizzo qui due opere: Orestea e Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Esse sono legate dalla scelta di esperienze significative sia sul piano della ricerca espressiva, sia su quello della tensione verso una tematica cruciale, sia sul piano della riflessione sulla presenza e sul destino oggi della tradizione che ha costruito l’identità della nostra cultura.

L’eredità classica: da Eschilo a Castellucci. La struttura

La solenne partitura canonica della trilogia greca diventa una successione unica di sequenze divise in tre parti e in due tempi. Sono quadri in cui la parola, ridotta ai minimi termini,[3] cede il passo ai codici visivi (i tipi, i camuffamenti dei personaggi, le luci e i colori, gli oggetti e i movimenti) e ai codici auditivi (la musica, i rumori o il prolungato silenzio). La dilatazione dell’aspetto visivo, in contrasto con la nota riserva di Aristotele sul vedere (opseos; Poet. 53b), è conforme alla moderna cultura dell’immagine, alla più drammatica arte figurativa contemporanea e alla tendenza performativa del teatro di cui mi sto qui occupando.

Elenco nella loro successione e descrivo sinteticamente i quadri.[4]

AGAMENNONE

1. La scolta annuncia l’avvistamento del fuoco che segnala la vittoria su Troia.

È notte. In un ambiente tetro, buio, con cortine a brandelli, dietro un velario di tulle, appare la scolta: è un uomo che si esprime stentatamente, trascinando le parole, si ripara con un nero ombrello mal ridotto ed è manovrato da un argano come un burattino. Bagliori di fuoco sul velario. Musica e rumori di guerra e di tempesta sul mare sono amplificati in modo urtante, assordante. Chiede sollievo dal suo compito ingrato e si appresta a portare l’annuncio del segnale della fine della guerra e del ritorno del re.

2. Il corifeo rievoca la partenza delle navi e il sacrificio di Ifigenia.

Nello stesso ambiente, che ha alcuni oggetti segno di mondo alla rovescia, come una sedia sospesa per aria e un’altalena ferma e dove passano alcuni modellini di flotta in miniatura, entra il corifeo, un vecchio col bastone e una lunga veste bianca con croce rossa sul petto, un leggero passamontagna che fa da maschera con lunghe orecchie di coniglio. Parla con voce infantile, querula e bamboleggiante. Rievoca la partenza che a lui, vecchio, fu negata e l’uccisione della figlia da parte del padre, “boia sacro”. Mentre parla scende dall’alto una figura col travestimento di fanciulla dalla bianca veste e la lunga capigliatura bionda, un posticcio che le copre il viso. Il corifeo la colpisce col bastone, la sagoma risale mentre cadono a terra due posticci in forma di seni. Intanto sono entrati allineati in duplice fila, come scorrendo su binari, dei pupazzetti piccoli e con orecchie di coniglio. Sono petulanti, rumorosi, distratti, disturbatori e il corifeo deve richiamarli spesso all’attenzione. Si dispongono a lato della scena, sulla destra. Il corifeo si acquatta. I rumori di guerra e la musica sfumano.

3. Clitemnestra e Egisto.

Clitemnestra è una enorme donna obesa con voce da uomo ambiguamente piagnucolosa: adagiata in modo debosciato su un letto spinto fuori da Egisto, esibisce gambe e sederone. Egisto, un maschione a torso nudo, con pantaloni di cuoio che lasciano vedere le natiche, fa gesti di un erotismo sadico, con colpi di frusta e rotazione di ruote sempre più piccole.

Egisto getta un telo nero per coprire corifeo e coro.

4. Arriva Agamennone.

Sul fondo si illumina progressivamente di luce verde un portale rettangolare. Fuori campo si ode la voce di un araldo che precede l’arrivo del re. Entra il re. È un piccolo uomo affetto da sindrome di Down con manto bianco e corona aurea di cartapesta. Avanza con goffi passi circolari sul tappeto di cartone, siede su una banale sedia e imbracciando il microfono si esibisce in una canzoncina puerile. Esce portato per mano da Egisto.

5. Cassandra arriva: profezia e morte.

Mentre nel silenzio si ode un pesante russare, si intravvedono le sagome di due cavalli che alludono al carro di Cassandra in arrivo. Si alzano suoni ferini e rumori di guerra. Entra Cassandra. È una donnona nuda che si dimena in una cassa chiusa, dalle pareti semitrasparenti (come un box doccia che richiama analogicamente il bagno in cui viene ucciso Agamennone). Grida istericamente la sua profezia condannata a non essere creduta, mentre la cassa, guidata da un cavo d’acciaio collegato a un argano fuori scena, si muove avanti e indietro. Il corifeo infastidito la apostrofa con volgari insulti. Clitemnestra, uscita di scena, fa sentire la sua risata. Egisto colloca ai lati della cassa due martellatori meccanici che entrano in funzione finché la cassa non si muove più. Cassandra è morta.

6. Il corpo esposto del re.

Ora la sedia del re gira vorticosamente su sé stessa. Accanto viene sistemato il cadavere del re. Entra in scena Clitemnestra che ora si toglie la maschera, esaltata canta vittoria e profana il corpo già martoriato del marito: una doccia rossa che cade dall’alto e la tinge tutta diventa nera come una pioggia di escrementi che si confonde col colore cupo della scena. Esce di scena.

7. Il trionfo di Egisto che si incorona da sé.

In mezzo al fragore Egisto entra trascinando una pelliccia, la indossa. La sedia continua a girare. Punisce il corifeo che, rientrato, ha osato intonare un lamento (di prammatica) per il delitto: lo appende per le orecchie al gancio, lo frusta ripetutamente, mentre le teste dei pupazzetti-coreuti vanno in frantumi come scoppiando dall’interno.

Egisto solleva il velario e viene in proscenio dove si incorona.

Poi tira giù il corifeo appeso e esce.

8. La regressione totale del corifeo pienamente identificato con il coniglio di Alice nel paese delle meraviglie.

Come sbagliando personaggio e pièce in una chiusura metateatrale, il corifeo si lancia in una lunga citazione dal libro di Lewis Carroll, ma sovrapponendo Ifigenia e Alice e con questo svelando una chiave importante del lavoro.

COEFORE

1. Oreste e Pilade arrivano e rendono omaggio alla tomba di Agamennone.

È una lunga sequenza avvolta nel silenzio, in antitesi col fragore di armi e violenza della prima parte. Domina il bianco in netto contrasto col nero e il rosso della prima parte.

Il terreno è cosparso di una polvere bianca che rende i passi felpati, le pareti sono bianche; gli stracci neri appesi della prima parte sono diventati bianchi; due cortine di tulle bianco fanno da diaframma. Una polvere bianca cadrà ripetutamente dall’alto. Ai fianchi si intravvedono grandi stelle che ricordano vecchie decorazioni circensi. Le luci sono morbide. Al centro un tumulo bianco. Sulla destra un piccolo letto da ospedale bianco.

Entrano con andatura lenta, felpata, regolare, oscillante a indicare il cammino e la circostanza funerea Pilade e Oreste. Hanno corporatura filiforme, di tipo anoressico, sono nudi interamente coperti di biacca. Pilade è molto alto, reso ancora più alto da due pesanti calzari neri. È lui che guida Oreste standogli alle spalle e sovrastandolo con la sua statura. È lui ad attizzare l’odio. Sulla testa hanno una calotta di lattice bianco e indossano una maschera bianca.

Oreste rende omaggio al tumulo, Pilade gli toglie la maschera e si nascondono.

2. Entrata di Elettra.

Anche Elettra entra con passo felpato lamentandosi in modo puerile. Corpulenta, indossa un tutù bianco molto corto da cui si intravvedono le mutande di lattice e un piccolo organo genitale maschile. Il capo è coperto da una calotta di lattice bianco con piccole orecchie da gatto. Alla vita ha un frustino. In mano ha due scarpine da neonato che tenta di infilare dicendo «Io porto le scarpine di Oreste» e che le danno un’andatura goffa e incerta.

3. Elettra, Oreste e Pilade si incontrano e si riconoscono.

Pilade attrezza lentamente Oreste da vendicatore: lo cinge di cinghie, corazza di cuoio, gli arma il braccio con fettucce di piombo. In un rapido flash gli fa indossare la pelliccia regale che è stata probabilmente di Agamennone e la stessa che ha indossato prima Egisto. Poi la sfilerà per l’azione vendicatrice. Intanto Elettra si appresta a versare latte (munto da una capra passata sullo sfondo) sul tumulo di Agamennone da dove esce una carcassa di capra issata con una corda che cala dall’alto. I due si ritrovano nel rito che sembra ridare vita ad Agamennone: un tubo di gomma esce dalla bocca di Oreste e si collega alla carcassa di capra-vittima sacrificale – metafora di Agamennone stesso –passandole il soffio vitale. Elettra, sentendosi esautorata dal fratello, colpisce e insulta stizzosamente la pelliccia simbolica.

4. L’uccisione di Egisto.

Riappare Pilade che indossa ora un alto cappello (che richiama sia il clown sia il ku klux klan) estratto da una valigia. Continua ad armare Oreste, crea un séparé di stoffa bianca che lascia aperta la parte bassa issando due aste che sono in terra. Pilade assolve così la duplice funzione di istigatore-servo di scena. Si compie l’omicidio di Egisto dietro il séparé. Si vedono le gambe nude di Egisto arrossarsi.

5. L’uccisione di Clitemnestra.

Pilade continua ad armare e a spingere Oreste all’azione ulteriore: uccidere la madre. Ora il séparé è spostato davanti al catafalco bianco con sopra Clitemnestra che è entrata in scena piagnucolando.

La parte bassa del catafalco che si vede ora dietro al séparé si tinge di rosso. La vendetta è compiuta.

6. Oreste solo e sconvolto.

Ora Oreste è rimasto solo, stremato si getta prono sul lettuccio. Il braccio automaticamente e ossessivamente continua a colpire a vuoto, l’attrezzo che lo armava, cioè il braccio meccanico  gettato a terra, ora si muove da solo come strisciando e anticipando così le Erinni.

Tutto trema nel finale terremoto. La luce cala e diventa bluastra.

EUMENIDI

Comincia senza soluzione di continuità rispetto alla parte precedente.

1. La Pizia parla.

Un sipario nero fa da diaframma. Dietro si vede una grande apertura circolare aderente a un grande parallelepipedo-gabbia. In essa, luogo delle apparizioni, delle visioni oracolari, della coscienza e della storia dell’uomo, appaiono e scompaiono i personaggi.

Tutto diventa oscuro.

Pilade e Oreste escono sul sipario. Oreste ha ancora le macchie di sangue.

Siamo nel tempio di Apollo.

La Pizia parla al centro.

Entra Apollo. È un uomo mutilato di entrambe le mani che agita al vento i monconi mentre assicura che troverà i giudici adatti e le parole ammaliatrici che sollevino dal terrore.

Ermes entra in scena e si appresta a condurre Oreste ad Atene.

2. Il giudizio su Oreste.

Nella sfera appare Clitemnestra e imprecando invoca la vendetta.

Su un filo metallico, che attraversa diametralmente il cerchio, si muovono avanti e indietro squittendo alcune scimmie vere, in figura di Erinni.

Lì si siede anche Oreste con le bende da supplice e l’ulivo di pace. Si è turato le orecchie per non sentire e per contrastare lo sconvolgimento della sua situazione.

Pilade col suo cappello da clown e da Pinocchio continua a ondeggiare.

Entra Atena nel cono di luce. Ha una testa fallica, un paio di ali bianche e un ramo di ulivo. La recitazione è litaniante. Con un canto fermo ella indice il giudizio: essendo lei esclusivamente dalla parte del padre, esprime il suo voto a favore di Oreste.

In trasparenza si vede il corifeo con la sua bianca veste quasi una bandiera bianca. Pilade entra nella gabbia. Si odono una risata sarcastica e squittii delle scimmie.

3. Finale.

In proscenio esce il nuovo vincitore.

Il braccio meccanico riprende a pulsare.

Regressione antropologica, arroganza del potere, inconsistenza del popolo. Come cambiano i nuclei del tragico e della tragedia

Uno spostamento assai significativo da Eschilo a Castellucci avviene nel trattamento del coro.

Come ben si sa, il coro ha nell’Orestea di Eschilo una parte ampia, una struttura complessa e elaborata sia tecnicamente, sia tematicamente, un’alta funzione nell’economia della trilogia.

Nell’Agamennone i dodici saggi cittadini anziani, rappresentanti del popolo della città di Argo, col loro corifeo, richiamati dai segnali di novità che vengono dalla reggia, sono impegnati in entrata in una parodo, fatta di una parte anapestica recitata dal corifeo e di una parte di strofe e antistrofe liriche, cioè cantate,[5] poi in tre stasimi o canti da fermo e, attraverso il corifeo, in una serie di interventi negli episodi o dialogati con i personaggi della tragedia (Clitemnestra, araldo, Cassandra, Egisto) o ad essi riferiti (Agamennone, ora in scena quando arriva sul suo carro ora fuori scena, quando le urla dall’interno rivelano l’assassinio).

Il coinvolgimento del coro è emotivamente forte e può tradursi nelle modalità del veemente contrasto dell’epilogo (corifeo e Egisto) o del lamento in metri lirici (il bellissimo kommos di Cassandra nell’episodio quarto).    

Nelle Coefore le dodici anziane ancelle di Elettra, venute con lei al tumulo di Agamennone per i sacrifici ordinati da Clitemnestra terrorizzata da un sogno male augurante, compongono un coro che dà l’impronta rituale all’intera seconda tragedia della trilogia. Il coro è impegnato in un lungo famoso kommos, aperto da un preludio anapestico, che lo coinvolge insieme a Oreste e a Elettra. Il coro si colloca dopo la parodo, secondo Valgimigli, fra le due parti del primo episodio. Esegue da fermo i tre stasimi, il secondo dei quali ha strofe e antistrofe intercalate da efimnio o ritornello.

Nelle Eumenidi le dodici figure del coro sono le spaventose dee arcaiche della vendetta. Certo non si tratta di persone reali, ma di personificazioni di forze e istituzioni fortemente radicate nel tessuto della città e della sua evoluzione. Pertanto esse hanno un ruolo molto concreto e determinante nello sviluppo dell’azione e nella esplicitazione del messaggio della trilogia. Il coro entra due volte, conformemente al cambio di luogo, in parodo e in epiparodo; intona due stasimi di cui il primo è un hymnos desmios, un canto pauroso, provvisto di efimnio, persecutorio che tende a incatenare magicamente Oreste; interloquisce vivacemente negli episodi attraverso la corifea che polemizza in incalzanti sticomitie ora con Apollo ora con Atena o che tallona Oreste con un interrogatorio in martellante sticomitia. Disputa e contratta con Atena il suo ruolo nel canto di epilogo. Benedice la città nel kommos finale.

Anche sul piano dei contenuti, come si sa, il coro è impegnato in un’ampia gamma di riflessioni che  confermano la sua stretta saldatura con la città, oltreché con la vicenda del personaggio. Nell’Agamennone i vecchi coreuti esprimono la relazione col sacro, secondo una severa teologia, la  prospettiva storica e i paradigmi mitici dei comportamenti presenti, la relazione con le istituzioni cittadine, i giudizi, i pareri, le valutazioni dubbie o problematiche, le emozioni sulle vicende narrate dalla tragedia, le meditazioni sull’esistenza.

Il coro esprime la pietas religiosa, la devozione per Zeus e per gli dei che reggono il timone del mondo. Celebra il valore e l’onore militare dalla gioventù argiva in una guerra giusta (contro Troia), ma vede anche l’ombra di un sacrificio innocente e di tante perdite dolorose. Riconosce con soddisfazione che la città è stata retta da una regalità giusta ed equilibrata e da una concordia di autorità.

Si abbandona a considerazioni filosofiche sul pathei mathos, l’imparare soffrendo;[6] su ananke, la necessità; sulla hubris, la dismisura che viola la giustizia e contravviene al principio della moderazione, generando il fulmine di Zeus e l’infelicità. Condivide l’antropologia della vendetta, fondamento culturale del mondo arcaico.

Oscilla fra ansia e speranza; si commuove; si rammarica per la debolezza della sua incipiente vecchiaia, che lo esclude dalla vita attiva; trema al pensiero della morte; vacilla per un attimo, ma si scuote e tenta di contrastare la minaccia della tirannide che avanza; si smarrisce tra gli enigmi di oracoli ciechi, ma conserva il suo orgoglio.

Si rapporta ai personaggi del dramma, ora partecipando straziato al funesto presagio di Cassandra, ora indignandosi pieno di ribrezzo e disprezzo per l’arroganza e la viltà di Egisto.

Nelle Coefore il coro di donne restituisce un quadro analogo: un’antropologia fondata ancora sulla idea della vendetta di sangue, un alto senso del sacro fatto di pietas e di ritualità, una filosofia della moderazione, contro i flagelli delle passioni rovinose, il senso del destino e della giustizia. I sentimenti. Le emozioni oscillano fra umiliazione, rassegnazione, paura, odio, esultanza e di nuovo smarrimento. Il rapporto coi personaggi del dramma va dal sostegno alla istigazione.

Nelle Eumenidi non deve ingannare l’apparente “irrealtà” del coro. Esso è la personificazione di una realtà ben radicata nella città: l’idea arcaica del divino terrorizzante e l’istituto della vendetta familiare in una fase di transizione verso un’idea olimpica del divino e verso una magistratura pubblica che decide del delitto di sangue e segna pertanto un progresso istituzionale.

Gli umori di questo coro, fra polemica, minaccia, maledizione, risentimento e la sua arringa  traducono le tensioni ideologiche cittadine e il travaglio che porta Eschilo, voce di Atene, a sostenere che il terrore può servire a garantire la vita della città e che il dolore giova alla saggezza.     

Nella prima parte dell’Orestea di Castellucci, corrispondente all’Agamennone di Eschilo, il coro è ridotto all’immagine di un “corifeo” grottesco, come si è visto, i cui tratti svelano il senso della allegoria: la tunica e il bastone, eco classica, sono contaminati con la maschera del coniglio dalle lunghe orecchie, reminiscenza di Alice’s Adventures in the Wonderland di Lewis Carroll (il Bianconiglio è un personaggio connotato dallo scrittore inglese come servo fra servi); le movenze sono ora impacciate, ora isteriche o aggressive; le battute sono dette come un disco, intercalate con richiami e ordini rivolti da un maestrino al “coro” fatto di pupazzetti di gesso, a loro volta distratti e disturbatori – coi loro striduli versi o con imprecazioni volgari – della fine miseranda che gli è riservata, come di una bestia prima appesa al gancio del macello e poi afflosciata a terra.

Nella lettura che Castellucci fa della modernità, non solo la forma del coro all’antica è tecnicamente inattuale, ma anche la sua sostanza: è totale la sfiducia nella possibilità di un personaggio corale che rappresenta la sapienza della comunità, interlocutore del potere, critico e lucido nei suoi ammonimenti, depositario della memoria storica e dei suoi insegnamenti, dei valori religiosi, filosofici, morali, civili, responsabilmente preoccupato della stabilità e della gestione del cambiamento della città, vigile nella sua razionalità e pur vibrante di emozioni condivise; è un personaggio che si esprime in un linguaggio alto, complesso, in una retorica persuasiva, che dibatte con argomenti dialettici e, all’occorrenza, alterca: ed è un coro pronto a resistere con la forza (anche se una forza diminuita dagli anni) alla minaccia del tiranno.

Basta confrontare, per esempio, la parodo dell’Agamennone col primo blocco di battute del corifeo nel copione di Castellucci. Circa trentaquattro righe a fronte di duecentodiciotto versi. Frasi brevi, paratattiche, citazioni frammentarie biascicate stentatamente come affioranti da una memoria senile piena di buchi, confuse, stizzite, spazientite o curiose. Siamo ben distanti dall’alta complessità espressiva e contenutistica del testo antico.

La presenza del corifeo è marginale, ininfluente. Scompaiono gli amebei con Clitemnestra, con Cassandra (che lasciano il posto a infastiditi insulti). Soppressi, salvo alcune transcodificazioni che, vedremo, sono gli stasimi.

L’in-esistenza del corifeo-coniglio e del coro-pupazzetti culmina nel finale di questa prima parte, quando il corifeo perde completamente il contatto e, ben lontano dal complesso e problematico intervento del coro eschileo, rimuove tutto e si svaga completamente dietro la suggestione di Alice sovrapposta come nella memoria senile e finisce in suoni inarticolati.

Certo l’accostamento Ifigenia-Alice manifesta un vago sentore della gravità di quel che è successo, anche se l’energia e la determinazione per giudicare e contrastare mancano del tutto a questo coro imbelle. Esso allude all’innocenza conculcata, al futuro rubato alla giovinezza da un mondo stolido, prepotente e violento.

Nella prima parte del secondo tempo, corrispondente alle Coefore, il coro eschileo delle ancelle di Elettra, immerso com’è in un’atmosfera rituale, coinvolto tra l’altro nel famoso, raffinato kommos lirico sulla tomba di Agamennone, è cassato del tutto, coerentemente con il taglio politico-antropologico che va prevalendo in questa riscrittura del mito.

In una transcodificazione ardita il coro ricompare nell’ultima parte dello spettacolo, corrispondente alle Eumenidi di Eschilo. Non ha più parole, ma solo squittii, non ha parvenze legate al sacro, ma solo all’animalità o a una energia meccanica che agisce ormai da sola senza controllo: sono le scimmie che corrono sull’assicella nel finale e trovano il loro analogo nel braccio meccanico che vibra come un serpentello.

L’escalation della violenza, dell’arroganza del potere che si tramanda senza evoluzione e senza strategie stabilizzanti, la regressione di un’umanità o servile o prona al suo lato animalesco cui lascia invadere il campo, sembra essere il senso del trattamento da parte di Castellucci di uno dei nuclei fondamentali della tragedia: il coro, appunto.

Analogo è il trattamento riduttivo che tocca al personaggio, privo di consistenza e sviluppo, non relazionato alla comunità, senza rapporto con un “sacro”, che si lascia intravvedere in sagome convenzionali di un immaginario scolastico, magari rese monche dai secoli (come suggerisce l’attore senza mani che rappresenta Apollo). Esso è inchiodato e chiuso patologicamente nel suo narcisismo e nella sua ossessione o nel suo sottosviluppo che si gonfia e si sgonfia in anomale sagome fuori forma (obese o filiformi). Le manie sono il sesso (per Clitemnestra), il potere (per Egisto e poi, come coazione a ripetere, per lo stesso Oreste), l’invasamento magico (Cassandra), la manipolazione occulta (Pilade), la dipendenza e la credulità (Oreste).

Analogo è il trattamento della vicenda: il dispositivo alto e solenne di Eschilo, di significato religioso, etico, politico, antropologico, accompagna il passaggio dalla colpa all’espiazione, dal mondo pregiuridico al mondo giuridico, dal ghenos alla polis e alle sue istituzioni, dalla vendetta al giudizio della magistratura, dalla hubris alla moderazione; è un itinerario di acquisto di consapevolezza, un “imparare soffrendo”, con una funzione stabilizzante. Anche Ate, l’accecamento, è personificazione di una forza legata agli dei in funzione dell’affermazione della giustizia. Essa è trasposta qui in un dilagare senza controllo di violenza, sangue, guerra, avidità del potere, un mondo di individualismi e grandi solitudini, prigioniere di una coazione a ripetere in condizioni di stordimento e di quello che un importante storico chiama «aveuglement»,[7] distruttivo e destabilizzante, versione contemporanea dell’accecamento antico, ma lontano dall’incremento della conoscenza che era l’esito della tragedia antica e la base del suo effetto catartico.

Così vede il nostro artista la modernità e così valuta quel che essa sa fare delle sue eredità culturali.

Il dispositivo scenico: transcodificazione e fonti

Mi pare interessante, ai fini anche di meglio chiarire il funzionamento del teatro performativo, osservare come il procedimento creativo di Castellucci sia mimetico rispetto all’interpretazione del testo-pretesto di partenza che ho sopra illustrato.

Nella ricchezza di temi e forme dell’elocuzione dell’Orestea di Eschilo, Castellucci isola e si focalizza su pochi elementi che dal linguaggio verbale vengono transcodificati  nei linguaggi che gli sono congeniali e che calzano alla linea di spettacolo dal vivo oggetto di questo studio: l’immagine e il suono.

Il peso di tali elementi nell’insieme della scrittura scenica si dilata enormemente rispetto alla equilibrata distribuzione del testo eschileo, prevale e invade la scena.

Faccio qualche esempio.

Il riferimento alla guerra presente nelle parole della scolta nel prologo o nelle parole del coro nella parodo eschilea e il cenno al maschio cuore di una donna, Clitemnestra,[8] vengono transcodificati nel continuum del fragore di armi, assordante per tutto il primo tempo della rappresentazione, e nella mascolinizzazione delle figure.

Il sostantivo “sangue” (aima) e le forme grammaticali ad esso collegate sono presenti in Eschilo in limitate occorrenze; la sua realtà poi, come di norma della tragedia greca, è tenuta lontana dalla vista. In Castellucci il sangue invade la scena traslato nel rosso che imbratta la veste bianca del corifeo, cola lungo le pareti della gabbia di Cassandra, macchia il telo che Egisto getta sul corifeo e sui pupazzetti del coro, tinge l’acqua della doccia che cade dall’alto, alludendo al bagno letale di Agamennone, colora il corifeo-bestia al macello appeso al gancio.

Il silenzio che circonda Pilade, cui Eschilo nelle Coefore riserva una sola battuta (di incoraggiamento all’azione di Oreste),[9] diventa il segno dominante della lunga serie di scene mute (1-6 del mio elenco di cui sopra): in realtà un lungo, lento piano-sequenza, muto e inquietante, che contrasta violentemente col fragore incessante della prima parte. È chiaramente il silenzio del complotto, della occulta manipolazione.

L’affollato epilogo di Eschilo dove è convocata la rappresentanza di un’intera comunità che si muove in processione, metafora di una città stabilizzata, protetta dagli dei, salda nelle istituzioni, presidiata dai cittadini dell’Areopago, capace di comporre i conflitti e distinguerne il torto e la ragione, è traslato e rovesciato grottescamente in una sfera-mondo e gabbia, “governata” e guardata a vista da un clown-Pinocchio, istigatore e mentitore (è Pilade naturalmente che riappare).

A cosa pensa Castellucci? Ai poteri occulti? Ai poteri “forti” oppure, tornando alle domande radicali che attraversano molta della sua produzione, a una sorta di sguardo misterioso e lontano, indifferente o tormentatore? Ancora una volta una reminiscenza beckettiana. 

La città (Atene e la sua ormai alleata Argo), proiettata sul mondo e sulla storia, è traslata in una gabbia-mondo dove corrono, immagine della regressione,[10] i babbuini veri, non primitività neutralizzata, ma liberamente scorrazzante, dove gli dei mutilati (Apollo, ripeto, è senza mani) e gli uomini appaiono come pallidi simulacri.

Il riferimento ai tessuti rossi,[11] elemento ricorrente e unificante in Eschilo, si trasferisce nel colore del sangue abbondantemente presente sulla scena della prima parte.   

Nel dispositivo scenico di questo evento performativo confluiscono e si fondono molte fonti.

Le folgoranti, visionarie immagini dotate di grande potenza formale e spessore materico di questa Orestea si nutrono delle suggestioni provenienti dalle arti figurative, predilette da Castellucci. Anzitutto la pittura di Mark Rothko che influenza molte soluzioni: il contrasto fra il tutto scuro della prima parte e il tutto chiaro della seconda (due lunghi piani-sequenza di Castellucci) evoca i rettangoli monocromatici delle sue tele e il prevalere e l’estendersi del nero nelle opere realizzate dall’artista fra il 1969 e il 1970;[12] così la polarizzazione sul rosso e sul nero rinvia alla predilezione dei dipinti di Rothko degli anni classici fra il 1951 e il 1970,[13] carichi  di significati simbolici. Le figure deformate, nel senso dell’allungamento e dell’obesità, richiamano il primo periodo del pittore americano e la fase dei miti.[14] Da qui la propensione verso un’estetica della concretezza della materia.

Aldilà del piano formale, sentiamo una convergenza di Castellucci sull’ispirazione profonda di Rothko: l’idea, dichiarata, che la sua arte ponga l’accento sulle «emozioni fondamentali dell’uomo, la tragedia, l’estasi, la sorte»;[15] l’idea che nei suoi quadri «la violenza è l’humus» e che «l’unico equilibrio possibile è quello precario che precede l’istante del disastro», e che in realtà i suoi dipinti, contrariamente a quanti vi vedono un mondo di serenità, «sono una lacerazione. Nascono dalla violenza».[16] Certo c’è analogia fra l’impulso che induce Castellucci a evocare la guerra di Troia, grande mito fondativo della nostra cultura, a partire dai molti scenari di guerra dei tempi nostri, e lo spirito del mito presente nei dipinti degli anni Quaranta, «metafora della catastrofe umana e politica che si profila all’orizzonte».[17]

Se tuttavia nell’artista americano prevale la prospettiva filosofica ed esistenziale, poggiante anche sulla lettura della Nascita della tragedia di Nietzsche, nell’Orestea di Castellucci sembra prevalere l’aspetto politico su quello, pur presente, antropologico, filosofico ed esistenziale.

In termini analoghi si può leggere un’altra fonte figurativa che agisce sulla partitura visiva di questa Orestea: la scultura di Alberto Giacometti. Sono i suoi L’uomo che cammina (Walking Man I), 1960, conservato alla Fondation Marguerite et Aimé Maeght di Saint-Paul, e La radura (Piazza, nove figure) (The Glade-Square, Nine Figures) che ci viene da associare all’apparire della figura allungata di Pilade dietro Oreste, col suo avanzamento guardingo nel bianco spazio del secondo tempo. Se è vero infatti che Giacometti ha dato vita a un’esplorazione che «breathes life into an exploration in which space is the complementary element of his contemplation of the human condition […] a sense of void that is physically manifested».[18] Il segno di Castellucci certo si ispira alle figure allungate di Giacometti che si manifestano nella loro relazione con il vuoto e il nulla, ma, contaminandosi con l’immagine della coppia di clown, con l’iconografia di Pinocchio e con il topos della coppia sul set di Samuel Beckett – perfino la Pietà Rondanini di Michelangelo sottostà a questo segno, ribaltata nel suo contrario, non pietà, ma cinismo manipolatorio – producono un segno sincretico, dal plurimo significato: dall’uomo manovrato da un potere occulto e menzognero nelle cui mani è indotto a ripetere un copione sempre uguale all’uomo che cammina solo nel vuoto di una gabbia guardato a vista da una misteriosa presenza silenziosa e sovrastante.

Determinante è poi l’influsso di Francis Bacon: l’urlo di Cassandra nella gabbia trasparente, i corpi obesi e deformati, le scimmie che corrono lungo la sbarra, la carcassa che si rianima, il personaggio appeso come un quarto di bue, il rifiuto della narrazione realistica per far emergere la verità della brutalità, della violenza, degli istinti primordiali, l’approccio alla fonte letteraria non per illustrarla, ma per trarne e renderne nel segno iconico l’essenza e ciò che ha suscitato nell’artista richiamano l’arte di Bacon. Pensiamo in particolare a Study for a Portrait (1949, Chicago, Collection Museum of Contemporary Art), Nude (1960, Frankfurt am Main, Museum für Moderne Kunst), The Human Figure in Motion: Woman Emptying a Bowl of Water (1965, Amsterdam, Stedelijk Museum), Figure with Meat (1954, Chicago, Art Institute), Triptych Inspired by the “Oresteia” of Aeschylus (198, Oslo, Astrup Fearnley Collection).[19]

E infine, su questa visionaria tavolozza della scena, l’influsso di Guernica. Si rappresenta un mondo alla fine con le agonie dei corpi nel momento in cui avvengono e uomini e animali condividono arcaicamente la stessa vita e la stessa morte.[20]

Altre fonti vengono dal teatro, in particolare dal Macbeth di Shakespeare.

Ma l’immaginario di questo teatro performativo si nutre di suggestioni provenienti da diverse aree della cultura, non solo di quella cosiddetta “alta”: l’iconografia della fiaba e del gioco nel richiamo ad Alice, al coniglio, ai pupazzetti-scacchi, a Pinocchio; il mondo del circo e della fiera con gli animali vivi (cavallo e scimmie), i corpi fuori forma, i clown, le “soreghine” donne-cannone, la ballerina in tutu, il capro morto che si rianima.

La partitura scenica, benché ritengo sia governata, aldilà delle apparenze e di certi approssimazioni della critica, dal controllo razionale e da una lucida comunicazione di significati, si affida comunque all’efficacia di un’esperienza sensoriale di immagini e suoni che agganciano lo spettatore e che ricorda anche certi film come L’impero della mente di David Lynch.                

Infine, l’osservazione della realtà senza inibizioni, la conoscenza della fotografia freak di Diane Arbus,[21] una ormai diffusa presenza del corpo esposto dei disabili in molte forme artistiche spingono peraltro la scena di Castellucci verso l’iperrealismo, verso una sensualità che tocca l’organico.

Sarà interessante riflettere su questo aspetto: rendere presenti in scena corpi veri normalmente esclusi (dal corpo affetto da trisomia, al corpo senza mani, al corpo tracheotomizzato, al gigante anoressico, alla donna gigante, o al cieco), senza l’intenzione di sorprendere esibendo il fenomeno, senza sadica malignità e senza condiscendenza pietosa, ma integrandoli nel complesso dell’evento comunicativo ed espressivo ottiene, mi sembra, un duplice esito: accrescere l’effetto di realtà e verità dell’esperienza teatrale, propria di questo teatro che abbiamo chiamato performativo; facilitare il passaggio a diventare segni e simboli (nell’analisi di cui sopra ho chiarito alcuni di questi significati in Orestea) senza troppe e convenzionali mediazioni della finzione scenica. Per non parlare della portata umana e sociale dell’inclusione nel gioco del teatro (gioco di eguali), di ogni tipo di umanità e, come diceva Testori, del dare la parola a chi non ce l’ha, a chi, per dirla con Isaia, «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, disprezzato e reietto»,[22] giusto il contrario dell’uomo potenziato e superman di tante derive ipertecnologiche.

Nella scrittura scenica, poi, una rilevante fonte di suggestione e di significato è il codice uditivo, soprattutto il fortissimo contrasto fra il rumore infernale della prima parte corrispondente a Agamennone e il totale silenzio della seconda corrispondente a Coefore. Le voci alterate, amplificate, spinte su tonalità maschili se di personaggi femminili in cui le parole sono salmodiate, si fondono con una partitura musicale firmata perlopiù da Scott Gibbons,[23] il compositore e performer americano di musica elettroacustica di cui Lyn Gardner scrisse a proposito di Tragedia Endogonidia: «Scott Gibbons’s music creates a sense of unease with its rumbles, pops and screams that feels as if it is happening inside your own head».[24]

Un altro elemento di forte impatto e di pregnante significato è il contrasto fra il “primordiale”, suggerito da suoni e immagini, e una avanzata tecnologia che si fa ad esempio presente negli impulsi elettrici che animano un capro scorticato o un braccio omicida, nei movimenti scenici. Come scrive Fabienne Darge si tratta di «choc d’un théâtre barbare plongeant dans les racines les plus archaiques avec les moyens technologiques d’aujourd’hui».[25] E certo esso suggerisce il disagio fra lo sviluppo tecnologico e la regressione violenta in cui l’uomo contemporaneo sembra precipitato.

L’eredità di Cristo? Sul concetto di volto nel Figlio di Dio

Ancora nella linea estetica del teatro performativo, Castellucci affronta un altro caposaldo dell’eredità culturale dell’Occidente: l’icona di Cristo, e la sottopone a una indagine radicale, tanto spregiudicata quanto sofferta in Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, produzione esecutiva della Societas Raffaello Sanzio nel 2010,[26] realizzato con la coproduzione di diciannove paesi del mondo[27] e in tournée per tutto il 2011, il 2012 e oltre in teatri e manifestazioni artistiche di prestigio e ampia risonanza. Essa ci offre un’esperienza e una riflessione tanto intensa quanto discussa e talvolta pretestuosamente e polemicamente fraintesa.

È teatro performativo, perché la produzione del senso del testo scenico si realizza attraverso l’assoluta equipollenza di tutti i codici in gioco, con prevalenza, nello specifico, del linguaggio figurativo e spaziale piuttosto che di quello verbale, quantitativamente secondario, attraverso la costruzione dell’opera sulle assi di scena, sul “plateau à habiter”, attraverso una relazione impegnativa con lo spettatore che non può sottrarsi allo sguardo che lo interpella e alla provocazione della materia espressiva, imbarazzante nell’esibizione pubblica, che lo snida dal suo eventuale torpore, attraverso una serie di richiami a Beckett, ormai criticamente riconosciuto come uno dei grandi fondatori e sperimentatori della drammaturgia performativa e del cortocircuito fra l’iperrealismo e il simbolico, fra il quotidiano e il metafisico.

La struttura dell’opera

La scena rappresenta un interno di un appartamento-ospedale-casa lungodegenza, ordinata e asettica, salotto e stanza da letto che ospita un malato terminale. Gli arredi, perfettamente geometrici e di un bianco assolutamente immacolato, sono essenziali: il divano, il tavolino, il televisore con le cuffie, la pianta, la comoda, il letto attrezzato, il paravento.

Sullo sfondo campeggia una gigantesca riproduzione del Cristo benedicente di Antonello da Messina, noto come Salvator Mundi, conservato alla National Gallery di Londra. Le linee del giovane Gesù benedicente sono purissime. Lo sguardo è fisso: di tanto ci interpella di tanto è impenetrabile. Il ritratto sta su una tela leggera.

I personaggi sono due uomini: uno è il figlio, di mezza età, in abito e cravatta, telefonino di lavoro, pronto a uscire per andare in ufficio (ma non ci riuscirà); l’altro è il padre, un vecchio, in accappatoio bianco, poi in camicia, poi nudo.

L’azione, un lungo piano-sequenza di circa cinquanta minuti, è una sorta di fatica di Sisifo in microazioni continue che ricominciano sempre da capo per ripulire e riportare l’ordine e il candore nel disordine e nell’imbrattamento provocati dalle continue scariche dell’incontinente vecchio.

Il padre è piagnucoloso, imbarazzato, umiliato, regredito, ripetitivo.

Il figlio è premuroso, paziente, sdrammatizzante, pateticamente spiritoso e un po’ bamboleggiante.

Ma, nel basso continuo delle parole che accompagnano denotativamente le azioni banali della normalità e dei gesti che iteratamente e invano cercano di tamponare un inarrestabile disastro, affiorano con pudore straziante le battute e i gesti della pietà.

Il testo è iperrealisticamente breve.

Le battute del figlio sono domande oziose che riempiono il vuoto e il disagio di non saper che dire e coprono l’ansia di una fatica impotente;[28] sono metafore infantili di un umorismo forzato,[29] per alleggerire la pesante situazione; sono commenti ostentatamente minimizzanti;[30] esclamazioni pateticamente distratte;[31] didascalie riempitive che “denotano” i gesti di questa routine umiliante;[32] conati di battute di spirito. Esse accompagnano il quotidiano rituale della cura, la cui monotonia è interrotta da rarissimi cenni di fastidio o di impazienza ed esasperazione[33] subito rientrati e da più frequenti e accorati accenti di tenerezza e di accomunamento.[34]

Poi lo strappo finale, il grido e la domanda su una risposta paventata e nota fin dall’inizio, per tutti e da sempre:

IL FIGLIO   Cosa c’è papà, cosa ti succede…
…Ma che cos’hai…Cosa succede papà…
…papà…papà…papà…[35]

Il padre invece non ha più le parole della conversazione e della relazione salvo l’iterato «Sì» e l’iterato: «Scusami», «Perdonami» che interrompe i lunghi silenzi e si accompagna al pianto.

Ma nel macinarsi automatico dei gesti e delle parole si stacca il momento del lavacro del corpo nudo e violato del padre che ora appare davvero come un Ecce homo, l’altra icona di Antonello che Castellucci non esibisce, ma implicitamente evoca. Si staccano i momenti del piangere insieme, della carezza paterna del commiato, della resa della morte simbolicamente indicata dal contenuto di acqua mista agli escrementi che il vecchio si rovescia addosso e che tutto invade, e poi il momento dell’uscita di scena. 

Il figlio esce di scena e ritorna con un secchio di acqua pulita. Spoglia di nuovo il padre che volge sempre le spalle al pubblico. Comincia a lavarlo con la spugna con infinita pazienza. I due tacciono. Dopo un minuto il figlio ferma la mano sulla schiena del padre in un gesto sospeso.[36]

Il padre si alza lentamente in piedi. Piangendo afferra una tanica bianca posizionata sul comodino, bianco anch’esso, e rivolgendosi al pubblico inizia a rovesciarsi addosso il contenuto della tanica, un liquido marrone.

(…)

Il padre piangendo continua a rovesciare il contenuto della tanica anche sul letto bianco in un crescendo drammatico.[37]

(…)

Il figlio trafelato entra nuovamente in scena trovando il padre seduto sul letto e immerso nelle feci. Il figlio sopraffatto inizia a piangere.

(…)

Il figlio di spalle al pubblico abbraccia il padre seduto sul letto. Il padre gli accarezza la testa amorevolmente e piangono entrambi.

(…)

A questo punto il figlio, piangente, di spalle al pubblico, si stacca dall’abbraccio, si guarda diverse volte le mani sporche e si avvia verso il muro di fondo.

Si ferma davanti al Gesù Cristo di Antonello da Messina. Si alza in punta di piedi e bacia la bocca di Gesù Cristo. Il figlio esce di scena.

Il padre rimane seduto sul letto col viso tra le mani.

Ad un segnale sonoro il padre si alza e prende in mano la tanica.

Attraversa lo spazio bianco del palco in direzione diagonale rovesciando le ultime gocce di liquido marrone sul pavimento.

Poco prima di raggiungere la quinta, si gira indietro verso il pubblico e guarda quello che è successo.

Buio.[38]   

Nulla di paradossale o scandaloso nell’immagine del vecchio che cammina con la sua tanica. Essa richiama una situazione banale comune negli ospedali o nelle situazioni domestiche di sofferenza dove il paziente si sposta lento con la sua tanica per la dialisi o col contenitore delle urine in regime di catetere.  

Tutto è avvenuto in tempo reale.

Ma la conclusione del lavoro sposta l’azione realistica su un piano esplicitamente simbolico, già annunciato dagli ultimi gesti dei due personaggi.

La scena è ormai completamente libera da oggetti e personaggi. Campeggia sola l’immagine del Cristo di Antonello. Lo spazio reale diventa lo spazio mentale, dando corpo alla domanda e alla riflessione che ha assillato i personaggi e che gli spettatori sono chiamati a condividere con una scossa forte e provocatoria preparata dall’immensa pietà di quello che precede.

La tela leggera su cui si staglia il volto di Gesù si gonfia, il colore nero cala dall’alto e ricopre del tutta la figura, la tela è strappata a brandelli. Sul telaio di legno appare la scritta: «You are my sheperd». Di nuovo appare l’immagine di Antonello, ma ora essa rivela un’altra piccola parola «You are not my sheperd».

La sonorità è assordante…

Il senso: cosa resta del suo sguardo sugli uomini?

Sul piano della tecnica drammaturgica il lavoro risente del modello beckettiano in molte soluzioni: il passaggio dall’estremo realismo alla forte simbolicità, la semplicità geometrica del set, la coppia di personaggi senza nome, la circolarità di un evento che può ripetersi sempre uguale e ricominciare sempre da capo, la parola macinata in un basso continuo, il gesto iterato in cui però affiora con discontinuità il gesto della pietà, o quello della protezione del padre verso il figlio che ci ricorda alcune immagini dei Videoplays di Beckett, in particolare Nacht und Träume, la presenza di un occhio misterioso che guarda dall’alto, il segnale sonoro che sancisce la fine della giornata-vita e soprattutto il grande tema dell’attesa di En attendant Godot. A mancare è lo humour che in Beckett apre a un salto di piano.

Sul piano del senso, mi concentro sul nucleo tematico e formale dello sguardo di Cristo e quindi della relazione che si instaura fra lui, la vicenda umana che si svolge sulla scena, l’esperienza degli spettatori, la misteriosa presenza lontana del Padre. Teologicamente corretto con la svolta conciliare[39] l’artista si focalizza sui temi del Padre e del Volto.

Con drammatica problematicità la relazione paterno-filiale è colta nella più banale e anche umiliante quotidianità, pur segnata dalla pazienza e dalla pietà, ma sul confine in cui il legame sta per infrangersi e l’uomo sofferente e solo sta per affrontare l’incognita dell’abbraccio del tutto o del dileguare nel nulla. Da questo piano essa passa a evocare la relazione radicale che è il centro dell’antropologia cristiana e della dignità e del senso dell’uomo che la teologia e l’umanesimo cristiano propongono. Ed è proprio questa insistenza e questa centralità che provocano negli artisti più sensibili e inquieti della nostra contemporaneità la dialettica di attrazione e rifiuto, o per qualcuno addirittura di “apoteosi e derisione”, per usare un’espressione di Grotowski, di ottimismo e pessimismo. Castellucci si misura con questo fulcro teologico e antropologico, cadendo il quale tutto l’edificio crolla: la paternità di Dio, benigno e misericordioso, fondamento del suo piano salvifico sull’uomo, fondamento della fraternità degli uomini e di tutto quanto consegue sul senso della loro vita e del loro impegno nel mondo.

Tutti i documenti conciliari lo ribadiscono come il nodo della fede. “Padre” è parola chiave: così nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium[40] sulla Chiesa, così nella Costituzione dogmatica Dei Verbum[41] sulla divina rivelazione, così nella Gaudium et Spes.[42]

Il Padre, sollecitato dal salmista e dai libri del Vecchio Testamento a mostrare quello che con metafora antropomorfa si chiama il suo “volto” e che si nasconde all’uomo, si volge all’uomo e si manifesta attraverso la concretezza storica del volto di Cristo, figlio e mediatore. Il termine “volto”, che ricorre di frequente nell’Antico Testamento, soprattutto nei Salmi, si esplicita come il volto di Dio che l’uomo spera si offra alla contemplazione dell’uomo giusto (ad esempio 11, 7; 17, 15), o che si nasconde all’uomo che lo cerca (ad esempio 13, 1; 27, 8-9), all’uomo che lo invoca nella sua miseria e afflizione (ad esempio 44, 24) consapevole che se si manifesterà egli sarà salvo (ad esempio 80, 40).

È nel Nuovo Testamento che il volto di Gesù rivela la sua intimità col padre, trasfigurandosi (Lc 9, 29) e la luce della conoscenza del volto di Dio, che nessuno ha mai visto, rifulge nel volto di Gesù (2 Cor 4, 6).

Al tema del “padre” si lega strettamente il tema del “volto” e i segni della scena si polarizzano sulla dialettica fra gli sguardi che non si incrociano dei due uomini e lo sguardo del grande Cristo di Antonello che guarda fisso davanti a sé, negli occhi dello spettatore e pare interpellarlo, chiamarlo in causa, snidarlo, come è proprio del “teatro performativo”.

È il piccolo quadro del Cristo benedicente (o Salvator Mundi) conservato alla National Gallery di Londra, appunto, ma in una riproduzione gigantesca di circa sette metri di altezza.

Castellucci non sceglie uno dei numerosi Ecce homo dagli accenti fortemente patetici, non si focalizza sul Christus patiens con la sua prossimità alla sofferenza dell’uomo.[43] Sceglie il Christus triumphans, il Figlio salvatore, icona visibile dell’invisibile Padre e che ormai a lui ritorna lasciando gli uomini. Alta espressione di arte liturgica, il dipinto di Antonello da Messina allude al passo evangelico in cui Gesù risorto, prima della sua sparizione alla vista per raggiungere il Padre, dove essi non possono seguirlo, si fa riconoscere dagli apostoli riuniti a Emmaus[44] benedicendo il pane, cioè ripetendo il gesto che aveva già fatto istituendo l’eucarestia.[45]

È il Cristo dal volto enigmatico (che la critica riporta all’influsso di Piero Della Francesca), ieratico  e distante, frontale, nel gesto benedicente di una mano tornita, composta, di una linea perpendicolare geometricamente perfetta. Di tanto lo sguardo è lontano e pare allungarsi su un’altra dimensione, di tanto la mano, che rivela anche a occhio nudo interventi di “pentimenti” del pittore, accentua, con la sua perpendicolarità rispetto al petto sottolineata dalla piega dello scollo della veste, non solo l’abilità della tecnica prospettica, ma l’effetto di invasione del nostro spazio di spettatori.

Le due caratteristiche del dipinto, spostate nel progetto scenico, indicano, sul piano del senso, che abbiamo a che fare col tema della relazione dell’uomo con la tradizione del Salvatore e, sul piano drammaturgico, con un segno che si incunea nello spazio dello spettatore, lo interpella e lo snida. È la modalità dello sguardo di quell’icona a promuovere il coinvolgimento dello spettatore, a chiamarlo in causa e a impedire di sottrarsi a un’esperienza e a una presa di posizione: “e tu chi dici che io sia?”. Siamo lontani dallo straniante sguardo in macchina di brechtiana memoria. Lo spettatore è implicato nell’evento con la sua soggettività, con la sua identità storica, con la sua condizione di pubblico.[46]

Ma Castellucci fa un’altra operazione: ingigantisce il quadro e lo accampa al centro.

Il piccolo quadro che ci attrae con la sua magnetica duplicità di uomo-dio in un angolo di una sala della National Gallery, diventa un gigantesco poster, un fondale. È tutto quello che resta. Nulla possiamo leggere dietro la facciata.[47] Nella riproduzione e nella moltiplicazione dell’opera si compie il depotenziamento e l’annullamento della sostanza.[48]

Per un verso la muta pensosità del Figlio – reduce dalle sofferenze che gli uomini gli hanno inflitto, in intimità ritrovata con un Padre che non si vede, ormai lontano, ma ancora sollecito di quei piccoli uomini cui tende la mano benedicente, con una densità di senso concentrata nella piccola immagine di Antonello – si appiattisce e si diluisce attraverso la riproduzione fotografica.

Il successivo trattamento dell’immagine, sfigurata dalla colata scura (lacrime, sangue ed escrementi), lacerata, e poi colpita dalle bombe-giocattolo di uomini-bambini[49] ingrati e crudeli complica ulteriormente i livelli del simbolo e la sua totale ambiguità e apertura: Cristo è il mio pastore; Cristo non è il mio pastore. È icona sacra. È fondale e poster senza profondità. È  riferimento muto di una invocazione inascoltata. È l’immagine incombente, oggetto di furia iconoclasta. Di fatto le generazioni (il vecchio padre morente, il figlio adulto premuroso, i bambini dalla inconsapevole crudeltà) sono abbandonate alla solitudine irredimibile e alla violenza. I piccoli uomini sono lasciati soli a macinare i loro giorni senza storia. Scompare quel volto di cui l’uomo non sembra poter dire più se sia o non sia, se sia ancora o non sia più il suo pastore, se valga ancora o non valga il piano di salvezza, se il rapporto dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con Dio sia ancora modellato sul rapporto rivelato del Padre col Figlio e il Figlio sia il pastore che guida l’uomo al Padre.

Che ne è di questa teologia della Salvezza che vede il Cristo come Salvatore e di questa antropologia della fraternità e dell’amore?

La suggestione figurativa, centrale nel bagaglio culturale di Castellucci, poggia comunque sul già menzionato grande tema biblico, teologico, filosofico del “volto”, il cui concetto si rintraccia anzitutto seguendo la storia del suo uso lessicale[50] nella Sacra Scrittura e affiora nella  composizione di questo spettacolo.         

Il “volto” (prósopon in greco, panim in ebraico) indica nell’Antico Testamento principalmente la faccia di Dio, ovviamente in senso metaforico (in una cultura aniconica come quella ebraica), che l’uomo ricerca nel tempo, per ottenerne attenzione e misericordia; nel Nuovo Testamento indica il volto di Dio e di Cristo nel cui volto, attraverso l’incarnazione,[51] appare e si rende visibile la doxa di Dio invisibile. Esso dice di uno sguardo (ché il volto è la sede del vedere e dell’essere visto) che si posa sull’uomo per stabilire una relazione privilegiata e salvifica.

Il tema del volto è pure asse del pensiero contemporaneo, soprattutto dopo la fondamentale riflessione di  Levinas,[52] là dove esso appare il centro di restituzione di dignità del soggetto umano concreto e della sua relazione con altri e con Dio, distaccandosi da posizioni che, proclamando il primato dell’essere rispetto all’ente, mortificano la singolarità dell’uomo. È il volto come presenza viva, espressione, che parla e rivela “originariamente” l’alterità aprendo al desiderio dell’infinito. Questa reciprocità e questa apertura non appaiono forse dileguare a ogni relazione che si interrompe?

E di una brutale e allarmante interruzione non ci parlano forse questi spettacoli di Romeo Castellucci?      

Per concludere

Primo. È teatro performativo,[53] dunque, quello di Romeo Castellucci.

Ne riepilogo gli elementi distintivi rilevati nelle due opere analizzate:

- l’intersezione fra le arti, con la preminenza del visivo e del sonoro, e le tecnologie, per una lingua della scena che affronta le domande radicali sulla realtà spingendola al livello zero della sua carne, con i suoi corpi esposti, con la sua materialità smascherata, che ne rivela l’ossatura. «C’est quand une maison brüle qu’on en voit la structure, le motif qui la soutient», dice Castellucci;[54] 

- la non egemonia del testo o la sua decostruzione nel momento in cui si può «le convoquer, l’éprouver et en connaître tous les ressorts»;[55]

- l’iconoclastia, ovvero lo sformarsi delle forme tramandate dalla cultura dell’Occidente. Scrive ancora Bruno Tackels: «l’histoire de l’Occident y est violemment traversée, ses icônes volent en éclats, impassiblement foulées aux pieds»;[56]

- il corpo come soma,[57] puro segno materiale, che include anche il corpo disabile e l’animale. Il corpo disabile è integrato nel gioco non tanto come partecipe del piacere del gioco teatrale, richiamo al bisogno di autenticità, come per esempio nel teatro di Pippo Delbono, ma come segno drammaturgicamente utile ed efficace per denotare e connotare in modo fisicamente letterale ciò che significa: ricordo, in Orestea, Apollo senza mani come tante statue antiche che ci sono pervenute mutilate, ma anche come dio senza potere; oppure Agamennone, re Down, piccolo, infantile ben oltre l’idea del re nudo; oppure gli obesi, segno di una squilibrata avidità. L’animale, richiamo dell’origine, anch’esso drammaturgicamente funzionale, come le scimmie, si è visto, in Orestea;

- la relazione con lo spettatore di cui colpisce tutti i sensi, scuotendone il torpore, provocandolo con frastuono e silenzio, parossismo e noia, interpellandolo, sconvolgendo le sue attese canoniche in ordine alle convenzioni di questa arte;

- la metateatralità, e cioè la presa di posizione in favore di un’arte dal vivo come esperienza che può disvelare quel che il mondo delle immagini, fingendo di rappresentare, nasconde. Scrive efficacemente Eleni Papalexiou: «In our everyday life, we are bombarded by a stream of misleading images modeled by the media […] this mirror of hypnotic allusions forms our way of seeing as spectators […]. How can our gaze penetrate the surface of fake and embellished images? How to look at the horrible and inhumane, in other words the non-representable? How is it possible for the spectator to see the real image?».[58]

Secondo. Cosa ci dice questo teatro performativo di Romeo Castellucci, nei due esempi che ho analizzato? Cosa ci dice della eredità classica della tragedia eschilea e dell’eredità cristiana nel suo nucleo essenziale: la relazione con Cristo?

L’artista percorre una “via negativa”, si lascia condurre dall’idea, o addirittura dalla teoria delle “rovine”.[59]

Si è visto, nella riflessione che ho proposto, che la rappresentazione affronta spietatamente la loro “inattualità ”, la perdita di contatto del nostro mondo con le acquisizioni sottese a queste eredità e tuttavia registra la forza con cui esse continuano a interrogarci, lasciandosi profanare, colpire, depotenziare, ponendo domande universali mentre ci portano nel cuore dell’attualità. «Ces questions sont universelles […]. Mais quand ça fonctionne, quand nous nous retrouvons tous ensemble devant une scène de théâtre nous sommes au cœur de l’actualité. Regarder ensemble une seule et même œuvre-c’est-à-dire faire corps est en soi un geste politique».[60]

Terzo.Il problema non è la liquidazione della rappresentazione, secondo una formula che, dopo Artaud e Derrida, la critica teatrale tende a ripetere, perdendo ormai però la pregnanza teorica che originariamente aveva. Sempre di rappresentazione della realtà si tratta, ma di una realtà colta in una fase di messa in discussione di tutti i suoi codici, in una fase di transizione o, in termini antropologici, di transculturazione, cioè di trasformazione interna di una cultura, cioè di una forma di comprensione e organizzazione del mondo.

Siamo comunque nell’orizzonte del segno e del simbolo, ma lontani dalla finzione, dall’illusione, vicini il più possibile alla “presenza” e alla “realtà”, che attende di essere riprogettata, che dalla pars destruens attende la pars construens.



[1] A. CASCETTA, Il ritorno di Ulisse, in www.drammaturgia.fupress.net/saggi/saggio.php?id=6071 (data di pubblicazione su web: 1° dicembre 2014); ID., Teatri del mondo, in www.drammaturgia.fupress.net/saggi/saggio.php?id=6489 (data di pubblicazione su web: 5 marzo 2016).

[2] Per una informazione critica generale segnalo la seguente bibliografia: C. CASTELLUCCI-R. CASTELLUCCI, Les Pèlerins de la matière. Théorie et praxis du théâtre, Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2001; B. TACKELS, Les Castellucci. Ecrivains de plateau, Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2005; C. CASTELLUCCI et al., The Theatre of Societas Raffaello Sanzio, London, Routledge, 2007; E. PITOZZI-A. SACCHI, Itinera: trajectoires de la forme, “Tragedia Endogonidia”, Arles, Actes Sud, 2008; Drammaturgie sonore, a cura di V. VALENTINI, Roma, Bulzoni, 2012; A. SACCHI, Il posto del re. Estetiche della regia teatrale nel modernismo e nel contemporaneo, Roma, Bulzoni, 2012; M. DE MARINIS, Il teatro dopo l’età d’oro. Novecento e oltre, Roma, Bulzoni, 2013; J.L. PERRIER, Ces années Castellucci, Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2014; D. SEMENOWICZ, The Theatre of Romeo Castellucci and Socìetas Raffaello Sanzio: From Icon to Iconoclasm, from Word to Image, from Symbol to Allegory, New York, Palgrave Macmillan, 2016

[3] Nel copione gentilmente fornito dalla compagnia il testo di Agamennone di Castellucci è contenuto in 148 righe a fronte dei 1673 versi di Eschilo; il testo di Coefore in 24 righe a fronte di 1075 versi di Eschilo; il testo di Eumenidi in 53 righe a fronte dei 1075 versi di Eschilo.

[4] Le fonti per l’analisi dello spettacolo sono: la diretta visione in due repliche presso il Théâtre de l’Odéon di Parigi durante il Festival d’Autumne fra il 2 e il 20 dicembre 2015, il copione, le foto di scena di Guido Mencari, il video delle prove realizzato a Cesena e reso disponibile dalla compagnia, la rassegna stampa e il programma di sala. La durata è di un’ora la prima parte, un’ora e dieci la seconda e la terza parte.

[5] Seguo come base le indicazioni della traduzione italiana di Manara Valgimigli, cui Romeo Castellucci ha dichiarato di essersi riferito. La versione di Valgimigli si legge ora in ESCHILO, Orestea, intr. di V. DI BENEDETTO, premessa al testo e note di F. FERRARI, Milano, Rizzoli, 1980 (testo greco a fronte). Questa traduzione e l’architettura drammaturgica che essa propone sono per Castellucci il punto di partenza per la stesura del suo copione e per il suo lavoro di radicale rielaborazione. D’ora in poi tutte le citazioni di Eschilo saranno tratte da questa edizione. È da notare che tale traduzione, che risale al 1948, preceduta dalle Coefore nel 1926, cui pur seguirono altre traduzioni pregevoli di altri traduttori, è prediletta da Castellucci, sia perché legata a una memoria scolastica, sia perché, come precisa Franco Ferrari nella premessa al testo (pp.  39-41), pur fondata sul rigore filologico, vuol essere tuttavia anche una “traduzione attiva”, in grado di restituire il testo come cosa nuova e adatto al teatro, fruibile dallo spettatore.

[6] Agamemnon (v. 177).

[7] M. FERRO, L’aveuglement. Une autre histoire de notre monde, Paris, Tallandier, 2015.

[8] PROLOGO: «E anche ora aspetto il segnale della fiaccola, il raggio del fuoco che rechi la notizia, che gridi la presa della città. Così vuole di una donna il maschio cuore impaziente» (p. 69; testo greco: vv. 8-11). PARODO: «E dal cuore gonfio di collera gridarono il grande grido di guerra» (p. 73; testo greco: vv. 47-48).

[9] Episodio terzo. ORESTE: «Pilade, che debbo fare? Non uccido la madre?». PILADE: «E dove lasci gli oracoli del Lossia, i vaticinii pronunciati dalla Pizia? Non si possono tradire i giuramenti. Meglio avere nemici gli uomini tutti anzi che gli dei» (p. 255; testo greco: vv. 900-903).

[10] In Eschilo Apollo descrive il luogo delle Erinni, simbolo di arcaica violenza e primitività: «Là dove tagliano teste, dove strappano occhi, dove sgozzano; là dove si vedono mutilazioni e lapidazioni, dove si odono mugghi e gemiti di gente trafitta per la schiena e confitta in terra da pali, là è la vostra sede» (p. 289; testo greco: vv. 185-190).

[11] Ad esempio: nell’esodo delle Coefore, leggiamo la battuta di Oreste: «Uccise, o non uccise? Ma questo manto l’attesta. Guardate come di sangue lo tinse la spada di Egisto e gli spruzzi della strage bene si accordano al tempo: vedete come hanno corroso i bei colori della porpora dipinta» (p. 267; testo greco: vv. 1010-1015).

[12] Si veda qualche esempio nel catalogo Mark Rothko: the Works on Canvas, a cura di D. ANFAM, New Haven- Washington, Yale University Press-National Gallery of Art, 2001: n. 814 – Untitled (1969, Collection of Christopher Rothko); n. 815 – Untitled (1969, Washington, National Gallery of Art); n. 822 – Untitled (Black on gray) (1969, Collection Harry W. and Mary Margaret Anderson); n. 829 – Untitled (Black on gray) (1970, Los Angeles, The Museum of Contemporary Art); n. 832 – Untitled (1970, Collection of Christopher Rothko).

[13] Si veda ad es. nel catalogo citato nella nota precedente: n. 562 – Henna and Green/Green and Red on Tangerine (1956, Washington, The Philip Collection); n. 559 – Two Darks in Red (1955, Minneapolis, Collection Walker Art Center); n. 565 – Untitled (1956, Washington, National Gallery of Art); n. 572 – The Black and the White (1956, Harvard Art Museums, Fogg Museum); n. 590 – Two Whites, Two Reds (1957, Ottawa, National Gallery of Canada).

[14] Si veda ad es. nello stesso catalogo (citato a  nota 12): n. 178 – Antigone (1939-1940, Washington, Collection National Gallery of Art); n. 196 – Greek Tragedy (1941-1942, The Estate of Edith Carson); n. 203 – The Eagle and the Hare (1942, Collection of Christopher Rothko); n. 206 – The Omen of the Eagle (1942, Washington, National Gallery of Art).

[15] S. RODMAN, Conversations with Artists, New York, Devin-Adair, 1957, in Rothko, a cura di O. WICK, Milano, Skira, 2007, p. 5. 

[16] Questa riflessione compare in The Property of, album di schizzi inediti del 1954, Mark Rothko Family Archive, ivi.

[17] Nei dipinti degli anni Quaranta Rothko riduce «il contenuto dei miti antichi e delle tragedie greche a segni pittorici i quali, nella loro essenzialità e sullo sfondo degli eventi della seconda guerra mondiale, rappresentano la validità universale del messaggio lasciatoci dal mondo classico. Tirannia, hybris, distruzione del mondo, diventano metafore della catastrofe umana e politica che si profila all’orizzonte. […] Antigone, Tiresia, l’aquila che uccide la lepre pregna del vaticinio dell’Orestea, diventano temi della pittura di Rothko […]». Rothko, cit., p. 14.

[18] F. TEDESCHI, Fontana/Giacometti: A Long-Distance Conversation (with a Few Guests Along the Way), in Orizzonte Nord Sud. Protagonisti dell’arte europea ai due versanti delle Alpi 1840-1960 / Leading Figures of European Art North and South of the Alps 1840-1960, catalogo della mostra a cura di M. FRANCIOLLI e G. COMIS (Lugano, 12 settembre 2015-10 gennaio 2016), Milano, Skira, 2015, p. 355.

[19] Si veda: Francis Bacon. The Violence of the Real, a cura di A. ZWLITE e M. MÜLLER, London, Thames & Hudson, 2006.

[20] «Life, says the painting, is an lordinary, carnal, entirely unnegotiable value. It is what humans and animals share. There is a time of life which we inhabit unthinkingly, but also a time of death […]. But certain kinds of death break that human contract. And this is one of them, says Guernica. Life should not end in the way it does here. Some kinds of death, to put it another way, have nothing to do with the human». T.J. CLARK, Picasso and Truth, Washington- Princeton & Oxford, National Gallery of Art-Princeton University Press, 2013, pp. 246-248.

[21] Può essere utile scorrere i cataloghi della produzione di questa famosa fotografa che ha cercato presenze  “imbarazzanti” che nessuno vedrebbe, ossessionata dalla necessità di cogliere i fatti e di guardare le cose in faccia e che ha senza dubbio influenzato molti degli artisti di cui mi occupo in questo libro. Si veda ad es. Diane Arbus, a cura di D. ARBUS e M. ISRAELE, New York, Aperture Foundation, 1972, di cui si segnala l’edizione newyorkese per il venticinquesimo anniversario della pubblicazione (1997), trad. it. di N. BRUSCOLINI, Bologna, LAB Le lingue a Bologna, 1997; Diane Arbus: Revelations, New York, Random House, 2003.

[22] s. 52, 13-53.

[23] La lista dei brani presenti nello spettacolo, fornita dalla compagnia, è la seguente: K.R.T. WASITODININGRAT, Gending: Tejanata (Ruler of the Stars), Landrang Sembawa (Sound), Landrang Playon (Hastening); J. GAMELAN, From The Pura Paku Alaman, Elektra Nonesuch, B000005IWA (4 min.); R. WAGNER, diretto da Sir G. SOLTI, atto III, Preludio, dall’album Tristan und Isolde label, Decca, B00006469X (7 min.); S. GIBBONS, Egisto (non messo in commercio) (23 min.); ID., Agamemnon (non messo in commercio) (2 min.); ID., Cassandra (non messo in commercio) (9 min.); ID., The Open Sky (non messo in commercio) (7 min.); ID., The Eumenides (non messo in commercio) (21 min.).

[24] «The Guardian», 15 maggio 2004.

[25] «Le Monde», 6-7 dicembre 2015, p. 26.

[26] Interpreti: Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella; e con Dario Boldrini, Silvia Costa, Silvano Voltolina. Musica originale: Scott Gibbons. Collaborazione all’allestimento: Giacomo Strada. Realizzazione oggetti: Istvan Zimmermann, Giovanna Amoroso. Suono: Marco Canali in alternanza con Matteo Braglia. Luci: Fabio Berselli.

[27] Theater der Welt 2010, deSingel international arts campus/Antwerp, Théâtre National de Bretagne/Rennes, The National Theatre/Oslo Norway, Barbican London and SPILL Festival of Performance, Chekhov International Theatre Festival/Moscow, Holland Festival/Amsterdam, Athens Festival, GREC 2011 festival de Barcelona, Festival d’Avignon, International Theatre festival DIALOG Wroclaw/Poland, BITEF (Belgrade International Theatre Festival), spielzeit’europa, Berliner Festspiele, Théâtre de la Ville-Paris, Romaeuropa Festival, Theatre festival SPIELART München, Le-Maillon, Théâtre de Strasbourg/Scène Européenne, TAP Théâtre Auditorium de Poitiers-Scène Nationale, Peak Performances@Montclair State-USA.

[28] «Come va questa mattina? Hai dormito bene? …cosa stai guardando di bello? Cosa c’è alla TV?». La citazione è tratta dal copione non pubblicato fornitomi dalla compagnia, p. 1.

[29] «Ecco qua ti ho preparato le tue caramelle… (porgendo al padre le medicine con un bicchiere)» (ivi, p. 1).

[30] «Pastrocchione!» (ivi, p. 2). «Guarda che stavo scherzando. Tutti puzziamo quando la facciamo» (ivi, p. 3). «Dai papà, va tutto bene… va tutto bene…» (ivi, p. 4).

[31] «Che bello! Un documentario! Cosa sono quelli? Pinguini?» (ivi, p. 1).

[32] «Aspetta che ti alzo la canottiera». «…come va papà? L’acqua è troppo fredda?…». «Vado a prendere un asciugamano». «Sai cosa facciamo? Ti accompagno al tavolo e ti siedi comodo sulla sedia… così potrò sistemare un po’ qui…» (ivi, p. 3).

[33] «Porca puttana papà! Non ce la fai a tenerla?» (ivi, p. 5). «Ti ho detto di non chiedermi più scusa. Mi dà ai nervi» (ivi, p. 4).

[34] «Dammi le mani dai…» (ivi, p. 4). «Dai papà, ci tiriamo su». «Sai cosa facciamo? Ti accompagno al tavolo e ti siedi comodo sulla sedia…» (ivi, p. 3).

[35] Ivi, p. 6.

[36] Ivi, p. 5.

[37] Ivi, p. 6.

[38] Ibid.

[39] Non è superfluo ricordare che Romeo Castellucci viene dall’ambiente dell’Emilia Romagna, studia a Bologna, una città che era stata protagonista nei lavori conciliari, sede di un gruppo di intellettuali cattolici di grande prestigio e posizioni progressiste. L’onda lunga sarebbe rimasta viva nell’ambiente intellettuale anche laico. Si vedano ad esempio i lavori di G. ALBERIGO, Breve storia del Concilio Vaticano II, Bologna, il Mulino, 2005.

[40] Ad esempio: «È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale in Lui prima della fondazione del mondo ci ha eletti e ci ha predestinati ad essere adottati in figli, perché in Lui volle accentrare tutte le cose» (Ef., 1, 4-5 e 10). «Perciò Cristo per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di Lui, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione» (Lumen Gentium, I, 3, in Tutti i documenti del Concilio. Testo italiano dei 16 documenti promulgati dal Concilio Vaticano II conforme all’Edizione Tipica Vaticana [1971], Milano, Massimo, 199421, p. 4, d’ora in poi DC).

[41] «Nei Libri Sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi» (Dei Verbum, VI, 21, DC, p. 94).

[42] «Essendo Dio Padre, principio e fine di tutti, siamo chiamati ad essere fratelli» (Gaudium et Spes, conclusione, 92, g, DC, p. 242).

[43] Ricordo quelli conservati alla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, al Metropolitan Museum of Art di New York, al Collegio Alberoni di Piacenza e ricordo il Cristo alla colonna conservato al Musée du Louvre di Parigi. Si veda: Antonello da Messina. L’opera completa, a cura di M. LUCCO, con il coordinamento scientifico di G.C.F. VILLA, Milano, Silvana Editoriale, 2006.

[44] «Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. […] Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede a loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista» (Lc 13-31). Devo la conferma di questa relazione fra il dipinto di Antonello e il passo evangelico a una conversazione con Crispino Valenziano, professore di Arte liturgica presso il Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma. Proprio dell’arte liturgica e coerente con le intenzioni della committenza e della destinazione dell’opera è infatti la corrispondenza fra ciò che mostra e ciò che dice la Scrittura.

[45] Lc. 19-20; Mt. 26-28; Mc. 22-24.

[46] Interessanti considerazioni su questo punto vengono da A. KEAR, Theatre and Event:Staging the European Century, Houndmills-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2015, in partic. nell’analisi che egli propone dell’immagine dell’Europa, figura femminile con cui si apre Tragedia Endogonidia. L#09, il più impegnativo progetto di performance internazionale di Romeo Castellucci, realizzato fra il 2002 e il 2004.

[47] Un suggerimento del genere viene anche dal saggio di A. HAVERKAMP, Art is Messianicity: Radical Illustration in Face of God. Romeo Castellucci and Antonello da Messina, in «Oxford Literary Review», 36, 2014, 1, p. 37 ss.

[48] È questo un motivo che ricorre anche in altre interessanti realizzazioni di teatro performativo in Italia, per esempio in Jesus di una delle compagnie italiane più innovative ed efficaci, Babilonia Teatri.

[49] È probabile che l’idea sia stata influenzata da una foto scattata da Diane Arbus.

[50] Per una fondata informazione rinvio a Grande lessico dell’Antico Testamento, fondato da G.J. BOTTERWECK e H. RINGGREN, a cura di H.J. FABRY e H. R., Brescia, Paideia, 1988-2010, 10 voll. e a Grande lessico del Nuovo Testamento (1959-1964), fondato da G. KITTEL, continuato da G. FRIEDRICH, ed. it. a cura di F. MONTAGNINI, G. SCARPAT e O. SOFFRITTI, Brescia, Paideia, 1968-1992, 16 voll.  

[51] Utile lettura può essere al proposito: R. SCRUTON, The Face of God, London-New York, Bloomsbury Publishing PLC, 2012, trad. it. Il volto di Dio, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

[52] Si veda una buona introduzione al problema in Il volto nel pensiero contemporaneo, a cura di D. VINCI, Trapani, il Pozzo di Giacobbe, 2010.

[53] Concordo su questa espressione con J. FÉRAL, Théorie et pratique du théâtre. Au-delà des limites, Montpellier, L’Entretemps, 2011, pp. 58-62. Per quanto mi riguarda ho già avviato la mia riflessione sul tema nel numero monografico da me curato di «Comunicazioni sociali», Il teatro verso la performance, n.s., gennaio-aprile 2014, 1.

[54] CASTELLUCCI, Les Pèlerins de la matière, cit., p. 101.

[55] TACKELS, Les Castellucci, cit., p. 28.

[56] Ivi, p. 27.

[57] Così lo definisce Castellucci stesso (Les Pèlerins de la matière, cit., p. 102). M. DE MARINIS, Il teatro dopo l’età dell’oro. Novecento e oltre, Roma, Bulzoni, 2013 (pp.? chiedere, per favore ) mette questo concetto in relazione con una fase o, direi, con una modalità della storia dell’attore contemporaneo (presente in effetti, direi, in alcune tendenze del teatro performativo) in cui l’attore non agisce più come soggetto pienamente creativo e attivo, mettendo così in scacco la linea della gloriosa ricerca teatrale degli anni Sessanta-Settanta.

[58] E. PAPALEXIOU, The Dramaturgies of the Gaze: Strategies of Vision and Optical Revelations in the Theatre of Romeo Castellucci and Societas Raffaello Sanzio, in Theatre as Voyeurism: the Pleasure of Watching, a cura di G. RODOSTHENOUS, New York, Palgrave Macmillan, 2015, p. 54.

[59] Una interessante riflessione su questo punto si può leggere in: T. DE LAET-E. CASSIERS, The Regenerative Ruination of Romeo Castellucci, in «Performance Research», XX, 2015, 3, pp. 18-28.

[60] Così Castellucci in un’intervista rilasciata a «Théâtral magazine», novembre-dicembre 2015 (durante il Festival d’Autumne), p. 38.



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