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Maria Rita Simone

Il Teatro di massa del PCI: la regola e l’esperimento

Data di pubblicazione su web 04/07/2016
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1. Il Teatro di massa del PCI

Per teatro di massa si intendono i moderni spettacoli che hanno a protagoniste le masse. Quindi, in genere, spettacoli storici, rievocativi, celebrativi con intenti propagandistici, i quali per ovvie esigenze si svolgono all’aperto […], spesso nelle medesime località di cui si vuol celebrare la storia, e alla presenza di migliaia di spettatori.[1]

Così nel 1960 l’Enciclopedia dello spettacolo che prende come punti di riferimento le principali esperienze promosse in questo ambito dal teatro sovietico, tedesco, francese e inglese tra gli anni Venti e gli anni Trenta, con un breve accenno al contesto italiano e un altrettanto sintetico rimando all’Italia del secondo dopoguerra.[2] Quest’ultima fase, che vede protagonista il PCI, è presentata come punto di arrivo del lungo percorso di ricerca relativo al binomio teatro-massa che, dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, interessa le principali nazioni europee.

Nell’Italia del secondo dopoguerra la riflessione relativa al binomio teatro-masse popolari torna a essere oggetto di interesse soprattutto da parte del Partito Comunista. Questa attenzione è strettamente correlata alle vicende storiche che hanno coinvolto il popolo italiano tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta. Preceduto dall’esperienza delle «cronache parlate» e del «teatro di cronaca»,[3] che ricordano per certi aspetti il giornale vivente tedesco, il Teatro di massa del PCI si sviluppa con caratteristiche in gran parte originali in rapporto ai principali esempi europei che l’hanno preceduto. Se da un lato non è possibile stabilire con certezza quanto gli stimoli offerti dagli scritti e dalla prassi di registi e drammaturghi come Piscator e Rolland abbiano direttamente influenzato il progetto teatrale del PCI, dall’altro risulta impensabile non individuare dei punti di contatto in particolare con il modello delle grandi inscenirovki[4].

Rispetto a tale antecedente, la proposta italiana appare ridimensionata su più livelli: non vi sono migliaia di attori in scena (fatta eccezione per Domani è gioventù, spettacolo con più di quattromila attori),[5] né imponenti strutture scenografiche, né l’utilizzo di grandi mezzi come camion o navi. Tuttavia, su altri fronti, è possibile evidenziare dei collegamenti con il modello sovietico: sia quest’ultimo che il Teatro di massa del PCI nascono come strumenti di propaganda del partito. Un’ulteriore analogia riguarda l’organizzazione della massa di attori non professionisti suddivisa in gruppi gestiti da un capogruppo. Molto forte, inoltre, è, in entrambi i casi, il legame tra attori e spettatori, che scaturisce dal rapporto di identità tra massa di proletari-spettatori e massa di proletari-attori, tra vissuto e creazione artistica. Un esempio in tal senso è messo a fuoco da Alessio Bergamo che, analizzando i tre grandi spettacoli di massa russi Il mistero del lavoro liberato, La presa del Palazzo d’Inverno, Verso la comune mondiale,scrive:

In tutti e tre gli spettacoli attori e pubblico festeggiavano assieme il finale del dramma con un’apoteosi e insieme cantavano l’internazionale. Si noti bene: “festeggiavano il finale del dramma” come se esso avesse riguardato in egual misura, personaggi, attori e pubblico.[6]

Questo stretto legame tra attori e spettatori è rintracciabile anche nel Teatro di massa del PCI; Leonida Repaci, attraverso il commento allo spettacolo Sulla Via della libertà, ne offre un esempio:

Sentivamo fremere i nostri compagni accanto mentre guardavano Aldo, il famoso capo partigiano bolognese decorato in queste settimane della medaglia d’argento al valore, Aldo che ripeteva sulla scena i prodigi compiuti il 7 settembre del ’44 a Porta Lame […]. Sentivamo fremere i nostri compagni accanto, a tratti li vedevamo asciugare gli occhi con grosse dita, li vedevamo agitarsi sulla sedia quasi in procinto di scattare, di raggiungere il palcoscenico per mescolarsi ai loro compagni, e tutto questo ci diceva che era stata raggiunta una perfetta identificazione tra la vita e l’arte, tra la storia e l’arte, tra la storia di ognuno e la storia di tutti.[7]

Pur tenendo conto delle possibili influenze, il Teatro di massa del PCI sviluppa una propria specifica proposta strettamente connessa al contesto storico, politico e sociale dell’Italia del secondo dopoguerra. Esaminando articoli di giornale, testimonianze, studi scientifici è possibile trovare molteplici definizioni relative a questa esperienza teatrale. La raccolta di documenti dattiloscritti Marcello Sartarelli, teatro e vita, a cura di Mariella Bontempi, offre diversi esempi in tal senso:

Il Teatro di Massa, con il suo contenuto progressista, è l’unica alternativa alla crisi del teatro ufficiale, si realizza nel nuovo mondo socialista esprimendo l’ideologia della società senza classi. Le masse, grandi protagoniste della guerra di liberazione, trovarono rispecchiati nei copioni del Teatro di Massa le aspirazioni e i problemi che più le interessavano.[8]

Un’altra definizione si sofferma sulla tipologia di attori e di spettatori presenti nel Teatro di massa:

Il Teatro di Massa è una nuova forma di spettacolo che non solo parla al cuore del popolo con il suo contenuto, ma anche porta sulla scena il popolo stesso come se l’attore sul palcoscenico continuasse la sua lotta d’ogni giorno per la conquista di un migliore avvenire.[9]

Sempre nella raccolta di appunti dattiloscritti di Mariella Bontempi è presente una breve sezione relativa ai «Significati del Teatro di massa».[10] Si fa riferimento sia alla stretta corrispondenza tra il vissuto degli attori (braccianti, operai, mondine, etc.) e quanto viene da loro raccontato sulla scena, sia al diretto coinvolgimento degli spettatori, protagonisti anch’essi, in qualche misura, delle vicende rappresentate. È importante specificare, inoltre, che accanto agli aspetti prettamente contenutistici, o relativi alla tipologia degli spettacoli e alla modalità di rappresentazione, sono presenti anche definizioni volte a sottolineare l’importanza culturale della proposta.[11] Prova di ciò è il parallelismo con il cinema neorealista e la considerazione del Teatro di massa come possibile punto di incontro tra gli intellettuali e il popolo.[12]

L’esperienza teatrale del PCI, nata come strumento di propaganda politica durante la campagna elettorale del 1948, si evolve in un arco di tempo assai breve, dal 1949 al 1951, e si conclude nel 1952. Il Teatro di massa viene inaugurato dal regista Marcello Sartarelli con lo spettacolo 48, che debutta a Budapest nel 1949 in occasione del Festival della Gioventù. In Italia tale esperienza trova terreno fertile in particolare a Modena e a Bologna dove sono rispettivamente rappresentati Un popolo in lotta e Sulla via della libertà (diretti dallo stesso Sartarelli) considerati un modello per gli spettacoli seguenti. Si pensi a Domani è gioventù, Stanotte non dorme il cortile, Il grano cresce sulla palude (ancora per le regie di Sartarelli), Primo Maggio, Le ragazze d’Italia hanno vent’anni e Terra d’Emilia (diretti da Luciano Leonesi).[13]

Studiare il Teatro di massa limitandosi alla sola analisi dei pochi spettacoli che esso ha prodotto nel breve arco di tempo compreso tra il 1948 e il 1952 rischierebbe di offrire una visione troppo circoscritta del fenomeno. È indispensabile un approccio che tenga conto di una serie di elementi collaterali, di non minor conto, in primis la fitta rete di relazioni umane: gli attori, gli spettatori e la loro interazione. Lo spettacolo si configura come esperienza aggregante. Alla luce di questa sua funzione è possibile approfondire tutti gli elementi che lo caratterizzano, comprese le scelte registiche e organizzative. Centinaia e centinaia o, addirittura migliaia, di operai, contadine, studenti in scena costituiscono anche ai nostri giorni qualcosa di straordinario, ma ancora più interessante è analizzare gli aspetti correlati all’organizzazione dello spettacolo: la gestione delle prove, la struttura in “complessi”, la scrittura del copione e le tematiche, gli aspetti tecnici relativi alla realizzazione della scenografia. Un significativo caso di studio è fornito dallo spettacolo di Teatro di massa Sulla via della libertà.

2. Uno spettacolo esemplare del Teatro di massa

Sulla via della libertà, diretto da Sartarelli, con l’assistenza alla regia di Leonesi, debutta il 28 febbraio del 1950 al teatro Comunale di Bologna dopo poco più di un mese di prove presso la piscina coperta dello stadio.[14] Le scenografie sono di Paolo Bracaglia.[15] In scena seicento attori non professionisti.[16]

Nel 1951 Cesare Vivaldi, prendendo ad esempio nel Manuale del teatro di massa la preparazione di questo spettacolo[17] descrive la modalità di svolgimento delle prove. Esse sono precedute da una riunione introduttiva, nel corso della quale il direttore del “complesso” (parola che indica qualcosa di più articolato rispetto al termine “compagnia”)[18] spiega ai partecipanti (operai, contadini, artigiani, giovani studenti) in che cosa consiste il Teatro di massa e sottolinea l’importanza del lavoro che sta per avere inizio.[19] La parola passa poi al regista che presenta il copione, ne racconta il contenuto, ne mette in rilievo scopi e significato illustrando inoltre alcune modalità di messinscena. Questo intervento è seguito dalla discussione, nel corso della quale ciascun partecipante può avanzare le proprie obiezioni, esporre le proprie idee o chiedere spiegazioni. Prima della conclusione dell’incontro, il direttore del “complesso” fissa una nuova riunione per l’indomani o per il primo giorno utile.

Questo secondo appuntamento prevede sia la ripresa del copione, esaminato scena per scena, sia la predisposizione di un calendario prove nel corso delle quali i partecipanti vengono divisi in gruppi guidati da un capogruppo.[20] Tale suddivisione permette al regista di ottimizzare i tempi. Si parte dalle scene più semplici, che vedono impegnati solo alcuni nuclei. Gli attori sono istruiti sul percorso da compiere, sul modo di marciare, di fermarsi, di fare dietro front e così via.[21] Nella piscina-sala prove vengono abbozzate le scene parlate e quelle di massa. Una volta messi a punto i singoli quadri, le prove si trasferiscono in teatro dove il regista può curare lo spettacolo dal punto di vista ritmico, introdurre lo speaker e il corpo di ballo. Pochi giorni prima del debutto c’è la prova generale, alla presenza di un selezionato numero di amici-spettatori, allo scopo di verificare la necessità o meno di apportare delle modifiche.[22] Rispetto al primo spettacolo di Teatro di massa, Un popolo in lotta, l’esperienza di Sulla via della libertà appare ben più complessa. Se nel primo caso sono venti i giorni di prova prima del debutto,[23] nel secondo ne occorrono più di trenta. Lo stesso Vivaldi specifica: 

“Un popolo in lotta” era ancora più simile ad un documentario cinematografico (nel senso in cui le scene più che essere commentate dallo speaker vengono a dare l’immagine fotografica ed a spiegare esemplificando quanto egli dice) che a un vero e proprio spettacolo teatrale.[24]

Il copione, a cura di Sartarelli, è una riduzione per le serate della gioventù. È composto da diciassette pagine, più due che riportano lo spartito musicale di uno dei canti dello spettacolo («Crumiro non lavorar, crumiro non lavorar...»).[25] Non è presente una suddivisione in scene o quadri, ma l’alternanza buio-luce determina di fatto il passaggio da una situazione a un’altra.[26] L’incipit, come spesso accade negli spettacoli di Teatro di massa, è affidato allo speaker (voce fuori scena):

Musica. Si alza il sipario. Si accende il trasparente di luce azzurra cupa. Sul trasparente sono proiettate sagome di ciminiere di una fabbrica.
SPEAKER: – Quando noi diciamo lotta, non abbiamo bisogno di specificare, perché per noi la lotta significa quella che si conduce da secoli, per rendere realtà le aspirazioni di milioni e milioni di uomini semplici. Lotta sorda e spietata, lotta senza soste, lotta che ha le sue vittime, i suoi eroi ed i suoi traditori, lotta che oggi si combatte ovunque, nelle fabbriche e nelle officine, nei campi e nei quartieri operai, negli uffici, nei parlamenti e nelle tante strade del mondo… Millenovecentoquarantanove i lavoratori italiani si battono contro i licenziamenti per il lavoro e la pace. Gli operai hanno occupato una fabbrica.[27]

Come evidenziato dalle note di regia, l’inizio dello spettacolo prevede una proiezione su trasparente. I trasparenti sono tre e consistono in «schermi di tela bianca su cui vengono proiettate a mezzo di una fonte luminosa, delle ombre ottenibili con sagome ritagliate nel cartone e sorrette da cantinelle anche con persone».[28] Essi costituiscono una costante in tutti gli spettacoli di Teatro di massa e garantiscono, attraverso questi giochi di ombre, dei rapidi cambiamenti di scena.

Nel Manuale di Vivaldi il copione di Sulla via della libertà viene preso a modello anche per l’analisi della stesura di un testo del Teatro di massa. Come specifica l’autore, dapprima occorre individuare l’argomento. Esso coincide, nel caso esaminato, con «la lotta per il lavoro e la pace che si è combattuta e si combatte nel nostro paese».[29] Successivamente vengono definiti “trattamento”, scaletta e sceneggiatura. Il “trattamento” comprende la raccolta del materiale e l’individuazione della linea ideologica da seguire. Vivaldi indica a tal proposito sette differenti punti: 1) l’occupazione della fabbrica; 2) i tentativi padronali di licenziamento; 3) la disoccupazione; 4) la lotta nelle campagne (Maria Margotti); 5) i morti di Modena; 6) i morti della Resistenza; 7) la lotta per la libertà e la pace continua.

Occorre stabilire poi la scaletta, ovvero quella che egli definisce la linea drammatica dello spettacolo. Essa consiste nella traduzione in scene di ciascun punto del “trattamento”. Nonostante nel testo manchi un’indicazione di suddivisione in scene, Vivaldi ne individua quattordici[30]: 1) la fabbrica occupata dagli operai; 2) il flashback con la rievocazione del giorno in cui la fabbrica è stata inaugurata; 3) l’arrivo dei capitalisti stranieri; 4) i licenziamenti e i cortei di protesta di uomini e donne disoccupati; 5) l’emigrazione dei giovani; 6) l’uccisione della mondina Maria Margotti; 7) l’occupazione delle terre da parte dei contadini e l’intervento della polizia (strage di Melissa, eccidio di Torremaggiore, eccidio di Lentella, tutti del 1949); 8) l’uccisione da parte della polizia di sei lavoratori a Modena nel 1950; 9) il collegamento tra i caduti di Modena e gli uomini e le donne morti durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra; 10) il discorso tenuto in Parlamento contro il Patto Atlantico in cui si esorta a pensare ai giovanissimi e a evitare i pericoli della guerra; 11) i disoccupati e i capitalisti; 12) la fabbrica occupata: la Commissione interna dice che il padrone ha accettato le condizioni poste dai lavoratori; 13) i capitalisti cercano di ostacolare i lavoratori. Conclude lo spettacolo (14) la voce fuori scena dello speaker:

SPEAKER – Ma 800 milioni di uomini semplici dicono: no alla guerra.
Si accende il trasparente di luce rossa. Dietro di esso ombre di operai con le braccia incrociate.
SPEAKER – Altri milioni di uomini semplici che ancora ignorano il pericolo che li minaccia, domani sicuramente si schiereranno al loro fianco.[31]  

Sulla via della libertà, leggendo le cronache del tempo, ottiene grande successo di pubblico:

Con la tredicesima replica di “Sulla via della libertà” il teatro Comunale ha terminato ieri sera il primo ciclo delle rappresentazioni del teatro di massa. Lo strepitoso successo ottenuto da questo nuovo genere di spettacolo è stato costantemente riaffermato da oltre 18 mila spettatori che si sono avvicendati nel corso delle numerose repliche. […] È sorto uno spettacolo che ha saputo legare lo spettatore alla vicenda rappresentata sul palcoscenico al punto da suscitare in lui volta a volta, entusiasmo, commozione, sdegno e allegria.[32]

Tra gli spettatori Enrico Bonazzi, segretario della Federazione bolognese PCI,[33] Giancarlo Pajetta, membro della Direzione del Partito[34] e il Segretario generale del PCI Palmiro Togliatti.[35]

Alcuni limiti dello spettacolo sono evidenziati da Giulio Trevisani nell’articolo Seicento uomini dalla fabbrica al palcoscenico:

il testo deve liberarsi da servitù antologiche: deve essere più organico e non abusare di soluzioni retrospettive: all’azione e alla recitazione si faccia più spazio alle luci che non alle ombre e, in genere tendere a più rapide variazioni e più agile ritmo; e per tutto il resto, l’esperienza stessa provvederà alle modifiche.[36]

Leonida Repaci, analizzando il primo e il secondo tempo dello spettacolo, scrive su «Vie Nuove»:

Le han nociuto alcune incertezze di sincronizzazioni tra luci, recitativo dello speaker e intervento scenico delle masse, e soprattutto, a mio avviso, le ha nociuto l’eccessivo ostracismo dato alle parole, al dialogo […]. La seconda parte ha visto il successo mutarsi in trionfo. Essa è apparsa più serrata come gioco di regia, più centrata nelle sequenze di ombre e di spezzati sui trasparenti, più sicura nella distribuzione delle luci, più libera nel movimento delle masse, e, infine […] ha mostrato la sua capacità di ricupero rinunciando a una intransigenza antidialogica che potrebbe essere l’ostacolo maggiore alla penetrazione in profondità di questa forma di spettacolo.[37]

3. Il Teatro di massa del PCI: dall’apice alla precoce conclusione

Nella storia del Teatro di massa, il 1951 rappresenta un anno particolarmente significativo: il complesso di Bologna partecipa al Festival della Gioventù di Berlino con lo spettacolo Il grano cresce sulla palude (diretto da Sartarelli con l’assistenza alla regia di Leonesi) risultando primo classificato;[38] Vivaldi pubblica il citato Manuale; debutta al teatro San Carlo di Genova Stanotte non dorme il cortile, commedia in due tempi di Gianni Rodari e di Sartarelli, regia di quest’ultimo, primo spettacolo di massa per grandi e piccoli, con giovani e giovanissimi in scena.[39] Sempre nello stesso anno, il 21 e il 22 dicembre, ha luogo il convegno di Forlì sul Teatro di massa organizzato dallo stesso Sartarelli con l’obiettivo di fare un bilancio. Sono presenti Davide Lajolo, direttore de «l’Unità» di Milano, Giulio Trevisani, direttore del «Calendario del popolo», Carlo Salinari, Ernesto De Martino, Bruno Schacherl, Giancarlo Pajetta. Il convegno si presenta come un’occasione di riflessione a più ampio raggio sulla crisi del teatro in Italia. Appare necessario sperimentare una nuova politica teatrale, comune a tutta la sinistra, capace di trasformare il teatro italiano, borghese per tradizione, in teatro popolare e democratico.

Il limite di buona parte della critica del tempo sembrerebbe quello di aver ignorato l’esperienza del Teatro di massa del PCI o di aver analizzato gli spettacoli in modo unidirezionale, senza cogliere pienamente la vivacità di una proposta dalle molteplici sfaccettature. Adottare un criterio di giudizio analogo a quello adoperato per il teatro tradizionale inevitabilmente sottrae forza al Teatro di massa. Nelle recensioni di questi spettacoli ricorrono spesso termini come «difetto», «errore» e «limite» per indicare il mancato raggiungimento di una certa qualità artistica, formale e tecnica che il teatro professionale vanta di possedere. Tra i vari interventi ricordiamo quello di Lajolo che intravede negli allestimenti del Teatro di massa il pericolo della retorica, del formalismo e del settarismo, e quello di Pajetta che sottolinea la necessità di “snellire” tali spettacoli per eliminare quei difetti tecnici che ancora affiorano.[40] Osserva Claudio Meldolesi:

Gli stessi critici scrissero nel ’50-’51 una cosa e nel ’52-’53 il suo contrario: all’inizio definirono taumaturgico il Teatro di Massa, perché permetteva al proletario di riappropriarsi della cultura e di salvare la scena nazionale; alla fine lo dichiararono velleitario e deviazionistico, perché distraeva la politica teatrale della sinistra dal «teatro vero». […] Nel ’52-’53 passò la linea che non doveva esserci differenza fra l’imperturbabile cultura dei colti e la cultura dei lavoratori, e che doveva esserci un solo modo produttivo a teatro: quello tradizionale registicamente ammodernato.[41]

Il PCI degli anni Cinquanta comprende che è arrivato il momento di intervenire nella cultura ufficiale, la stessa che era stata oggetto di critica fino a poco tempo prima. Isolandosi, la sinistra non sarebbe riuscita a promuovere l’auspicato rinnovamento culturale. L’intento del PCI è, dunque, quello di consegnare il teatro agli intellettuali e di caratterizzarlo nel segno del professionismo. È evidente che questa scelta minaccia le basi stesse del Teatro di massa e ne tradisce l’essenza.[42]

Al 1952 risalgono le ultime esperienze di questo fenomeno spettacolare. Il già menzionato Le ragazze d’Italia hanno vent’anni, elaborato a partire da un testo di Rodari, viene messo in scena da Leonesi in giugno, in occasione degli Incontri di Primavera organizzati dalle donne dell’Udi. In settembre, in occasione della Festa dell’Unità, ai giardini Margherita di Bologna va in scena Terra d’Emilia (testo di Gurcio, Natoli, Brini, regia di Leonesi). Questo è considerato l’ultimo spettacolo del Teatro di massa di Bologna.[43]

Il Teatro di Massa fu un organismo più partitico che popolare; da questo punto di vista il PCI ebbe il diritto di non più sostenerlo, quando la sua crescita troppo vigorosa evidenziò la sua relativa autonomia dalla linea politica comunista. Il Teatro di Massa era però anzitutto un teatro, cioè un organismo di per sé vivente, e da quest’altro punto di vista il mancato sostegno costituì una forma di censura: questa linfa teatrale non si riattivò poi in nuovi contesti, non ebbe una seconda vita, scomparve.[44]

Il convegno di Forlì risulta decisivo per le sorti del Teatro di massa poiché cerca di ridefinirne l’essenza. Se non ha nulla a che vedere con il “vero” teatro, secondo quanto alcuni critici e intellettuali sostengono, come può essere inquadrata questa esperienza? Qual è la funzione che le viene attribuita? In quale campo è autorizzata ad agire? Nel 1952 una risposta a queste domande è data dalla nascita del Centro del Teatro e dello Spettacolo Popolare, la cui direzione viene affidata a Sartarelli. L’idea di base è quella di costruire un centro in grado di gestire tutte le attività teatrali a carattere popolare, di differente tipo e sparse nelle diverse città italiane, per un rinnovamento del teatro italiano nel suo complesso.

In questo nuovo contesto il Teatro di massa rappresenta una delle tante attività a carattere popolare, non l’unica.[45] Portavoce dell’impegno del Centro è la rivista «Teatro d’oggi» che fonde l’esperienza di Sartarelli con quelle di Vito Pandolfi e di Bruno Schacherl.[46] Pubblicata dal luglio del 1953 al gennaio-febbraio 1955, tale rivista è testimonianza della cultura della sinistra e, al tempo stesso, è promotrice di un superamento del ritardo nello sviluppo della scena italiana. Tale ritardo è in parte dovuto alla poca lungimiranza delle istituzioni politiche che hanno trasformato importanti realtà in «invenzioni sprecate».[47] È ancora Meldolesi a dare lucidamente conto delle ragioni del tramonto del Teatro di massa:

esso appariva agli addetti ai lavori come un caso di impazzimento delle funzioni teatrali, mentre Leonesi e i suoi compagni erano convinti che la ragione stesse dalla loro parte. Per questi ultimi non era affatto fuori posto che 18.000 spettatori «scalfissero» il Teatro Comunale di Bologna, mentre era assurdo che il teatro ufficiale vivacchiasse come un rito d’altri tempi, cioè come un rito d’élite ancora improntato alle discriminazioni fasciste. Perciò la cultura teatrale passò al contrattacco affermando ciò che sembrava vero pur non essendolo, che Sartarelli non aveva inventato nulla, che aveva copiato dai vecchi teatri rivoluzionari tedeschi e sovietici e che per giunta aveva copiato male, in quanto l’idolo di una cultura di massa in Italia era impregnato di demagogia mussoliniana. Perciò gli ideologi del teatro, con poche nobili eccezioni, pretesero che il partito comunista cancellasse questo segno di vitalità dal panorama scenico: in modo che non ci fossero più attentati al teatro della «cultura» e i lavoratori teatromani fossero disciplinati nella rete delle filodrammatiche e della spettacolarità folklorica.[48]

4. La regola e l’esperimento

Sostenere che il Teatro di massa abbia ideato una sorta di sistema di costruzione degli spettacoli non è del tutto errato. Rientra in questo sistema l’organizzazione in “complessi” ovvero in strutture a carattere gerarchico-piramidale formate da un comitato direttivo, a sua volta costituito da un responsabile generale e da un vice responsabile incaricato di coordinare il lavoro dell’amministrazione, del referente del servizio d’ordine e del coordinatore del lavoro di scena (preposto ai capisquadra).[49]

Rientra nella logica di un sistema di costruzione degli spettacoli anche la scelta delle tematiche e la modalità di scrittura dei copioni. Le tematiche riguardano in particolare episodi della Resistenza, l’occupazione delle fabbriche o delle terre e trovano espressione, più in generale, nella lotta dei poveri contro i soprusi dei potenti. A partire da queste vicende contemporanee o riconducibili a un passato non troppo lontano vengono scritti i copioni, la cui elaborazione prevede una suddivisione in più fasi, come si è visto. Infine, di non minore importanza è l’attenzione del Teatro di massa alla formazione: la programmazione di corsi per garantire un’adeguata preparazione agli aspiranti attori, registi e tecnici, nonché la pubblicazione del più volte citato Manuale del teatro di massa di Vivaldi contenente le informazioni necessarie per la realizzazione di uno spettacolo.

Insomma, considerata anche la consistenza dei problemi che questo tipo di messinscene comporta, si sente forte l’esigenza di dare delle regole e sistematizzare il processo di costruzione degli spettacoli, secondo istanze organizzative che rispecchiano in qualche misura la radice “partitica” dell’iniziativa. Tuttavia, se da una parte la proposta teatrale del PCI si configura come sistema di costruzione degli spettacoli, dall’altra non bisogna intendere tale sistema come l’imposizione di una formula fissa, di un modello preconfezionato da usare di volta in volta. Se è riduttivo parlare di Teatro di massa in termini di spettacolo, altrettanto limitativo è piegarlo all’obbedienza di un prototipo e alla rigidità di un apparente ordine. In tal senso, come precedentemente si accennava, occorre mutare prospettiva; il problema non è spiegare cosa il Teatro di massa sia ma con che cosa esso abbia a che fare.

Il Teatro di massa riguarda la sperimentazione e l’accadimento. L’idea di procedere per tentativi rimanda a qualcosa di molto concreto, come ad esempio la scelta del taglio da dare al testo, l’introduzione di un punto di vista nella costruzione drammaturgica, oppure ancora l’ideazione di una scenografia composta da tre semplici teli bianchi. La sperimentazione non prevede la possibilità di una forma ben confezionata; al contrario, essa considera la forma come “materia viva” da interrogare continuamente, da mettere costantemente alla prova. La regola, la formula fissa sono il punto di partenza; l’analisi dei differenti testi di Sartarelli indica un processo evolutivo. Evoluzione, questa, che riguarda la forma, le scelte registiche, il lavoro degli attori e i contenuti, dal momento che il Teatro di massa è in costante dialogo con il contemporaneo e con i mutamenti della società.

Il progetto teatrale del PCI, nato a partire dalle intuizioni di Marcello Sartarelli, ha potuto affinare anche l’aspetto registico, frutto di un’esperienza acquisita sul campo che si è nutrita di tante ore di prove con migliaia di contadini, mondine, operai, studenti, etc. Con l’aumento dei “complessi” di Teatro di massa, in particolar modo nel nord Italia, anche il lavoro attoriale si affina. A seconda degli spettacoli è possibile scegliere i giovani più portati alla recitazione. La sperimentazione è il volto nascosto, il laboratorio invisibile, il punto di incontro tra centinaia (anche migliaia) di persone impegnate nella costruzione di uno spettacolo, come fosse un prodotto d’artigianato, inciso di mano in mano, livellato, lucidato, pronto per essere mostrato. La superficie è l’accadimento: lo spettacolo è pronto per essere mostrato, o meglio lo spettacolo è pronto perché accada. Migliaia di spettatori e migliaia di attori in contemporanea rivivono la propria storia: un vissuto che hanno attraversato per via diretta o indiretta, del quale hanno comunque coscienza, consapevolezza, memoria.

Un’analisi che mirasse a soffermarsi esclusivamente sull’aspetto esteriore di questi spettacoli coglierebbe solo una forma a grandi linee, ma la loro vera forza è inafferrabile e indescrivibile poiché è in divenire. In quel continuo scambio energetico tra attori e spettatori prende vita il teatro. Ciò che è vero per tutto il teatro, tanto più lo è per quello di massa, proprio per le sue caratteristiche intrinseche e le sue finalità, e per il fatto che, rispetto alla gran parte del teatro tout court, non ha mai l’obiettivo di fare dello spettacolo un’entità esteticamente autonoma, che tenda a “nascondere”, più che a rivelare, il lavoro a monte e la processualità di cui lo stesso spettacolo non è che un momento. È necessario ancora una volta mutare prospettiva, individuare nella forza aggregante che il Teatro di massa è stato in grado di sprigionare, nel volto umano dell’esperienza, il punto di fuga.

Concludiamo con una citazione tratta da Il romanzo del teatro di massa di Leonesi, che mostra un interessante esempio in tal senso. In modo disincantato e pieno di umorismo, l’autore racconta un momento delle prove di Sulla via della libertà, offrendo una vivace restituzione della dimensione “umana” dell’esperienza:

– Chi si sente di fare questa parte? – domandò in giro Sartarelli. Alcuni volontari si offrirono e Marcello li portò sull’ultimo scalino; effettivamente [la scala] era alta … […]
– Tu entri, sei armato, vedi in basso i partigiani, allora urli «achtung partizanen» e cerchi di sparare, ma loro sono più svelti e ti colpiscono. Allora tu ti porti le mani al petto, così. Non così, così! Bravo. Ti pieghi in avanti e rotoli giù dalla scala. Va bene? Capito tutto? Proviamo? Vai! E come sei giù, immobile: morto! – E poi urlò: – Cianin, sono a posto gli altri? Forza che cominciamo. –
Il primo fece come quando si va sul trampolino dei cinque metri. Guardò giù, molleggiò un po’ sulle ginocchia per darsi la spinta, poi disse:
– Socmel bèn, qui ci si rompe le ossa. – E declinò.
 Il secondo ebbe più coraggio; rotolò scompostamente lungo gli scalini gemendo come da copione, ma si rialzò subito con una smorfia di dolore dipinta sul viso e nonostante che Marcello gli urlasse di stare giù, «morto devi stare» cominciò ad ispezionarsi la testa, le ginocchia e tutto il resto per constatare se era rimasto intero.
– Troppo alta – continuava a dire il cavaliere. […]
Si era arrivati al punto morto, quando si cerca disperatamente un’alternativa che riesca a salvare capra e cavoli; difficilissima, ma che in teatro quasi sempre si trova. Il teatro è miracolo!
– Voglio provare io! – Era uno studente del Righi.
Marcello, evidentemente sollevato, volle rispiegargli la scena, ma lui disse:
– No, no, ho capito benissimo. –
Come venne colpito stese le braccia al cielo facendo volare l’arma, poi repentinamente si rattrappì su se stesso portando le mani al petto e urlando rotolò lungo i quindici scalini, rimbalzando come una palla per rimanere secco ai piedi della scala.
Tutti rimasero impietriti. Passarono alcuni secondi che sembrarono un’eternità.
Lo studente alzò la testa, si guardò attorno e disse:
– Com’è che non si muovono? I partigiani non debbono venire su per la scala? –
Un sospiro di sollievo uscì dal petto di tutti i cinquecento e anche l’acciaccato di prima rantolò di soddisfazione. Marcello s’avvicinò allo studente e gli chiese se si era fatto male, se tutto era a posto. […]
– Io faccio palestra. – E strizzò l’occhio a Sartarelli come a dirgli che stesse tranquillo che con lui non ci sarebbero stati problemi: come andare sul velluto.[50]



[1] P. BLANCHART, Massa, in Enciclopedia dello spettacolo, a cura di S. D’AMICO, Roma, Le Maschere, 1960, vol. VII, coll. 257-260: 257.

[2] Cfr. ivi, col. 259.

[3] Le «cronache parlate» sono scene di cronaca tratte dai giornali, collegate dalla voce di commento dell’annunciatore o speaker. Il «teatro di cronaca», in aggiunta al precedente modello, prevede già una sequenza di scene connesse le une alle altre (indipendentemente dal commento dello speaker), l’utilizzo di grandi teli bianchi per le retroproiezioni, detti trasparenti, l’intervento musicale e l’inserimento di brani poetici e drammatici (C. VIVALDI, Manuale del Teatro di massa, Roma, Edizioni di cultura sociale, 1951, pp. 5-10).

[4] Ripercorro qui per brevi cenni la storia del Teatro di massa. In Germania tale esperienza è legata principalmente alla figura di Erwin Piscator, il quale fonda a Berlino nel 1920 il Proletarisches Theatre, un “collettivo” di lavoro costituito da giovani artisti di sinistra e da attori proletari dilettanti, i cui spettacoli affrontano tematiche di attualità politica e sociale (cfr. M. CASTRI, Per un teatro politico: Piscator, Brecht, Artaud, Torino, Einaudi, 1973, pp. 23-54; E. PISCATOR, Il teatro politico, Torino, Einaudi, 2002, pp. 31-39). Dal 1924 al 1927 il drammaturgo tedesco dirige la Volksbühne, una società che produce spettacoli di alto livello artistico per le masse popolari (cfr. CASTRI, Per un teatro politico, cit., pp. 74-86), e due anni più tardi pubblica Das politische Theater, manifesto del suo teatro propagandistico ed educativo (cfr. E. CASINI ROPA, Erwin Piscator, in Enciclopedia del teatro del ’900, a cura di A. ATTISANI, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 276-279: 276-278). Le esperienze di Piscator sono alla base dell’Arbeitertheater, movimento a vocazione propagandistica che si sviluppa in Germania negli anni Venti mediante organizzazioni culturali gestite dal movimento operaio (cfr. ID., La danza e l’agitprop: i teatri-non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 123-148); e di ulteriori forme di spettacolo rappresentate dalla rivista rossa e dal giornale vivente. In Russia, dal 1917 alla metà degli anni Trenta, si diffondono spettacoli di propaganda caratterizzati dalla presenza di migliaia di spettatori e di masse di attori, in genere non professionisti (cfr. F. MALCOVATI, Urss, in Enciclopedia del teatro del ’900, cit., pp. 150-157: 155). Tra gli esempi più significativi di tale genere si registrano le guljan’ja e altre forme spettacolari riconducibili ai carri allegorici e al “Coro Slavjanskij” (cfr. A. BERGAMO, Davanti l’Ex Borsa di Pietrogrado [1917-1921]: il teatro, la rivoluzione, la piazza, in «Arti della performance: orizzonti e culture», 2012, 3, pp. 36-43). Nel fertile periodo postrivoluzionario, all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, nascono le cosiddette inscenirovki, promosse in primis dal Laboratorio drammaturgico-teatrale dell’Armata Rossa, fondato da Nikolaj Glebovič Vinogradov-Mamont. Le inscenirovki sono accomunate dalla presenza in scena di masse di operai e di militari, accanto ad attori professionisti; dall’utilizzo di dialoghi schematizzati al massimo o sostituiti da didascalie su cartelloni; dalla creazione di fondali dipinti; dalla presenza di stendardi e bandiere; dalla predominanza del colore rosso (cfr. BERGAMO, Davanti l’Ex Borsa di Pietrogrado, cit., pp. 52-89). Così come la Russia e la Germania, anche la Francia, seppur con modalità differenti, presenta specifiche proposte circa il rapporto tra teatro e massa. Nel 1903 Romain Rolland pubblica il saggio Le Théâtre du Peuple. Essai d’esthétique d’un théâtre nouveaux, teorizzando le condizioni necessarie per la costruzione di un nuovo teatro del popolo (cfr. R. ROLLAND, Il teatro del popolo, in Eroi e Massa. Il teatro del popolo. Il teatro popolare. Scena e tribuna da Dreyfus a Pitain, a cura di L. SQUARZINA, Bologna, Pàtron, 1979, pp. 7-106: p. 58). Circa un ventennio più tardi nasce, sotto la direzione artistica dell’attore e regista Firmin Gémier, il Théâtre national populaire, che introduce una “drammaturgia di massa” incentrata sulle feste popolari (cfr. F. CRUCIANI, Teatro nel Novecento. Registi pedagoghi e comunità teatrali nel XX secolo, Firenze, Sansoni, 1985, p. 60). Superando la metà del Novecento il Théâtre National Populaire è legato soprattutto a Jean Vilar. A partire dal 1951 (anno in cui gli viene assegnata la direzione artistica di quel teatro, che mantiene fino al 1963), Vilar cerca di sperimentare nella pratica la sua più grande aspirazione: fare del teatro un servizio pubblico, destinato a tutti senza distinzione alcuna. A tale scopo i suoi spettacoli vengono realizzati in città così come in periferia e in provincia; gli orari e i prezzi sono resi accessibili alle classi lavoratrici; l’offerta è varia e spesso accompagnata da iniziative collaterali per invogliare sempre più gli spettatori.

[5] Cfr. Marcello Sartarelli, teatro e vita, raccolta di documenti dattiloscritti a cura di M. BONTEMPI, p. 19, copia conservata presso l’Università degli studi di Bologna.

[6] BERGAMO, Davanti l’Ex Borsa di Pietrogrado (1917-1921), cit., p. 16.

[7] L. REPACI, Lo spettacolo del “Teatro di massa” a Bologna. Sulla via della libertà, in «Vie Nuove», marzo 1950.

[8] Marcello Sartarelli, teatro e vita, cit., p. 7.

[9] Ivi, p. 21.

[10] Ivi, pp. 84-85.

[11] Cfr. ibid.

[12] Cfr. A. SABATINI, Il teatro di massa ed il folclore popolare, in «l’Unità», dicembre 1951.

[13] Per maggiori approfondimenti cfr. C. MELDOLESI, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984; ID., Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987; L. LEONESI, Il romanzo del teatro di massa, Bologna, Cappelli, 1989; N. PASERO-A. TINTERRI, La piazza del popolo, Roma, Maltemi, 1998; Luciano Leonesi maestro di teatro a Bologna, a cura di C. MELDOLESI e P. FERRARINI, Roma, Bulzoni, 2008. Si segnala inoltre il convegno Il Teatro di massa. Marcello Sartarelli e Luciano Leonesi: Storia Memoria Archivio, che ha avuto luogo il 25 novembre 2014 presso l’Università degli studi di Bologna. Nell’ambito del convegno è stata presentata la convenzione fra il Dipartimento delle Arti e la Fondazione Duemila per la catalogazione e la messa on line dei materiali relativi al Teatro di massa.

[14] Cfr. B. DEL CIELO, Carnevale di massa e teatro di massa, in La piazza del popolo, cit., pp. 69-94: 82.

[15] Cfr. TIBERIO, Martedì 28 febbraio al Comunale, prima di “Sulla via della libertà”, in «La lotta», febbraio 1950.

[16] Cfr. G. TREVISANI, Seicento uomini dalla fabbrica al palcoscenico, in «l’Unità», 1° marzo 1950.

[17] Si precisa che nel Manuale del teatro di massa lo spettacolo è indicato con il titolo La via della libertà (cfr. VIVALDI, Manuale del teatro di massa, cit., p. 18).

[18] Cfr. ivi, p. 15.

[19] Cfr. ibid.

[20] Cfr. ivi, p. 17.

[21] Cfr. ivi, p. 19.

[22] Cfr. ivi, pp. 27-37.

[23] Cfr. M. SARTARELLI, Un popolo in lotta, in «Quaderno dell’attivista», novembre 1949, p. 13.

[24] VIVALDI, Manuale del teatro di massa, cit., p. 32.

[25] Sulla via della Libertà: riduzione per le Serate della gioventù, a cura di M. SARTARELLI, Roma, Edizioni Gioventù Nuova, 1950, pp. 19-20.

[26] Si precisa che in un articolo pubblicato su «La lotta» nel febbraio del 1950, Sulla via della libertà è indicato come spettacolo «in due tempi e 48 scene» (TIBERIO, Martedì 28 febbraio al Comunale, cit.). In un altro articolo le scene indicate sono quarantacinque (Il primo spettacolo al Teatro di massa, in «l’Unità», 24 febbraio 1950).

[27] Sulla via della libertà, cit., p. 3.

[28] Un popolo in lotta: riduzione per le Serate della gioventù, a cura di M. SARTARELLI, Roma, Edizioni Gioventù Nuova, s.a., p. 4.

[29] VIVALDI, Manuale del teatro di massa, cit., p. 46.

[30] Cfr. ivi, pp. 38-52.

[31] Sulla via della libertà, cit., p. 16.

[32] 18.000 spettatori al Comunale hanno assistito a Sulla via della libertà”, in «l’Unità», 16 marzo 1950.

[33] «Rappresentare in questo grande teatro – ha detto Bonazzi – le pagine più fulgide scritte dai nostri lavoratori, dai nostri partigiani, è certamente una iniziativa che trova tutta la nostra approvazione. Sono certo che da questo lavoro sapremo trarre nuove energie per le lotte che conducono i lavoratori per la pace, il lavoro e la libertà» (Bonazzi assiste alle prove del prossimo grande spettacolo, articolo la cui fotocopia è in possesso di Luciano Leonesi, senza la testata).

[34] Cfr. G.C. PAJETTA, Lo spettacolo di Bologna è testimonianza di maturità politica, in «La lotta», marzo 1950.

[35] «Il compagno Togliatti si è compiaciuto con il regista Marcello Sartarelli per l’interessante realizzazione» (Togliatti a Bologna al Teatro di massa, in «l’Unità», 7 marzo 1950).

[36] TREVISANI, Seicento uomini dalla fabbrica al palcoscenico, cit.

[37] REPACI, Lo spettacolo del “Teatro di massa” a Bologna, cit.

[38] Cfr. S. SOGLIA, Il Teatro di Massa a Berlino, luglio-agosto 1951 (articolo la cui fotocopia è in possesso di Luciano Leonesi, senza testata).

[39] Cfr. M.R. SIMONE, Stanotte non dorme il cortile di Gianni Rodari e di Marcello Sartarelli. Una realtà fantastica nel Teatro italiano degli anni Cinquanta, in «Il castello di Elsinore», 2014, 70, pp. 43-66.

[40] Cfr. DEL CIELO, Carnevale di massa e teatro di massa, cit., pp. 87-89.

[41] C. MELDOLESI, Prefazione a L. LEONESI, Il romanzo del teatro di massa, cit., pp. 5-10.

[42] Cfr. F. SCHENONE, La rivista “Teatro d’oggi”, in La piazza del popolo, cit., pp. 125-129: 126.

[43] Cfr. DEL CIELO, Carnevale di massa e teatro di massa, cit., pp. 90-92.

[44] MELDOLESI, Prefazione, cit., p. 10.

[45] Cfr. L. LUCIGNANI, Il teatro di massa è nato dalla Resistenza. Esso non è oggi soltanto un mezzo di produzione ed elaborazione della cultura popolare, ma anche uno strumento di difesa di tutta la struttura teatrale italiana, in «Teatro e spettacolo», supplemento al n. 2 di «Vie nuove», ottobre 1952.

[46] Cfr. SCHENONE, La rivista “Teatro d’oggi”, cit., pp. 125-129. E cfr. B. Schacherl, Il critico errante. Anni Sessanta e dintorni a teatro in cerca di Storia, Firenze, Le Lettere, 2005. Per Pandolfi: Vito Pandolfi. I percorsi del teatro popolare, a cura di A. Mancini, Bologna, Nuova Alfa, 1990.

[47] Per maggiori approfondimenti cfr. MELDOLESI, Fra Totò e Gadda, cit.

[48] MELDOLESI, Prefazione, cit., p. 9.

[49] Cfr. VIVALDI, Manuale del teatro di massa, cit., pp. 55-67.

[50] LEONESI, Il romanzo del teatro di massa, cit., pp. 53-54.

 



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