1. Premessa La famiglia fiorentina di cantanti dopera Falbetti Nacci-Ballerini si snodò su due generazioni attive a cavallo dei secoli XVII e XVIII allinterno di un circuito teatrale europeo che collegava le scene del granducato di Toscana con i palcoscenici di Francia e dellimpero Asburgico. La prima generazione è rappresentata dalle sorelle Falbetti Nacci: dalla maggiore Lisabetta, nata nel 1630, e da Leonora, più giovane di tre anni. Fino a poco tempo fa entrambe erano quasi del tutto anonime agli studi di settore: basti pensare che allinizio del nuovo millennio di loro non vi era traccia nei più accreditati repertori dedicati agli studi musicologici e al teatro dopera. La ricostruzione, ancora in progress, delle loro carriere è oggi possibile grazie alle ramificate indagini sui fondi medicei dellArchivio di Stato di Firenze coordinate negli ultimi anni dalla cattedra fiorentina di Sara Mamone e i cui più alti esiti si possono consultare nelle edizioni delle notizie di spettacolo dei carteggi dei “principi impresari” Giovan Carlo e Mattias de Medici, fratelli del granduca Ferdinando II. Un prezioso apporto giunge anche dalle ricerche condotte presso larchivio della famiglia Bentivoglio di Ferrara da Sergio Monaldini. La seconda generazione della famiglia darte è invece rappresentata da Francesco, mezzano dei tre figli che Leonora ebbe dal marito Carlo Ballerini. Contraltista tra i più riconosciuti della prima metà del Settecento, a lui sono state dedicate alcune significative pagine da Françoise Decroisette in un volume miscellaneo del 2001 la cui prefazione porta la firma di Siro Ferrone. Proprio allinterno del progetto Archivio Multimediale degli Attori Italiani (AMAtI) ideato e diretto dal docente fiorentino si trovano oggi i primi profili dettagliati ed aggiornati di Lisabetta, Leonora e Francesco. Dei tre cantanti, solo madre e figlio vantarono collaborazioni fuori dai confini granducali. Questo non deve però trarre in inganno e lasciar pensare che Lisabetta fosse meno dotata artisticamente rispetto alla sorella e al nipote. La storia dei Falbetti-Ballerini, osservata lungo le vicende che coinvolgono le due generazioni, sembra infatti distinguersi rispetto a quelle delle numerose famiglie darte a loro coeve per una serie di “atipicità” – in grammatica si chiamerebbero “fenomeni marcati” – soprattutto in riferimento al rapporto dei nostri cantanti con le regole professionali e con le consuetudini sociali. Di queste differenze e di come la mentalità dei figli potesse, anche nei secoli di Antico Regime, collocarsi a distanza siderale rispetto a quella dei genitori, questo scritto vorrebbe brevemente raccontare. 2. Nemo Propheta in Patria Lisabetta e Leonora nacquero dal matrimonio trail sarto Michele Falbetti e Caterina Bicci. La presenza nei loro atti dibattesimo dei nomi di aristocratici padrini del calibro di Luca degli Albizzi edi Carlo Torrigiani indica la buona considerazione goduta dalla famiglia (edalla sartoria di Michele) presso la classe dirigente granducale. Sin dallanascita le due sorelle risedettero con i genitori allinterno del primo cerchiodelle mura cittadine, trascorrendo linfanzia tra il quartiere della chiesa parrocchialedi San Leone e quello di Santa Maria in Campo nei pressi del Duomo. In etàadulta il successo canoro di Leonora sarà confermato “urbanisticamente” dall'ubicazione della sua abitazione nelloltrarno fiorentino, prima nei pressi della chiesa di San Jacopo Soprarno e poi vicino a quella di San Felice in Piazza, e cioè nelle immediate vicinanze della dimora medicea di Pitti dove la cantante avrebbe potuto recarsi in brevissimo tempo a richiesta della corte. Non sappiamo quale fu la molla che spinse le sorelle ad intraprendere la via del canto. Come avviene per molti capostipiti di famiglie darte, Lisabetta e Leonora furono tuttaltro che delle predestinate; entrambe ebbero però laccortezza di integrare le rispettive inclinazioni con una ferrea disciplina e una diligente mentalità artigianale che certamente appresero nella bottega paterna. La prima parte di carriera accomuna il percorso delle due sorelle allinsegna delle esibizioni private e cameristiche. Quasi niente è conosciuto in questa fase di Lisabetta. Il tirocinio di Leonora si svolse prevalentemente allinterno delle stanze della granduchessa Vittoria della Rovere e in quelle dei principi Giovan Carlo, Mattias e Leopoldo, che negli anni successivi si alterneranno nella sua protezione. Tra le rare testimonianze di questo periodo una lettera del 1654 del nobiluomo Roberto Capponi fornisce una “istantanea” della cantante che sotto la prestigiosa guida di Atto Melani «studia alla gagliarda» alcune arie dellIpermestra musicata da Francesco Cavalli su libretto di Giovanni Andrea Moniglia. Altri brevi e sparsi flash dai carteggi medicei suggeriscono che con il consenso dei protettori Leonora potesse partecipare a “trasferte” nelle dimore della nobiltà locale e persino a “tournées” a più ampio raggio. Nel 1655 è segnalata in una conversazione di musica in casa dellinfluente Bernardo Bini intenta a cantare insieme ai quotati colleghi Ippolito Fusai e Giuseppe Ghini sulle arie di unorchestra di «viole e zufoli» suonati dai maggiorenti fiorentini tra cui Filippo Strozzi. Un anno più tardi la sua fama era arrivata fino a Venezia, dove una sua esibizione contribuì a «correggere il tedio» di una forzosa e prolungata permanenza domestica del potente impresario Vittorio Grimani Calergi. Il destino delle sorelle tornò ad intrecciarsi nel 1657 quando entrambe furono reclutate, come uniche donne, allinterno della nascente compagnia medicea di cantanti destinata al nuovo teatro di corte della Pergola. Linaugurazione della sala, la cui gestione fu affidata allAccademia degli Immobili protetta dal principe Giovan Carlo, avvenne nei primi giorni di febbraio con la messinscena del Podestà di Colognole di Andrea Moniglia e Jacopo Melani. La rappresentazione segnava lingresso ufficiale nelle cronache del grande spettacolo dinastico delle due soprano che per la prima volta si trovarono “catapultate” in una produzione densemble allestita su un palcoscenico vero e proprio davanti ad una quantità di pubblico inusuale rispetto alle loro abituali esecuzioni. Lisabetta aveva ventisette anni, Leonora ventiquattro. Non si trattava di età da esordienti della scena, semmai da veterane. Il tardivo debutto operistico le costrinse a rivedere ed aggiornare tecnica, mimica e repertorio. A farne le spese fu soprattutto Leonora che ebbe bisogno di un rodaggio piuttosto lungo. Dotata di una voce potente e dalle gradevoli qualità timbriche, a giudicare dalle rarissime indicazioni sul suo stile interpretativo pare che la più giovane delle Falbetti avesse una scarsa predisposizione alluso dei virtuosismi e un modo tutto personale di rendere il testo delle parti intonate. I primi anni della sua nuova carriera furono, così, costellati da una serie di “inciampi” e insicurezze, a partire proprio dal Podestà di Colognole. Nel ruolo della protagonista femminile (Isabella) la cantante non fornì una buona prestazione a differenza di Lisabetta, a cui fu assegnato il personaggio di Leonora, quasi a proseguire ed enfatizzare nella distribuzione delle parti il gioco da commedia degli equivoci già radicato nel testo. Lespediente di dare a Lisabetta un personaggio con il nome anagrafico della sorella minore sarà poi riutilizzato da Moniglia ne Il pazzo per forza e ne La Serva nobile inscenati sempre al teatro fiorentino di corte, rispettivamente nel 1657, su musiche di Jacopo Melani, e nel 1660 su musiche di Domenico Anglesi. Il mediocre esordio di Leonora suscitò perplessità negli uomini di corte e soprattutto nel principe Giovan Carlo, che con i fratelli Leopoldo e Mattias formava un team affiatato e di primordine nello scacchiere delle relazioni dello spettacolo europeo nel cuore del XVII secolo. Non trovandola di suo «gusto» Giovan Carlo aveva finito per mortificarla, negandole «quella recognizione dellanimo dellEminenza Sua che goderno tutti quelli, tanto servitori attuali chaltri» che presero parte allo spettacolo. Le perplessità si trasformarono in imbarazzo quando il principe fu informato del sondaggio fatto dalla sorella Anna, arciduchessa dAustria, per il prestito di Leonora alle recite del carnevale di Innsbruck del 1658. Più che per lesordiente ed esitante interprete del Podestà, è da immaginarsi che la curiosità di Anna si focalizzasse sulla possibilità di usufruire nelle proprie stanze dei talenti della rinomata cantante di camera. Con tempismo e gioco di squadra “memorabili” entrò però in campo il principe Mattias. Intenzionato a prevenire un temibile contraccolpo sullottima reputazione internazionale dello scouting mediceo, il principe incaricò espressamente e senza mezzi giri di parole laccademico Immobile Leonardo Martellini di verificare lo stato di forma della cantante prima di contemplare la possibilità di spedirla alla corte tirolese: «Signore Leonardo. Presento chin Inspruch si pensi di mandare alla Leonora Ballerini una parte in musica da recitarsi dessa in quel teatro, quando sarà il tempo, ma io glho ordinato di non accettarla, prima che di Vostra Signoria venga accertato se possa essere il caso a recitarla bene e con gusto e soddisfazione di quelle Altezze Reali, che intendo sieno per fare instanza a me di mandarla a servire allAltezze Loro. Però mi farà Vostra Signoria cosa molto grata a dirmene il suo parere, acciò possa poi risolvere quello che stimerò più proporzionato ad incontrare i cenni delle medesime Altezze». Non sappiamo se lesame fu superato o se, come ventilato in alcuni documenti, lopera tirolese sia stata annullata. Leonora restò a Firenze dove quel carnevale fu impegnata nellallestimento alla Pergola de Il pazzo per forza e poi in giugno in quello dellHipermestra. Le due messinscene non contribuirono però a migliorare la sua reputazione. Il suo anonimato artistico fuori dalle scene fiorentine è palesemente confermato da una lettera del dicembre 1659 in cui Margherita de Medici, duchessa di Parma, ammetteva di non conoscere il valore dellinterprete. Nonostante ciò comunicava al fratello Giovan Carlo lintenzione di scritturarla con il poco gratificante ruolo di “riserva” delle “titolari” dello spettacolo La Filo ovvero Giunone rappacificata con Ercole, che la corte Farnese stava approntando per festeggiare limminente matrimonio tra Ranuccio II e Margherita Violante di Savoia. Anche questa trattativa si arenò rapidamente e, dal carteggio mediceo, si capisce come la proposta di ingaggio non ebbe alcun seguito. È facile dunque figurarsi le reazioni dei fratelli Medici quando alla fine dellestate 1661 si videro recapitare una lettera in cui Leonora veniva “convocata” per recitare nella parte della protagonista femminile Dejanira dellopera Ercole Amante, atteso sigillo conclusivo del ciclo festivo per le nozze di Luigi XIV con Maria Teresa dAsburgo, i cui preparativi, iniziati nel 1659, avevano subito numerosi ritardi e dilazioni. Secondo le volontà dei funzionari e soprintendenti del Re Sole, Leonora avrebbe dovuto aggregarsi al drappello di cantanti medicei già prenotati da più di un anno, ovvero il soprano pistoiese Antonio Rivani e il basso lucchese Vincenzo Piccini. È molto probabile che a suggerire il suo nome fosse stato qualche emissario o ambasciatore francese che nel luglio 1661 ebbe modo di vederla recitare proprio come Dejanira nellErcole in Tebe di Moniglia e Melani allestito alla Pergola di Firenze per i festeggiamenti nuziali del granprincipe Cosimo III con la cugina di Luigi XIV, Marguerite Louise dOrléans. Luso in quello spettacolo di un modello espressivo-drammaturgico finalizzato ad agevolare al massimo la comunicazione tra interpreti e pubblico, ovvero, per dirla con le parole di Moniglia, volto al «naturale recitamento delle nude parole», aveva contribuito alla prima prova degna di nota della carriera operistica di Leonora. Se a Parigi la presenza della “solita” Dejanira fiorentina allinterno del topico tema mitologico di Ercole fu vista come beneaugurante e il miglior viatico per celebrare unimpresa teatrale che era stata procrastinata ben oltre la cerimonia matrimoniale (9 giugno 1660), a Firenze la richiesta della cantante cadde come un fulmine a ciel sereno e il fondato rischio che Leonora non potesse essere allaltezza della straordinaria occasione suscitò nei fratelli Medici grande apprensione. Passato lo sbigottimento iniziale i principi si misero immediatamente a tavolino per tessere la tela di relazioni con cui mitigare il presumibile “fiasco” della cantante e, di riflesso, la caduta del loro prestigio. Giovan Carlo, persuaso che Leonora avesse «bisogno di scusa appresso a Sua Maestà» perché incapace di «corrispondere con la propria abilità allonore che riceve», la raccomandò caldamente allabate Giovanni Bentivoglio a Parigi. Lo stesso giorno scrisse quindi a Luigi XIV invocando protezione per Leonora e invitando il Re a «scusarla se il suo talento sarà inferiore a quel che richiederebbe così celebre occasione». Che non si trattasse di frasi di rito lo si capisce chiaramente perché non furono usate né per Vincenzo Piccini, sacerdote in stretti legami con il cardinale Girolamo Buonvisi, né per la consumata star Antonio Rivani. Entrambi peraltro erano ben conosciuti a Parigi almeno dal 1660 quando avevano cantato in una serie di esibizioni private per il Re e il cardinale Giulio Mazarino. Al primo labate Francesco Buti e il compositore Francesco Cavalli destinarono il ruolo delleroe eponimo dellErcole Amante. A Ciccolino, così era soprannominato Rivani, fu invece riservato il personaggio di Giunone, «una parte molto bella» ma certamente di minor rilevanza rispetto a quelle di Vincenzo e Leonora. Lansia dei mecenati fiorentini crebbe ulteriormente dopo larrivo della protetta a Parigi il 16 dicembre 1661. Ad alimentarla contribuirono i resoconti di Rivani. Il castrato pistoiese, forse ingelosito dalle attenzioni riservate dalle élites transalpine ai suoi colleghi “granducali”, sembrò calcare un po maliziosamente sullinesperienza internazionale della Falbetti. Nelle sue lettere Ciccolino si mostrò particolarmente preoccupato del calo di voce che tormentava la cantante dallinizio delle prove, paventando anche il timore che Leonora non riuscisse a far breccia nei gusti esigenti dei reali dinanzi ai quali – specificava chiaramente – se «non incontra bene la prima volta è negozio finito». Dalla corrispondenza intercorsa in quei giorni sullasse Parigi-Ferrara veniamo a sapere che Buti gestì abilmente limpazienza del Re, ammettendolo alle prove dellErcole Amante solo quando la cantante fu completamente rimessa dai suoi problemi di voce. Il 25 gennaio 1662 Giovanni Bentivoglio informava il fratello Annibale come Leonora avesse superato con agilità la tanto temuta “audizione”: «piacque il suo canto a Sua Maestà e me ne ha detto molto bene». Gli scetticismi fiorentini di un clamoroso insuccesso furono però spazzati via definitivamente solo in occasione della “prima” del 7 febbraio presso il nuovo Théâtre du Château des Tuileries progettato e allestito degli architetti Gaspare, Carlo e Ludovico Vigarani. Agli apprezzamenti che la cantante ricevette dallentourage di corte si aggiunsero i numerosi donativi tra cui quelli dei sovrani britannici, ospiti dei novelli sposi. Neanche le polemiche che costellarono le repliche dei mesi successivi, concernenti la cattiva acustica del teatro e «quella cabala anti-italiana che segnerà di fatto il tramonto di impianto dellopera in terra francese», impedirono a Leonora di godersi la piena soddisfazione di un meritato “riscatto” artistico e morale dinanzi a un pubblico di dignitari di mezza Europa. Con lErcole amante era improvvisamente sbocciata una interprete di caratura internazionale a cui non restava che guadagnarsi la giusta riconoscenza presso i “meno illustri” (e più diffidenti) protettori fiorentini. 3. Una strategia poco “professionale” Rientrata a Firenze nel luglio 1662, Leonora inaugurò una “anomala” strategia professionale. Differentemente da quanto sarebbe stato immaginabile, non cavalcò le ali del successo e si disinteressò completamente della possibilità di monetizzare la sua nuova fama rifiutando le numerose e allettanti proposte dingaggio che nel frattempo le provennero dai più valenti impresari dello spettacolo “mercenario” italiano. Senza neppure un dubbio rispedì al mittente quelle della potente famiglia veneziana Grimani, per gli spettacoli del sempre gremito teatro dei Santi Giovanni e Paolo, le offerte del bolognese Luzio Malvezzi, gli insistenti inviti di Giovan Luca Durazzo: questultimo pur di scritturarla per le recite del teatro Falcone di Genova era giunto a prometterle una sontuosa ospitalità e le cure di un premuroso seguito di dame dagli irreprensibili costumi per tutto il tempo della sua permanenza in città. Le apparizioni di Leonora in teatri “del soldo” avvennero solo dietro pressioni dei principi protettori: tra le poche rappresentazioni di cui si ha notizia vi fu certamente quella ferrarese del carnevale 1665 quando, insieme ai cantanti medicei Filippo Melani e Vincenzo Olivicciani, cantò con successo al teatro Bonacossi di Ferrara nellAnnibale in Capua di Pietro Andrea Ziani e Niccolò Beregan. Un tale atteggiamento si collocava allopposto della mentalità professionale che alcuni anni prima aveva tracciato unaltra protetta di casa Medici, ovvero Checca Costa. Anche Checca esordì come cantante di camera e come Leonora toccò lapice della sua notorietà a Parigi, durante le ripetute trasferte degli anni 1644-1647. Dopo lexploit francese aveva però mostrato «palesi segni di insofferenza verso il controllo principesco che ne limitava lautonomia di scelta e di vita» e al suo ritorno in Italia avviò una strategia impresariale “tambureggiante” che le valse persino lappellativo di «aggressiva canterina» per la risolutezza con cui ogni volta patteggiava cachet a condizioni vantaggiosissime. Leonora fu invece molto determinata a sfuggire ai pregiudizi che nel corso del Seicento etichettavano come prostitute le donne che si esibivano nei teatri pubblici. La sua condotta selettiva fu totalmente estranea alla prassi, tacita ma comunemente accettata, che costringeva le cantanti a una continua e affannosa doppia ricerca: di ben remunerate opportunità lavorative e di potenziali occasioni per la riabilitazione sociale. Questultima poteva conseguirsi tramite la protezione, la patente di servizio o il patrocinio di una principessa particolarmente devota che per “proprietà transitiva” riuscisse a mondare le “peccatrici” dei loro “peccati”; oppure mediante il conseguimento di matrimoni con uomini di comprovata cultura, rettitudine e di elevata condizione sociale; altre volte bastava il proposito largamente pubblicizzato di facili conversioni spirituali e di pretestuose monacazioni. È questultimo il caso di Anna Maria Sardelli, popolare cantante delle scuderie medicee, che nel 1649 annunciò al suo protettore Mattias un imminente ingresso in convento per poi tornare sui suoi passi al momento decisivo. Leonora non era assolutamente interessata a identificarsi come professionista della scena. Per lei il canto era semmai il tramite per raggiungere il vero status a cui realmente ambiva e che sentiva più rassicurante: quello di suddito. Lo confermano almeno due indizi provenienti dal suo passato: l«allegrezza» che aveva manifestato al virtuoso Atto Melani nel 1654 per lingresso del marito nel novero dei servitori medicei; la felicità con cui nel 1660 raccontò a Mattias del suo viaggio a Roma e dellaccoglienza ricevuta dalle più importanti nobildonne di quella città. Proprio dal tono affettuoso e confidenziale di una sua missiva romana traspare tutta la gratificazione per il senso di appartenenza alla cerchia esclusiva del principe: «Mi scordavo di dare due altre nuove a Vostra Altezza, una è che le mie camicie sono quasi finite di consumare, però se la benignità sua non mi socorre con quelle dugento libbre, conforme alla promessa, sarò necessitata fare alla cappuccina, ma confido nella sua pietà. La seconda nova è che la discrizione che giocò Vostra Altezza Serenissima nelle stanze del Serenissimo Principe Cardinale Giancarlo con me, col dire lei chio fossi gravida e che ci voleva scomettere una discrizione sopra a questa cosa, a mie conti è passato il tempo di parechi settimane, et io per eser di coscienza, mi è parso bene il ricordarglielo, acciò possi pensare a sadisfare a sua debiti al mio ritorno». Il carteggio tra i principi fiorentini testimonia implicitamente labilità con cui la Falbetti riuscì a far prevalere allinterno della considerazione cortese la sua identità di donna e “dama di compagnia” su quella di interprete canora. La maggior parte delle volte è infatti citata come «la signora Leonora» laddove le altre cantanti sono per lo più menzionate senza il titolo di cortesia. Modesta è invece la ricorrenza del diminutivo affettuoso «Norina», che peraltro niente aveva a che vedere con le allusioni alle virtù seduttive o al “vil denaro” che invece caratterizzava i soprannomi di scena di gran parte delle altre voci femminili della squadra medicea di quegli anni. Si pensi alla già citata Anna Maria Sardelli, meglio nota come Campaspe, lavvenente favorita di Alessandro Magno a cui la soprano romana aveva prestato le sembianze nellallestimento dellAlessandro vincitor di se stesso di Francesco Sbarra e Antonio Cesti, inscenato al teatro dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia nel 1651. Ma si pensi anche al soprano fiorentino Caterina Angiola Botteghi alias Centoventi per via dei cospicui compensi che era solita spuntare nelle trattative con i teatri commerciali. Il massimo grado di chiusura verso le regole del teatro professionale spettò però alla sorella di Leonora. Per quanto si fosse dimostrata sin dallinaugurazione della Pergola in maggior confidenza con le ampie platee, la risolutezza di Lisabetta ad estraniarsi ed autoescludersi dal gioco di scambi e prestiti della «società cantante del tempo» fu tale da scoraggiare qualsiasi richiesta allindirizzo dei suoi protettori. Le uniche performances conosciute della sua carriera restarono così quelle per il teatro di corte fiorentino, da cui peraltro ottenne ben presto di essere esonerata. LHipermestra del giugno 1658 fu lultimo spettacolo della sua brevissima esperienza sulle scene dAntico Regime. A sostituirla nellorganico della Pergola furono chiamate prima Virginia Azzurrini e poi Lucia Rivani, cognata del già citato Antonio. In quello stesso 1658 Lisabetta ottenne liscrizione al ruolo di Giovan Carlo de Medici ritornando, immaginiamo con sollievo, alle più congeniali esibizioni cameristiche. La sua estraneità alla ritualità del teatro fu tale che non le fu mai assegnato nemmeno un nome darte. 4. Carlo Ballerini: attore solista e manager di famiglia Le scelte di Leonora Falbetti furono condivise e probabilmente ispirate dal marito Carlo Ballerini. Più anziano di una ventina danni, luomo risulta quasi sempre a fianco della moglie durante gli spostamenti e le rappresentazioni operistiche, sia per curarne gli interessi economici sia probabilmente per placare la sua accesa gelosia. Di lui non si sa molto altro. Battezzato a Firenze nel 1611 e originario di una umile famiglia del «popolo di SantAmbrogio», alcune notizie lo indicano come uno specialista del personaggio comico femminile di Pasquella. Secondo Filippo Baldinucci la maschera sarebbe stata creata da Bartolomeo Viviani, fratello del matematico Vincenzo, e avrebbe fatto la sua prima comparsa nelle commedie organizzate a Firenze dagli accademici Percossi attorno alla metà del Seicento. La fortuna scenica dellinvenzione fu tale che il personaggio prese immediatamente la via dellintrattenimento buffonesco, ispirando performances “a solo” e duetti comici in cui compariva al fianco del sodale Parasacco. Esibizioni di questo tipo furono eseguite da Ballerini nelle dimore private della famiglia Medici: nel 1651 una lettera di Bernardo Castiglioni lo indica come sicuro partecipante di una commedia di Pasquella e Parasacco offerta dai principi Medici al duca di Mantova allinterno del Casino di San Marco prima della «merenda» pomeridiana. Tre anni più tardi Ballerini entrò a ruolo del principe Mattias ottenendo lassegnazione ad una non meglio identificabile podesteria. Come manager di Leonora, con cui si sposò prima del 1654, Carlo si contraddistinse per particolari doti di oculatezza ma anche per un carattere “fiammiferino” pronto ad accendersi alla minima occasione. I modi poco garbati, da «porco salvatico quando va in amore», denunciati da Rivani nella trasferta parigina del 1661-1662, andarono gradualmente attenuandosi nella maturità. Durante la permanenza francese Ballerini assistette in prima persona alla fortuna scenica della moglie, ma non visse solo di luce riflessa. Poco prima della partenza per Firenze fu infatti invitato da Re Sole a ballare, improvvisare e recitare «da vecchia». Per quanto lInfanta di Spagna si fosse inizialmente dichiarata scettica sulle sue abilità coreutiche, poiché le «pareva che camminasse molto male e dubitava di quei suoi spalloni», lhappening, in cui lattore comparve con un abito da Coviello che si era cucito da solo, lasciò un buon ricordo ai reali di Francia. Certamente anche a lui si deve ascrivere la scelta di iniziare il secondogenito Francesco, nato a Firenze il 19 novembre 1655, al mondo dellopera in musica. Ignota è invece la vita della figlia maggiore Margherita Vittoria, nata il 22 dicembre 1654 e tenuta a battesimo da Mattias de Medici e dalla granduchessa Vittoria della Rovere. Il terzogenito Antonio, partorito da Leonora il 23 ottobre 1656, fu destinato alla carriera ecclesiastica. Sarà proprio lui nel 1683, con il nome di sacerdozio di don Carlo, a dare al padre, ridotto in condizioni «di disperata salute», gli ultimi sacramenti. La programmazione per Francesco di un futuro da cantante evirato rappresentava lennesima scelta fuori dai canoni della famiglia Falbetti Nacci-Ballerini. Carlo e Leonora furono infatti tra le prime e rare coppie dello spettacolo (cantanti, attori, impresari, scenografi, compositori, ecc.) che nel corso del Seicento decisero di consacrare un figlio al mondo delle voci bianche. Sin dalla metà del secolo la professione del virtuoso evirato fu in forte ascesa nei gusti del pubblico teatrale e nellimmaginario collettivo per quanto satireggiata da una larga parte della società. La sensualità androgina rendeva quei cantanti quasi esseri soprannaturali e la particolarità di una voce femminile incastonata in un corpo maschile andava perfettamente incontro al gusto per lo stupore, la meraviglia e lartificio che caratterizzò tutto lethos della civiltà barocca. Leonora e Carlo conobbero dal vivo il magnetismo di queste figure verso le quali neppure Firenze era rimasta indifferente. Basti pensare allaccoglienza divistica che la popolazione fiorentina riservò al cantante Baldassarre Ferri, giunto in città attorno al 1650 per cantare in unopera di Claudio Monteverdi. Al di là del senso di appartenenza o meno al mondo dei professionisti della scena, la decisione dei coniugi Ballerini rappresentava una inversione della strategia (anti) professionale applicata fino a quel momento per Leonora. Tanto avevano fatto per stare lontani dal clamore delle scene commerciali, altrettanto si impegnarono per predestinare il figlio ad una carriera da “stella” del teatro di consumo. Certamente sulla scelta dovette giocare un ruolo decisivo la fiducia riposta sul sostegno dei “principi impresari” di casa Medici, da cui i Ballerini speravano di ottenere consigli e finanziamenti per leducazione musicale e per lavvio alla professione del secondogenito. Le prime notizie utili su Francesco risalgono al 1667 e sono pertanto successive alloperazione chirurgica che per la corretta riuscita doveva essere eseguita tra i 7 e i 12 anni di età. In quellanno Francesco cantò nei panni di una Sirena nel dramma musicale Il ritorno di Ulisse rappresentato nel palazzo ducale di Pisa durante il soggiorno della corte per carnevale. La sua formazione canora proseguì quindi secondo un percorso scolastico-istituzionale che lo allontanò dalla famiglia per condurlo a Roma, dove tra il 1671 e il 1672 figurava tra i cantori salariati della chiesa capitolina di San Giacomo degli Spagnoli. A quellaltezza cronologica la città eterna, con la sua Congregazione dei Musici e la Cappella papale, era ancora il centro didattico più importante per aspiranti cantanti e solo verso la fine del secolo avrebbe ceduto il primato dinanzi allagguerrita concorrenza dei conservatori veneziani, napoletani e bolognesi. Maestro di cappella allinterno della chiesa di San Giacomo degli Spagnoli fu in quel periodo il compositore umbro Niccolò Stamegna. Durante il soggiorno romano Francesco ebbe modo di misurarsi con giovani promesse liriche, con compositori di talento e con interpreti affermati. Con il ritorno a Firenze nel 1674 il ragazzo, ormai educato al canto, iniziò un breve apprendistato alle scene teatrali a fianco della madre. Con lei recitò nel dramma per musica Tacere e amare di Moniglia e Melani, allestito al teatro del Cocomero di Firenze. Lo svolgimento delle prove dellopera allinterno della dimora dei Ballerini permise a Leonora di introdurre gradualmente il figlio nel mondo della nobiltà locale, che radunata nellAccademia degli Infuocati si era fatta carico di “produrre” lopera. Per gli aristocratici cittadini fu però soprattutto loccasione di vedere nuovamente in azione Norina, a distanza di oltre tredici anni dalla sua ultima esecuzione fiorentina. A causa dellimprovvisa morte del cardinale Giovan Carlo de Medici il teatro della Pergola aveva infatti chiuso i battenti nel 1663, interrompendo la produzione dellopera Amore vuole inganno e sciogliendo la cantante da qualsiasi altra incombenza scenica. Della programmazione dellattività operistica di Francesco si sentì invece investito il padre Carlo. Luomo si adoperò per riprendere i contatti con tutti quegli impresari ai quali negli anni passati aveva spesso negato le performances della moglie. Limpegno manageriale sconfinò però ben presto nellingerenza più completa e nel carnevale del 1680 Carlo giunse perfino a privare Francesco della soddisfazione di riscuotere il compenso di duecento doppie concordato con gli impresari Grimani in occasione dellambito debutto sui palcoscenici veneziani. Differentemente da quanto avrebbe fatto un padre-procuratore scrupoloso, Ballerini senior non scorporò la sua quota da quella del figlio ma, spinto dalle difficoltà economiche familiari – in quel periodo si lamentava come «tutti di casa» fossero «senza un minimo assegnamento per vivere» – decise dautorità di amministrare lintera somma. La sua avidità e lossessiva attività promozionale furono magistralmente ridicolizzate da Ippolito Bentivoglio in una lettera a Francesco De Castris, fedelissimo cantante e agente tuttofare del granprincipe Fedinando de Medici. Nel narrare la visita ricevuta dai Ballerini, di ritorno dalle recite veneziane, il nobiluomo ferrarese raccontò la scena in cui «la canuta Pasquella» si “pavoneggiava” del successo e dei regali ricevuti dal figlio a Venezia: «e dopo il raconto degli onori Serenissimi siamo venuti alle fortune, applausi e regali avuti da Venezia che sono stati tanti, che glaltri musici non sono stati regalati dun Finocchio lo guardano torto dallastio, che in lingua [v.] romanesca vuol dire invidia. E qui si è cacciato fuori lorologgio gioiellato valutato 40 doppie (per tanto è in lista) e con tale occasione si è fatto un panegirico della garbatura e generosità del Signor Ambasciatore Cornaro e del gran bene che vuole a Francesco. Dopo di che si sono cavati glocchiali, e posti su il formidabil naso, indi aperto un foglio e letti tutti i regali avuti e il loro valore, orologgio, zecchini, doppie, feraioli, perucche, merli doro e bianchi di punto et tutto valutato con i nomi dei donatori, cioè Giovanni Cornaro, Marco Mora et una dama senza nome, che voi battezzarete al vostro arrivo. Ma quello che vi è di più bello si è che in quel foglio è descritto il giorno lora che regalarono, loccasione, le parole che dissero e tutte le circostanze necessarie a rendere ridicolo il foglio e chi lo scrisse, et a mostrare che il buon putto con stomaco di struzzo si acomoda benissimo a mangiare su quel servizio del suo bel bambolo». 5. Lontano dagli occhi lontano dal cuore: Francesco Ballerini Lo sguardo beffardo del nobile ferrarese non risparmiò neppure Francesco. Mantenendo laltezzoso punto di vista di chi appartiene ad una classe dominante, le cui forme potevano essere mimate ma quasi mai possedute dalla maggioranza dei virtuosi, Bentivoglio si divertì a cogliere la personalità acerba e la puerilità dei modi del cantante fiorentino: «Cavalieri e dame cascano a gara per questo Narciso strasandato et, a vederlo, più capace di dar nel naso con la puzza della sua sciamannatagine e male creanze che con lodore della disinvoltura e buon tratto, per insegnarci che non bisogna fermarsi alla prima apparenza, ma penetrare linterno midollo delle cose, mentre anche un obelisco di preziosi marmi formato chiude in sé un fradiciume dun cadavero, quando una cassaccia irruginita nasconde ori e gemme. È sgarbato, brutto di viso: non importa, sarà bello quello che non si vede [...]». Quanto i coniugi Ballerini contassero sulla riuscita professionale del figlio, forse anche per colmare i mancati proventi di una professione praticata solo a metà da Leonora, lo testimonia lingresso di Francesco al servizio di Ferdinando Carlo Gonzaga nel 1680. Il duca di Mantova aveva assistito personalmente allesordio veneziano del cantante fiorentino ed era rimasto piacevolmente sorpreso dalla sua capacità di reggere il confronto scenico con il più esperto e collaudato Francesco Grossi detto Siface. Nelle trattative per portare Francesco sulle rive del Mincio gli emissari ducali accettarono una clausola dettata da Ballerini padre che prevedeva limpiego di tutti i familiari al servizio dei Gonzaga. Insieme a Francesco giunsero così a Mantova anche Leonora, impiegata come insegnante di canto della duchessa Anna Isabella, Carlo, a cui fu affidata la mansione di scalco di foresteria, Antonio, inquadrato come aiutante di camera. A questa altezza cronologica si sono invece perse le tracce di Margherita Vittoria. Sempre su suggerimento del padre, Francesco chiese e ottenne la libertà di partecipare ad altre produzioni operistiche purché non “confliggessero” con le messinscene mantovane. Limpresario veneziano Giovan Carlo Grimani gli consigliò invece di domandare la stessa paga mensile concessa a Siface dal duca di Modena e comunque una somma solo di poco inferiore a quella elargita dalla famiglia Gonzaga al celebre sopranista castrato Antonio Rivani, ormai a fine carriera. La predestinazione “imposta”, leccessiva pressione per le aspettative economiche di unintera famiglia, il rigido controllo paterno continuavano però a privare Francesco, ormai in età adulta, di qualsiasi indipendenza. Linsofferenza verso la sua famiglia darte fu la causa maggiore degli atteggiamenti ribelli che più duna volta lo videro indebitarsi con il gioco dazzardo e sfidare provocatoriamente lautorità principesca. Allinizio di giugno del 1681 rischiò persino di essere licenziato dal duca per intemperanze e spropositi. Alcuni corrispondenti di Ippolito Bentivoglio, tra cui il contralto pistoiese Filippo Melani, definirono il suo comportamento fortemente balzano. La difficile situazione mantovana indusse il padre a trasferirsi a Bologna nellagosto 1681 e in seguito a progettare un rimpatrio a Firenze con la moglie e il figlio Antonio. La separazione dai genitori – Francesco resterà invece tra i provvisionati ducali almeno fino al 1693 – influì positivamente sullumore del cantante. Da quel momento infatti la sua sregolatezza del vivere si incanalò in una più proficua ansia di progettualità. Smarcatosi dalla “zavorra” parentale e libero di essere sé stesso e di amministrarsi autonomamente, la sua carriera registrò un notevole “cambio di passo” che lo porterà a costruirsi un curriculum di primo piano e dai molteplici interessi. La rappresentazione mantovana dellOttaviano Cesare Augusto, allestito per la festa dellAscensione 1682 nel palazzo Ducale su partitura di Giovanni Legrenzi e libretto di Niccolò Beregan, fece da spartiacque della futura attività di cantante. Da quel momento infatti Francesco entrò in simbiosi con i personaggi principali ed eponimi delle produzioni cortesi e commerciali del centro e nord Italia, esigendo ed ottenendo scritture sempre più remunerative. Nel giro di un decennio il cantante percorse in lungo e in largo le vie di terra e dacqua della pianura padana passando in un crescendo di consensi dai teatri emiliani di Ferrara, Modena, Parma, Reggio e Piacenza a quelli della Repubblica Serenissima con “partecipazioni straordinarie” al teatro ducale di Milano e al Tordinona di Roma. Sulle ali dellentusiasmo gli anni Novanta lo videro implicato in nuove sfide e progetti. Nel 1691 la pubblicazione di una Serenata a tre voci, da lui stesso interpretata e dedicata alla nobildonna Beatrice Bentivogli Pepoli, siglò la sperimentazione del mestiere di “paroliere” che avrebbe poi coltivato con maggior convinzione un decennio più tardi. Nel 1693 tentò quindi la strada di agente ed emissario gonzaghesco scatenando le ire dellambasciatore di Spagna a Roma, il viceré di Napoli Luís Francisco de la Cerda y Aragón, duca di Medinaceli, a cui tentò di sottrarre la protezione della cantante e amante Angela Maria Voglia, in arte Giorgina. Ma le cronache del soggiorno romano testimoniavano anche una maturazione caratteriale e una maggiore attenzione alla cura dellimmagine. Rispetto al ritratto burlesco firmato da Ippolito Bentivoglio più di un decennio prima, Ballerini esibiva adesso invidiabili armi da fascinoso ed esperto tombeur des femmes: scriveva infatti il marchese Carlo Francesco Spada al principe Francesco Maria de Medici come «quel Ballarino» avesse «incatenato talmente lanimo di una gran dama, che incontrandosi per il corso fanno passi da cavallo, e si potrebbe sospettare di male, se non si sapesse veramente che per altro queste nostre signore sono il ritratto della modestia». Il salto internazionale della carriera di Francesco avverrà però allinizio del Settecento, quando, dopo una eclissi di alcuni anni, in cui di lui si perderanno completamente le tracce, lo ritroviamo a Vienna che esibisce con un certo orgoglio il titolo di Barone dellImpero concessogli da Giuseppe I dAsburgo. In una corte che pullulava di virtuosi e artisti e che in quegli anni si vuole imporre come crogiuolo delle arti coreutiche, canore e musicali del nuovo secolo, Ballerini riuscì a ritagliarsi uno spazio di tutto riguardo. I viennesi impararono ad apprezzarlo per le sue ottime doti di interprete di cui le poche testimonianze a nostra disposizione lodano la verosimiglianza con la quale riusciva a rendere i sentimenti dei personaggi e la particolare abilità nellesecuzione dei recitativi drammatici. Certamente fu lodato per la sua attività librettistica, di cui conosciamo la pastorale Il trionfo dellamicizia e dellamore, musicata dal compositore fiorentino Francesco Bartolomeo Conti e rappresentata nel Großes Hoftheater nel carnevale 1711 con scene di Francesco Galli Bibbiena. Ma Francesco passò alle cronache asburgiche soprattutto per le sue invidiabili capacità manageriali che nel 1710 gli fruttarono il ruolo di curatore degli eventi spettacolari di corte e il privilegio per lorganizzazione di rappresentazioni operistiche nella capitale. In quello stesso periodo ideò una bozza di progetto per un nuovo teatro di corte su cui, come si è già detto in apertura di questo contributo, si è ampiamente soffermata Françoise Decroisette. Non si trattava di un progetto darchitetto ma di un «umilissimo» memoriale di quattro carte manoscritte che Ballerini indirizzò (o pensò di indirizzare) alla «Sacra Cesarea e Real Maestà» e in cui raccoglieva e rielaborava in chiave originale e propositiva, ma ancora preliminare, la sua trentennale esperienza di cantante, viaggiatore e spettatore. Dalla sua terra dorigine, con la quale non spezzò mai i contatti, mutuò lidea di dotare il nuovo teatro viennese di una compagnia stabile, così come stabile era stata la troupe protetta da Giovan Carlo de Medici attiva alla Pergola e in cui, come abbiamo già visto, furono “forzosamente” reclutate anche la madre Leonora e la zia Lisabetta. Nel suo viaggio attraverso il granducato di Toscana del Settecento Francesco aveva inoltre conosciuto la compagnia mista di comici dellArte e semiprofessionisti che il granprincipe Ferdinando de Medici teneva provvisionata nella villa fuori porta di Poggio a Caiano. Ispirandosi al doppio modello fiorentino, la presenza di un organico fisso avrebbe dunque permesso allImperatore di trovare «sempre pronta la Recita di notte e di giorno». Dallesperienza veneziana Ballerini prese invece a prestito lidea di un edificio funzionante a livello quotidiano che alternasse generi e repertorio e che fosse aperto alla cittadinanza tramite il pagamento di un biglietto. Per quanto lidea di costruire nella imperiale residenza di Vienna un teatro per luso della corte e della città – e dunque destinato sia agli spettacoli privati degli Asburgo sia a rappresentazioni regolari per un pubblico pagante – rischiasse di essere letta come una minaccia alla sacralità degli spazi e delle prerogative del sovrano, si trattava più semplicemente della proposta di un concreto e versatile operatore dello spettacolo e come tale era scevra da impostazioni ideologiche. Lapertura delledificio oltre il tempo degli eventi dinastici aveva semmai motivazioni economiche e si ispirava alle moderne politiche “capitalistiche” di ottimizzazione dei servizi e di razionalizzazione dei costi. Così concepito il nuovo teatro di corte si sarebbe presentato come unimpresa redditizia in grado di autoalimentarsi consentendo un notevole risparmio sulle casse imperiali. Nello sponsorizzare la sua proposta Ballerini mise abilmente laccento anche sui potenziali benefici sociali ed economici di cui avrebbero potuto usufruire i cittadini della capitale; a partire dalle ricadute sul fronte occupazionale con la previsione di una “stabilizzazione” lavorativa di un buon numero di artigiani e di maestranze: i primi si sarebbero resi necessari per la costruzione e il mantenimento della struttura, i secondi per consentire il regolare svolgimento di una stagione aperta quasi tutto lanno «a riserva dei tempi proibiti dalla Chiesa, e nei Lutti di Corte di prima classe». Per persuadere i valutatori imperiali dellopportunità dellinvestimento Ballerini accluse alcune considerazioni circa lindotto commerciale che la nuova impresa avrebbe alimentato, perché «dove è gran concorso di forestieri, corrono necessariamente grandissime spese lasciando ciascheduno molto denaro con beneficio grandissimo de cittadini, li quali affittano a caro prezzo le loro stanze, e le loro carrozze: e perché ognun veste, ognuno mangia, ognuno dilettasi di appagare il proprio genio nella compra di ciò che gli piace, ognuno continuamente spende ed il cittadino continuamente profitta dovunque trovasi [v.] magior comercio e magior denaro». I tempi non si mostrarono maturi per concretizzare nel dettaglio linnovativa proposta e Francesco Ballerini dovette abbandonare lambizione di ottenere lesclusiva per la realizzazione del nuovo stabile viennese. Un teatro dopera permanente a Vienna sarà costruito solo nel 1741. Il Burgtheater al Michaelerplatz sorgerà sotto il regno di Maria Teresa al posto di un campo da tennis. A quellepoca però di Ballerini si erano ormai perse le tracce da più di un decennio. 5. Conclusioni Breve ma intensa si potrebbe definire la fortuna della famiglia Falbetti Nacci-Ballerini. La linea darte si snodò su due generazioni e riguardò le abilità canore, condivise tra sorelle e passate di madre in figlio, ma anche quelle manageriali, trasmesse per linea maschile. Si potrebbe dunque dire che Francesco sia stato un figlio darte “al quadrato”, la cui educazione al mestiere passò attraverso una doppia formazione: quella teorica e didattica fu affidata ad una delle più esclusive istituzioni specializzate, la cappella musicale di San Giacomo degli Spagnoli di Roma; quella pratica fu invece consolidata a Firenze sotto lattenta e talvolta opprimente supervisione dei familiari. Privato della possibilità di avere figli così come di costruirsi una famiglia tramite listituto cattolico del matrimonio, il teatro finì dunque per essere croce e delizia della sua esistenza: la causa della sua “diversità”, il crocevia attraverso cui misurare il fallimento o la riuscita della propria vita, il mezzo attraverso il quale lasciare ai posteri un segno della sua presenza. Lisabetta e Leonora esercitarono la professione per “sottrazione”, stando ben attente a non essere etichettate come “canterine”, “musiche”, “virtuose”. Leonora cercò di far collimare la sua immagine con quella di moglie devota e di suddito modello. Limprovviso successo parigino dellErcole amante, che la rivelò al mondo del teatro dopera internazionale, restò così un fatto isolato che la cantante non volle reiterare. Ancora maggiore fu il disimpegno verso lattività di palcoscenico da parte di Lisabetta, che rispetto alla sorella ottenne di abbandonare precocemente la compagnia medicea della Pergola. Differentemente da Leonora, Lisabetta continuò però a vivere di canto. Dopo la scomparsa del principe Giovan Carlo nel 1663 il suo nominativo figura ininterrottamente tra i ruoli dei musici di corte fino al 1676, quando di lei si perderanno le tracce. La lunga permanenza al servizio della casa Medici e il compenso di 10 scudi mensili goduto negli ultimi anni alludono indirettamente alla bontà artistica della cantante. Francesco visse invece con slancio e curiosità intellettuale le possibilità sociali, culturali ed economiche offerte dal mestiere a cui fu destinato. Completamente immerso nelle luci del mondo dello spettacolo, costruì la sua carriera aggiungendo alle competenze vocali ambizioni da librettista, al background manageriale lattività di consulente imperiale e dimpresario, ingegnandosi nello studio di iniziative commerciali da promozionare e da cui trarre nuovi profitti. La diversa coscienza professionale rinviava ad una differente visione della vita. Lisabetta, Leonora e Carlo incarnavano una mentalità feudale, basata sulla legittimazione della corvée e del rapporto di servitù. Per loro, che provenivano da famiglie per le quali il lavoro quotidiano era lunica fonte di sussistenza, il radicamento allinterno di una corte rappresentava il coronamento delle ambizioni di sicurezza economica e di riconoscimento sociale. Francesco rappresentò invece la nuova mentalità moderna e borghese. Per lui la protezione signorile fu il punto di partenza e non di approdo delle sue personali ambizioni di indipendenza, che andò progressivamente coltivando dal confronto con il pubblico delle sale, dal contatto con il mondo “reale” dei mercanti, dei banchieri, degli artigiani e delle maestranze. “Condannato” per professione alla dimensione aperta del viaggio, la fortuna della sua carriera fu direttamente proporzionale alla distanza che lo separava da Firenze, toccando lapice nelle terre dAustria dove dimostrò il suo valore di «artista internazione multiplo». Proprio la sua capacità di integrarsi a fondo nel panorama culturale e nelle dinamiche socio-economiche della vita viennese potrebbe oggi essere presa a modello di “buone pratiche” comunitarie. E indicare in Ballerini un antesignano cittadino dEuropa.
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