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Francesco Cotticelli

Scenari e cantieri (fra moderno e contemporaneo)

Data di pubblicazione su web 10/10/2016
Francesco Cotticelli Scenari e cantieri (fra moderno e contemporaneo)

Si anticipa qui la pubblicazione di un contributo che apparirà nel volume miscellaneo Filologia Teatro Spettacolo, in preparazione a cura di Francesco Cotticelli e Roberto Puggioni.

Strano destino critico, quello della Commedia dell’Arte. La difficoltà di definire caratteri ed estensioni del fenomeno, nello spazio e nel tempo, districandosi fra le concrete tracce della storia e le immagini mitografiche che ad esse si sono sovrapposte, l’ha proiettata fra i temi più appassionanti e dibattuti dello spettacolo d’Occidente, consentendole di prestarsi a riaccensioni di sguardi romantici e trasognati, a vagheggiamenti di una teatralità assoluta tradita e vilipesa dall’entertainment borghese, a campo di escursione per ricostruzioni erudite su uomini, centri, compagnie, a pretesto di revisioni metodologiche, ad aperture di nuovi cantieri (l’iconografia in primis),senza perder nulla di quella indeterminatezza così enigmatica e suggestiva. A partire dalle “riletture” di Maurice Sand[1] e dalle ricognizioni positivistiche di Armand Baschet sulle presenze dei comici alla corte di Francia,[2] giù per le avanguardie russe di primo Novecento,[3] la monografia di Mario Apollonio,[4] il breve, ma fulminante contributo critico di Benedetto Croce,[5] fino a Bragaglia[6] e a Pandolfi,[7] è un fluire ininterrotto di interesse, curiosità, un’indagine che mira a riappropriarsi (talora anche forzando il senso della distanza cronologica e culturale) di un’esperienza che appare per più versi una rifondazione del teatro in età moderna. Che essa abbia a suo modo tenuto a battesimo anche la nascente teatrologia accademica tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento non sorprende affatto: non soltanto lasciava affiorare contaminazioni feconde con alcune delle questioni più complesse dell’immaginario (basterebbe pensare al cult play del Burlador e alla magistrale lezione di Giovanni Macchia),[8] ma si prestava egregiamente a discutere dei confini fra letteratura e scena, fra retorica della parola e dell’actio, in un’epoca in cui la contrapposizione serviva anche a ribadire steccati disciplinari e ambiti di investigazione. Proprio quella dimensione creativa, dove l’attore assumeva su di sé in maniera perentoria e misteriosa la responsabilità dell’evento e il ricorso all’oralità come tecnica di trasmissione del sapere e del mestiere contendeva spazi e prestigio alla scrittura, pareva offrirsi quale oggetto di studio privilegiato e simbolicamente denso, riflettendo al meglio le istanze di una disciplina in cerca di emancipazione e visibilità, desiderosa di uscire da uno stato di minorità avvertito come minaccia e pregiudizio.

Sintomatiche di quella breve, ma intensa stagione restano da un lato le complessive re-interpretazioni scientifiche, dall’altro le felici riproposte di testi canonici in edizione critica moderna, cui si affiancano significative iniziative antologiche non di rado partecipi dei meriti e delle coraggiose prospettive di indagine che affioravano negli altri due filoni. Con estensioni e ritorni che scandirono l’affinarsi di un metodo o l’irruenza di un dibattito mai sopito: tra le monografie di Tessari del 1969[9] e del 1981[10] il focus si sposta decisamente dalla contestualizzazione di una forma teatrale nella sua humus barocca alle ascendenze socio-antropologiche che gravarono sulla sua esistenza e sul suo sviluppo. La fascinazione è figura –[11] per usare categorie medioevali – del segreto su cui Taviani (e con lui Mirella Schino) avrebbe provato a far luce anni dopo,[12] non senza interrogarsi su La Supplica di Barbieri, fra i capolavori di quelle memorie autoapologetiche così piane ed enigmatiche.[13] La pubblicazione, a cura di Ferruccio Marotti, del Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala[14] (preceduta dai Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche di Leone de’ Sommi)[15] illustrava un esperimento singolare nella cultura seicentesca, cogliendone tanto il dialogo sottile con il sistema letterario coevo quanto la carica alternativa, se non eversiva, dell’autonobilitazione promossa dall’attore di lungo corso; ritardava invece quel tributo alla “professione” che avrebbe dovuto costituire, nell’intenzione degli studiosi, l’ideale complemento alla “fascinazione”, guardando nel recinto della scena e non intercettando lo sguardo dei contemporanei. Non meno rilevante era il contributo di Cesare Molinari, curatore delle opere di un altro protagonista della fase gloriosa del professionismo teatrale, Pier Maria Cecchini, nonché autore di studi di sintesi che avrebbero aperto frontiere iconografiche e contestuali di estremo interesse.[16] Altro proficuo itinerario sarebbe stato quello intrapreso qualche anno dopo da Siro Ferrone che, dopo l’allestimento di un corpus di commedie di comici emblematiche di un gusto compositivo e di una strategia consuntiva,[17] secondo un’espressione che da quel momento in poi avrebbe indelebilmente segnato l’analisi drammaturgica, e la ristampa dell’opus di Pandolfi corredato di indici,[18] avrebbe ridisegnato la costellazione del professionismo teatrale mostrandone tipologie e confini in Attori mercanti corsari,[19] provando in fondo a restituire alla scena militante fatta di viaggi, transazioni, sfide ideologiche e prosaiche di mestieranti talentuosi la centralità che le spettava di diritto. Correva l’anno 1993, e l’apparizione di un altro monumento quale l’edizione delle corrispondenze dei comici dell’Arte, diretta dallo stesso Ferrone,[20] chiudeva idealmente quel denso revival, consegnandolo alla storia – e a ritmi più pacati e diradati di osservazione.

Che si trattasse di una fase delicata di bilanci, o del coronamento-commiato da un collettivo studio matto e disparatissimo lo si evince anche dalle parole dei protagonisti, che avvertono il bisogno di una lettura retrospettiva, non solo per dar conto di un iter di ricerca, ma quasi a marcare il profondo mutamento fra la gestazione di un progetto e la sua effettiva realizzazione. Nel 1991, congedando per le stampe il volume dedicato alla “professione” concepito una ventina di anni prima, in una fitta nota Marotti si dedica a un excursus biografico che ben illumina un periodo di febbrile attività legato alle allora “magnifiche sorti e progressive” di una nuova disciplina:

Dal 1963 al 1968 ho diretto per il Saggiatore di Alberto Mondadori, insieme con Sandro d’Amico, una grande impresa editoriale, una raccolta di “Fonti e documenti per la storia del teatro italiano” in venti volumi, che nell’incoscienza delle nostre intenzioni sarebbe dovuta divenire […] il Source book, il neomuratoriano “Rerum Teatralium Scriptores”, l’opera su cui confrontarsi direttamente con i documenti, al di là delle letture troppo spesso insufficienti della storiografia accreditata.[21]

La compiuta articolazione della serie in «teorie e tecniche dello spettacolo», «scritti di poetica e polemiche», «documenti sulla vita teatrale»[22] si scontrò ben presto con difficoltà legali ed economiche, tali da raffreddare, fino a smorzare del tutto, l’interesse (e l’investimento) della casa editrice. Il tentativo di salvaguardare l’impresa, sottoponendo il materiale a Einaudi, non sortì effetti migliori. Qualcosa era rimasto, tuttavia, ed era riuscito a incidere sui destini di una nuova teatrologia, pur senza collocarsi in un piano editoriale di ampio respiro; di sicuro, si era materializzato lo spirito dialettico e associativo di un’avventura che aveva costituito le basi di un sodalizio umano e professionale:

L’intenso lavoro di collaborazione di quegli anni dava frutti significativi per gli studi teatrali italiani, nell’ipotesi di affermare una “nuova storia” del teatro, dal mio Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche di Leone de’ Sommi a La fascinazione del teatro e La supplica di Nicolò Barbieri curate da Taviani, da Il teatro del Campidoglio e le feste romane del 1513, Milano, 1968, di Fabrizio Cruciani a Commedia e festa nel Rinascimento. La “Calandria” alla corte di Urbino, Bologna, 1986, di Franco Ruffini.[23]

Non sono pagine nostalgiche, anche se qua e là affiora la percezione di un’epoca irrimediabilmente passata; piuttosto, sono il tentativo di contestualizzare in quella temperie lontana il lavoro che si produce, quasi a voler attenuare la differenza fra un cantiere immaginato a ridosso di un campo ancora largamente da esplorare e un risultato che aveva dovuto misurarsi con uno scenario dai contorni modificati, giustificando uno scarto, un eccesso, una ridondanza. Una storia teatrale che a tratti è già storia della storiografia teatrale. Sulla stessa lunghezza d’onda, ma con accenti dissimili per contenuti e aspirazioni, è il resoconto con cui Ferrone apre la sua Introduzione alle Corrispondenze

Prima di tutto volevo raccogliere e pubblicare in edizione commentata i carteggi sparsi degli attori più importanti vissuti fra Cinque e Seicento; nel frattempo, insieme agli studenti, nell’ambito dei seminari universitari, avevo avviato una catalogazione analitica delle fonti iconografiche; intanto con Ludovico Zorzi organizzavamo il piano di lavoro per la trascrizione dei canovacci dei secoli XVII e XVIII. Questo libro chiude con soddisfazione almeno uno dei tre cantieri aperti. E costituisce anche una prima risposta alle esigenze storiografiche che avevano determinato l’avvio della ricerca.[24]

Carteggi, testimonianze iconografiche, raccolte di canovacci: anche per Zorzi e la scuola fiorentina l’attenzione alle fonti era stata imprescindibile per qualsiasi orientamento non solo nell’indagine sugli albori del teatro professionistico, ma per ogni storia del teatro tout court. Ma qui non v’è incoscienza, né dissociazione temporale, né velato rammarico: solo il ricordo di cantieri aperti che non si sono chiusi, non si sono potuti chiudere, o forse dovevano rimanere aperti. Perché in fondo quella era la loro natura. La loro felice condanna.

***

In realtà, lo stesso Zorzi aveva avuto occasione di relazionare su uno dei cantieri, la ricerca di gruppo imperniata sulla «trascrizione della parte più consistente del corpus degli scenari italiani»,[25] nel suo intervento al convegno di Pontedera del 1976 sulla Commedia dell’Arte alle origini della scena moderna. A rileggerlo oggi, quel testo contiene un atto di fede per una scienza del teatro vasta e poliedrica, potenzialmente immune dall’aria asfittica di tanti settori degli studi umanistici, curiosa e sanamente ribelle (erano ancora lontani quei processi di omologazione da cui essa parrebbe incapace di riprendersi); più specificamente, guarda alla Commedia dell’Arte come a una «terra vergine, […] una serie di fenomeni, molto spesso così diversi da apparire in contraddizione tra loro»,[26] sì che la definizione resiste «con allegra mistificazione ma per necessità di semantica spicciola».[27] L’esperienza durevole del seminario condotto con gli allievi dell’ateneo fiorentino e l’assiduo contatto con i materiali che via via andavano accumulandosi e prendendo forma sotto i suoi occhi costituirono una sorta di magnifica ossessione, pronta a trapelare nei vari saggi e articoli che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta lo studioso ebbe modo di pubblicare. Suo fu il rilancio dell’intuizione crociana di un’Arte identificabile con l’ascesa e il trionfo di un professionismo le cui tecniche «tendono a investire e a informare di sé ogni altro genere del teatro loro contemporaneo»;[28] sua la contemplazione di lunga durata, fino al cuore del repertorio goldoniano e gozziano del XVIII secolo, o, se si preferisce, l’attenzione per quella “persistenza” che avrebbe marchiato a fuoco la scena italiana decretandone un’identità peculiare, tacciata talora di ritardo o anomalia.[29] La forma-canovaccio si definiva non soltanto come oggetto privilegiato di analisi, ma come osservatorio di quelle strutture narrative minimali entro le quali circoscrivere il serbatoio di trame europee almeno fino alla stagione romantica.

Una prima digressione. Era l’annuncio di una rivoluzione. Se tra fine Ottocento e i primi del Novecento la scoperta delle principali raccolte aveva consentito di misurare l’estensione temporale e geografica del fenomeno alimentando il mito di una creatività indomita e assoluta, ben presto si era imposta una tacita, rassegnata indifferenza. Il sensazionale giacimento di scenari era letto metaforicamente nei termini di una dissoluzione irreversibile: la cenere, lo scheletro erano tra le immagini più ricorrenti di uno sfavillio retorico e attoriale che le istruzioni secche e recise per addetti ai lavori affidate alla pagina senza alcun orpello non avrebbero mai e poi mai permesso di ricostruire. Al di là di una doverosa menzione catalografica su questi testi era calato il silenzio.[30] Ispirato dalle ragioni del formalismo come dalla ricognizione pratica di quelle risorse artigianali che avevano consentito il fiorire dei mestieri della scena entro e oltre i dibattiti ideologici, Zorzi aveva intuito il potenziale conoscitivo di quelle scritture, invocando non a caso i metodi «della filologia testuale e documentaria»[31] per esplorare i nessi fra quella multiforme avventura di spettacolo e tutto il teatro professionistico dell’età moderna.

Non sorprende pertanto che alla forma-canovaccio si attribuisca il valore di cifra simbolica di un universo del rappresentare, la «differenza fondamentale»:[32]

alla “scrittura” del testo letterario, il comico sostituisce la “metascrittura” di un ipotesto, ciò che correntemente indichiamo come lo scenario o il canovaccio. Che cos’è, nella fattispecie, il canovaccio? Il canovaccio è, in sostanza, una descrizione progressiva dell’azione scenica, attuata mediante uno speciale tipo di scrittura (metascrittura, appunto), che prescinde dalla redazione di un dialogo da assegnare ai vari personaggi e da mandare a memoria da parte degli interpreti. L’interpretazione di questa metascrittura presenta per un normale lettore qualche difficoltà; occorre uno specialismo minimale, una certa familiarità con le leggi dello spettacolo.[33]

Il cantiere di Zorzi si era lasciato alle spalle in via preliminare il pregiudizio idealistico della scelta tra poesia e non poesia, presto ribadendo che solo un’analisi strutturale e funzionale avrebbe dato senso e fondamento alla ricerca entrando nell’officina del comico e nei meccanismi della concertazione. A questo si ricollega il principio di elaborare «apparati critici di vario ordine»,[34] con attenzione alle concordanze, agli indici dei personaggi (indizio prezioso dell’appartenenza, o del sigillo, di specifiche troupes), agli oggetti, le “robbe”, il vestiario, strumenti di ogni genere essenziali alla messinscena e spesso dotati di una forte carica simbolica e identitaria (si pensi solo al «trabucco» o al «canale di castagno per il Convitato di pietra»):[35] un modo documentariamente attendibile di entrare nei livelli di gusto, di organizzazione tecnica e di sapienza di un mondo assai segreto.

Il quadro propositivo che emerge nel testo redatto per gli atti di Pontedera – apparso alle stampe solo nel 1980 – resta per brevissimo tempo un unicum in termini di fiducia e speranza, sul piano scientifico e divulgativo, verso questa foresta vergine rimasta a lungo ai margini di qualsiasi affondo, di qualsiasi perlustrazione sistematica. Sia muovendosi a ritroso per una disamina dei caratteri originali del fenomeno Arte, in un contributo del 1978,[36] sia ragionando dei suoi esiti maturi al cospetto delle scelte drammaturgiche goldoniane in un volume del 1982 di atti di un convegno del 1980,[37] Zorzi non manca di tornare a far riferimento a quel poderoso cantiere, ma con accenti sensibilmente mutati. Nulla si nega della sua monumentalità, nelle intenzioni come nei risultati, ma la ricaduta di un’auspicata edizione moderna appare decisamente più modesta, quando non addirittura irrilevante. Il brano cui egli affida le sue riflessioni a posteriori si ripropone pressoché identico in entrambi i saggi (spia se non altro di un momentaneo vivo convincimento) e risulta proprio per la sua calibrata tessitura lessicale lapidario nelle sue conclusioni:

Vorrei segnalare in proposito un altro dato emergente, dal quale, per merito di un volenteroso gruppo di allievi, ritengo di essere a parte in via certificata e diretta. Grazie a un certo numero di tesi assegnate negli scorsi anni, e consistenti nella trascrizione e nella classificazione delle principali raccolte manoscritte di canovacci (tutte posteriori a quelle dello Scala, ovvero situabili tra il 1620 e il 1740 circa), credo di essere uno dei pochi se non l’unico ricognitore di questi “oggetti” ad avere avuto la fortuna (e la pazienza) di leggere per intero questo vasto e mitico corpus di testimonianze originali, per la stragrande maggioranza inedite e in ogni caso ben poco studiate. Ebbene, a lettura compiuta (si tratta di circa ottocento soggetti), credo di poter concludere con pressoché assoluta certezza che tutte le maggiori raccolte pubbliche (dalle due Casanatensi alla Corsiniana, dallo zibaldone Casamarciano-Croce alla Selva del padre Placido Adriani, che tocca la metà del Settecento; con l’eccezione del già ricordato Flaminio Scala e dello zibaldone del Museo Correr di Venezia, che ne costituisce una parziale rielaborazione seriore); ebbene, tutte le maggiori raccolte note trasmettono l’opera non di attori professionisti, ma di mediocri letterati, che trascrissero per commissione o per ozio delle “imitazioni” dei soggetti che essi vedevano rappresentati sulle scene. Siamo dunque di fronte a un risultato di pigro e completo manierismo, che, se non delude sul piano delle informazioni tecniche di riporto (metascrittura, personaggi fissi, elenco dei lazzi e delle “robbe”), rende ancora più evanescente e lontana la mèta a cui tendere, ossia la restituzione filologica degli scenari nella loro veste originale. A parte, ripeto, la raccolta dello Scala, perché trasmessa fino a noi da una stampa, e pochi e dispersi scenari singoli, per il resto dobbiamo ancora una volta fare i conti con la letteratura, e per di più con una cattiva letteratura. Ecco dunque un’altra, e sostanzialmente inattesa difficoltà che si frappone a una conoscenza diretta e non apografica del fenomeno.[38]

Una seconda digressione. A volte sono i percorsi biografici a dare compiutezza a immagini e pensieri che, per quanto nitidi e ben strutturati, rappresentano pur sempre impressioni di viaggio, come il ritratto di un uomo in una delle sue età non documenta le altre e nella migliore delle ipotesi può solo evocarle. È mancato il tempo di ulteriori ritorni, e di approcci dialettici come quello che qualche anno prima aveva provato a descrivere innanzitutto la funzionalità di letture complessive e di accurate sinossi. Ma la serietà e la tenacia dello studioso a questa altezza cronologica, comunque non lontana dalle iniziali professioni di “entusiasmo”, non nascondono la disillusione, come a sottolineare che occorre cercare altrove, volgere altrove lo sguardo.

Il dato disorientante è che a mo’ di  ideale cornice di questa palinodia compare sempre il richiamo alla metascrittura dell’ipotesto: senza soluzione di continuità lo specialismo minimale e la familiarità con le leggi delle spettacolo, giustamente invocati come chiave di accesso all’oggetto canovaccio, convivono con la sferzante valutazione di una cattiva letteratura. Se queste scritture si collocano al di qua di una qualsiasi connotazione estetica, appaiono quanto meno sospetti il «pigro e completo manierismo» e la mediocrità di cui si tacciano queste progressive descrizioni dell’azione scenica, quasi a pretendere da testi di natura referenziale, per di più caricati di uno spessore esoterico, la rispondenza a una spiccata funzione poetica. Più inquietante forse è la dichiarazione di una «conoscenza diretta e non apografica del fenomeno»: in primis, perché soprattutto nella storia del teatro non esiste fonte diretta; quindi, perché non si capisce come mai il filtro, la mediazione in un processo di intenzionale fissazione su pagina di un evento di spettacolo perda con esso ogni contatto fino a deformarne qualsiasi ipotesi ricostruttiva. Né sarebbe da trascurare che, prescindendo da esempi illustri della ricerca – relazioni festive, lettere di ambasciatori, carte notarili, ad esempio – un’intera branca della storiografia dello spettacolo quale l’iconografia teatrale è di natura apografica per definizione, e non per questo smette di illuminare fasi salienti del passato e del presente.

Ma qui non vale rilevare queste dissonanze: occorre piuttosto cogliere il sovrapporsi di un habitus critico a un altro in un lasso di tempo veramente fulmineo, l’apertura di credito a una pratica della scena che richiede strumenti d’analisi iuxta propria principia e l’applicazione di principi canonici desunti da altre discipline. Il primo elemento di disappunto va còlto proprio nella collocazione degli scenari così come adesso li leggiamo a ridosso della loro esecuzione materiale. Non siamo di fronte a prefigurazioni dello spettacolo, ma a “trascrizioni”. Per commissione o per ozio. Non piani di lavoro, ma tracce della memoria, cose descriptae. È una scoperta geniale, ma sprecata, se questo spostarsi della scrittura ad un passaggio seriore del processo creativo recasse con sé solo aspettative di maggiore letterarietà, dal momento che non si tratta di innescare il ludus retorico degli attori, ma di darne testimonianza.[39] Invece, trascrivere è l’essenza del comico di professione, l’anello di congiunzione fra oralità e scrittura, fra segmenti di elaborazione del ruolo, dove il dato consuntivo assume valenza precettiva in future occasioni, per sé e per gli altri. Prima che tutto questo cominciasse a delinearsi nella sensibilità contemporanea, si imponeva e si impone il paradosso per cui è perdonabile una mediocrità che si sostituisce e assorbe un testo drammatico compiuto lasciando che da essa si sprigioni la scintilla dell’Arte, non quella che si attesta su un livello di funzionalità mnemonica, all’ombra del genio interpretativo e senza interferire (o provando a interferire secondo modalità da scoprire di volta in volta) con le luci della recitazione. Gli scenari sono testimonianze originali, ma non tanto dell’idea di spettacolo cui si riferiscono, quanto delle istanze della memoria e della professione che vi si riflettono, quasi sempre di difficilissima decifrazione. E sempre al di qua di una loro riproduzione a stampa – come molti dei materiali d’uso della scena di Antico Regime – perché mai finiti. Imperfetti. Transeunti e labili, pronti a riadattarsi a chi ne vorrà fare uso. Quasi sempre per tradirli, o conferire a essi un’impronta nuova, che darà origine ad altre varianti.

Il metodo filologico e documentario si scontra con l’intuizione di nuovi orizzonti, mentre fra l’attore-che-recita e il letterato-che-scrive sembra non sussistere alcuna possibilità di mediazione. Qui si insinua un’aspirazione progettuale problematica e spiazzante, una mèta a cui tendere divenuta – a uno sguardo ravvicinato – ancora più evanescente e lontana; forse, anche il tributo più improvvido a un iter consueto ma in fondo disadatto. Restituire gli scenari nella loro veste originale presuppone due fattori: che le raccolte manoscritte siano da considerarsi come testimoni di una tradizione fortemente contaminata, ma pur sempre unitaria (il che è vero, ma non nel senso della trasmissione orizzontale-verticale di un opus unico, ma di una straordinaria diffrazione geostorica di trame); che effettivamente possa darsi una veste originale, al di là delle inevitabili compromissioni di quegli appunti con le esigenze concrete del palcoscenico. Tutt’al più un Urtext sarebbe un primo affiorare alla storia documentaria di un plot di cui andrebbero ricercate ascendenze remote (si pensi al discorso sulle maschere: Arlecchino e Pulcinella docent),[40] ma mai come in questo caso la domanda “ci fu sempre un archetipo?” ha senso.[41]

Anche la pervicace assenza di una trasmissione a stampa è questione su cui riflettere: per la scena d’età moderna fissare le mobili parvenze[42] – per usare l’espressione di Mario Apollonio – non equivale quasi mai a preferire la fissazione alla mobilità ed è operazione strumentale al gioco trasformistico che un repertorio labile e intricato mette in moto per la sua stessa sopravvivenza. Interi settori dell’esperienza performativa del XVII e XVIII secolo vivono di una mutevolezza e di una trasmissibilità antica, che si offre quasi naturalmente all’appunto, alla riscrittura o modifica: nel mondo dell’Arte la stampa è l’oltranza, un malinteso punto di non ritorno.

Un diaframma sottilissimo separa la desolata confessione zorziana dall’acquisizione di una diversa visione, per altro suggerita proprio da quelle informazioni tecniche di riporto che, nella loro varietà lussureggiante, evocano la basilare indifferenza del comico d’antan per ogni rigorosa falsariga operativa, secondo il principio che l’inventio è comunque re-inventio, se non altro nella prassi performativa: ovvero, che la mèta non sia il percorso a ritroso fino alle oscure origini di ciascuna storia (d’altronde, si assiste nelle raccolte a una proliferazione di variazioni sul tema, ed è giusta l’osservazione per cui sono relativamente poche le strutture fondamentali del racconto teatrale), ma l’attraversamento di quelle esili documentazioni di spettacolo valorizzando proprio la metamorfosi, l’adattamento, l’equilibrio fra i dati della tradizione e il tentativo di spiazzare lo spettatore. Si rimane al di qua di un panorama che si intuisce, e che sembra sprigionarsi appieno nella drammaturgia settecentesca che più direttamente si misura con i fantasmi del passato (e del presente). Il sospetto è che l’audacia della nuova teatrologia avesse i suoi comprensibili limiti: da un lato, indulgere all’iconoclastia o a qualsiasi soggezione alle seduzioni del testo come asse portante nella storia; dall’altro esibire il possesso di salde e affidabili metodologie investigative, correndo il rischio che l’accreditamento presso la comunità scientifica e il pubblico interessato passasse per qualche generoso ipercorrettismo. Come questo: raccogliere ed elaborare dati preziosi da fonti ingiustamente neglette o tutt’al più affrontate con discutibili opzioni antologiche, postulando una sorta di stemma codicum e di approdo all’univocità di una forma testuale per via di collazione (e di sottrazione), di fronte all’esplosione incontrollata di una materia straordinariamente viva.

Fu un’impasse, e – di lì a qualche anno – più atroce e improvviso fu il silenzio che trasfigurò gli appunti di una lettura appassionata in un giudizio senza appello. Eppure il corto circuito fra filologia e spettacolo maturato in un’esperienza collettiva era destinato a sprigionare nuove energie. Trasformò la constatazione di un apparente punto debole, la descriptio senza fantasia di un evento scenico, nel punto di forza di un ripensamento della scrittura teatrale meno irriverente di quanto non fossero le imperanti tensioni semiotiche dell’epoca, ma capace di misurare la distanza fra il libro e il palcoscenico per recuperare in quel margine le ragioni di un contesto. Indusse a considerare il rapporto mai facile fra i tempi della redazione di un testo e i tempi dello spettacolo, cominciando a interrogarsi sulle infinite sovrapposizioni che si determinano nella convulsa vita di teatri e compagnie, o anche nella ricerca di visibilità di tanti artisti e intellettuali. La scoperta di una tensione dialettica fra elaborazione preventiva e consuntiva avrebbe avuto origine non a caso dall’analisi di quei materiali dell’Arte dove pratica, memoria, progetto creativo e mercantile si sono intrecciati indissolubilmente nella lunga durata della scena “all’italiana”.[43] Spinse a riflettere sull’efficacia di un metodo rappresentativo, dilatando i confini dell’improvvisazione fino a rintracciare nelle forme premeditate coeve o successive al momento aureo dell’Arte i segni di una prassi di marca attoriale in grado di intessere un dialogo sotterraneo ma necessario con l’espressività dell’auctor (ma, in fondo, di questo si era reso testimone lo stesso Zorzi, laddove aveva incastonato le sue incursioni nel territorio secentesco dell’Arte fra le benemerite perlustrazioni ruzantiane e cinquecentesche in generale e le indagini sul Settecento pregoldoniano, goldoniano e gozziano, insistendo appunto sul concetto di “persistenza”). Lontano da quell’impostazione volutamente centripeta, le raccolte tornarono a essere quel che erano sempre state, membra disiecta senza nessun corpus, ed era proprio nell’autonomia di ciascuno di quei relitti di un imponente naufragio che andava cercato il senso di un mestiere e del suo diritto di esistere.

L’errore congiuntivo di Zorzi era, forse, un segno dei tempi: dover ragionare insieme degli oggetti e della loro dignità (e verrebbe da chiedersi quanto gli studi teatrali riescano ancora a sottrarsi a questo vortice incontrollato di affondi e autogiustificazioni), sperando che quella dignità derivi non dall’applicazione di metodi e problemi agli oggetti, ma dall’assimilazione di questi ad altri già accreditati, smarrendosi in raffronti impossibili. Ma era – e rimane – uno spartiacque salutare: rompeva una tradizione di approcci “negativi” e di scarsa incisività e – dinanzi alla frantumazione di qualsiasi ipotesi stemmatica – apriva la strada a due fondamentali strategie di ricerca: da un lato, inquadrare ciascuno zibaldone in un preciso momento e in una precisa area culturale, come testimonianza di una vita dello spettacolo largamente connotata in senso geostorico; dall’altro, esaltare il valore antologico leggendo nel singolo canovaccio la tappa di un percorso metamorfico entro cui si annida molto delle tensioni sceniche d’età moderna.

In effetti, per il primo caso, non era mancata attenzione alla scansione diacronica delle raccolte. Emergevano – anche a uno sguardo appena approfondito – divergenze sostanziali di impostazione e di finalità comunicative che avrebbero reso impervio qualsiasi utilizzo delle singole testimonianze prescindendo dalla loro collocazione nell’insieme e dal loro situarsi in uno spazio, in un tempo, talora in una pratica professionale o dilettantesca esemplare e particolare. Se la stessa destinazione a stampa del Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala costituisce un dialogo neppure tanto sottinteso con gli schemi della novellistica, con la memoria di una militanza pionieristica e con il progetto di nobilitare una scrittura tipicamente teatrale nel panorama coevo e con i suoi principali interpreti e fruitori,[44] i repertori della prima generazione di comici «nel loro insieme rappresentano la memoria consuntiva di decenni di spettacoli durante i quali si era maturato un ventaglio di topoi drammaturgici ricavati da modelli letterari e tradotti in “scalette” per la rappresentazione all’impronto».[45] Lo Zibaldone di Stefanello Bottarga, con i materiali tradotti fisicamente dall’Italia alla Spagna nel viaggio della troupe, è un crogiuolo dove si sedimentano fonti comiche, tragiche e pastorali adattate agli usi di una compagine specifica e a un problematico orizzonte d’attesa;[46] la Raccolta di scenari più scelti della Biblioteca corsiniana e la Scena di Basilio Locatelli, nella loro interconnessione, riflettono le differenti soluzioni stilistico-verbali ispirate da contesti professionistici o dichiaratamente dilettanteschi in un territorio circoscritto.[47] Più vicini alle istanze di un “mestiere” socialmente sempre difficile, ma collaudato nei suoi ingranaggi, i manoscritti più tardi, talora contraddistinti da uno stretto legame con l’ambiente produttivo (gli scenari per l’antico San Cassiano di Venezia),[48] o dagli influssi di culture dominanti, come gli zibaldoni di soggetti «alcuni proprij, et altri da diversi raccolti»[49] del Conte di Casamarciano Annibale Sersale nella Napoli di tardo Seicento, in cui, accanto a plots di tradizione, massiccia è la presenza di trame desunte dal serbatoio del siglo de oro, segnale di un’osmosi ineludibile nel Viceregno spagnolo. Quest’ultima silloge, nel suo carattere monumentale (contiene centottantatré canovacci, annoverando spesso variazioni su tema e perlustrando tutto l’immaginario drammaturgico coevo, senza alcuna spiccata sensibilità antologica), sembra quella più pervasa dal pericolo che un’inventiva plurisecolare possa dissolversi nell’iterazione e nel cliché e dall’ossessione di lasciar traccia di un metodo compositivo destinato a tramontare con l’omologazione del comico-rhetor, invenzione della generazione aurea, ad attore-tecnico. È il quadro che si delinea, attraverso luci e ombre, in quella Selva di Placido Adriani nel cuore del Settecento,[50] in un momento in cui recitare all’impronto è esercizio ordinario, ma ormai lontano dalla carica eversiva che aveva avuto nella stagione tardo-rinascimentale e barocca. Tutt’altra storia, chiaramente, quella della Traduction du scenario di Dominique Biancolelli, testimonianza sui generis di un lavoro dell’interprete sul personaggio, su sé stesso e sul repertorio;[51] quel che preme sottolineare è che, nel corso degli anni, alla tensione connettiva che aveva contraddistinto a lungo l’approccio a questi materiali (testimoni di unica postulati e irraggiungibili o elenchi senza soluzione di continuità) è subentrato uno sguardo sanamente frammentato, che ha restituito loro altra luce e altri significati in una storia ancor piena di ombre. Quel «progetto mai stato»[52] (e il rimpianto che ne è seguito) necesse erat.

Non meno rilevanti si sono rivelati i percorsi di studio che hanno estrapolato le singole tracce contenute nelle raccolte per inserirle in indagini comparatistiche ad ampio raggio, nell’intento di ricostruire le modalità concrete della vita dello spettacolo tra Cinque e Settecento, gli itinerari di trame e professionisti in aree sempre sorprendentemente estese, i riflessi che gusti, pubblici, sensibilità diverse esercitarono su materiali meno inerti di quanto si possa sospettare, e mai disgiunti da una visione complessiva dello spettacolo. È un campo sterminato, quanto quello della ricostruzione di trame biografiche dove si intersecano avventura e mestiere:[53] la duttilità di questi minimi documenti di teatro è tale da superare qualsiasi convenzionale frontiera di genere, di lingua, di ambito sociale. Mai sopito è l’interesse per il successo planetario del Burlador,[54] ma anche altri “soggetti” (su tutti il Basilisco del Bernagasso)[55] denotano come molti siano stati i cult plays di una lunga stagione della scena occidentale e come la mera valutazione estetica dei relitti testuali possa risultare fuorviante per capire il clima e il dinamismo dello spettacolo nel continente europeo. Si tratta di un metamorfismo che investe anche la nascente tradizione melodrammatica, laddove affiorano con sempre maggiore evidenza continuità operative e concettuali con la scena improvvisa,[56] né smette mai di rivelare dettagli sempre più interessanti in rapporto a variegate prospettive, come, ad esempio, i nessi con le pratiche accademiche, la diffusione e l’adattamento delle storie del siglo de oro,[57] e, ovviamente, con quel che la letteratura drammatica settecentesca recupera e assorbe sia pur in un quadro mutato.[58] Rimane condizione fondamentale che gli scenari non siano relegati al rango di testimoni deteriores per le loro caratteristiche formali e siano invece aggrediti con strumenti di lettura adatti alla loro natura ibrida di echi della concertazione attoriale. Questa sembra, allora come oggi, la sfida: ed è questione di uso, e di pazienza.

***

Altro grande cantiere che ha conosciuto assestamenti significativi nel primo decennio di vita è quello dell’Edizione nazionale delle opere di Carlo Goldoni, partito a ridosso delle celebrazioni del bicentenario dalla morte del grande commediografo nel 1993. D’altronde, mettere a punto metodi e criteri di un’impresa filologico-editoriale gigantesca come questa non era facile: se relativamente chiari appaiono gli obiettivi – rinnovare la fruibilità di un classico ben oltre le benemerite collezioni novecentesche – è arduo prevedere in anticipo la miriade di risultanze collazionali nella copiosità della produzione e nella fitta intertestualità fra edizioni autoriali e spurie, generi e destinazioni d’uso, per elaborare processi operativi che garantiscano il massimo di un’omogeneità peraltro impossibile.[59] A suggello dell’antologia goldoniana per i tipi di Einaudi nel 1991, Marzia Pieri aveva auspicato che si ricostruisse

un’attendibile edizione critica dei suoi testi […] partendo finalmente dal presupposto niente affatto paradossale che, come sempre alle prese con il teatro, bisogna contentarsi di avere non il testo, ma un testo, l’istantanea di una fase instabile che rinvia ad infinite possibilità di essere diverso: all’indietro rispetto alla sua stratigrafia compositiva, ma anche in avanti verso i suoi sviluppi e le sue trasformazioni possibili.[60]

A fronte della costante autopromozione e autostoricizzazione messe in campo da Goldoni per oltre un cinquantennio sarebbe impensabile, nel clima di rinnovata sensibilità alle dinamiche dello spettacolo e dei suoi circuiti, approdare a un monumentum aere perennius, laddove il problema è proprio fissare con criteri attendibili un’intrinseca instabilità. Ad altri autori del Settecento come Metastasio, pure oggetto di intensi approfondimenti critici nell’occasione del tricentenario dalla nascita, è toccata tutt’altra sorte: una dicotomia fra progetti cartacei e digitali, con la riproposta di una linea “antica” sul primo fronte e una finissima recensio ad uso di ulteriori indagini sull’altro;[61] sul cantiere gozziano incide profondamente la complessa stratigrafia documentata dagli autografi reperiti, ma, a giudicare almeno da recenti (e forse pretestuose) querelles, se davvero l’oggetto del contendere è sul valore e sulle istanze di un approccio diplomatico e/o interpretativo, sembrerebbe profilarsi dietro le quinte – spettro orribile nella humanitas del XXI secolo – il problema della divulgazione, qui declinato nella conciliazione fra l’irriducibilmente specialistico e il piano e maneggevole.[62]

Sul finire degli anni Novanta è stata Anna Scannapieco a provarsi a tracciare i confini fra scrittoio, scena, torchio nella galassia goldoniana, illuminando scarti e interferenze che si evolvono dietro molteplici spinte, nel tentativo di sistematizzare le acquisizioni delle primissime esperienze editoriali in vista di ulteriori approcci.

Molto si è scritto intorno alla sostanza dell’impresa dell’Edizione nazionale, che a tutt’oggi costituisce, pur nella comprensibile disuguaglianza dei risultati e delle scelte operate dai curatori, un esempio cui guardare per la complessità dei temi sollevati in itinere, per la densità di un discorso che vanta già uno sviluppo diacronico rilevante e pertanto interagisce con motivazioni e finalità in costante aggiornamento, e – tratto non secondario – per le diverse idee di canone che affiorano dietro una sensibilità più spiccatamente letteraria nel confronto con analisi più attente ai meccanismi scenico-attoriali. Il lettore accorto dovrebbe sapere di trovarsi sempre di fronte a una proposta adeguatamente motivata, e a lui spetta il compito di percorrere all’indietro e in avanti stratigrafia e sviluppi potenziali. Ambiziosa davvero è la facies, perché l’articolazione dei volumi guarda al lettore d’oggi collocando il lavoro filologico in un progetto di riavvicinamento al grande classico, incastonando ciascun testo fra nota e commento, a loro volta inseriti fra un’introduzione e una nota sulla fortuna. È un’impostazione concentrica che offre pienezza di ragguagli sul piano scientifico e documentario e permette allo stesso tempo di rimanere ai bordi di un interesse più specialistico. Lo schema risponde indubbiamente allo spirito di una renaissance che ha posto in primo piano questioni di accessibilità dell’opera e una decisa revisione di gerarchie trádite, ma tiene apertamente conto dell’unanime riconoscimento dell’auctor nel patrimonio culturale nazionale e internazionale. Pur nell’ovvio rispetto di criteri stabiliti nell’ambito di collane prestigiose, altri cantieri (si pensi al Pirandello[63] e più ancora all’Eduardo dei Meridiani),[64] movendosi nell’impervio territorio della contemporaneità, si confrontano sia con l’estrema disseminazione dei materiali di base, sia con la necessità di avocare al profilo della scrittura e della premeditazione un’attività duratura fra copioni, rimaneggiamenti, soluzioni frammentarie di cui è arduo, ma inevitabile contemplare il rilievo nel lavoro ecdotico, nella consapevolezza che la pagina effettua scelte “definitive” cui la scena si è sempre sottratta e continuerà a sottrarsi, riproponendo così sottilmente quell’improprio ma reale dissidio fra letteratura e teatro che accompagna la storia dell’Arte.

Un raffronto forse non banale è quello che può stabilirsi con autorevoli (e ormai radicate nel tempo) esperienze d’oltralpe. Basterebbe por mente alla densità e alla complessità dei Sämtliche Werke di Hugo von Hofmannsthal, l’edizione critica intrapresa dopo innumerevoli riflessioni e riassetti del cospicuo lascito documentario a partire dal dopoguerra fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.[65] Affidata al Freies Deutsches Hochstift di Francoforte, impegnato anche sul fronte analogo di Brentano che avrebbe costituito un ideale modello di riferimento, l’edizione fu più volte modificata nella concezione, man mano che affiorava il mare magnum documentario sul quale navigare.[66] Inizialmente si prevedeva un’illustrazione completa di tutte le varianti, con uno sguardo a quanto era stato approntato per Hölderlin e in forma anche più raffinata, distinguendo fra varianti immediate e posteriori, varianti ponderate e fasi redazionali, mentre non mancava chi ammoniva sul pericolo dell’elefantiasi di un sistema del genere, proponendo apparati più snelli e adattati all’oggetto di analisi. Verrebbe fatto di pensare a quanto sostiene Michel Zink a proposito di alcune edizioni, secondo quel che commenta Alberto Varvaro nella sua Prima lezione di filologia: esse, quanto più sono raffinate, «tanto più si riduce il numero dei loro utenti, fino al limite paradossale di un’edizione perfetta per la quale però non esiste più il lettore. Il filologo impegna anni e fatiche, nonché spese, per maturare un risultato al quale non è interessato nessun altro se non il suo recensore o il giudice del suo concorso».[67]

Nei primissimi volumi è possibile cogliere l’irresolutezza fra i due metodi: nel corso degli anni si è imposta la procedura “semplificata”, che in realtà si è concentra nello stabilire ordini di priorità e di pregnanza storico-documentaria del dato variantistico, senza dettagliare tutto ma lasciando comunque aperta la possibilità di ripercorrere vicende editoriali normalmente intricate nella loro integrità.[68] Vero è che qui si tratta di definire una struttura che non valga solo per testi teatrali ma sia funzionale a un’esperienza di scrittura intensa e multiforme. Tuttavia la scansione fra testo presentato in apertura e apparato, consistente nelle sezioni Entstehung, Überlieferung, Varianten, Erläuterungen, con il ricchissimo capitolo delle Zeugnisse, le testimonianze e i riscontri coevi sull’opera e sulla sua immediata circolazione che interferiscono con le sue rielaborazioni, si presta a infiniti percorsi di attraversamento ma ipotizza nel lettore capacità di orientamento e di discernimento critico non comuni. Il punto non è quello di privilegiare un’ottica iniziatica: è – mi sembra – quello di equiparare un risultato proposto con il vortice creativo che gli preesiste e gli sopravvive, in un progetto in cui l’edizione assolve il suo compito di fissare un testo ma subito va oltre, lasciandone intuire la genesi, la scomposizione, i ripensamenti parziali o totali (che in Hofmannsthal si configurano talvolta come autonome Fassungen), una vita palpabile che, nel caso dei drammi, somiglia proprio all’inafferrabilità della restituzione scenica. Paradossalmente, dove più ampie appaiono le concessioni a strumentazioni di marca letteraria, più forte in altre pagine traspare il teatro con i suoi orizzonti materiali e poetici; l’apparente parcellizzazione non è concessione alla «filologia dell’attimo fuggente», ma la struttura che dà conto tanto del «formarsi accidentato» dei testi, quanto di un’“autorialità” che si mette costantemente in discussione al cospetto di rapporti personali, transazioni, fortune e ritorni creativi, in nome di una perfetta applicazione di riflessioni non aprioristiche sui materiali e sul loro valore testimoniale[69] e – beninteso – nel rispetto di un salutare compromesso fra esigenze dell’autore, testo e fruitore.[70]

In fondo, l’edizione critica di un testo di spettacolo accetta implicitamente di ricomporre idealmente un bisogno di permanenza e una natura transeunte, enfatizzando l’una o l’altro anche nel modo in cui si allestisce fisicamente agli occhi del fruitore. Può farsi carico di organizzare e sistematizzare le fonti secondo parametri quantitativi o qualitativi, o accettare metodologicamente la loro dimensione non piramidale, se si guarda poi alle forme concrete con cui quel testo è entrato nello spazio e nel corpo vivo della scena. L’unica sua possibilità di resistere (e di essere monumentum) è – sempre secondo l’auspicio di Marzia Pieri – nel talento con cui riesce a «imporre una buona volta ai libri […] l’autorità e la verità del teatro».[71]



[1] M. SAND, Masques et bouffons, Paris, Lévy, 1860, 2 voll

[2] A. BASCHET, Les Comédiens Italiens à la Cour de France sous Charles IX, Henri III, Henri IV et Louis XIII, Paris, Plon, 1882.

[3] K. MIKLASEVSKIJ (pseudonimo C. MIC), La Commedia dell’Arte ou le théâtre des comédiens italiens des XVIe, XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, La Pléiade, 1927; si veda K. MIKLASEVSKIJ, La Commedia dell’Arte o il teatro dei commedianti italiani nei secoli XVI, XVII e XVIII, a cura e con un saggio di C. Solivetti, Venezia, Marsilio, 1981. Ma per il clima culturale russo e la Commedia dell’Arte si veda anche F. TAVIANI-M. SCHINO, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo (1983), Firenze, La Casa Usher, 19862, pp. 74-87.

[4] M. APOLLONIO, Storia della Commedia dell’Arte, Roma-Milano, Augustea, 1930 (rist. anast. Firenze, Sansoni, 1982). Ma si vedano anche dello stesso autore Prelezioni sulla Commedia dell’Arte, in Contributi dell’Istituto di Filologia Moderna. Serie Storia del teatro, Milano, Vita e Pensiero, 1968, vol. I, pp. 144-190 e la Storia del teatro italiano, Firenze, Sansoni, 1938-1950, 4 voll.

[5] B. CROCE, Sul significato storico e il valore artistico della Commedia dell’Arte, Napoli, Tipografia Sangiovanni, 1929 (estratto da «Atti della reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», vol. LII, 1928, pp. 256-266); ID., Intorno alla Commedia dell’Arte, in Poesia popolare e poesia d’arte. Saggi sulla letteratura italiana dal Tre al Cinquecento (1933), Bari, Laterza, 19523, pp. 503-514.

[6] A.G. BRAGAGLIA, Scenari della Commedia dell’Arte, in «Comoedia», VI, 15 dicembre 1925, 24, pp. 1223-233; Commedia dell’Arte. Canovacci della gloriosa Commedia dell’Arte raccolti e presentati da A. G. Bragaglia, Torino, Ed. del dramma, 1943; ID., Pulcinella (1953), Firenze, Sansoni, 1982; ID., Giangurgolo, ovvero il calabrese in commedia, Cosenza, Ente provinciale per il turismo, s.d.; A. Perrucci, Dell’Arte rappresentativa, premeditata e all’improvviso, a cura di A.G. Bragaglia, Firenze, Sansoni, 1961.

[7] La Commedia dell’Arte. Storia e testo, a cura di V. PANDOLFI, Firenze, Sansoni, 1957-1961, 6 voll. (rist. anast. a cura di S. Ferrone, Firenze, Le Lettere, 1988).

[8] G. MACCHIA, Vita, avventure e morte di Don Giovanni, Torino, Einaudi, 1966; si veda, dello stesso autore: Tra Don Giovanni e Don Rodrigo: scenari secenteschi, Milano, Adelphi, 1989.

[9] R. TESSARI, La Commedia dell’Arte nel Seicento. «Industria» e «arte giocosa» della società barocca, Firenze, Olschki, 1969.

[10] R. TESSARI, Commedia dell’Arte: la maschera e l’ombra, Milano, Mursia, 1981. Ma di Tessari è opportuno ricordare in questa sede anche F. ANDREINI, Le bravure del Capitano Spavento, ediz. moderna a cura di R. T., Pisa, Giardini, 1987.

[11] La Commedia dell’Arte e la società barocca, I. La fascinazione del teatro, a cura di F. TAVIANI, Roma, Bulzoni, 1969.

[12] TAVIANI-SCHINO, Il segreto della Commedia dell’Arte, cit.

[13] N. BARBIERI, La Supplica. Discorso famigliare a quelli che trattano de’ comici, con studio critico, note e varianti di F. Taviani, Milano, Il Polifilo, 1971.

[14] F. SCALA, Il teatro delle favole rappresentative (1611), a cura di F. Marotti, Milano, Il Polifilo, 1976, 2 voll.

[15] L. DE’ SOMMI, Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, a cura di F. Marotti, Milano, Il Polifilo, 1968.

[16] C. MOLINARI, Pier Maria Cecchini: le commedie. Un commediante e il suo mestiere, Ferrara, Bovolenta, 1983; ID., La Commedia dell’Arte, Milano, Mondadori, 1985; La Commedia dell’Arte, scelta e introduzione di C. M., apparati di R. Guardenti, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1999. Si pensi anche ai contributi di R. GUARDENTI, Gli Italiani a Parigi. La comédie italienne (1660-1697). Storia, pratica, scenica, iconografia, Roma, Bulzoni, 1990, 2 voll.; ID., Le fiere del teatro. Percorsi del teatro forain del primo Settecento. Con una scelta di commedie rappresentate alle Foires Saint-Germain e Saint-Laurent, Roma, Bulzoni, 1995.

[17] Commedie dell’Arte, a cura di S. FERRONE, Milano, Mursia, 1985-1986, 2 voll.

[18] Cfr. nota 7.

[19] S. Ferrone, Attori Mercanti Corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento (1993), Torino, Einaudi, 20112.

[20] Comici dell’Arte. Corrispondenze. G.B. Andreini. N. Barbieri. P.M. Cecchini. S. Fiorillo. T. Martinelli. F. Scala, ediz. diretta da S. Ferrone, a cura di C. Burattelli, D. Landolfi, A. Zinanni, Firenze, Le Lettere, 1993, 2 voll.

[21] La Commedia dell’Arte e la società barocca, II. La professione del teatro, a cura di F. Marotti e G. Romei, Roma, Bulzoni, 1991, p. L.

[22] Ibid.

[23] Ivi, p. LI.

[24] S. ferrone, Introduzione a Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., vol. I, p. 11.

[25] L. Zorzi, La raccolta degli scenari italiani della Commedia dell’Arte, in Alle origini del teatro moderno. La Commedia dell’Arte. Atti del convegno di studi (Pontedera, 28-30 maggio 1976), a cura di L. Mariti, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 104-115: 105. Il saggio è poi confluito – con parte del dibattito che seguì alla relazione – in una miscellanea postuma, L. ZORZI, L’attore. La commedia. Il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 199-221. Sullo studioso, tra i pionieri della nuova teatrologia in Italia, si vedano i contributi di S. MAZZONI, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, in «Drammaturgia», XI / n.s. 1, 2014, pp. 9-138 e ID. Firenze, Ludovico Zorzi e la nuova storia del teatro, in «drammaturgia.it» (http://drammaturgia.fupress.net, data di pubblicazione sul web: 20 giugno 2015).  

[26] Zorzi, La raccolta degli scenari italiani, cit., p. 105.

[27] Ibid. Solo qui, a proposito della resistenza di una definizione, è doveroso far riferimento al recente, pregevole contributo di S. FERRONE, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014, che, trattando della Commedia dell’Arte come del «teatro dei professionisti organizzati in compagnie» (p. 3), si colloca definitivamente al di là delle antitesi premeditazione/improvvisazione, tragico/farsesco, aulico/popolare, identificando nella fluidità e nella contaminazione i tratti distintivi (ed eversivi) della drammaturgia cinque-settecentesca. È la piena maturazione di un approccio che in fondo proprio nelle considerazioni di Zorzi a cavallo fra anni Settanta e Ottanta aveva trovato la prima formulazione.

[28] L. ZORZI, Sui caratteri originali del fenomeno, in Id., L’attore. La commedia. Il drammaturgo, cit., pp. 141-153: 141. Si tratta di un intervento precedentemente apparso in «Città & Regione», IV, 1978, 11/12, pp. 192-203.

[29] L. ZORZI, Persistenza dei modi dell’Arte nel testo goldoniano, in ID., L’attore. La commedia. Il drammaturgo, cit., pp. 225-241, già apparso in L’interpretazione goldoniana: critica e messinscena, a cura di N. BORSELLINO, Roma, Officina Edizioni, 1982, pp. 53-67. Resta fondamentale sottolineare la collocazione cronologica delle riflessioni di Zorzi per cogliere appunto le persistenze e le variazioni al cospetto di un oggetto di ricerca intensamente frequentato.

[30] Per l’attitudine catalografica rinnovatasi nel tempo si vedano K.M. LEA, The Bibliography of the Commedia dell’Arte: the Miscellanies of the Comici and Virtuosi, in «The Library», n.s., XI, 1931, pp. 1-38; ID., Italian Popular Comedy. A Study in the Commedia dell’Arte, 1560-1620, with Special Reference to the English Stage, Oxford, Clarendon Press, 1934, 2 voll., vol. I, pp. 129-219; PANDOLFI, La Commedia dell’Arte, cit., vol. V, pp. 203-389; Commedie dell’Arte, cit., vol. I, pp. 52-53; T.F. HECK, Commedia dell’Arte. A Guide to the Primary and Secondary Literature, New York-London, Garland Publishing, 1988, pp. 14-45 (cfr. anche l’edizione aggiornata pubblicata presso Lincoln, NE, 2000, pp. 14-45). Per l’incidenza dell’interpretazione metaforica si veda F. Cotticelli, Sui canovacci della raccolta Casamarciano, in Origini della Commedia Improvvisa o dell’Arte. Atti del XIX convegno internazionale del Centro studi sul teatro medioevale e rinascimentale (Roma-Anagni, 12-15 ottobre 1995), a cura di M. Chiabò e F. Doglio, Roma, Torre d’Orfeo, 1996, pp. 231-245.

[31] Zorzi, La raccolta degli scenari italiani, cit., p. 110.

[32] ZORZI, Sui caratteri originali del fenomeno, cit., p. 145.

[33] Ibid. In Zorzi, Persistenza dei modi dell’Arte, cit., il brano risulta integrato con un’ulteriore definizione, l’«ininterrotta didascalia» (p. 229), ulteriore spia del trasferimento di queste scritture dal piano poetico al piano esegetico/paratestuale, riecheggiando «il basso contenuto di originalità poetica» (ID., Sui caratteri originari del fenomeno, cit., p. 149).

[34] Zorzi, La raccolta degli scenari italiani, cit., p. 113.

[35] Cfr. il documento rogato dal notaio Diego de Crescenzo cit. in U. PROTA-GIURLEO, I Teatri di Napoli nel ’600. La Commedia e le maschere, Napoli, Fiorentino, 1962, p. 125 (si veda ora anche ID., I teatri di Napoli nel secolo XVII, I. Analecta; I II. La Commedia; III. L’Opera in Musica, a cura di E. Bellucci e G. Mancini, Napoli, Il Quartiere, 2002).

[36] Come si diceva, il saggio Sui caratteri originali del fenomeno (cfr. nota 28) risale al 1978, mentre Persistenza dei modi dell’Arte nel testo goldoniano (cfr. nota 29) elaborato nel 1980, compare nel 1982. L’intervento di Pontedera al convegno del 1976, pubblicato nel 1980, parrebbe in effetti la prima (e più luminosa) disamina del problema scenari così come veniva definendosi nel cantiere fiorentino.

[37] Il riferimento è a ZORZI, Persistenza dei modi dell’Arte nel testo goldoniano, cit., elaborato evidentemente a ridosso della messa a punto degli altri due contributi citati. Tra l’altro, le scelte editoriali che hanno ispirato il volume postumo documentano con vibrante icasticità certe magnifiche ossessioni dello studioso negli ultimi anni della sua intensa attività, rendendo ancora più acuto il rammarico per una vicenda critica che pareva preannunciare sviluppi significativi. Sull’approccio metodologico cfr. anche S. MAMONE, Storia dello spettacolo: il testimone preterintenzionale, in Per Ludovico Zorzi, a cura di S. M., «Medioevo e Rinascimento», VI/n.s. III, 1992, pp. XI-XVIII; ed anche ID., Introduzione a Dèi, Semidei, Uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese (XV-XVII secolo), Roma, Bulzoni, 2003.

[38] ZORZI, Persistenza dei modi dell’Arte, cit., p. 231. Il brano ricorre pressoché identico in ID., Sui caratteri originali del fenomeno, cit., pp. 146-147: alla espressione «(si tratta di circa ottocento soggetti)» si contrappone «(manca soltanto una delle due raccolte vaticane)», mentre l’elenco – sempre in parentesi – delle raccolte è qui relegato in una nota.

[39] Sulla problematicità dell’oggetto “scenario” mi si permetta di rinviare al capitolo Proposte per una lettura e interpretazione degli scenari Casamarciano, in The Commedia dell’Arte in Naples: A Bilingual Edition of the 176 Casamarciano Scenarios, a cura di F. Cotticelli, A. Goodrich Heck e T.F. Heck, Lanham (Maryland-USA), Md. & London, Scarecrow Press, 2001, 2 voll., vol. I, pp. 3-13. Si veda ora anche P. Vescovo, «Farvi sopra le parole». Scenario, ossatura, canovaccio, in «Commedia dell’Arte. Annuario internazionale», II, 2010, pp. 95-116.

[40] Per la storia di queste straordinarie maschere si vedano almeno D. Gambelli, Arlecchino a Parigi,I. Dall’inferno alla corte del Re Sole, Roma, Bulzoni, 1993; ID., Arlecchino a Parigi, II. Lo scenario di Domenico Biancolelli, parti prima e seconda, Roma, Bulzoni, 1997; S. Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Roma-Bari, Laterza, 2006; B. Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia, Roma, Loescher, 1899 (estratto da «Archivio storico per le Province napoletane», xxiii, 1898); Quante storie per Pulcinella / Combien d’histoires pour Polichinelle, a cura di F.C. Greco, Napoli, E.S.I., 1988; Pulcinella. Una maschera tra gli specchi, a cura di F.C. G., Napoli, E.S.I., 1990; Pulcinella maschera del mondo. Pulcinella e le arti dal Cinquecento al Novecento, catalogo della mostra a cura di F.C. G. (Napoli, 7 dicembre 1990-6 gennaio 1991), Napoli, Electa, 1990.

[41] Il riferimento è agli studi di G. Pasquali, Ci fu sempre un archetipo?, in ID., Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier, 1952, pp. 15-21 e di F. Brambilla Ageno, Ci fu sempre un archetipo?, in «Lettere italiane», xvii, 1975, pp. 308-309.

[42] Apollonio, Storia della Commedia dell’Arte, cit., p. 233.

[43] Sulla questione si vedano S. Ferrone, Drammaturgia e ruoli teatrali, in «Il Castello di Elsinore», I, 1988, 3, pp. 37-44; ID., Introduzione a Commedie dell’Arte, cit., vol. I, pp. 14-22; ID., Introduzione a Comici dell’Arte. Corrispondenze, cit., vol. I, pp. 11-16; ID., Scrivere per lo spettacolo, in Drammaturgia a più mani, «Drammaturgia», I, 1994, 1, pp. 7-22; ID., Il metodo compositivo della Commedia dell’Arte, in Commedia dell’arte e spettacolo in musica tra Sei e Settecento. Atti del Convegno (Napoli, Centro di musica antica, 28-29 settembre 2001), a cura di A. Lattanzi e P. Maione, Napoli, Editoriale Scientifica, 2003, pp. 51-67.

[44] Cfr. F. Marotti, La figura di Flaminio Scala, in Alle origini del teatro moderno, cit., pp. 21-43; ID., Il «Teatro delle Favole Rappresentative»: un progetto utopico, in «Biblioteca teatrale», 1976, 15-16, pp. 191-215, nonché l’edizione Scala, Il teatro delle favole rappresentative, cit.

[45] A.M. Testaverde, Introduzione a I Canovacci della Commedia dell’Arte, a cura di A.M. T., Torino, Einaudi, 2007, pp. XVII-LXXI: XXXI.

[46] M. Del Valle Ojeda Calvo, Nuevas aportaciones al estudio de la “Commedia dell’Arte” en España: el “Zibaldone” de Stefanello Bottarga, in «Criticón», 1995, 63, pp. 119-138 e ID., Stefanelo Botarga e Zan Ganassa. Scenari e zibaldoni di comici italiani nella Spagna del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2007.

[47] Rinviamo alla nota 30 per gli studi che contengono elenchi dettagliati. Qui segnaliamo le edizioni moderne di: A.M. Testaverde, «Della Scena de’ sogetti comici di Basilio Loccatello romano» (1618-1622): tra drammaturgia dei dilettanti e dei professionisti, tesi di dottorato in Storia del teatro e dello spettacolo, Uni­versità degli studi di Firenze, IX ciclo, 1996 (tutor: prof. Siro Ferrone); A. Blundo, La discordante armonia dell’opera regia. Un’analisi della raccolta “Ciro Monarca Dell’Opere regie”, tesi di dottorato in Storia, teoria e tecnica del teatro e dello spettacolo, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, IX ciclo, 1999 (tutor: prof. Silvia Carandini); Scenari più scelti d’istrioni, Italienisch-Deutsche Edition der einhundert Commedia all’improvviso-Szenarien aus der Sammlung Corsiniana, a cura di S. Hulfeld, Göttinghen, Vienna University Press, 2014.

[48] Gli scenari Correr. La Commedia dell’Arte a Venezia, a cura di C. ALBERTI, Roma, Bulzoni, 1996.

[49] Gibaldone de soggetti da recitarsi all’Impronto, alcuni proprij, e gli altri da diversi raccolti di Don Annibale Sersale, Conte di Casamarciano, Napoli, Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III,  ms., XI AA 41 e Gibaldone comico di varij suggetti di comedie ed opere bellissime copiate da mé Antonino Passanti detto Oratio il Calabrese per comando dell’Eccellentissimo Signor Conte di Casamarciano = 1700, ms., ivi, XI AA 40. Edizione critica moderna: The Commedia dell’Arte in Naples, cit.

[5] Sulla Selva dell’Adriani (Perugia, Biblioteca Augusta, A 20) cfr. S. Therault, La Commedia dell’Arte vue à travers le zibaldone de Perouse, Paris, C.N.R.S., 1965; V. Gallo, La “Selva” di Placido Adriani. La Commedia dell’Arte nel Settecento, Roma, Bulzoni, 1998.

[51] Il manoscritto, conservato alla Bibliothèque de l’Opéra (Rés. 625, 1-2), già pubblicato in S. Spada, Domenico Biancolelli ou l’art d’improviser. Textes Documents Introduction Notes, Naples, Institut Universitaire Oriental, 1969, è ora disponibile nella bellissima edizione di Gambelli, Arlecchino a Parigi, II. Lo scenario di Domenico Biancolelli, cit.

[52] Dalla dedica a Ludovico Zorzi in I Canovacci della Commedia dell’Arte, cit.  

[53] Cfr. almeno: Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, cit., ma ancor prima le pagine dedicate ad Andreini (Lelio bandito e santo) e a Cecchini (Il pirata senza terra) in ID., Attori Mercanti Corsari, cit., rispettivamente alle pp. 223-273 e 274-320.

[54] Sterminata la bibliografia, ma in questo contesto varrà almeno la pena di citare S. Carandini-L. Mariti, Don Giovanni o l’estrema avventura del teatro. “Il nuovo risarcito convitato di Pietra” di Giovan Battista Andreini, Roma, Bulzoni, 2003.

[55] Cfr. F. Cotticelli-O.G. Schindler, Per la storia della Commedia dell’Arte: “Il Basalisco del Bernagasso”, in I percorsi della scena. Cultura e comunicazione del teatro nell’Europa del Settecento, a cura di F.C. GRECO, Napoli, Luciano, 2001, pp. 13-341; F. Cotticelli, La tradizione del Basilisco e “La prodigalità di Arlichino” di Giovanni Bonicelli, in «Maske und Kothurn», L, 2004, 3 pp. 65-136.

[56] A partire almeno dal classico contributo di N. Pirrotta, Commedia dell’arte and opera, in «The Musical quarterly», 1955, 41, pp. 305-324, poi in ID., Scelte poetiche di musicisti. Teatro, poesia e musica da Willaert a Malipiero, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 147-171, il rapporto fra teatro in musica e Arte è stato sempre più esplorato e tematizzato; si veda anche Commedia dell’Arte e spettacolo in musica tra Sei e Settecento, cit. (in partic. P. Fabbri-S. Monaldini, Dialogo della commedia, pp. 69-87 e M. Bucciarelli, «Parto o bella, ma con qual cuore…». Riflessioni sulla drammaturgia del dramma per musica e il suo rapporto con l’arte comica, pp. 237-252).

[57] Per un orientamento nella questione si vedano almeno M.G. PROFETI, Materiali, variazioni, invenzioni, Firenze, Alinea, 1996; Tradurre, riscrivere, mettere in scena, a cura di ID., Firenze, Alinea, 1996; Percorsi europei, a cura di ID., Firenze, Alinea, 1997; Spagna e dintorni, a cura di ID., Firenze, Alinea, 2000; Commedia e musica tra Spagna e Italia, a cura di ID., Firenze, Alinea, 2009; N. D’Antuono, La comedia española en la Italia del siglo XVII: la Commedia dell’arte, in La comedia española y el teatro europeo del siglo XVII, a cura di Henry W. Sullivan, Raúl A. Galoppe e Mahlon L. Stoutz, London, Tamesis, 1999, pp. 1-36.

[58] Un punto sulla questione è il capitolo dedicato al Settecento in Ferrone, La Commedia dell’Arte, cit., pp. 196-225.

[59] Un punto della situazione, cui si rinvia per ulteriori ragguagli bibliografici, si legge in A. Scannapieco, Bilanci e progetti da un centenario all’altro: l’Edizione nazionale di Goldoni, in Parola, musica, scena, lettura. Percorsi nel teatro di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi. Atti del Convegno (Venezia, 12-15 dicembre 2007), a cura di G. BAZOLI e M. GHELFI, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 419-434.

[6] M. Pieri, Introduzione  a C. Goldoni, Teatro, Torino, Einaudi, 1991, 3 to., to. I, pp. VII-XLIV: XLIV.

[61] Protagonista di entrambi i percorsi è Anna Laura Bellina cui si devono i volumi P. Metastasio, Drammi per musica, I. Il periodo italiano 1724-1730; II. Il regno di Carlo VI 1730-1740; III. L’Età teresiana 1740-1771, a cura di A.L. B., Venezia, Marsilio, 2002-2004 (con CD), nonché l’utilissimo sito www.pietrometastasio.it, frutto di un lungo progetto di ricerca. Sulle implicazioni non solo metodologiche del trattamento riservato al poeta cesareo, che investe non solo il rapporto letteratura/teatro, ma anche lo sguardo e l’interesse che suscita nella ricerca contemporanea la straordinaria avventura della sua poesia per musica, mi sia permesso di rinviare a F. Cotticelli, Librettistica e scritture per la scena, in, Intorno a Silvio Stampiglia. Librettisti, compositori e interpreti nell’età premetastasiana. Atti del convegno internazionale di studi (Reggio Calabria, 5-6 ottobre 2007), a cura di G. PITARRESI, Reggio Calabria, Laruffa, 2010, pp. 1-15. Quanto ai volumi per il tricentenario metastasiano, si vedano R. Candiani, Pietro Metastasio da poeta di teatro a virtuoso di poesia, Roma, Aracne, 1998; Legge, poesia e mito. Giannone, Metastasio e Vico fra «tradizione» e «trasgressione» nella Napoli degli anni Venti del Settecento, a cura di M. VALENTE, Roma, Aracne, 2001; Il melodramma di Pietro Metastasio, la poesia, la musica, la messinscena e l’opera italiana nel Settecento, a cura di E. Sala Di Felice e R. Caira Lumetti, Roma, Aracne, 2001, pp. 441-453; M. Valente, L’inafferrabile felicità e il senso del tragico. L’“Olimpiade”, Metastasio e Cimarosa, Roma, Artemide, 2001; Metastasio nell’Ottocento, a cura di F.P. RUSSO, Roma, Aracne, 2003; La tradizione classica nelle arti del XVIII secolo e la fortuna di Metastasio a Vienna, a cura di M. VALENTE e E. KANDUTH, Roma, Artemide, 2003. Per un bellissimo ragguaglio della tradizione critica su Metastasio: E. Sala Di Felice, Sogni e favole in sen del vero. Metastasio ritrovato, Roma, Aracne, 2008.

[62] Il primo volume dell’Edizione nazionale delle opere di Carlo Gozzi è stato pubblicato nel 2011. Sulla querelle cfr. P. Vescovo, La filologia della suocera. Sull’edizione di Carlo Gozzi e di altri testi teatrali, in «Rivista di letteratura teatrale», 2015, 8, pp. 87-96 e A. Scannapieco, Risposta d’obbligo a una suocera immaginaria (sull’edizione di Carlo Gozzi e di altri testi teatrali), in https://www.academia.edu (data di pubblicazione sul web: maggio 2016).

[63] Cfr. L. Pirandello, Maschere nude, a cura di A. D’AMICO, Milano, Mondadori, 1986-2007, 4 voll. (dal III volume [2004] con la collaborazione di Alessandro Tinterri; il IV volume [2007] registra una sezione dedicata alle opere in dialetto, a cura di Alberto Varvaro), cui si aggiungano: Tutti i romanzi (1973, a cura di Giovanni Macchia, 2 voll.); Novelle per un anno (1985, a cura di Mario Costanzo, 3 voll.); Saggi e interventi (2006, a cura di Ferdinando Taviani); Lettere a Marta Abba (1993, a cura di Benito Ortolani).

[64] Si vedano E. De Filippo, Teatro. Cantata dei giorni pari, edizione critica e commentata a cura di N. De Blasi e P. Quarenghi, Milano, Mondadori, 2000; Teatro. Cantata dei giorni dispari, edizione critica e commentata a cura di ID., Milano, Mondadori, 2005-2007, 2 voll.

[65] Per uno sguardo di insieme cfr. http://www.goethehaus-frankfurt.de. Colgo l’occasione per ringraziare il personale della Hofmannsthal-Gesellschaft per i suggerimenti e la consulenza fornitimi.

[66] Cfr. J. Behrens-W. Frühwald-D. Lüders, Zum Stand der Arbeiten an der Frankfurter Brentano Ausgabe, in «Jahrbuch des Freien Deutschen Hochstifts», 1969, pp. 398-426; W. Frühwald, Frankfurter Brentano Ausgabe, in «Jahrbuch für internationale Germanistik», I, 1969, 2, pp. 70-80, nonché http://www.goethehaus-frankfurt.de. Per un prospetto cfr. anche H.A. Koch, Hugo von Hofmannsthal, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1989, in partic. le pp. 7-13; C. Köttelwelsch, Hugo von Hofmannsthal. Sämtliche Werke. Kritische Ausgabe (Arbeitsbericht), in «Hofmannsthal-Forschungen», 1985, 8, pp. 315-323. Gli Editionsprinzipien corredano d’altronde i volumi dei Sämtliche Werke.

[67] A. Varvaro, Prima lezione di filologia, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 38.

[68] D. Lüders, Die kritische Ausgabe Sämtlicher Werke Hugo von Hofmannsthals, in «Jahrbuch für internationale Germanistik», I, 1969, 1, pp. 169-178. Cfr. anche M. Stern, Die Hugo von Hofmannsthal-Gesellschaft, in «Jahrbuch für internationale Germanistik», I, anno, 2, pp. 93-98.

[69] Per queste ultime riflessioni fonte di ispirazione è il bel saggio di A. Scannapieco, Sulla filologia dei testi teatrali, in «Ecdotica», 2014, 11, pp. 26-55. Le citazioni sono rispettivamente alle pp. 30 e 55.

[70] Cfr. Varvaro, Prima lezione di filologia, cit., p. 36.

[71] Pieri, Introduzione, cit., p. XLIV.



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