Si anticipa qui la pubblicazione di un contributo che apparirà nel volume miscellaneo Filologia Teatro Spettacolo, in preparazione a cura di Francesco Cotticelli e Roberto Puggioni. Strano destino critico, quello della Commedia dellArte. La difficoltà di definire caratteri ed estensioni del fenomeno, nello spazio e nel tempo, districandosi fra le concrete tracce della storia e le immagini mitografiche che ad esse si sono sovrapposte, lha proiettata fra i temi più appassionanti e dibattuti dello spettacolo dOccidente, consentendole di prestarsi a riaccensioni di sguardi romantici e trasognati, a vagheggiamenti di una teatralità assoluta tradita e vilipesa dallentertainment borghese, a campo di escursione per ricostruzioni erudite su uomini, centri, compagnie, a pretesto di revisioni metodologiche, ad aperture di nuovi cantieri (liconografia in primis),senza perder nulla di quella indeterminatezza così enigmatica e suggestiva. A partire dalle “riletture” di Maurice Sand e dalle ricognizioni positivistiche di Armand Baschet sulle presenze dei comici alla corte di Francia, giù per le avanguardie russe di primo Novecento, la monografia di Mario Apollonio, il breve, ma fulminante contributo critico di Benedetto Croce, fino a Bragaglia e a Pandolfi, è un fluire ininterrotto di interesse, curiosità, unindagine che mira a riappropriarsi (talora anche forzando il senso della distanza cronologica e culturale) di unesperienza che appare per più versi una rifondazione del teatro in età moderna. Che essa abbia a suo modo tenuto a battesimo anche la nascente teatrologia accademica tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento non sorprende affatto: non soltanto lasciava affiorare contaminazioni feconde con alcune delle questioni più complesse dellimmaginario (basterebbe pensare al cult play del Burlador e alla magistrale lezione di Giovanni Macchia), ma si prestava egregiamente a discutere dei confini fra letteratura e scena, fra retorica della parola e dellactio, in unepoca in cui la contrapposizione serviva anche a ribadire steccati disciplinari e ambiti di investigazione. Proprio quella dimensione creativa, dove lattore assumeva su di sé in maniera perentoria e misteriosa la responsabilità dellevento e il ricorso alloralità come tecnica di trasmissione del sapere e del mestiere contendeva spazi e prestigio alla scrittura, pareva offrirsi quale oggetto di studio privilegiato e simbolicamente denso, riflettendo al meglio le istanze di una disciplina in cerca di emancipazione e visibilità, desiderosa di uscire da uno stato di minorità avvertito come minaccia e pregiudizio. Sintomatiche di quella breve, ma intensa stagione restano da un lato le complessive re-interpretazioni scientifiche, dallaltro le felici riproposte di testi canonici in edizione critica moderna, cui si affiancano significative iniziative antologiche non di rado partecipi dei meriti e delle coraggiose prospettive di indagine che affioravano negli altri due filoni. Con estensioni e ritorni che scandirono laffinarsi di un metodo o lirruenza di un dibattito mai sopito: tra le monografie di Tessari del 1969 e del 1981 il focus si sposta decisamente dalla contestualizzazione di una forma teatrale nella sua humus barocca alle ascendenze socio-antropologiche che gravarono sulla sua esistenza e sul suo sviluppo. La fascinazione è figura – per usare categorie medioevali – del segreto su cui Taviani (e con lui Mirella Schino) avrebbe provato a far luce anni dopo, non senza interrogarsi su La Supplica di Barbieri, fra i capolavori di quelle memorie autoapologetiche così piane ed enigmatiche. La pubblicazione, a cura di Ferruccio Marotti, del Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (preceduta dai Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche di Leone de Sommi) illustrava un esperimento singolare nella cultura seicentesca, cogliendone tanto il dialogo sottile con il sistema letterario coevo quanto la carica alternativa, se non eversiva, dellautonobilitazione promossa dallattore di lungo corso; ritardava invece quel tributo alla “professione” che avrebbe dovuto costituire, nellintenzione degli studiosi, lideale complemento alla “fascinazione”, guardando nel recinto della scena e non intercettando lo sguardo dei contemporanei. Non meno rilevante era il contributo di Cesare Molinari, curatore delle opere di un altro protagonista della fase gloriosa del professionismo teatrale, Pier Maria Cecchini, nonché autore di studi di sintesi che avrebbero aperto frontiere iconografiche e contestuali di estremo interesse. Altro proficuo itinerario sarebbe stato quello intrapreso qualche anno dopo da Siro Ferrone che, dopo lallestimento di un corpus di commedie di comici emblematiche di un gusto compositivo e di una strategia consuntiva, secondo unespressione che da quel momento in poi avrebbe indelebilmente segnato lanalisi drammaturgica, e la ristampa dellopus di Pandolfi corredato di indici, avrebbe ridisegnato la costellazione del professionismo teatrale mostrandone tipologie e confini in Attori mercanti corsari, provando in fondo a restituire alla scena militante fatta di viaggi, transazioni, sfide ideologiche e prosaiche di mestieranti talentuosi la centralità che le spettava di diritto. Correva lanno 1993, e lapparizione di un altro monumento quale ledizione delle corrispondenze dei comici dellArte, diretta dallo stesso Ferrone, chiudeva idealmente quel denso revival, consegnandolo alla storia – e a ritmi più pacati e diradati di osservazione. Che si trattasse di una fase delicata di bilanci, o del coronamento-commiato da un collettivo studio matto e disparatissimo lo si evince anche dalle parole dei protagonisti, che avvertono il bisogno di una lettura retrospettiva, non solo per dar conto di un iter di ricerca, ma quasi a marcare il profondo mutamento fra la gestazione di un progetto e la sua effettiva realizzazione. Nel 1991, congedando per le stampe il volume dedicato alla “professione” concepito una ventina di anni prima, in una fitta nota Marotti si dedica a un excursus biografico che ben illumina un periodo di febbrile attività legato alle allora “magnifiche sorti e progressive” di una nuova disciplina: Dal 1963 al 1968 ho diretto per il Saggiatore di Alberto Mondadori, insieme con Sandro dAmico, una grande impresa editoriale, una raccolta di “Fonti e documenti per la storia del teatro italiano” in venti volumi, che nellincoscienza delle nostre intenzioni sarebbe dovuta divenire […] il Source book, il neomuratoriano “Rerum Teatralium Scriptores”, lopera su cui confrontarsi direttamente con i documenti, al di là delle letture troppo spesso insufficienti della storiografia accreditata. La compiuta articolazione della serie in «teorie e tecniche dello spettacolo», «scritti di poetica e polemiche», «documenti sulla vita teatrale» si scontrò ben presto con difficoltà legali ed economiche, tali da raffreddare, fino a smorzare del tutto, linteresse (e linvestimento) della casa editrice. Il tentativo di salvaguardare limpresa, sottoponendo il materiale a Einaudi, non sortì effetti migliori. Qualcosa era rimasto, tuttavia, ed era riuscito a incidere sui destini di una nuova teatrologia, pur senza collocarsi in un piano editoriale di ampio respiro; di sicuro, si era materializzato lo spirito dialettico e associativo di unavventura che aveva costituito le basi di un sodalizio umano e professionale: Lintenso lavoro di collaborazione di quegli anni dava frutti significativi per gli studi teatrali italiani, nellipotesi di affermare una “nuova storia” del teatro, dal mio Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche di Leone de Sommi a La fascinazione del teatro e La supplica di Nicolò Barbieri curate da Taviani, da Il teatro del Campidoglio e le feste romane del 1513, Milano, 1968, di Fabrizio Cruciani a Commedia e festa nel Rinascimento. La “Calandria” alla corte di Urbino, Bologna, 1986, di Franco Ruffini. Non sono pagine nostalgiche, anche se qua e là affiora la percezione di unepoca irrimediabilmente passata; piuttosto, sono il tentativo di contestualizzare in quella temperie lontana il lavoro che si produce, quasi a voler attenuare la differenza fra un cantiere immaginato a ridosso di un campo ancora largamente da esplorare e un risultato che aveva dovuto misurarsi con uno scenario dai contorni modificati, giustificando uno scarto, un eccesso, una ridondanza. Una storia teatrale che a tratti è già storia della storiografia teatrale. Sulla stessa lunghezza donda, ma con accenti dissimili per contenuti e aspirazioni, è il resoconto con cui Ferrone apre la sua Introduzione alle Corrispondenze: Prima di tutto volevo raccogliere e pubblicare in edizione commentata i carteggi sparsi degli attori più importanti vissuti fra Cinque e Seicento; nel frattempo, insieme agli studenti, nellambito dei seminari universitari, avevo avviato una catalogazione analitica delle fonti iconografiche; intanto con Ludovico Zorzi organizzavamo il piano di lavoro per la trascrizione dei canovacci dei secoli XVII e XVIII. Questo libro chiude con soddisfazione almeno uno dei tre cantieri aperti. E costituisce anche una prima risposta alle esigenze storiografiche che avevano determinato lavvio della ricerca. Carteggi, testimonianze iconografiche, raccolte di canovacci: anche per Zorzi e la scuola fiorentina lattenzione alle fonti era stata imprescindibile per qualsiasi orientamento non solo nellindagine sugli albori del teatro professionistico, ma per ogni storia del teatro tout court. Ma qui non vè incoscienza, né dissociazione temporale, né velato rammarico: solo il ricordo di cantieri aperti che non si sono chiusi, non si sono potuti chiudere, o forse dovevano rimanere aperti. Perché in fondo quella era la loro natura. La loro felice condanna. *** In realtà, lo stesso Zorzi aveva avuto occasione di relazionare su uno dei cantieri, la ricerca di gruppo imperniata sulla «trascrizione della parte più consistente del corpus degli scenari italiani», nel suo intervento al convegno di Pontedera del 1976 sulla Commedia dellArte alle origini della scena moderna. A rileggerlo oggi, quel testo contiene un atto di fede per una scienza del teatro vasta e poliedrica, potenzialmente immune dallaria asfittica di tanti settori degli studi umanistici, curiosa e sanamente ribelle (erano ancora lontani quei processi di omologazione da cui essa parrebbe incapace di riprendersi); più specificamente, guarda alla Commedia dellArte come a una «terra vergine, […] una serie di fenomeni, molto spesso così diversi da apparire in contraddizione tra loro», sì che la definizione resiste «con allegra mistificazione ma per necessità di semantica spicciola». Lesperienza durevole del seminario condotto con gli allievi dellateneo fiorentino e lassiduo contatto con i materiali che via via andavano accumulandosi e prendendo forma sotto i suoi occhi costituirono una sorta di magnifica ossessione, pronta a trapelare nei vari saggi e articoli che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta lo studioso ebbe modo di pubblicare. Suo fu il rilancio dellintuizione crociana di unArte identificabile con lascesa e il trionfo di un professionismo le cui tecniche «tendono a investire e a informare di sé ogni altro genere del teatro loro contemporaneo»; sua la contemplazione di lunga durata, fino al cuore del repertorio goldoniano e gozziano del XVIII secolo, o, se si preferisce, lattenzione per quella “persistenza” che avrebbe marchiato a fuoco la scena italiana decretandone unidentità peculiare, tacciata talora di ritardo o anomalia. La forma-canovaccio si definiva non soltanto come oggetto privilegiato di analisi, ma come osservatorio di quelle strutture narrative minimali entro le quali circoscrivere il serbatoio di trame europee almeno fino alla stagione romantica. Una prima digressione. Era lannuncio di una rivoluzione. Se tra fine Ottocento e i primi del Novecento la scoperta delle principali raccolte aveva consentito di misurare lestensione temporale e geografica del fenomeno alimentando il mito di una creatività indomita e assoluta, ben presto si era imposta una tacita, rassegnata indifferenza. Il sensazionale giacimento di scenari era letto metaforicamente nei termini di una dissoluzione irreversibile: la cenere, lo scheletro erano tra le immagini più ricorrenti di uno sfavillio retorico e attoriale che le istruzioni secche e recise per addetti ai lavori affidate alla pagina senza alcun orpello non avrebbero mai e poi mai permesso di ricostruire. Al di là di una doverosa menzione catalografica su questi testi era calato il silenzio. Ispirato dalle ragioni del formalismo come dalla ricognizione pratica di quelle risorse artigianali che avevano consentito il fiorire dei mestieri della scena entro e oltre i dibattiti ideologici, Zorzi aveva intuito il potenziale conoscitivo di quelle scritture, invocando non a caso i metodi «della filologia testuale e documentaria» per esplorare i nessi fra quella multiforme avventura di spettacolo e tutto il teatro professionistico delletà moderna. Non sorprende pertanto che alla forma-canovaccio si attribuisca il valore di cifra simbolica di un universo del rappresentare, la «differenza fondamentale»: alla “scrittura” del testo letterario, il comico sostituisce la “metascrittura” di un ipotesto, ciò che correntemente indichiamo come lo scenario o il canovaccio. Che cosè, nella fattispecie, il canovaccio? Il canovaccio è, in sostanza, una descrizione progressiva dellazione scenica, attuata mediante uno speciale tipo di scrittura (metascrittura, appunto), che prescinde dalla redazione di un dialogo da assegnare ai vari personaggi e da mandare a memoria da parte degli interpreti. Linterpretazione di questa metascrittura presenta per un normale lettore qualche difficoltà; occorre uno specialismo minimale, una certa familiarità con le leggi dello spettacolo. Il cantiere di Zorzi si era lasciato alle spalle in via preliminare il pregiudizio idealistico della scelta tra poesia e non poesia, presto ribadendo che solo unanalisi strutturale e funzionale avrebbe dato senso e fondamento alla ricerca entrando nellofficina del comico e nei meccanismi della concertazione. A questo si ricollega il principio di elaborare «apparati critici di vario ordine», con attenzione alle concordanze, agli indici dei personaggi (indizio prezioso dellappartenenza, o del sigillo, di specifiche troupes), agli oggetti, le “robbe”, il vestiario, strumenti di ogni genere essenziali alla messinscena e spesso dotati di una forte carica simbolica e identitaria (si pensi solo al «trabucco» o al «canale di castagno per il Convitato di pietra»): un modo documentariamente attendibile di entrare nei livelli di gusto, di organizzazione tecnica e di sapienza di un mondo assai segreto. Il quadro propositivo che emerge nel testo redatto per gli atti di Pontedera – apparso alle stampe solo nel 1980 – resta per brevissimo tempo un unicum in termini di fiducia e speranza, sul piano scientifico e divulgativo, verso questa foresta vergine rimasta a lungo ai margini di qualsiasi affondo, di qualsiasi perlustrazione sistematica. Sia muovendosi a ritroso per una disamina dei caratteri originali del fenomeno Arte, in un contributo del 1978, sia ragionando dei suoi esiti maturi al cospetto delle scelte drammaturgiche goldoniane in un volume del 1982 di atti di un convegno del 1980, Zorzi non manca di tornare a far riferimento a quel poderoso cantiere, ma con accenti sensibilmente mutati. Nulla si nega della sua monumentalità, nelle intenzioni come nei risultati, ma la ricaduta di unauspicata edizione moderna appare decisamente più modesta, quando non addirittura irrilevante. Il brano cui egli affida le sue riflessioni a posteriori si ripropone pressoché identico in entrambi i saggi (spia se non altro di un momentaneo vivo convincimento) e risulta proprio per la sua calibrata tessitura lessicale lapidario nelle sue conclusioni: Vorrei segnalare in proposito un altro dato emergente, dal quale, per merito di un volenteroso gruppo di allievi, ritengo di essere a parte in via certificata e diretta. Grazie a un certo numero di tesi assegnate negli scorsi anni, e consistenti nella trascrizione e nella classificazione delle principali raccolte manoscritte di canovacci (tutte posteriori a quelle dello Scala, ovvero situabili tra il 1620 e il 1740 circa), credo di essere uno dei pochi se non lunico ricognitore di questi “oggetti” ad avere avuto la fortuna (e la pazienza) di leggere per intero questo vasto e mitico corpus di testimonianze originali, per la stragrande maggioranza inedite e in ogni caso ben poco studiate. Ebbene, a lettura compiuta (si tratta di circa ottocento soggetti), credo di poter concludere con pressoché assoluta certezza che tutte le maggiori raccolte pubbliche (dalle due Casanatensi alla Corsiniana, dallo zibaldone Casamarciano-Croce alla Selva del padre Placido Adriani, che tocca la metà del Settecento; con leccezione del già ricordato Flaminio Scala e dello zibaldone del Museo Correr di Venezia, che ne costituisce una parziale rielaborazione seriore); ebbene, tutte le maggiori raccolte note trasmettono lopera non di attori professionisti, ma di mediocri letterati, che trascrissero per commissione o per ozio delle “imitazioni” dei soggetti che essi vedevano rappresentati sulle scene. Siamo dunque di fronte a un risultato di pigro e completo manierismo, che, se non delude sul piano delle informazioni tecniche di riporto (metascrittura, personaggi fissi, elenco dei lazzi e delle “robbe”), rende ancora più evanescente e lontana la mèta a cui tendere, ossia la restituzione filologica degli scenari nella loro veste originale. A parte, ripeto, la raccolta dello Scala, perché trasmessa fino a noi da una stampa, e pochi e dispersi scenari singoli, per il resto dobbiamo ancora una volta fare i conti con la letteratura, e per di più con una cattiva letteratura. Ecco dunque unaltra, e sostanzialmente inattesa difficoltà che si frappone a una conoscenza diretta e non apografica del fenomeno. Una seconda digressione. A volte sono i percorsi biografici a dare compiutezza a immagini e pensieri che, per quanto nitidi e ben strutturati, rappresentano pur sempre impressioni di viaggio, come il ritratto di un uomo in una delle sue età non documenta le altre e nella migliore delle ipotesi può solo evocarle. È mancato il tempo di ulteriori ritorni, e di approcci dialettici come quello che qualche anno prima aveva provato a descrivere innanzitutto la funzionalità di letture complessive e di accurate sinossi. Ma la serietà e la tenacia dello studioso a questa altezza cronologica, comunque non lontana dalle iniziali professioni di “entusiasmo”, non nascondono la disillusione, come a sottolineare che occorre cercare altrove, volgere altrove lo sguardo. Il dato disorientante è che a mo di ideale cornice di questa palinodia compare sempre il richiamo alla metascrittura dellipotesto: senza soluzione di continuità lo specialismo minimale e la familiarità con le leggi delle spettacolo, giustamente invocati come chiave di accesso alloggetto canovaccio, convivono con la sferzante valutazione di una cattiva letteratura. Se queste scritture si collocano al di qua di una qualsiasi connotazione estetica, appaiono quanto meno sospetti il «pigro e completo manierismo» e la mediocrità di cui si tacciano queste progressive descrizioni dellazione scenica, quasi a pretendere da testi di natura referenziale, per di più caricati di uno spessore esoterico, la rispondenza a una spiccata funzione poetica. Più inquietante forse è la dichiarazione di una «conoscenza diretta e non apografica del fenomeno»: in primis, perché soprattutto nella storia del teatro non esiste fonte diretta; quindi, perché non si capisce come mai il filtro, la mediazione in un processo di intenzionale fissazione su pagina di un evento di spettacolo perda con esso ogni contatto fino a deformarne qualsiasi ipotesi ricostruttiva. Né sarebbe da trascurare che, prescindendo da esempi illustri della ricerca – relazioni festive, lettere di ambasciatori, carte notarili, ad esempio – unintera branca della storiografia dello spettacolo quale liconografia teatrale è di natura apografica per definizione, e non per questo smette di illuminare fasi salienti del passato e del presente. Ma qui non vale rilevare queste dissonanze: occorre piuttosto cogliere il sovrapporsi di un habitus critico a un altro in un lasso di tempo veramente fulmineo, lapertura di credito a una pratica della scena che richiede strumenti danalisi iuxta propria principia e lapplicazione di principi canonici desunti da altre discipline. Il primo elemento di disappunto va còlto proprio nella collocazione degli scenari così come adesso li leggiamo a ridosso della loro esecuzione materiale. Non siamo di fronte a prefigurazioni dello spettacolo, ma a “trascrizioni”. Per commissione o per ozio. Non piani di lavoro, ma tracce della memoria, cose descriptae. È una scoperta geniale, ma sprecata, se questo spostarsi della scrittura ad un passaggio seriore del processo creativo recasse con sé solo aspettative di maggiore letterarietà, dal momento che non si tratta di innescare il ludus retorico degli attori, ma di darne testimonianza. Invece, trascrivere è lessenza del comico di professione, lanello di congiunzione fra oralità e scrittura, fra segmenti di elaborazione del ruolo, dove il dato consuntivo assume valenza precettiva in future occasioni, per sé e per gli altri. Prima che tutto questo cominciasse a delinearsi nella sensibilità contemporanea, si imponeva e si impone il paradosso per cui è perdonabile una mediocrità che si sostituisce e assorbe un testo drammatico compiuto lasciando che da essa si sprigioni la scintilla dellArte, non quella che si attesta su un livello di funzionalità mnemonica, allombra del genio interpretativo e senza interferire (o provando a interferire secondo modalità da scoprire di volta in volta) con le luci della recitazione. Gli scenari sono testimonianze originali, ma non tanto dellidea di spettacolo cui si riferiscono, quanto delle istanze della memoria e della professione che vi si riflettono, quasi sempre di difficilissima decifrazione. E sempre al di qua di una loro riproduzione a stampa – come molti dei materiali duso della scena di Antico Regime – perché mai finiti. Imperfetti. Transeunti e labili, pronti a riadattarsi a chi ne vorrà fare uso. Quasi sempre per tradirli, o conferire a essi unimpronta nuova, che darà origine ad altre varianti. Il metodo filologico e documentario si scontra con lintuizione di nuovi orizzonti, mentre fra lattore-che-recita e il letterato-che-scrive sembra non sussistere alcuna possibilità di mediazione. Qui si insinua unaspirazione progettuale problematica e spiazzante, una mèta a cui tendere divenuta – a uno sguardo ravvicinato – ancora più evanescente e lontana; forse, anche il tributo più improvvido a un iter consueto ma in fondo disadatto. Restituire gli scenari nella loro veste originale presuppone due fattori: che le raccolte manoscritte siano da considerarsi come testimoni di una tradizione fortemente contaminata, ma pur sempre unitaria (il che è vero, ma non nel senso della trasmissione orizzontale-verticale di un opus unico, ma di una straordinaria diffrazione geostorica di trame); che effettivamente possa darsi una veste originale, al di là delle inevitabili compromissioni di quegli appunti con le esigenze concrete del palcoscenico. Tuttal più un Urtext sarebbe un primo affiorare alla storia documentaria di un plot di cui andrebbero ricercate ascendenze remote (si pensi al discorso sulle maschere: Arlecchino e Pulcinella docent), ma mai come in questo caso la domanda “ci fu sempre un archetipo?” ha senso. Anche la pervicace assenza di una trasmissione a stampa è questione su cui riflettere: per la scena detà moderna fissare le mobili parvenze – per usare lespressione di Mario Apollonio – non equivale quasi mai a preferire la fissazione alla mobilità ed è operazione strumentale al gioco trasformistico che un repertorio labile e intricato mette in moto per la sua stessa sopravvivenza. Interi settori dellesperienza performativa del XVII e XVIII secolo vivono di una mutevolezza e di una trasmissibilità antica, che si offre quasi naturalmente allappunto, alla riscrittura o modifica: nel mondo dellArte la stampa è loltranza, un malinteso punto di non ritorno. Un diaframma sottilissimo separa la desolata confessione zorziana dallacquisizione di una diversa visione, per altro suggerita proprio da quelle informazioni tecniche di riporto che, nella loro varietà lussureggiante, evocano la basilare indifferenza del comico dantan per ogni rigorosa falsariga operativa, secondo il principio che linventio è comunque re-inventio, se non altro nella prassi performativa: ovvero, che la mèta non sia il percorso a ritroso fino alle oscure origini di ciascuna storia (daltronde, si assiste nelle raccolte a una proliferazione di variazioni sul tema, ed è giusta losservazione per cui sono relativamente poche le strutture fondamentali del racconto teatrale), ma lattraversamento di quelle esili documentazioni di spettacolo valorizzando proprio la metamorfosi, ladattamento, lequilibrio fra i dati della tradizione e il tentativo di spiazzare lo spettatore. Si rimane al di qua di un panorama che si intuisce, e che sembra sprigionarsi appieno nella drammaturgia settecentesca che più direttamente si misura con i fantasmi del passato (e del presente). Il sospetto è che laudacia della nuova teatrologia avesse i suoi comprensibili limiti: da un lato, indulgere alliconoclastia o a qualsiasi soggezione alle seduzioni del testo come asse portante nella storia; dallaltro esibire il possesso di salde e affidabili metodologie investigative, correndo il rischio che laccreditamento presso la comunità scientifica e il pubblico interessato passasse per qualche generoso ipercorrettismo. Come questo: raccogliere ed elaborare dati preziosi da fonti ingiustamente neglette o tuttal più affrontate con discutibili opzioni antologiche, postulando una sorta di stemma codicum e di approdo allunivocità di una forma testuale per via di collazione (e di sottrazione), di fronte allesplosione incontrollata di una materia straordinariamente viva. Fu unimpasse, e – di lì a qualche anno – più atroce e improvviso fu il silenzio che trasfigurò gli appunti di una lettura appassionata in un giudizio senza appello. Eppure il corto circuito fra filologia e spettacolo maturato in unesperienza collettiva era destinato a sprigionare nuove energie. Trasformò la constatazione di un apparente punto debole, la descriptio senza fantasia di un evento scenico, nel punto di forza di un ripensamento della scrittura teatrale meno irriverente di quanto non fossero le imperanti tensioni semiotiche dellepoca, ma capace di misurare la distanza fra il libro e il palcoscenico per recuperare in quel margine le ragioni di un contesto. Indusse a considerare il rapporto mai facile fra i tempi della redazione di un testo e i tempi dello spettacolo, cominciando a interrogarsi sulle infinite sovrapposizioni che si determinano nella convulsa vita di teatri e compagnie, o anche nella ricerca di visibilità di tanti artisti e intellettuali. La scoperta di una tensione dialettica fra elaborazione preventiva e consuntiva avrebbe avuto origine non a caso dallanalisi di quei materiali dellArte dove pratica, memoria, progetto creativo e mercantile si sono intrecciati indissolubilmente nella lunga durata della scena “allitaliana”. Spinse a riflettere sullefficacia di un metodo rappresentativo, dilatando i confini dellimprovvisazione fino a rintracciare nelle forme premeditate coeve o successive al momento aureo dellArte i segni di una prassi di marca attoriale in grado di intessere un dialogo sotterraneo ma necessario con lespressività dellauctor (ma, in fondo, di questo si era reso testimone lo stesso Zorzi, laddove aveva incastonato le sue incursioni nel territorio secentesco dellArte fra le benemerite perlustrazioni ruzantiane e cinquecentesche in generale e le indagini sul Settecento pregoldoniano, goldoniano e gozziano, insistendo appunto sul concetto di “persistenza”). Lontano da quellimpostazione volutamente centripeta, le raccolte tornarono a essere quel che erano sempre state, membra disiecta senza nessun corpus, ed era proprio nellautonomia di ciascuno di quei relitti di un imponente naufragio che andava cercato il senso di un mestiere e del suo diritto di esistere. Lerrore congiuntivo di Zorzi era, forse, un segno dei tempi: dover ragionare insieme degli oggetti e della loro dignità (e verrebbe da chiedersi quanto gli studi teatrali riescano ancora a sottrarsi a questo vortice incontrollato di affondi e autogiustificazioni), sperando che quella dignità derivi non dallapplicazione di metodi e problemi agli oggetti, ma dallassimilazione di questi ad altri già accreditati, smarrendosi in raffronti impossibili. Ma era – e rimane – uno spartiacque salutare: rompeva una tradizione di approcci “negativi” e di scarsa incisività e – dinanzi alla frantumazione di qualsiasi ipotesi stemmatica – apriva la strada a due fondamentali strategie di ricerca: da un lato, inquadrare ciascuno zibaldone in un preciso momento e in una precisa area culturale, come testimonianza di una vita dello spettacolo largamente connotata in senso geostorico; dallaltro, esaltare il valore antologico leggendo nel singolo canovaccio la tappa di un percorso metamorfico entro cui si annida molto delle tensioni sceniche detà moderna. In effetti, per il primo caso, non era mancata attenzione alla scansione diacronica delle raccolte. Emergevano – anche a uno sguardo appena approfondito – divergenze sostanziali di impostazione e di finalità comunicative che avrebbero reso impervio qualsiasi utilizzo delle singole testimonianze prescindendo dalla loro collocazione nellinsieme e dal loro situarsi in uno spazio, in un tempo, talora in una pratica professionale o dilettantesca esemplare e particolare. Se la stessa destinazione a stampa del Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala costituisce un dialogo neppure tanto sottinteso con gli schemi della novellistica, con la memoria di una militanza pionieristica e con il progetto di nobilitare una scrittura tipicamente teatrale nel panorama coevo e con i suoi principali interpreti e fruitori, i repertori della prima generazione di comici «nel loro insieme rappresentano la memoria consuntiva di decenni di spettacoli durante i quali si era maturato un ventaglio di topoi drammaturgici ricavati da modelli letterari e tradotti in “scalette” per la rappresentazione allimpronto». Lo Zibaldone di Stefanello Bottarga, con i materiali tradotti fisicamente dallItalia alla Spagna nel viaggio della troupe, è un crogiuolo dove si sedimentano fonti comiche, tragiche e pastorali adattate agli usi di una compagine specifica e a un problematico orizzonte dattesa; la Raccolta di scenari più scelti della Biblioteca corsiniana e la Scena di Basilio Locatelli, nella loro interconnessione, riflettono le differenti soluzioni stilistico-verbali ispirate da contesti professionistici o dichiaratamente dilettanteschi in un territorio circoscritto. Più vicini alle istanze di un “mestiere” socialmente sempre difficile, ma collaudato nei suoi ingranaggi, i manoscritti più tardi, talora contraddistinti da uno stretto legame con lambiente produttivo (gli scenari per lantico San Cassiano di Venezia), o dagli influssi di culture dominanti, come gli zibaldoni di soggetti «alcuni proprij, et altri da diversi raccolti» del Conte di Casamarciano Annibale Sersale nella Napoli di tardo Seicento, in cui, accanto a plots di tradizione, massiccia è la presenza di trame desunte dal serbatoio del siglo de oro, segnale di unosmosi ineludibile nel Viceregno spagnolo. Questultima silloge, nel suo carattere monumentale (contiene centottantatré canovacci, annoverando spesso variazioni su tema e perlustrando tutto limmaginario drammaturgico coevo, senza alcuna spiccata sensibilità antologica), sembra quella più pervasa dal pericolo che uninventiva plurisecolare possa dissolversi nelliterazione e nel cliché e dallossessione di lasciar traccia di un metodo compositivo destinato a tramontare con lomologazione del comico-rhetor, invenzione della generazione aurea, ad attore-tecnico. È il quadro che si delinea, attraverso luci e ombre, in quella Selva di Placido Adriani nel cuore del Settecento, in un momento in cui recitare allimpronto è esercizio ordinario, ma ormai lontano dalla carica eversiva che aveva avuto nella stagione tardo-rinascimentale e barocca. Tuttaltra storia, chiaramente, quella della Traduction du scenario di Dominique Biancolelli, testimonianza sui generis di un lavoro dellinterprete sul personaggio, su sé stesso e sul repertorio; quel che preme sottolineare è che, nel corso degli anni, alla tensione connettiva che aveva contraddistinto a lungo lapproccio a questi materiali (testimoni di unica postulati e irraggiungibili o elenchi senza soluzione di continuità) è subentrato uno sguardo sanamente frammentato, che ha restituito loro altra luce e altri significati in una storia ancor piena di ombre. Quel «progetto mai stato» (e il rimpianto che ne è seguito) necesse erat. Non meno rilevanti si sono rivelati i percorsi di studio che hanno estrapolato le singole tracce contenute nelle raccolte per inserirle in indagini comparatistiche ad ampio raggio, nellintento di ricostruire le modalità concrete della vita dello spettacolo tra Cinque e Settecento, gli itinerari di trame e professionisti in aree sempre sorprendentemente estese, i riflessi che gusti, pubblici, sensibilità diverse esercitarono su materiali meno inerti di quanto si possa sospettare, e mai disgiunti da una visione complessiva dello spettacolo. È un campo sterminato, quanto quello della ricostruzione di trame biografiche dove si intersecano avventura e mestiere: la duttilità di questi minimi documenti di teatro è tale da superare qualsiasi convenzionale frontiera di genere, di lingua, di ambito sociale. Mai sopito è linteresse per il successo planetario del Burlador, ma anche altri “soggetti” (su tutti il Basilisco del Bernagasso) denotano come molti siano stati i cult plays di una lunga stagione della scena occidentale e come la mera valutazione estetica dei relitti testuali possa risultare fuorviante per capire il clima e il dinamismo dello spettacolo nel continente europeo. Si tratta di un metamorfismo che investe anche la nascente tradizione melodrammatica, laddove affiorano con sempre maggiore evidenza continuità operative e concettuali con la scena improvvisa, né smette mai di rivelare dettagli sempre più interessanti in rapporto a variegate prospettive, come, ad esempio, i nessi con le pratiche accademiche, la diffusione e ladattamento delle storie del siglo de oro, e, ovviamente, con quel che la letteratura drammatica settecentesca recupera e assorbe sia pur in un quadro mutato. Rimane condizione fondamentale che gli scenari non siano relegati al rango di testimoni deteriores per le loro caratteristiche formali e siano invece aggrediti con strumenti di lettura adatti alla loro natura ibrida di echi della concertazione attoriale. Questa sembra, allora come oggi, la sfida: ed è questione di uso, e di pazienza. *** Altro grande cantiere che ha conosciuto assestamenti significativi nel primo decennio di vita è quello dellEdizione nazionale delle opere di Carlo Goldoni, partito a ridosso delle celebrazioni del bicentenario dalla morte del grande commediografo nel 1993. Daltronde, mettere a punto metodi e criteri di unimpresa filologico-editoriale gigantesca come questa non era facile: se relativamente chiari appaiono gli obiettivi – rinnovare la fruibilità di un classico ben oltre le benemerite collezioni novecentesche – è arduo prevedere in anticipo la miriade di risultanze collazionali nella copiosità della produzione e nella fitta intertestualità fra edizioni autoriali e spurie, generi e destinazioni duso, per elaborare processi operativi che garantiscano il massimo di unomogeneità peraltro impossibile. A suggello dellantologia goldoniana per i tipi di Einaudi nel 1991, Marzia Pieri aveva auspicato che si ricostruisse unattendibile edizione critica dei suoi testi […] partendo finalmente dal presupposto niente affatto paradossale che, come sempre alle prese con il teatro, bisogna contentarsi di avere non il testo, ma un testo, listantanea di una fase instabile che rinvia ad infinite possibilità di essere diverso: allindietro rispetto alla sua stratigrafia compositiva, ma anche in avanti verso i suoi sviluppi e le sue trasformazioni possibili. A fronte della costante autopromozione e autostoricizzazione messe in campo da Goldoni per oltre un cinquantennio sarebbe impensabile, nel clima di rinnovata sensibilità alle dinamiche dello spettacolo e dei suoi circuiti, approdare a un monumentum aere perennius, laddove il problema è proprio fissare con criteri attendibili unintrinseca instabilità. Ad altri autori del Settecento come Metastasio, pure oggetto di intensi approfondimenti critici nelloccasione del tricentenario dalla nascita, è toccata tuttaltra sorte: una dicotomia fra progetti cartacei e digitali, con la riproposta di una linea “antica” sul primo fronte e una finissima recensio ad uso di ulteriori indagini sullaltro; sul cantiere gozziano incide profondamente la complessa stratigrafia documentata dagli autografi reperiti, ma, a giudicare almeno da recenti (e forse pretestuose) querelles, se davvero loggetto del contendere è sul valore e sulle istanze di un approccio diplomatico e/o interpretativo, sembrerebbe profilarsi dietro le quinte – spettro orribile nella humanitas del XXI secolo – il problema della divulgazione, qui declinato nella conciliazione fra lirriducibilmente specialistico e il piano e maneggevole. Sul finire degli anni Novanta è stata Anna Scannapieco a provarsi a tracciare i confini fra scrittoio, scena, torchio nella galassia goldoniana, illuminando scarti e interferenze che si evolvono dietro molteplici spinte, nel tentativo di sistematizzare le acquisizioni delle primissime esperienze editoriali in vista di ulteriori approcci. Molto si è scritto intorno alla sostanza dellimpresa dellEdizione nazionale, che a tuttoggi costituisce, pur nella comprensibile disuguaglianza dei risultati e delle scelte operate dai curatori, un esempio cui guardare per la complessità dei temi sollevati in itinere, per la densità di un discorso che vanta già uno sviluppo diacronico rilevante e pertanto interagisce con motivazioni e finalità in costante aggiornamento, e – tratto non secondario – per le diverse idee di canone che affiorano dietro una sensibilità più spiccatamente letteraria nel confronto con analisi più attente ai meccanismi scenico-attoriali. Il lettore accorto dovrebbe sapere di trovarsi sempre di fronte a una proposta adeguatamente motivata, e a lui spetta il compito di percorrere allindietro e in avanti stratigrafia e sviluppi potenziali. Ambiziosa davvero è la facies, perché larticolazione dei volumi guarda al lettore doggi collocando il lavoro filologico in un progetto di riavvicinamento al grande classico, incastonando ciascun testo fra nota e commento, a loro volta inseriti fra unintroduzione e una nota sulla fortuna. È unimpostazione concentrica che offre pienezza di ragguagli sul piano scientifico e documentario e permette allo stesso tempo di rimanere ai bordi di un interesse più specialistico. Lo schema risponde indubbiamente allo spirito di una renaissance che ha posto in primo piano questioni di accessibilità dellopera e una decisa revisione di gerarchie trádite, ma tiene apertamente conto dellunanime riconoscimento dellauctor nel patrimonio culturale nazionale e internazionale. Pur nellovvio rispetto di criteri stabiliti nellambito di collane prestigiose, altri cantieri (si pensi al Pirandello e più ancora allEduardo dei Meridiani), movendosi nellimpervio territorio della contemporaneità, si confrontano sia con lestrema disseminazione dei materiali di base, sia con la necessità di avocare al profilo della scrittura e della premeditazione unattività duratura fra copioni, rimaneggiamenti, soluzioni frammentarie di cui è arduo, ma inevitabile contemplare il rilievo nel lavoro ecdotico, nella consapevolezza che la pagina effettua scelte “definitive” cui la scena si è sempre sottratta e continuerà a sottrarsi, riproponendo così sottilmente quellimproprio ma reale dissidio fra letteratura e teatro che accompagna la storia dellArte. Un raffronto forse non banale è quello che può stabilirsi con autorevoli (e ormai radicate nel tempo) esperienze doltralpe. Basterebbe por mente alla densità e alla complessità dei Sämtliche Werke di Hugo von Hofmannsthal, ledizione critica intrapresa dopo innumerevoli riflessioni e riassetti del cospicuo lascito documentario a partire dal dopoguerra fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Affidata al Freies Deutsches Hochstift di Francoforte, impegnato anche sul fronte analogo di Brentano che avrebbe costituito un ideale modello di riferimento, ledizione fu più volte modificata nella concezione, man mano che affiorava il mare magnum documentario sul quale navigare. Inizialmente si prevedeva unillustrazione completa di tutte le varianti, con uno sguardo a quanto era stato approntato per Hölderlin e in forma anche più raffinata, distinguendo fra varianti immediate e posteriori, varianti ponderate e fasi redazionali, mentre non mancava chi ammoniva sul pericolo dellelefantiasi di un sistema del genere, proponendo apparati più snelli e adattati alloggetto di analisi. Verrebbe fatto di pensare a quanto sostiene Michel Zink a proposito di alcune edizioni, secondo quel che commenta Alberto Varvaro nella sua Prima lezione di filologia: esse, quanto più sono raffinate, «tanto più si riduce il numero dei loro utenti, fino al limite paradossale di unedizione perfetta per la quale però non esiste più il lettore. Il filologo impegna anni e fatiche, nonché spese, per maturare un risultato al quale non è interessato nessun altro se non il suo recensore o il giudice del suo concorso». Nei primissimi volumi è possibile cogliere lirresolutezza fra i due metodi: nel corso degli anni si è imposta la procedura “semplificata”, che in realtà si è concentra nello stabilire ordini di priorità e di pregnanza storico-documentaria del dato variantistico, senza dettagliare tutto ma lasciando comunque aperta la possibilità di ripercorrere vicende editoriali normalmente intricate nella loro integrità. Vero è che qui si tratta di definire una struttura che non valga solo per testi teatrali ma sia funzionale a unesperienza di scrittura intensa e multiforme. Tuttavia la scansione fra testo presentato in apertura e apparato, consistente nelle sezioni Entstehung, Überlieferung, Varianten, Erläuterungen, con il ricchissimo capitolo delle Zeugnisse, le testimonianze e i riscontri coevi sullopera e sulla sua immediata circolazione che interferiscono con le sue rielaborazioni, si presta a infiniti percorsi di attraversamento ma ipotizza nel lettore capacità di orientamento e di discernimento critico non comuni. Il punto non è quello di privilegiare unottica iniziatica: è – mi sembra – quello di equiparare un risultato proposto con il vortice creativo che gli preesiste e gli sopravvive, in un progetto in cui ledizione assolve il suo compito di fissare un testo ma subito va oltre, lasciandone intuire la genesi, la scomposizione, i ripensamenti parziali o totali (che in Hofmannsthal si configurano talvolta come autonome Fassungen), una vita palpabile che, nel caso dei drammi, somiglia proprio allinafferrabilità della restituzione scenica. Paradossalmente, dove più ampie appaiono le concessioni a strumentazioni di marca letteraria, più forte in altre pagine traspare il teatro con i suoi orizzonti materiali e poetici; lapparente parcellizzazione non è concessione alla «filologia dellattimo fuggente», ma la struttura che dà conto tanto del «formarsi accidentato» dei testi, quanto di un“autorialità” che si mette costantemente in discussione al cospetto di rapporti personali, transazioni, fortune e ritorni creativi, in nome di una perfetta applicazione di riflessioni non aprioristiche sui materiali e sul loro valore testimoniale e – beninteso – nel rispetto di un salutare compromesso fra esigenze dellautore, testo e fruitore. In fondo, ledizione critica di un testo di spettacolo accetta implicitamente di ricomporre idealmente un bisogno di permanenza e una natura transeunte, enfatizzando luna o laltro anche nel modo in cui si allestisce fisicamente agli occhi del fruitore. Può farsi carico di organizzare e sistematizzare le fonti secondo parametri quantitativi o qualitativi, o accettare metodologicamente la loro dimensione non piramidale, se si guarda poi alle forme concrete con cui quel testo è entrato nello spazio e nel corpo vivo della scena. Lunica sua possibilità di resistere (e di essere monumentum) è – sempre secondo lauspicio di Marzia Pieri – nel talento con cui riesce a «imporre una buona volta ai libri […] lautorità e la verità del teatro».
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