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Paola Bertolone

L’“Abbesse de Jouarre” di Ernest Renan nella realizzazione di Eleonora Duse

Data di pubblicazione su web 14/12/2015
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1. La scena della ghigliottina

Il dramma L’Abbesse de Jouarre di Ernest Renan usciva il 15 ottobre 1886 presso l’editore parigino Calmann-Lévy. L’autore, storico delle religioni, filosofo e filologo, non era alla sua prima pièce. L’avevano preceduta Caliban, suite de La tempête nel 1878, L’Eau de Jouvence, suite de Caliban nel 1880, Le prêtre de Nemi nel 1885, che non erano state rappresentate. L’unica messinscena di un testo di Renan che precorse quella italiana, 1802. Dialogue des morts, ebbe luogo il 26 febbraio 1886 per una serata celebrativa in onore di Victor Hugo alla Comédie Française.

Sempre il 15 ottobre del 1886 «Le Figaro» aveva anticipato la Prefazione al dramma e la quarta scena del primo atto, corrispondente al primo dialogo fra il personaggio principale, Julie-Constance de Saint-Florent e il marchese d’Arcy. Ciò testimonia l’attesa che circondava il nuovo lavoro di Renan, in odore di scandalo. Protagonista dell’opera, dicevo, è Julie-Constance de Saint-Florent, la badessa di Jouarre, una donna colta che ha letto Voltaire e Rousseau (I, 5).[1] Una donna dal forte carattere, caratterizzata da una devozione severa verso le regole monacali cui aderisce non per libera scelta, ma per un obbligo familiare e che si trova inaspettatamente a infrangere quelle regole. Da qui la scabrosità della pièce. Altrettanto protagonista è il contesto storico che segue la Rivoluzione francese, quell’epoca del Terrore simbolizzata dalla ghigliottina.

Renan sceglie con molta probabilità tale arco temporale non perché interessato a mostrarne scenicamente un episodio specifico. La questione indagata è la condizione esistenziale in momenti estremi, come quella che si delineò durante il Terrore. Ciò gli consente di studiare l’animo umano, di svelare gli elementi nascosti delle relazioni interpersonali e di portare alla luce quanto le convenzioni sociali fanno tacere.

Osservando l’edificio del Collège du Plessis, dove nel 1793-1794 venivano rinchiusi i condannati a morte dal tribunale rivoluzionario, Renan si interroga sui dialoghi e sulle azioni che vi dovevano avere luogo. Si legga la Premessa alla prima edizione dell’Abbesse de Jouarre:

Je me figure les conversations qui ont été tenues dans ces grandes salles du rez-de-chaussèe, aux heures qui précédaient l’appel, et j’ai conçu une série de dialogues que j’intitulerais, si je les faisais, Dialogues de la dernière nuit. L’heure de la mort est essentiellement philosophique. A cette heure-là, tout le monde parle bien, car on est en présence de l’infini, et on n’est pas tenté de faire des phrases. La condition du dialogue, c’est la sincérité des personnages. Or, l’heure de la mort est la plus sincère de toutes […].[2]

Renan esplicita poi la tesi di fondo dell’opera: la potenza dell’amore, sempre “represso” nel vivere sociale, esploderebbe nelle circostanze di massima gravità:

Je m’imagine souvent, que si l’humanité acquérait la certitude que le monde dût finir dans deux ou trois jours, l’amour éclaterait de toutes parts avec une sorte de frénésie; car ce qui retient l’amour, ce sont les conditions absolument nécessaires que la conservation morale de la sociétè humaine a imposées. Quand on se verrait en face d’une mort subite et certaine, la nature seule parlerait; le plus puissant des instincts, sans cesse bridé et contrariè, reprendrait ses droits […]. Cette sécurité de conscience, fondée sur l’assurance que l’amour n’aurait aucun lendemain, aménerait des sentiments qui mettraient l’infini en quelques heures, des sensations auxquelles on s’abandonnerait sans craindre de voir la source de la vie se tarir. Le monde boirait à pleine coupe et sans arrière-pensée un aphrodisiaque puissant qui le ferait mourir de plaisir.[3]

Una lettura dirompente della struttura moralistica che regola la società, in modo particolare se inserita nel contesto storico ottocentesco e precorritrice dell’epistemologia psicoanalitica. La sua è un’impresa da filosofo che analizza la natura umana e che utilizza quello che la tradizione filosofica e letteraria elegge a sintomo della teatralità, cioè il dialogo: «L’essence du dialogue étant de mettre en jeu des opinions diverses, et l’essence du drame d’opposer des types différents».[4]

Fu radicale e audace nei suoi saggi, Renan e tuttavia connotato da riflessioni controverse e anche accusato di affermazioni di ambiguo stampo razzistico (Renan è stato un semitista di valore). Il filosofo e drammaturgo ha avuto una ricezione controversa da parte della critica, soprattutto a cagione dell’evoluzione del suo pensiero. Dal punto di vista politico Renan fu anti-monarchico, liberale e anti-ecclesiastico, in un intreccio antitetico fra elementi conservatori e rivoluzionari, buoni sia per la destra sia per la sinistra. Fu caratterizzato da impeti di innovazione ribelle e costanti frenate di rientro nell’ordine prestabilito. Anche L’Abbesse de Jouarre non fa eccezione in tal senso. Scrive lapidario il critico Enrico Panzacchi traduttore in italiano dell’opera:

Ma Renan può sfidare con fronte sicura quanti sono al mondo più rinomati e abili fautori di regolarità a essere saldi più di lui sugli arcioni della legge. Guardate: questa donna che, a prima vista, sembra un agglomerato strano di ribellioni e di rivoluzioni, finisce invece per essere in regola con tutti. Finisce in regola con l’amore perché ama davvero il suo nobile salvatore e amico La Fresnais; in regola con la famiglia perché è niente altro che il marchese di Saint-Florent, suo fratello maggiore e capo della casa, che adopera tutta la sua legittima autorità perché la donna si pieghi, e le nozze abbiano luogo. Volete di più? Finisce in regola anche con la Chiesa, perché arriva in buon punto il Concordato a togliere di mezzo le irregolarità che potessero ancora esservi tra la superiora titolare della soppressa abbazia di Jouarre e la nobile signora La Fresnais.[5]

 

2. Le bandeau

Il dramma, diviso in cinque atti, ha inizio in una sala del già ricordato collegio di Plessis divenuto prigione per i condannati dal tribunale rivoluzionario; fra loro il marchese d’Arcy e il conte de la Ferté che ragionano sulla loro condizione. Compare improvvisamente anche Julie-Constance de Saint-Florent, badessa di Jouarre e fra lei e il marchese d’Arcy, in ricordo di un amore giovanile non consumato, avviene un intenso dialogo. Nel secondo atto, ambientato nella cella dove è rinchiusa la badessa di Jouarre, entra il marchese d’Arcy che era riuscito a corrompere il carceriere e a farsi condurre da lei. Con lunghi ragionamenti e riflessioni, d’Arcy riesce infine a convincere Julie a cedergli sostenendo che la morte imminente li pone al di sopra delle leggi sociali. Il terzo atto si apre con la lettura della lista dei condannati alla ghigliottina: fra loro non vi è il nome della badessa di Jouarre ma solo di d’Arcy insieme ad altri. Julie viene infatti graziata da La Fresnais ufficiale della Repubblica che si innamora di lei. La badessa di Jouarre, presa in seguito da uno sconforto profondo, tenta d’impiccarsi con la benda monacale, ma il tentativo di suicidio fallisce. Interviene a consolarla e a raccoglierne la confessione l’abbé Clément che, prima di venire condotto alla morte, la sprona ad accettare una vita di penitenza anche in virtù della possibile vita che porta in seno.

Il quarto atto, ambientato nel giardino del Lussemburgo, vede in scena Julie con una bambina di tre mesi, Juliette, in braccio, vestita di povere vesti, mentre si guadagna da vivere vendendo dolci. Per caso La Fresnais, che sta passeggiando nel giardino, riconosce in lei la badessa di Jouarre: il loro dialogo svela che Julie si è innamorata di La Fresnais ma non vuole rivelargli l’accaduto. Il quinto atto ha luogo alcuni anni dopo nel parco del castello di proprietà del fratello della badessa, il marchese di Saint-Florent, che ha accolto la richiesta di La Fresnais di proporle di sposarla. Il marchese supplica Julie di uscire dalla penitenza e di accettare il matrimonio con La Fresnais. Costei infine accetta avendo capito che la Chiesa non ha nulla da opporre, vista la soppressione di alcuni ordini religiosi fra cui il suo e l’imminenza del Concordato fra Stato e Chiesa, che sancisce l’uscita dal periodo rivoluzionario. 

Nella didascalia della scena ottava del terzo atto – un lungo monologo di Julie (Giulia) che la conduce alla decisione di uccidersi – si legge nella versione italiana: «Si strappa la benda e la considera un poco, come fa Monima nel quinto atto del Mitridate». La traduzione è aderente all’originale francese ma più dettagliata: «Elle arrache son bandeau et le considère un moment, come fait Monime dans Mithridate» (III, 8).

Nel drammadi Racine l’atto quinto si apre sul suicidio sventato di Monime, raccontato nella battuta dell’amica Phoedime (V, 1):

Madame, où courez-vous? Quels aveugles transports /
Vous font tenter sur vous de criminels efforts? /
Hé quoi! vous avez pu, trop cruelle à vous-même, /
faire un affreux lien d’un sacré diadème? /
Ah! ne voyez-vous pas que les Dieux plus humains /
Ont eux-mêmes rompu ce bandeau dans vos mains? /

La benda si strappa nelle mani della stessa Monime che al termine del successivo lungo monologo esclama:

Et toi, fatal tissu, malheureux diadème, /
Instrument et témoin de toutes mes douleurs, /
Bandeau que mille fois j’ai trempé de mes pleurs, /
Au moins, en terminant ma vie et mon supplice, /
Ne pouvais-tu me rendre un funeste service? /
A mes tristes regards, va, cesse de t’offrir; /
D’autres armes sans toi sauront me secourir; /
Et périsse le jour et la main meurtrière /
Qui jadis sur mon front t’attache la première! /[6]

Secondo la testimonianza del conte Gegé Primoli, Eleonora Duse sarebbe stata attratta dalla scena del “bandeau”. Cioè da quell’azione che lo stesso Renan, in modo poco consueto per i modelli o per lo meno per le consuetudini della drammaturgia, assimila esplicitamente nella didascalia a un precedente illustre come quello raciniano. L’attrice legge in controluce la presenza evocativa di una dimensione tragica di alto lignaggio nel personaggio della badessa, che è lo stesso autore ad avere veicolato. Tuttavia Primoli non coglie l’elemento di “ibridazione” classicheggiante e così scrive in una lettera indirizzata ad Alexandre Dumas figlio:

Cher Maître,
la Duse, qui a toutes les audaces, rêve l’une des tentatives les plus hardies qu’ait risquées une actrice. Elle s’est mise en tête de jouer – je vous la donne en mille – et d’imposer au public romain – l’Abbesse de Jouarre. Elle a été séduite par le bandeau, par l’apparition de l’Abbesse à d’Arcy, que sais-je […] Le drame est construit à l’envers. La seconde partie a le calme d’une exposition et les deux premiers actes ont la fougue et la passion d’un troisième et d’un quatrième: il semblerait que pour remettre le drame sur pieds, on n’aurait qu’à le retourner […].[7] 

Renan non conosce o forse rifiuta una prassi dei drammaturghi professionisti che consiste nel non esplicitare in modo diretto i modelli e le influenze. Un drammaturgo può nascondere delle tracce, alludere, ma non dichiara la sua ispirazione. Qui l’autore mostra la sua intenzione di nobilitarsi e implicitamente chiede all’interprete della badessa di Jouarre di collegarsi a un’elevata tradizione scenica. Nulla di così bizzarro dunque o di riconducibile a una forma di eccentricità da prima donna, come sembra fra le righe insinuare Primoli, nella fascinazione provata da Eleonora Duse per questa scena.

La lettura dell’opera di Renan rivela che la seduzione del “bandeau” è già tutta inscritta nella trama e va oltre alla scena del tentato suicidio. La Fresnais, l’eroico ufficiale repubblicano che otterrà la mano della badessa al termine del quinto atto, si innamora perdutamente di Julie dopo averla vista con l’abito monacale e dunque con la benda sul capo e averla riconosciuta sui banchi del tribunale rivoluzionario. La seduzione della benda monacale si presenta quasi come il motore della pièce e il campo della sua irradiazione semantica è molto ampio. Certo assai più di quanto sembri comprendere Primoli, i cui scrupoli sono in fondo quelli di contenere le scelte considerate azzardate e sconcertanti dell’attrice, sua protetta. Eleonora Duse, del resto, ricorre con fiducia a Primoli in fase di prova, come testimonia questo biglietto:

Potete venire a Valle stassera [sic!]?
Desidero domandarvi qualche
Cosa che interessa l’esecuzione
Dell’Abbesse
Volete?
Denise[8]

Ma il paternalismo di Primoli fuoriesce dall’ambito puramente stilistico e va a lambire questioni che toccano direttamente la persona dentro l’attrice. La sua intelligenza e il suo comportamento sociale poco si adattavano alle convenzioni, mentre le sue scelte artistiche diverranno da lì a poco, soprattutto con la rinuncia all’apostolato nei confronti del verismo, incompatibili con l’ambiente teatrale e culturale italiano.

Il “bandeau” cui converge lo sguardo innamorato di La Fresnais è elemento di attrazione, così come possibile strumento insidioso e letale ed è anche il segno di quell’alterigia in cui consiste, secondo Renan, il vero peccato della badessa. Superbia, orgoglio, fierezza sono vocaboli ricorrenti per descrivere il carattere di Julie de Saint-Florent nelle battute pronunciate dal marchese d’Arcy. In modo particolare nel secondo atto quando, dopo aver corrotto il carceriere, riesce a intrufolarsi nella cella dove la badessa è rinchiusa e a ottenere il suo amore nella notte che dovrebbe precedere l’esecuzione di entrambi. Nel torrente di parole e di giustificazioni che d’Arcy pronuncia, molta parte è proprio riservata a denunciare la condotta di Julie come improntata a un’orgogliosa verginità monacale, che deve essere vinta in nome di una supposta autentica femminilità. I vocaboli e le metafore che vengono utilizzati da d’Arcy sono quanto mai vicini a un ordine semantico dove la sessualità è associata alla guerra.

JULIE  […] Je pouvais, ces jours derniers, échapper au tribunal révolutionnaire. II suffisait d’un léger mensonge, d’une dissimulation, à peine coupable de ma dignité. Je n’ai pas cru que l’abbesse de Jouarre pût s’abaisser à un tel compromis. J’ai accepté la mort, j’ai été au-devant d’elle. Non; je ne faiblirai pas; c’est impossible. Laissez-moi, d’Arcy. Sûrement, nous n’avons en ce moment à tenir compte de personne; mais, jusqu’à la chute du couperet, nous aurons à tenir compte de nous mêmes. J’ai mon orgueil; voulez-vous donc que je me présente devant la mort amoindrie à mes propres yeux?

D’ARCY Ah! L’orgueil! chère Julie, et l’orgueil à cette heure, avec moi, votre ami, votre frère! De l’orgueil avec celui à qui vous avez donné votre coeur! Que les anciens maîtres avaient raison de croire que la vertu d’une femme a toujours besoin d’être humiliée! L’humiliation est nécessaire à la femme. La nature l’a voulu. Abélard ne fut maître d’Héloïse que quand il l’eut domptée. Vous croyez entrer plus grande dans l’éternité avec votre attitude inflexible. Erreur, croyez-moi. Moindre vous y serez. Si j’étais Dante, je ferais, dans mon Enfer, le cercle des orgueilleuses, qui ont vu dans le mépris des hommes une grandeur. La vertu altière est chez la femme un vice. Quelque chose vous manquera éternellement; éternellement, vous pleurerez votre virginité; croyez-moi.[9]

Julie è apostrofata come sdegnosa e altezzosa anche successivamente, ma per motivi diversi, alla fine del terzo atto (III, 11), dall’abbé Clément:

C’est d’humilité qu’il s’agit. Acceptez la vie, si elle vous est prolongée. Soumettez-vous aux règles comunes. Votre esprit et votre grand coeur vous designent pour relever un monde qui s’est imprudemment laissé choir. Vous vous êtes mise au rang de toute les femmes, n’en soyez pas honteuse; Dieu vous pardonnera si vous savez être simple femme. Vivez, soyez mère, soyez épouse.[10]

La considerazione di sé come di una persona “per bene” e dalla giusta condotta, i cui doveri personali coincidono con quelli imposti dalla sua classe, dalla nazione e dalla storia, porta la badessa a esprimere osservazioni di tipo sociale, più che sentimenti intimi. Tali tematiche ritornano nel quinto atto dove trionfano i richiami ai valori patriottici. Il dramma di Renan diventa qui piuttosto astratto e simile a un dramma a tesi o a un dramma a tesi cui si sovrappone la forma del dramma storico. Lo stile elevato del linguaggio, al confine col retorico e il continuo appello ai doveri verso la Francia, in modo specifico nell’ultimo atto, sono stati fra i fattori delle più o meno aspre critiche nei confronti della Badessa di Jouarre e la motivazione principaledei vari tentativi di adattamento drammaturgico.  

Proprio l’orgoglio ferito è il tasto su cui insiste l’abate Clément. L’adesione ai voti monastici di Julie de Saint-Florent viene presentata non come un atto di fede autentica ma come un volonteroso adeguarsi a comportamenti della classe nobiliare. Il titolo di badessa di Jouarre apparteneva infatti alla discendenza femminile dei marchesi di Saint-Florent. Il testo di Renan, si è detto, è ambientato all’epoca della Rivoluzione francese quando, com’è noto, fu decretata la soppressione degli ordini religiosi e la fine della classe nobiliare. Il “bandeau” che si strappa, il suo uso dissacrante nel tentativo di suicidio, l’attrazione fatale e per certi aspetti morbosa che esso suscita sono dunque una concretizzazione scenica del Terrore. La benda della badessa si carica di valenze molteplici e dissonanti e assurge alla densità del simbolo. In simili casi l’oggetto scenico diviene motore dell’azione e perde la banalità dell’uso quotidiano a favore di una qualità semantica più profonda e pluri-direzionata, di una condensazione emotiva quale viene percepita nel sogno.

A ciò va aggiunto che la scena del “bandeau” permetteva alla Duse un’azione “minimalista” di manipolazione di un oggetto, con la piena legittimità autoriale di una sublimazione stilistica in direzione opposta al romanticismo e al melodrammatico. Un’azione cioè non retorica, pienamente giustificata, non magniloquente, che usava l’oggetto per esprimere uno stato d’animo, come veicolo di un’emozione: una modalità di recitazione che sta sul confine della percezione scenica moderna e che si connota di gesti più circoscritti, piccoli e precisi, fuori dai clichés. Si può fare il paragone con una scena del film Cenere diretto da Febo Mari, ma voluto e interpretato dall’attrice nel 1916. In questa scena la vecchia madre (la protagonista interpretata dalla Duse), per una serie di circostanze divenuta una misera mendicante, seduta a terra in un prato gira e rigira una calza logora e bucata, per poi gettarla via. Attraverso quell’azione l’attrice soppesa tutta la propria esistenza, la vita disperata che conduce, l’abisso di solitudine in cui si trova, la lontananza dal figlio amato e il suo gesto del rigirare la calza lascia trapelare la sua infinita tristezza. Non c’era necessità di un monologo o di una mimesi accentuata dei sentimenti: il tempo passato e il dolore lacerante della perdita si “incarnavano” nella calza bucata, inservibile e buttata lontano.[11]

La polemica e l’attrazione verso la benda monacale può essere considerata quindi una pars pro toto dell’intera vicenda riguardante la rappresentazione del testo di Renan. La meraviglia e il vero e proprio sconcerto di fronte alla decisione di Eleonora Duse di mettere in scena L’Abbesse de Jouarre stupirono Primoli, come molta parte dell’entourage romano di artisti e intellettuali che gravitava attorno al conte. L’attrice si stava allora accingendo a concludere la sua partecipazione alla compagnia di Cesare Rossi ed era in procinto di debuttare come capocomica della Compagnia Drammatica della Città di Roma, in tandem con Flavio Andò.

Ma il disorientamento dell’ambiente romano verso la rappresentazione si tinse di toni ben più accesi negli interventi di provenienza vaticana, cui pare Eleonora Duse non volle rispondere. Stando a quanto si legge in un trafiletto sull’«Arte Drammatica», qualche giorno dopo la discussa prima della Badessa di Jouarre, avvenuta al teatro Valle di Roma il 7 dicembre 1886[12], sull’«Osservatore Romano» era comparso un articolo. L’autore chiedeva all’attrice di non rappresentare il testo di Renan, ma la Duse non replicò:

È oggetto delle risa dei buoni romani la notizia propalatasi l’altra sera al teatro Valle che cioè il Direttore dell’«Osservatore romano» abbia scritto una lettera alla Duse, scongiurandola a voler sospendere le rappresentazioni dell’Abbadessa di Jouarre, che sono di vero scandalo per Roma, centro del cattolicismo. La Duse naturalmente non ha risposto a tale lettera ridicola.[13]

In effetti così si era espresso «L’Osservatore Romano» prima del debutto:

Pregiatissima signora, comincio col dichiarare che sono uno dei vostri più caldi ammiratori, ammiro il vostro ingegno drammatico, il vostro accento vivo, efficacissimo, la vostra azione nervosa, vera, ammirabile, e non esito a proclamarvi, contro tutti gli invidiosi che tentano di attenuare i vostri meriti, la prima artista drammatica d’Italia. Ed appunto perché vostro ammiratore, mi permetto di indirizzarvi alcune osservazioni. Ieri il manifesto al Valle annunziava per questa sera la rappresentazione del nuovo dramma di Renan, l’Abbadessa di Jouarre, e il manifesto d’oggi conferma l’annuncio preventivo di ieri. Permettete che vi dica francamente che me ne dispiace per Roma, pel teatro, per voi; specialmente per voi. Che cosa sia quest’ultimo lavoro di Renan, non c’è bisogno che ve lo dica. Salvo il «Figaro» che ne regalò ai suoi lettori, come gustosa primizia, la prefazione e una scena, tutti o quasi tutti gli altri giornali lo hanno giudicato come una stramberia pornografica, di un ingegno traviato, immorale, rimbambito; uno scritto sbagliato nel concetto, e schifosamente ributtante nella forma. E questo giudizio non lo hanno dato mica soltanto i giornali cattolici, che puzzano di moccoli e di sacristia, ma giornali di tutti i colori e di tutte le nazioni; giornali per la maggior parte poco suscettibili in fatto di moralità e punto scrupolosi in fatto di religione. Eppure è questo lavoro così screditato che voi presentate al pubblico di Roma, anzi, se non m’inganno, scommetto che voi vi siete decisa a rappresentarlo appunto perché così screditato. Voi siete artista fino alla radice dei capelli e vi compiacete delle difficoltà della scena. E probabilmente per questo, uno dei drammi che più vi hanno sedotto è La moglie di Claudio, che per quanto porti il nome di Dumas non ha altro merito che l’essere di una oscenità rivoltante. Letta l’Abbadessa di Jouarre, voi avete detto a voi stessa: l’Abbadessa di Jouarre è un lavoro impossibile, il Renan non l’ha scritto per le scene, nessuna artista, nemmeno Sarah Bernhardt, ha pensato di recitarlo: ebbene, questo tour de force lo farò io. E vi siete fermata qui, sognando nella difficoltà dell’impresa un nuovo trionfo. Ma non avete riflettuto abbastanza; altrimenti avreste veduto che il tentativo cui vi accingete è un insulto al pubblico di Roma. Voi insultate alla nostra intelligenza e al nostro senso morale. Voi ci dite: l’Abbadessa di Jouarre è un drammaccio; lo so. Tutti l’hanno giudicato così e volete che io col mio valore d’artista, non lo abbia capito? Eppure questo drammaccio io ve lo farò digerire dalla prima scena all’ultima; anzi voi sarete così cretini che dimenticherete affatto il dramma per l’artista e finirete col trovarlo bello. Voi ci dite: l’Abbadessa di Jouarre è il non plus ultra della oscenità. Eppure io vi farò assistere a questa oscenità, e riuscirò a farvela applaudire. Ma il pubblico sopporterà in pace la sfida che voi gli gettate? Forse il teatro sarà popolato; non dico di no. Purtroppo la lubricità degli spettacoli ha corrotto profondamente il senso morale e molti che nella conversazione, si scandalizzano di qualche parola a doppio senso, ridono allegramente al teatro di certe frasi che di senso ne hanno uno solo. Ma pur tuttavia accade che il senso morale si risveglia, la coscienza pubblica si rivolta all’immoralità troppo sfrontata e fischia di santa ragione commedia ed artisti. Auguro che questa sorte tocchi all’Abbadessa di Jouarre. Me ne dispiacerà per voi, ma lo avrete voluto.[14]

Va notato l’accenno relativo alla motivazione della scelta come, diciamo, deliberatamente provocatoria visto il tema troppo scabroso e tenuto conto delle relazioni ostili fra Stato italiano e Chiesa cattolica. Unicamente nel quotidiano di parte cattolica si manifesta la comprensione di un meccanismo di “marketing” che Eleonora Duse utilizza a piene mani. L’attrice sapeva bene quanto la morbosità delle tematiche attirasse il pubblico, mentre in altri giornali non si fa accenno a tale valenza. Va anche notato come, stranamente, molti degli studiosi, soprattutto di tempi non recenti, non abbiano mai voluto vedere la strategia dell’attrice, preferendo uno sguardo interpretativo che ne restituisse solo il ruolo di sofferente e di vittima, pervasivo mito culturale.[15]

La didascalia relativa al “bandeau” fa capire meglio il personaggio della badessa e più in generale sia i propositi dell’autore sul piano artistico e teatrale, sia quelli dell’attrice. Il personaggio raciniano di Monime, chiamato in causa nella scena del suicidio, svela la stravagante scelta di Eleonora Duse di rappresentare il testo non di un rinomato drammaturgo, ma di un celebre filologo e storico francese. Di lui, autore fra l’altro di precedenti irrapresentate e forse irrapresentabili opere drammaturgiche come le citate Caliban, Le prêtre de Némi, Eau de Jouvence[16],l’attrice possedeva alcuni volumi.[17] Su tali opere drammaturgiche, di solito attribuite al genere del dramma storico, Enrico Panzacchi così si esprime nella premessa alla sua traduzione:

Eppure nessuno dei quattro drammi finora composti dal Renan può chiamarsi storico nel senso esatto del vocabolo; anzi, se v’ha punto sul quale egli ami di parlar chiaro e si sforzi di non essere frainteso dal pubblico, è appunto questo: «Per evitare ogni sospetto di colore locale (dice una nota al Prêtre de Nemi) che tutti i personaggi siano vestiti come le figure di Masaccio al Carmine o come i Romani del Mantegna agli Eremitani di Padova». Per tale modo l’anacronismo storico, che i pittori quattrocentisti e Shakespeare e tanti altri commettevano o per ignoranza, o per incuria o per qualche vaga dilettazione artistica, egli, lo storico severo, qui lo ha voluto con proposito deliberato, aggiungendo un’apparente contraddizione di più al mucchio ormai enorme delle antinomie che si affollano e si dibattono nei suoi volumi.[18]

Quando pubblica la prima edizione dell’Abbesse de Jouarre nell’ottobre 1886 Renan è famoso in Francia come filologo e come storico delle religioni, in particolare come semitista. Ha poi scritto numerosissime opere di tema storico-antropologico-religioso, molto controverse sia presso il pubblico del suo tempo, sia ancora oggi.[19] Fra queste ricordo: Averroès et l’averroïsme (1852), Histoire des origines du Christianisme (1866-1881), Histoire du peuple d’Israël (1887-1893), Souvenirs d’enfance et de jeunesse (1884).

In Italia, in particolare a Roma, Renan era soprattutto l’autore della Vie de Jésus[20], opera che ricostruisce, umanizzandola, la figura di Gesù all’interno del complesso culturale, sociale, geografico in cui il Cristo si trova a diffondere il suo messaggio. Per tale opera Renan viene messo all’indice dal Vaticano e l’ostracismo sul suo pensiero e sulla sua produzione giocano un ruolo non secondario nella controversa vicenda dell’allestimento della Badessa di Jouarre. La Duse intenta una battaglia di ordine teatrale e non solo. La consapevolezza di sollevare un polverone con la decisione di rappresentare il testo del Renan era indubbia da parte dell’attrice, la cui strategia provocatoria va riconsiderata anche alla luce di questo episodio. Basti ricordare l’intervento perentorio da parte dell’«Osservatore Romano» su cui il 10 dicembre viene pubblicata la seguente recensione allo spettacolo:

Non fu materialmente un vero capitombolo, come per amore del decoro, del buon senso, e dell’arte avremmo desiderato: ma fu un fiasco deciso ed assoluto constatato concordemente dalla stampa, anche dalla parte meno scrupolosa e perciò meno sospetta. Premettiamo che in queste due sere il pubblico era il più eteroclito e cosmopolita che si potesse immaginare. Si udivano tutti i linguaggi, tutti i dialetti, abbondava la lingua francese. Il primo atto destò l’ilarità generale, quando non fece fremere, per la sua fenomenale volgarità. Il secondo, col quale il fatto (non il dramma, che non c’è mai) sarebbe terminato, provocò lo schifo anche in coloro che traggono l’ispirazione poetica dal fango e la luce scientifica dalla scimmia e dalla farfalla. Il terzo atto, nella prima parte, sembrò un quadruccio di operette e ricordò la scena della passeggiata dei numi nell’Orfeo all’Inferno; ed anche il carro degli accalappiacani. La seconda parte, ossia la scena in cui l’abbadessa, che aveva tentato di uccidersi, si confessa all’abate Clément (Cesare Rossi), fu il solo punto veramente e caldamente applaudito. Inutile il dire che pensiamo di questo simulacro di Sacramento portato e rappresentato sulla scena. Ma questi applausi sono una solenne condanna di tutto il lavoro, perché provocati esclusivamente dalle parole dell’abate Clément, alte, nobili, severe, quantunque non tutte corrette e misurate. Questi applausi significano che il pubblico, per quanto moralmente ed etnograficamente multicolore, il quale fino allora non aveva rotto il silenzio che una volta soltanto per omaggio personale alla Duse, era stanco di tutto il grottesco, l’empio e il turpe che gli era passato sotto gli occhi, ed afferrava volentieri quel momento di lucido intervallo per protestare che egli non partecipava in nulla alle idee, all’audacia, alla scellerataggine, alla stoltezza dell’autore, ed alla temerità degli artisti. Colse quel momento per scusarsi quasi per aver permesso che l’azione continuasse. Il quarto atto provocò continue risa sardoniche, grida di basta, basta e parecchi fischi. Concludendo, il lavoro del Renan non è soltanto sacrilego e nauseante, ma anche puerilmente stupido e contrario ad ogni principio logico ed artistico. Non vi è in esso una scena, una battuta veramente drammatica; non vi è (tolta la parlata dell’abate Clément) un’idea sola giusta, originale, alta, profonda; non un fatto veramente umano; non un pensiero nobile ed ispirato; nulla insomma né di poetico, né di scientifico, né di artistico, né di possibile. Non si sa dunque trovare un’attenuante, una spiegazione qualunque all’audacia della compagnia Rossi ed al capriccio della signora Duse di portare sulle nostre scene un simile imbratto. La rappresentazione poi di questo imbratto, oltre all’essere stata, come dicemmo, una sfida al pubblico ed un’offesa alla Religione e ad ogni sano criterio logico ed artistico, è un vero delitto di lesa patria; perché fa conoscere, a detrimento del nostro buon gusto e dell’arte nostra, una produzione respinta dalla stessa Francia, ove purtroppo trovan si fortuna gli scellerati, ma non i mentecatti come il Renan. La storia dell’arte drammatica ha oggi una pagina ben nera da scrivere intorno alla compagnia Rossi ed all’artista Duse! E quanto a Renan, lo abbiam già fatto comprendere, ormai è soltanto questione di manicomio![21]

A premessa della versione in italiano dell’Abbesse de Jouarre, pubblicata all’inizio del 1887, cioè a ridosso della prima edizione francese e a pochissimo tempo dalla prima dello spettacolo della Duse, Enrico Panzacchi scrive il già citato Ernesto Renan drammaturgo. Si tratta di un’introduzione corposa, non di una semplice premessa di convenzione, dove però è evitato ogni riferimento all’ostracismo vaticano nei confronti dell’autore della Vita di Gesù. Panzacchi entra piuttosto nei dettagli delle altre tre opere drammaturgiche prima di presentare l’ultima, la discussa e scandalizzante Badessa di Jouarre. Quest’ultima viene in certo senso “normalizzata” mettendola in relazione con il repertorio più diffuso e con quei personaggi che erano anche della Duse:

Povera abbadessa di Jouarre! Nel mondo, che ha avuto tante lagrime pietose per le Manon, le Marion, le Margherite, le Fanny e le Cesarine, per lei sola pareva che non vi potesse essere stilla di pietà e di misericordia. L’amore che adesso si cerca come attenuante a tutte le virtù e si accetta come un ornamento a tutte le colpe, per lei sola pareva che avesse perduta ogni potenza mediatrice e mitigatrice. E tutto per quel benedetto soggolo e per quell’ombra di scapolare benedetto![22]

Il traduttore italiano usa lo stratagemma di suggerire ai lettori come il personaggio della badessa appartenga allo standard drammaturgico del repertorio più diffuso. In questa strategia tuttavia Panzacchi sembra cogliere assai più ciò che doveva esprimere Eleonora Duse in scena di quanto provenisse da Renan. In altre parole, Panzacchi tramanda la lettura scenica, le azioni, i modelli, lo stile che vede rappresentato dall’attrice e che scambia per insito nel dramma di Renan, mentre poco o niente del repertorio “borghese” ottocentesco trova posto nell’opera. Anche la battuta di d’Arcy citata sopra (II, 2) contiene una normalizzazione operata da Panzacchi, evidentemente preoccupato di far “digerire” al pubblico la Badessa di Jouarre proponendone dei paralleli già conosciuti.

È il caso della traduzione del vocabolo «verginité» dell’originale con «pianto della figlia di Jefte». Qui il richiamo di Panzacchi non è all’episodio biblico del Libro dei Giudici, ma a un dramma ora dimenticato, dal titolo appunto La figlia di Jefte, scritto da Felice Cavallotti. La prima della Figlia di Jefte, protagonista Virginia Reiter, era avvenuta il 7 aprile 1886 al teatro Filodrammatico di Milano, ma per il pubblico romano dell’Abbesse de Jouarre il ricordo era ben più vicino e ben più di recente: nel novembre 1886 e sempre sul palcoscenico del teatro Valle, La figlia di Jefte era stata interpretata, con grande successo, da Eleonora Duse. Si legge sull’«Arte Drammatica»:

La figlia di Jefte, sere addietro, ha realmente trionfato al Valle, interpretata dalla Duse! Fu un fanatismo per lei, che seppe farci vedere in tutto il suo splendore, per la prima volta, la protagonista immaginata dall’on. Cavallotti […].[23]

La traduzione di Panzacchi echeggia l’attualità teatrale italiana e segnatamente gli episodi e i personaggi riguardanti Eleonora Duse, nel tentativo di spegnere l’incendio della scandalosa badessa, facendo appello a circostanze sceniche simili, già divenute familiari per il pubblico. Tuttavia il cruccio di Panzacchi di un “rappel à l’ordre” culturale, morale, linguistico va oltre il mondo dello spettacolo. Enrico Panzacchi, rispecchiando inconsapevolmente nel suo saggio l’interpretazione dusiana, adduce elementi riconducibili a personaggi della drammaturgia corrente. La tensione dell’autore francese è invece tutta direzionata verso l’individuazione di un modello di teatro “altro”, in parte da lui rintracciato nelle opere classiche. Scrive Renan nella prefazione al volume Drames Philosophiques:

On arrive ainsi à conçevoir, dans une humanité aristocratique, où les gens intelligents formeraient le public, un théâtre philosophique, qui serait un des plus puissants véhicules de l’idée et l’agent le plus efficace de la haute culture. Un tel théâtre n’aurait évidemment rien en commun avec le théâtre actuel, succédané du café-concert, où l’étranger, le provincial, le bourgeois ne cherchent qu’une manière de passer agréablement leur soirée. Il ne faudrait pas que cet hônnete divertissement disparût; mais il faudrait qu’il y eût quelque chose de plus. Pour le livre, à côté du volume destiné aux cabinets de lecture, il y a le livre dont le succès est d’être apprecié de quelques centaines de connaisseurs. Or, pour le théâtre, l’équivalent du livre aristocratique, n’existe pas. La nécessité d’attirer, chaque soir, douze ou quinzecents personnes qui veulent être amusées, crée pour le théâtre une situation analogue à ce que serait celle de la librairie, si on ne pouvait publier un livre qui dût avoir moins de dixmille lecteurs. Un des arts les plus expressifs se trouve ainsi interdit à la haute pensée.[24]

Un paradigma dell’ispirazione ai cosiddetti classici, a una tradizione colta pre-moderna, oltre al già citato personaggio di Monime e all’episodio del “bandeau”, è ravvisabile nella scena sesta dell’atto terzo. Si tratta di un’unica battuta di Julie:

JULIE (Sanglots.) Graciée! Plus de doute possible! La mort ne veut pas de moi rage! … Non; je ne vivrai pas. Ce serait honteux. mon pauvre ami, dont la tête roule en ce moment sur l’échafaud…
(Elle tombe éperdue sur le fauteuil.) Je mourrai. Grandes soeurs chrétiennes de nos vieilles histoires, je m’écarte de vos exemples. Ces hautes morts, à la façon romaine, vous furent inconnues. Mais vîtes-vous jamais de pareilles épreuves? Or sus donc, mes grandes soeurs païennes, conseillez-moi. Si j’étais une fidèle soumise comme tant d’autres, j’aurais à ma portée des expiations. Il n’y en a pas pour moi. Ma fierté est blessée à mort. Je serais toujours honteuse à mes propres yeux. Revenu à la grandeur antique, le siècle doit demander à la tradition antique ses solutions morales et sa règle du devoir. Aria, Lucrèce, Cornélie, qu’eussiez-vous fait en une telle situation? Oh! votre réponse m’est claire. Vous eussiez choisi la mort,
 (Elle se lève vivement).[25]

È interessante notare, come fa il critico Parmenio Bettoli nella sua recensione a una replica romana della Badessa di Jouarre, che l’esplorazione verso un diverso repertorio era in atto da più parti:

Io non ho mai sognato, come qualcuno si compiace di supporre, che si debbano sbandire dalla nostre scene i lavori stranieri. Staremmo freschi! Vengano invece, vengano pure e di Francia e di Lamagna, produzioni meritevoli di attenzione e di plauso e troveranno sempre tra noi onesta e simpatica accoglienza. Ma quello che non so compatire è che, giusto noi, dobbiamo dannarci l’anima per far attecchire in casa nostra delle piante esotiche, che non trovarono, nel loro terreno natio, nemmeno un’aiuola che le ricettasse. Né questo dell’Abbesse de Jouarre è caso nuovo e isolato. Anche la compagnia nazionale volle tentare La Moabita, mai data a Parigi, e fece un fiasco solenne, e l’altra sera, al Manzoni di Milano, ha voluto fare altrettanto con L’erede del marito, commedia in tre atti di Bernard e Bilhani, che trovavasi nel medesimo caso, e che il pubblico ha seppellito tra i fischi, prima ancora che fosse finita. Tali insuccessi mi paiono severe lezioni e lezioni meritate.[26]

E tuttavia il confronto istituito da Bettoli si esaurisce nell’idea di novità rifiutate negli stessi teatri di Parigi, per ragioni non specificate e di cui si è tentata la sorte in Italia. Diversissima la circostanza della messinscena della Badessa di Jouarre che non a caso attrarrà anche André Antoine e che, stando a quanto riportato da alcuni periodici, non sembrava essere stata un incidente di percorso nella biografia artistica della Duse. Scrive Matilde Serao:

Al Manzoni la Duse reciterà oltre la Badessa di Jouarre di Renan una commedia nuova di Stefano Interdonato, il nuovo dramma di Dumas Francillon e poi l’Egmont di Goethe. Clara l’appassiona. Ne parla con entusiasmo: la sente, la vede, il che vuol dire che la vivrà. La riduzione è affidata a Panzacchi. Ier l’altro appunto la Duse discorreva con noi di questa interpretazione che tutta la possiede: e a grado a grado si esaltava e sorgeva, e avvolta nel suo scialletto di lana grigia succinto, rifaceva i varii momenti di quel dramma, e diceva le varie parti e il volto le si colorava, e gli occhi nella febbre dell’arte scintillavano, e poi chiudeva, con movimento infantile, tra le palme, il volto, e soggiungeva rapidamente, sorridente: mi piace tanto, mi piace tanto! E noi invidiamo i milanesi.[27]

Mentre l’«Arte Drammatica» negli stessi giorni annuncia:

Il piccolo Faust mi fa sapere che sarebbe intenzione della signora Duse farsi ridurre da Panzacchi il Faust di Goethe. No per carità, c’è il duetto con luce elettrica – e per noialtri che siamo tanto eccitabili sono posizioni da evitarsi![28]

 

La badessa di Jouarre, tutta la galassia di eventi e di persone che la circondano, sembra assumere una prospettiva diversa da quella di un tentativo solamente un po’ eversivo, scandalistico e spiazzante, se messa in rapporto con queste notizie di ipotizzati progetti che non avranno corso. L’attrice è alla ricerca di altri territori della rappresentazione, di altre categorie, è ansiosa di sperimentare nuovi autori e nuovi personaggi e Giulia di Saint-Florent è tale. Non si tratta della solita moglie tradita o trascurata o dell’amante colpevole, ma di una “intellettuale” la cui personalità e i cui desideri non si esauriscono nella relazione con un uomo. L’attrice metterà in scena nel giro di mesi Francillon di Alexandre Dumas, di cui si accaparra i diritti di rappresentazione per l’Italia (e che tuttavia non impediranno l’aprirsi di un processo legale), Antonio e Cleopatra nella riduzione-adattamento della tragedia di Shakespeare da parte di Arrigo Boito, Tristi amori di Giuseppe Giacosa e ha da poco rappresentato Cecilia di Pietro Cossa, In portineria di Giovanni Verga, La figlia di Jefte di Felice Cavallotti. Il mondo intellettuale e artistico la segue con difficoltà.Eleonora Duse, con la realizzazione della Badessa di Jouarre e delle opere cui dà corso fra la fine del 1886 e il 1888, attraverso la scelta di rappresentare alcuni autori, come Giuseppe Costetti di cui mette in scena nell’autunno 1886 La moglie di Caino e lasciarne perdere altri, come ad esempio Capuana e la sua Giacinta, trova per la prima volta una completa identità di attrice e già quasi capocomica. Un’identità costruita non solo in un’autonomia di giudizio, ma anche in opposizione alla generale riprovazione nei suoi confronti.

 

Con molta probabilità, il primo incontro fra Enrico Panzacchi ed Eleonora Duse da cui nasce il progetto di tradurre e rappresentare L’Abbesse de Jouarre avviene a Bologna nell’ottobre 1886 quando l’attrice è in città per una serie di rappresentazioni. Il testo di Renan, come già scritto, era uscito il 15 ottobre per le edizioni Calmann-Levy di Parigi. Panzacchi e la Duse già si conoscevano e in particolare va ricordato l’articolo pubblicato l’anno precedente sul neonato «Corriere di Roma» dove Panzacchi si lanciava in una appassionata e poetica dedica alla Duse.[29] Si può dunque affermare che per la Duse l’opera di Renan sia stata un vero e proprio “colpo di fulmine”.

Anche la collaborazione fra Renan e Panzacchi datava da anni, ma fu questa della traduzione-adattamento e dell’allestimento dell’Abbesse de Jouarre, di cui Panzacchi e Eleonora Duse detenevano i diritti di rappresentazione per l’Italia,l’occasione speciale. Si vedano le lettere commentate nel saggio Una lettera inedita di Ernest Renan a Enrico Panzacchi di Francesca Bianca Crucitti e in quello di Henriette Psichari, curatrice delle opere complete di Renan, L’abbesse de Jouarre au théâtre.[30]

Attribuire al “bandeau”, come fa Primoli, la scelta della Duse di far tradurre, adattare e mettere in scena un testo drammaturgico di Renan, può sembrare riduttivo e in un certo senso lo è. In questa lettera si misura una distanza di sensibilità culturale fra Primoli e Eleonora Duse. L’incomprensione, o la vera e propria avversione, mostrata in questa vicenda dal conte e dal mondo artistico e intellettuale italiano sono il barometro di una divergenza che presto diverrà insanabile. I commenti di “buon senso” e il perbenismo che si riversano sull’attrice, suggerendole di lasciar perdere l’idea di mettere in scena L’abbesse de Jouarre, coinvolgono quasi tutti gli amici come Primoli, Giacosa, Verga, Matilde Serao, il medico personale dell’attrice Jacob Moleschott[31] e non ultimo anche Alexandre Dumas. Se quest’ultimo, interpellato, decide di non correggere la struttura dell’opera e si limita a giudicare un po’ bizzarra tutta l’operazione, gli altri esprimono opinioni di tipo morale o moraleggiante. Risponde Dumas alla richiesta di intervenire da parte di Primoli:

 

Mon cher enfant,
… ce que fait la Duse est insensé. C’est encore plus ensensé de Renan de le permettre, mais je crois que le théâtre lui tourne positivement la tête. Je ne m’en mêlerai pas.
Bien à vous. A. Dumas f.[32]

L’atteggiamento del conte Primoli è ambiguo e tale ambiguità si manifesta anche nel fatto di non aver accennato alla vicenda all’interno dell’articolo biografico da lui realizzato appositamente nel 1897, in vista delle rappresentazioni date da Eleonora Duse a Parigi e apparso sulla «La revue de Paris» il 1° giugno 1897. Il manoscritto preparatorio per la pubblicazione, conservato alla Fondazione Primoli di Roma, registra invece alcune lettere di Renan, di Panzacchi, dello stesso Dumas intorno all’episodio della Badessa di Jouarre. Sembra dunque legittimo ipotizzare un ripensamento tardivo del Primoli, di cui non si conoscono le motivazioni ma che con molta probabilità hanno a che fare con le controversie suscitate e che lo convinsero a “censurare” i fatti.

Un episodio che testimonia lo scandalo che accompagnò sempre lo spettacolo è annotato  nel diario di Guido Noccioli, attore nella compagnia dusiana e risale all’agosto 1907. Eleonora Duse e la sua compagnia si trovavano allora in tournée in Sud-America. La badessa di Jouarre venne messa in prova a Buenos Aires, come succedeva spesso, nell’albergo dove alloggiava l’attrice, per alcuni giorni compresi fra il 26 e il 30 agosto 1907: la pièce sarebbe dovuta andare in scena il 30 agosto al teatro Coliseo. Ma questo non avvenne. Si legge nel diario del Noccioli:

Buenos Aires, 30 agosto 1907
Giornata laboriosissima. Di giorno, terza matinée di abbonamento con Il bacio e La locandiera e, di sera, decima recita in abbonamento con Magda! Non più Abbadessa perché le signore abbonate, illuminate dalla censura ecclesiastica, hanno impedito la rappresentazione del dramma incriminato. La signora ha preso cappello. Stasera era stanchissima. In camerino è stata colta da uno svenimento, per fortuna leggero e breve.[33]

Come accade non di rado, anche nel caso della Badessa di Jouarre non abbondano le notizie relative all’allestimento, dettagli sulla recitazione della Duse e degli altri attori o informazioni su costumi e scenografia. Tuttavia sappiamo che la Duse indossava un abito bianco di lana con drappeggio simile, parrebbe, a un kimono giapponese[34] dalla forte carica seduttiva, come scrive la Serao dalle colonne della rubrica Api Mosconi e Vespe del «Corriere di Roma»:

La Duse era bellissima. La molle lana bianca la involgeva con linee di arte; e il flessibile corpo pareva sottile, statuario talvolta; parea talvolta fremente di seduzione. Due o tre volte ella sembrò un’apparizione; certo gli ascoltanti han portato via, nella fantasia, la visione meravigliosa.[35]

Degno di nota il fatto che la didascalia contenuta in atto primo, scena quarta, prevedeva tuttavia un abito nero accompagnato da un lungo velo dello stesso colore a coprire la badessa dalla testa fino ai piedi: «L’abbesse est vêtue d’un long costume noir et d’une sorte de voile qui l’enveloppe du haut de la tête jusqu’aux pieds. Bandeau blanc sur le haut du front».[36]

Il costume di Flavio Andò, interprete del personaggio del marchese d’Arcy, era un po’ affettato e includeva anche una parrucca bianca; in alcune recensioni compare un accenno alla goffaggine di tale abito che non si armonizzava al resto dei costumi più stilizzati e meno “maschera del Settecento”. Alle scene, opera del famoso scenografo Alessandro Bazzani, fu prestata molta cura e vennero apprezzate dalla critica. Conoscendo lo stile realista del Bazzani, è economico ipotizzare una ricostruzione storicamente fedele degli ambienti previsti da Renan, a partire dal Collegio di Plessis utilizzato come prigione durante l’epoca del Terrore (primo atto), fino alla cella del secondo atto e alla portineria della prigione, ambiente dove ha luogo il terzo atto. Alle rappresentazioni romane del dicembre 1886, così come avviene per gli spettacoli al teatro Manzoni di Milano del gennaio 1887, il quarto atto, situato nei giardini del Lussemburgo, fu soppresso. Come si vedrà più dettagliatamente, fu rimaneggiato in modo notevole il quinto atto che la didascalia vuole collocato nel parco di un castello.

Una questione rimane irrisolta, vale a dire se nella messinscena di Eleonora Duse fossero presenti le musiche che l’autore francese aveva previsto in un punto particolare del testo: le canzoni Ça ira e Chant du départ in atto primo, scena seconda. Il fatto che nelle recensioni non vi sia alcuna menzione esplicita può essere infatti interpretato o come un’assenza dei canti e delle musiche o viceversa come un fattore non degno di nota. Certamente l’intervento – oltre che di effetti rumoristici (com’è il caso delle campane che celebrano l’inizio del Concordato dell’ultimo atto) anche di alcune semplici canzoni popolari, sempre collocate in un contesto di fuori scena – sembra apparentare la struttura testuale di Renan a una tipologia di spettacolo tutt’altro che “alta” o “classica”. Il dramma mostra piuttosto una stretta affinità con quel teatro di vaudeville o di boulevard, regno incontrastato della pièce bien faite, dove la musica diegetica o extra-diegetica era un fattore importante della spettacolarità.[37] Pur nel paradigma di una spettacolarità colta ed extra-borghese, cioè nella volontà di mettere a fuoco una direzione estetica non commerciale e riservata a un pubblico elitario, l’autore francese fa sue alcune caratteristiche del teatro del tempo, cioè di quegli elementi di tecnica scenica che sembra ritenere indispensabili. Nonostante lo scopo di un lavoro, negli intenti dell’autore, dalle connotazioni non solo estetiche in senso puro, Renan non trascura, nella redazione dell’Abbesse de Jouarre, spunti della composizione drammaturgica. Scrive Henriette Psichari:

Toutefois, la préoccupation du “scénique”, des entrées et des sorties, des répliques, n’a pas laissé Renan indifférent. En examinant de près le manuscrit initial, puis la deuxième version, puis les épreuves corrige, il est aisé de conclure que – hanté par cette technique qu’il devinait sans en connaître les lois – il a dirigé avec habilité toutes ses corrections dans un sens théâtral.[38]

Ma niente prova, tuttavia, che Eleonora Duse abbia mantenuto le due canzoni del primo atto previste da Renan.

La recitazione degli attori, pur nell’estrema sintesi, e pur riferita solo alla Duse e ai suoi co-protagonisti è maggiormente trattata nelle recensioni. Scrive per esempio Parmenio Bettoli sul «Popolo Romano»:

E qui permetta l’egregia artista io le dica che ha fallito alquanto i suoi calcoli, poiché, dalla parte di Giulia, non ha tratto il minimo effetto nuovo. Quel tipo mistico, ieratico, andava interpretato con una speciale dignità di gesto, di tono, di accento, ch’essa non ha saputo, o non ha voluto assumere, rimanendo invece, sempre lei, con le sue nervosità, con le sue irrequietezze, con le sue inflessioni strascicate di voce roca e spirante: la signora Duse di Fedora, di Dionisia e anche un poco d’In portineria. E nemmeno il bravo Andò m’è piaciuto. Comprendo benissimo che quel po’ di tirate interminabili e di eterni predicozzi, affidategli dall’autore e dal traduttore, mal dovesse tornargli di non essere declamatorio e monotono; ma è positivo che, un po’ per la truccatura infelice, un po’ per la intonazione sempre artificiale e cattedratica, egli non ha tolto, ma piuttosto aggiunto, alla uggiosità della sua parte. Il solo che io reputi meritevole de’ più grandi elogi è Cesare Rossi, il quale, alla breve parte del sacerdote e alla scena della confessione, l’unica che abbia qualche cosa di drammatico, ha saputo dare tutta quell’impronta di dignitosa austerità, che la situazione richiede.[39]

L’«Arte Drammatica» dedica un lungo articolo alla prima del teatro Valle, soffermandosi in modo approfondito sulle tematiche e sulle contrastanti discussioni che il testo di Renan sta provocando, più che su questioni di valore estetico. Sul finale tuttavia si legge:

Comunque la compagnia Rossi-Duse s’è fatta applaudire, questo per la cronaca. Il lavoro del Renan, teatralmente parlando, non sarà vitale, ma certo la Duse prima e Cesare Rossi poi hanno superato, nella recitazione, scogli che potevano addirittura sommergere questi due artisti. Io preferisco la Duse Moglie di Claudio, Fedora e Locandiera alla Duse Abbadessa, quantunque racchiusa in un abito bianco, che la rende adorabile, ma è indubitato, però, che l’incarnazione di Giulia di Saint-Florent ha dato al pubblico una novella prova del singolare valore della illustre artista. Cesare Rossi, anch’esso, ha fatto prodigi di valore: e il pubblico gli ha detto bravo in mille modi, interrompendolo e chiamandolo al proscenio con applausi calorosi, insieme alla Duse. Flavio Andò fu alquanto monotono, ma per colpa della parte... dirò così metafisica: ma anche a lui non mancarono applausi e chiamate. Abbastanza bene il Cottin, che interpretò l’ufficiale con molta naturalezza e anche con un certo slancio. Egregiamente gli altri. Di effetto, gli scenari di Alessandro Bazzani.[40]

In merito al debutto della Badessa di Jouarre al teatro Manzoni di Milano del 21 gennaio 1887, l’«Arte Drammatica» riporta un articolo pubblicato sul «Sole»:

quanto all’esecuzione, constato gli applausi e le chiamate alla Duse, all’Andò ed a Cesare Rossi, nella predica dell’abate. Dal canto mio però confesso che nella parte dell’Abbadessa la nostra celebre attrice non mi destò profonda impressione. Sarà effetto del lavoro, anche lei cadde nell’enfasi e nell’intonazione melodrammatica. Folla enorme, nonostante lo straordinario aumento dei prezzi delle poltrone e delle sedie.[41]

I vocaboli ricorrenti per descrivere il clima generale della recitazione sono dunque: monotona, enfatica e addirittura melodrammatica, anche nei confronti dell’attrice, con la non casuale eccezione di Cesare Rossi. Il capocomico era evidentemente a suo agio nel più prevedibile ruolo del prete che invita al ravvedimento morale, personaggio ben più comprensibile e familiare per il pubblico, rispetto a un d’Arcy o alla stessa Julie de Saint-Florent. Di notevole interesse poi la recensione che Giuseppe Giacosa dedica alla prima romana della Badessa di Jouarre, cui non assiste, ma intorno alla quale sembra intuire, come già sottolineato in Panzacchi, elementi dettagliati della interpretazione dusiana:

La finzione scenica ha, nei secoli, rappresentato molto donne facinorose. Ma Mirra, Fedra, Messalina e Lady Macbeth ci parlano un linguaggio umano e si collegano per qualche fibra dolorosa all’umanità. E i poeti che le raffigurarono non vollero mai costringere la nostra coscienza a perdonarle e per poco non ad ammirarle. Questa donna, che fanciulla innamorata non sa andare a nozze, che miscredente veste l’abito obi, che nessuna delle gentilezze che attenuano il vizio e non prova nessuna delle forti angosce che umanizzano la colpa, non appartiene alla schiera delle grandi infelici che ci sforzano al pianto, che ci muovono a sdegno, non ha diritto di salire le scene sacre ai vivi e veri dolori del mondo. Essa non visse e non vive, e quando ad ogni momento parla nel nome della Francia, quasi ne custodisca le glorie e invoca i destini dell’umanità, noi, non francesi, sentiamo con tristezza, dalle sue parole, immiserita la sua patria, e quasi saremmo, uomini, condotti a disperare delle sorti umane. Rimane al libro una forma squisita, pura, limpida, ricca d’immagini, evidente ed eloquente, un vero prodigio di forma poetica. Come spiegare ora gli applausi di Roma? L’arte finissima del Panzacchi poté, credo, attenuare qualche menda, non far vera pur una delle morte persone del dramma. Ma certi affetti e certe sensazioni possono trovare sulla scena una rappresentazione plastica così perfetta da rendere quasi inutile la parola e da snaturarne quasi interamente il valore. Io sono indotto a credere che agli spettatori del teatro Valle la Badessa di Jouarre sia apparsa una donna appassionata e commiserevole. Nelle scene d’amore il suono della voce, il calore della dizione possono dare ad ogni parola un significato quasi diametralmente opposto a quello che realmente le appartiene. La signora Duse creò certo una Giulia di Saint-Florent dissimile affatto da quella non so se immaginata ma rappresentata dal Renan. Ma la Patti, ne sono certo, potrebbe farmi piangere prestando la sua voce ad una canzonetta burlesca. Ed io non avrei meraviglia se, vedendo ed ascoltando Eleonora Duse recitare la Badessa di Jouarre, mi sentissi trascinato all’applauso. Ma uscendo di teatro direi: che bella voce! non direi certo: che bel dramma![42]

La mia ipotesi è che Giuseppe Giacosa e Parmenio Bettoli stiano sostenendo argomenti simili per quanto riguarda l’interpretazione dusiana della badessa, la cui caratteristica fondamentale è – stando allo scrittore piemontese, che può solo fare delle congetture non avendo ancora assistito allo spettacolo – di rovesciare il significato delle parole scritte dall’autore tanto da renderle vane, di corroderle dall’interno. Nel processo creativo della Duse, usato anche nel personaggio di Julie de Saint-Florent, parte essenziale era quella di stravolgere la semantica del testo attraverso, per dirla con Barthes, “la grana della voce”. È tale dinamica che Giacosa vede chiaramente, se scrive che “nelle scene d’amore il suono della voce, il calore della dizione possono dare ad ogni parola un significato quasi diametralmente opposto a quello che realmente le appartiene”.

D’altra parte per Bettoli, l’attrice non avrebbe creato nessun effetto originale per un personaggio così anomalo e avrebbe fatto ricorso alle sue vecchie cadenze, ai suoi toni sperimentati fatti di “nervosità”, termine tanto usato quanto abusato, allora come oggi. La "nervosità" o "nevroticità" vuole definire con un cliché una tipologia femminile, caratterizzata da scatti imprevisti e felini, da languori erotici. Per fare questo nella Badessa di Jouarre l’attrice si appellò a personaggi del suo repertorio recente, come ad esempio la citata Figlia di Jefte di Cavallotti, dove il tema di un’orgogliosa verginità ha qualche larvatissima analogia con l’opera di Renan e con In portineria di Verga,per quel sentimento amoroso pudico e nascosto che anche la badessa prova all’inizio per d’Arcy e in seguito per La Fresnais. La dissimulazione di un segreto accomuna Julie de Saint-Florent anche a un personaggio nascituro quale Francine del dramma di Dumas Francillon, con cui la Duse debutterà al teatro Manzoni di Milano il 9 marzo 1887, come capocomica della compagnia della Città di Roma. Il mistero e le zone di ambiguità, insieme alla finzione vera e propria connotano un personaggio celebre come Fedora dell’omonima pièce di Victorien Sardou, la cui condotta è segnata da un episodio del passato percepito come ineluttabile. Allo stesso modo la badessa di Jouarre vive un evento trascorso – la sua relazione d’amore con d’Arcy nella notte precedente la loro messa a morte – come un destino da cui non potrà più redimersi. Infine, la voluttà della badessa nei confronti di d’Arcy alla fine del secondo atto era un’azione scenica con cui l’attrice da anni otteneva una presa seduttiva sul pubblico e che costituiva una nota dominante di vari personaggi, uno fra tutti Margherita Gautier.

Ma la Duse non riesce a mettere a fuoco uno dei personaggi più rivoluzionari che in seguito le apparterrà: quello della donna-madre dai tratti mistici, dalla profonda ieraticità, dall’evocazione mitica, quindi ben oltre il verismo, che ha portato in trionfo da pochi giorni al teatro Valle, con In portineria di Verga.[43] Un personaggio con nobili ideali, con una notevole intelligenza e cultura, con risvolti simbolici e potenti, con suggestioni di dimensioni della psiche che ancora non rispondono all’ordine del mondo freudiano, ma che tuttavia lo presentono. Un personaggio la cui dinamica scenica non corrisponde alle griglie del melodrammatico, pur essendo connotato da eventi e azioni non ordinari e quotidiani. Lo stesso citato dramma di Verga, in due atti, termina secondo gli stilemi ottocenteschi che prevedono il climax nel momento finale ed è quindi, in tal senso, in linea con la dinamica melodrammatica.

E qui vorrei ritornare all’incipit della citata recensione di Giacosa che chiama in causa personaggi femminili della drammaturgia classica e del mito, definendole «donne facinorose», per istituire un paragone, però tutto in perdita, verso l’opera di Renan e soprattutto verso la protagonista. Il personaggio sotterraneo della Badessa di Jouarre è proprio quella Monima protagonista del Mitridate di Racine, vittima dei nefasti e perversi desideri del tiranno, personaggio puro che si oppone alla furia delle passioni, a quella condizione di cieca bestialità che è oggetto dell’opera raciniana per eccellenza, Fedra.[44] Giacosa legge in filigrana, con la sottigliezza del suo essere intellettuale e drammaturgo, che l’intento di Renan (e della Duse) era di immettere l’intensità del mito in contesti moderni, di andare oltre, sublimandolo, il dramma borghese, con spasimi di provenienza tragica di sentore crepuscolare.[44]

3. Il giardino del Lussemburgo

Facendo, come in passato, da intermediario con Alexandre Dumas figlio,[46] forse su suggerimento della stessa Duse, Primoli si rivolge all’abile costruttore di drammaturgia chiedendogli di iniettare una dose di pièce bien faite in un edificio testuale irregolare, quale appunto l’Abbesse de Jouarre. La citata lettera scritta da Primoli a Dumas è un documento prezioso per comprendere le categorie di riferimento di pubblico, intellettuali e artisti: la regola era infatti costituita dalla dinamica scenica e non solo dal testo della pièce bien faite. Anche nella lettera inviata a Renan dal già menzionato Moleschott, che assistette alla prima romana con evidente apprensione per la salute della Duse, compaiono precise indicazioni di tipo “tecnico”:

S’il m’était permis d’exprimer une opinion, je proposerais de finir avec le troisième acte. Après la plus forte tension dramatique possible, après avoir vu les terreurs et les mystères de la mort, après avoir assisté à l’épanchement d’un amour surhumain, le grand public ne peut se faire à goûter un idylle quelque beau qu’il soit. Après le dénouement le spectateur, le moyen des spectateurs, ne veut plus de la conciliation qui achève, il préfère rester en suspens […].[47]

La definizione di pièce bien faite,in apparenza scontata, lo è meno di quanto si potrebbe pensare. Vi si associano, oltre a rapidità e stringatezza dei dialoghi, linguaggio di tono quotidiano e privo di ricercatezze letterarie, chiara esposizione degli eventi montati in termini di causa-effetto, nonché il raggiungimento del climax, sia esso scioglimento dell’intrigo, agnizione, matrimonio, morte,nel momento finale che conclude lo spettacolo. Ed è soprattutto questo l’elemento per cui Primoli domanda, inascoltato, l’intervento di Dumas: il testo risulta dapprima movimentato e poi si placa, scrive Primoli. L’inversione della prassi viene percepita non come un eccentrico tentativo o un curioso e apprezzabile esperimento da parte di un non professionista come Renan, ma come “sbagliata” a tutti gli effetti. Rappresentazione coincide per Primoli con azione, avvenimenti. Scrive a tale proposito Johannes Landis:

Poursuivant les règles de composition classique en les plaçant sous l’empire absolu de la logique, la pièce bien faite s’identifie grâce à quelques invariants: après une exposition rapide qui “prépare” habilement les événements ultérieurs, l’action se développe à partir d’un centre jusqu’à – éventuellement – quelques intrigues secondaires, et selon une chaîne causale sans faille, pour s’achever dans un dénouement vraisemblable et complet. Francisque Sarcey utilise, pour donner une représentation à cette dramaturgie, l’image de boules de billard se percutant entre elles à partir du choc initial. C’est dire combien la pièce bien faite est avant tout une physique du drame dont l’atome est le fait, et dont le principe repose sur une force lancée contre plusieurs obstacles qu’elle va percuter, jusqu’à épuisement total de son énergie. Au sein d’un tel système, le récit occupe une place réduite et une fonction déterminée: relater un événement situé dans le hors-scène, ou, plus rarement, servir une argumentation.[48]

I primi tre atti dell’opera messa in scena da Eleonora Duse nel dicembre 1886 sono percepiti come modellizzati su una prassi consolidata. Da parte del pubblico, secondo quanto sottolineano in coro gli artisti, gli amici e i critici dell’attrice, tutto l’interesse e tutta l’attenzione sarebbero consumati alla fine del terzo atto.  

Il quarto atto dell’Abbesse de Jouarre di Renan, si è detto, è ambientato nel giardino del Luxembourg dove Julie, sotto le spoglie della mendicante Jouan e divenuta madre di Juliette, ha un incontro fortuito con La Fresnais, l’ufficiale repubblicano che l’aveva salvata dalla ghigliottina. Così la didascalia introduttiva del quarto atto nell’originale:

L’acte se passe dans le jardin du Luxembourg. A gauche, deux ou trois petits étalages de pains d’épices, de pâtisseries, de café sur des réchauds. A droite, bosquet, avec quatre ou cinq chaises.[49]

Quest’atto, cui Renan attribuiva molta importanza, nonostante all’inizio accettasse che venisse tagliato o adattato, viene eliminato nella versione dello spettacolo presentato alla prima al teatro Valle di Roma. L’atto sarà anche cassato nelle successive repliche del gennaio 1887 al teatro Manzoni di Milano (debutto: 21 gennaio) dove lo spettacolo terminò con un breve monologo di Giulia di Saint-Florent che accettava la vita degradante imposta dalla sua maternità. Giovanni Pozza, voce anomala rispetto alla gran parte della critica italiana, dedica al senso della completezza del dramma una lunga riflessione nella recensione pubblicata sul «Corriere della sera»:

A questo punto con un breve monologo di Giulia che accetta la vergogna e gli stenti della sua presentita maternità, ieri terminava al Manzoni L’abbadessa di Jouarre, benché nel volume il dramma continui ancora per due atti. Perché il traduttore e la interprete hanno rinunciato a mostrarci l’Abbadessa nelle vesti cenciose di una madre, che va mendicando pei giardini del Lussemburgo con una bimba in collo, come il Renan ha voluto mostrarla nel quarto atto? Perché non hanno voluto che essa incontrasse un’altra volta il suo salvatore, e lo amasse e divenisse sua moglie, come il Renan ha fatto nel quinto? Evidentemente tanto il traduttore quanto l’interprete hanno avuta troppa paura dell’insofferenza del pubblico. S’ingannarono. Un pubblico che ascolta senza opposizione i primi due atti, non ha più ragione di opporsi agli altri. Dopo i primi due esso ha capito di che si tratta. Sa che non deve aspettarsi né sorprese, né effetti di scena, né alcuno di quegli artifici coi quali la sua curiosità viene di solito stuzzicata. Assai meglio, dunque, dargli l’intera opera d’arte, che smozzicata ed incompleta […].[50]

Solo nelle rappresentazioni date a Torino al teatro Gerbino nel dicembre 1887 il testo viene per certo messo in scena nella sua interezza (debutto: 11 dicembre).[51]

Nelle repliche date a Roma il dramma in quattro atti fu allestito nel seguente modo: i primi tre atti secondo quanto previsto da Renan, nella traduzione approntata da Panzacchi e prontamente pubblicata dall’editore Treves; inoltre un atto finale originato da un adattamento del quinto, mentre assente (potremmo dire “ghigliottinato”) risulta essere il quarto atto dell’originale, ambientato nel giardino del Lussemburgo e presente nella versione italiana  a stampa.

Il testo del quarto atto finale, utilizzato negli spettacoli al teatro Valle, è contenuto in un manoscritto a firma di Alfonso Tartarini, allora bibliotecario della Comunale di Bologna, che coadiuvò Panzacchi nella redazione della versione dal francese che venne pubblicata con il solo nome di Enrico Panzacchi. Il manoscritto presenta tagli e riscritture di mano diversa dal Tartarini, mano che è stata attribuita dall’archivista allo stesso Panzacchi. In generale è caratterizzato da un alleggerimento dei dialoghi, non solo accorciati ma resi meno ricercati e retorici rispetto all’originale, quasi identici alla versione italiana edita e sfoltiti dei riferimenti alla Rivoluzione francese.

Invariato rimane il luogo, il parco del castello di Celle-Saint-Cloud, che la didascalia del quinto atto così restituisce nell’edizione Treves: «L’atto accade nel parco del castello di Celle-Saint-Cloud; si scorge la chiesa del villaggio che è in prossimità del parco; in mezzo, sedili da giardino, sotto un gruppo di alberi». Vengono mantenuti gli stessi personaggi: Giulietta, il marchese di Saint-Florent, Giulia, Francesco (il maggiordomo), La Fresnais.

Una differenza fra il manoscritto Tartarini rispetto al quinto atto dell’originale francese, cui corrisponde la traduzione italiana pubblicata in modo piuttosto pedissequo, consiste nella ristrutturazione della sequenza delle scene che comporta un riadattamento del peso dei personaggi e delle azioni che compiono. Il testo di Renan vede la seguente successione:

V, 1. Juliette oramai bambina e Julie.

V, 2. Il marchese di Saint-Florent in un dialogo con Julie dove la prega di accettare la proposta di matrimonio di La Fresnais e di uscire dalla vita di solitudine e di auto-punizione; la scena prosegue con Juliette e François.

V, 3. Il marchese di Saint-Florent, Julie e La Fresnais che, avendo appreso in precedenza quanto accaduto nella prigione, non per questo ha smesso di amare Julie e le propone un matrimonio che viene accettato con vero desiderio da parte della ex-badessa di Jouarre. Fra i vari argomenti che convincono Julie, essenziale il sapere della soppressione dell’ordine cui aveva appartenuto e l’instaurarsi del Concordato fra Stato e Chiesa.

Nel manoscritto Tartarini la successione delle scene così si compone:

IV, 1. Il maggiordomo Francesco, il marchese di Saint-Florent, La Fresnais e infine Giulietta. Fra Saint-Florent e La Fresnais si verifica un dialogo decisivo ai fini dello scioglimento del dramma, poiché Saint-Florent rivela il mistero tenuto nascosto della maternità di Giulia.

IV, 2. Giulia e il marchese che, nel presentarle la proposta di matrimonio di La Fresnais, spiega alla sorella che La Fresnais è al corrente del suo segreto; entra infine anche Francesco.

IV, 3. La Fresnais, Giulia, il marchese di Saint-Florent si accordano per il matrimonio che pone fine anche a un conflitto di tipo storico-politico; in seguito entra Giulietta.

Il manoscritto Tartarini, cioè la versione approntata per il debutto al teatro Valle, vede l’entrata in scena della protagonista solo dopo il dialogo fra il marchese di Saint-Florent e l’eroico ufficiale repubblicano. La Fresnais, nell’originale di Renan, ha nell’atto finale una posizione meno rilevante. Anche nell’adattamento di Tartarini l’ultima battuta rimane a La Fresnais. Tuttavia la sua presenza in scena è decisamente maggiore. L’atto inizia con un lungo dialogo in cui La Fresnais spiega il proprio innamoramento al fratello di Giulia che, a sua volta, lo informa di quanto accaduto nella prigione del tribunale rivoluzionario. Quando Giulia e La Fresnais si incontrano (IV, 3) sono a conoscenza l’uno del segreto nascosto e l’altra della rivelazione ormai fatta, come nell’originale.

La vistosa differenza consiste nel fatto che Renan non prevede che tale dirimente confessione venga rappresentata. Questo è il mutamento che caratterizza l’adattamento di Tartarini-Panzacchi: la drammatizzazione di un momento cardine che l’autore francese aveva sciolto in brevissime parole e in un ordinario fuori scena. Si legge nella traduzione italiana dell’edizione Treves (V, 2):

GIULIA Fermatevi… è troppo crudele! Voi non pensate che La Fresnais ignora… tutto! Per ben due volte io ho preferito essere con lui assurda, dura, dissimulata. Per due volte ho preferito di parere colpevole a’ suoi occhi e di espormi al sospetto della più bassa infamia, che rivelargli un mistero di cui voi solo, al mondo, siete il confidente.
Il marchese Egli sa tutto. Gli ho narrato tutto ieri ed egli è qui.

La spiegazione del mistero circondante la badessa di Jouarre rende il dialogo fra La Fresnais e il marchese (IV, 1) un momento ad alta potenzialità scenica. In esso si libera la tensione accumulata negli atti precedenti e si porta sullo stesso piano di conoscenza La Fresnais e il pubblico che fino a quel momento possedeva informazioni maggiori rispetto al personaggio. Tale esplicitazione determina un surplus di conoscenza da parte degli spettatori rispetto al personaggio di Giulia che entra successivamente in scena (IV, 2) ignara della rivelazione.

L’attrazione dell’attrice verso il personaggio ne usciva intensificata. La reazione “in diretta” alla notizia della divulgazione del segreto consentiva all’attrice una subitanea transizione da un’emozione all’altra. In altre parole, si generava una “scena madre” di notevole efficacia costruita strategicamente da parte dell’attrice. 

Un’importante integrazione intesa a creare un raccordo fra il terzo e il quinto atto è contenuta nel manoscritto di Tartarini in una battuta di La Fresnais. Durante il dialogo col fratello di Giulia, La Fresnais esprime in termini narrativi quanto il quarto atto voleva mostrare tramite azioni:

Io non le ho parlato che due volte. Il 5 Termidoro quando le annunciai che il tribunale rivoluzionario, per mia intercessione, l’aveva graziata; poi al mio ritorno dalla campagna del Belgio, la incontrai per caso nel giardino del Luxembourg. Voi sapete sotto che povere vesti e in che condizioni era. Dopo ho cercato ancora di vederla non fosse che da lontano, senza parlarle; e ci sono riuscito tre volte. Ma non so se ella mi abbia visto. Non ho mai più ascoltato la sua voce.[52]

Così viene risolto il “salto” narrativo previsto da Renan nel quarto atto: un breve resoconto coincidente con la battuta di La Fresnais. Il racconto brevissimo di quelle terribili circostanze di vita esperite dalla nobile badessa di Jouarre non è da considerarsi come una vera e propria incursione epicizzante in un universo retto dalle regole dell’azione. Si tratta invece di uno stratagemma per legare al testo complessivo un episodio tagliato in sede di rappresentazione.

Non c’è dubbio che l’interpretazione dell’Abbesse de Jouarre costituisca per Eleonora Duse un punto di snodo. Una riformulazione fra una concezione dello spettacolo fondata su convenzioni ottocentesche e una diversa visione della rappresentazione, che prenderà forma nel giro di pochi anni e che trova la sua radice iniziale (forse “iniziatica”) in Wagner  scardinando le categorie del mercato e capace di aprire la via al teatro d’Arte[53]. Così André Antoine:

La bataille, déja gagnée dans le roman par les naturalistes, dans la peinture par les impressionistes, dans la musique par les wagnériens, aller se transporter au théâtre.[54]

Renan, non proveniente dall’ambito dei professionisti, dà corpo a una nuova concezione della rappresentazione. La sua “proposta” sfida le prassi consolidate, le rigide convenzioni, la ferrea imposizione della legge del mercato e la granitica struttura della pièce bien faite. Naturalmente e non solo in Italia, Renan viene considerato alla stregua di un visionario, di un perverso libertino che si ammanta di erudizione e si ripara dietro citazioni colte, soprattutto nel caso della scandalizzante vicenda di Julie de Saint-Florent.

Costantemente sottolineate, ma con ironie e sarcasmi e citate sulla stampa italiana, sono proprio le lunghe battute del d’Arcy (II, 2). Per convincere la badessa alla notte d’amore prima della ghigliottina che attende entrambi, il marchese tira in ballo varie argomentazioni:

Mais écartez cette pensée que l’amour soit une jouissance vulgaire; écartez la distinction superficielle de l’âme et des sens. Qu’est-ce-que l’âme sans le corps; et les sens, que sont’ils, si ce n’est une intime communion avec l’univers? Le bien est le but de ce monde, et l’amour est l’expression intense du bien. Tout dans la nature nous dit: “Aimez-vous”. Qui le dit plus éloquemment que la mort? Supposez le monde à la veille de finir, oui, je dis que l’amour seul devrait régner sans loi, sans limites, puisque ce qui limite et règle l’amour, le droit sacré de l’être qui en sort, n’aurait plus aucun sens [...].[55]

A riprova del carattere profondamente innovativo della interpretazione della Duse si ricordi  che la Badessa di Jouarre debuttò il 7 dicembre 1886 quando Antoine non aveva ancora varato il Théâtre Libre. Il primo teatro “sperimentale” inizierà infatti la sua attività nel gennaio 1887. L’anno che intercorre fra la prima della Badessa di Jouarre nel dicembre 1886 e il dicembre 1887, data delle repliche a Torino, vede scendere in campo da più parti forze corrosive nei confronti della tradizione teatrale ottocentesca.

Renan, si è visto, forse spinto da richieste provenienti da Panzacchi, oltre che dalla Duse e da Moleschott, accetta l’eliminazione del  quarto atto e gli adattamenti del quinto. Sarà anche pronto a riscrivere un finale diverso o addirittura due finali diversi o per lo meno a indicarne la struttura. Nella ventunesima edizione a stampa dell’opera, Renan aggiunse un’Appendice, da allora sempre ripubblicata ma assente nella traduzione italiana arricchita da una nota dedicata alla vicenda della messinscena dusiana.

Il primo finale è composto da uno schema di scena ambientato nella sala del tribunale rivoluzionario, che si concludeva con la messa a morte della badessa e insieme a lei dell’abate Clément e di La Fresnais. Il secondo finale, sempre collocato nel tribunale rivoluzionario, corrisponde a una battuta della badessa oramai pronta a farsi carico della sua maternità e a una esistenza di umiliazione:

Quand parut l’Abbesse de Jouarre, une éminente actrice italienne, Mme Duse, fut frappée du caractère de Julie. Elle voulut créer ce rôle et y obtint le succès que lui assuraient d’avance sa rare intelligence et son merveilleux talent. M. Enrico Panzacchi, professeur à l’Université de Bologne et critique excellent, fit la traduction et les arrangements nécessaires pour la mise en scène. La difficulté était surtout de conserver l’intérêt, selon les habitudes du théâtre, après lo troisième acte. Je crois avoir eu raison, dans l’oeuvre idéaliste, de prolonger la vie de l’abbesse, pour maintenir la conception supérieure de la vie envisagée comme un devoir et montrer l’expiation, par l’amour maternel, d’une faute commise contre les règles nécessaires de la société. Mais c’est là une idée de moraliste, qui convient, je le reconnais, au roman plûtot q’au théâtre, Mes amis de Rome m’écrivaient: «Votre drame ne peut finir par un idylle». J’eus un moment l’idée d’un quatrième acte, se passant au tribunal révolutionnaire et ainsi conçu:
Le tribunal révolutionnaire, d’après les gravures du temps: d’un côté, le président, l’accusateur public, les jurés; de l’autre, le banc des accusés. Sur le banc des accusés, l’abbé Clément, La Fresnais, Julie. L’accusateur publc requiert d’abord contre l’abbé Clément, en peu de mots: «Fanatisme, incivisme, etc.». Aussitôt après la condamnation, on emmène l’abbé. Puis l’accusateur public requiert contre La Fresnais à peu près ainsi.
L’accusateur public: Le cas qui vous est soumis montre bien l’inconvénient pour les démocraties de céder aux sentiments d’humanité et même aux sentiments les plus doux de la nature. Pourquoi faut-il que la femme, ce chef-d’oeuvre de la création, soit toujours occupée à combattre la patrie? Ce héros, que voilà sur les bancs des accusés, n’a plus été un héros dès qu’il a connu une femme. A peine sorti des portes du Plessis, il a été évident qu’il voulait la mort. On l’a entendu crier dans la rue: «A bas Fouquier-Tinville! A bas le tribunal révolutionnaire!» Il vomissait en même temps des injures contre les citoyens les plus vertueux. C’est là un défit comparable à celui de crier: «A bas la Nation!» puisque le tribunal révolutionnaire est le plus ferme appui de la Nation et que votre vertueux président… etc.
Le président: Il m’en coûte de te trouver coupable, après une vie de vertu. La mort, du reste, n’a rien qui doive effrayer un homme tel que toi… etc.
On l’emmène; l’abbesse lui serre la main et lui accorde un long regard.
Le président, à l’abbesse
Ton fanatisme est décidément incurable. Sauvée par ce jeune héros, que tu as entrainé au crime, tu n’as voulu employer la vie qui t’était laissée que pour combattre la République; n’accuse que ton obstination, si nous t’envoyons à la mort. (Sur un ton plus bas) Cette fois, tu le sais, ce sera pour tout de bon.
Julie se lève, en disant froidement  
C’est bien entendu.
Comme on m’objecta des difficultés scéniques presque insurmontables, je proposai de borner la représentation aux trois premiers actes, en terminant ainsi le trosième acte:
Après que l’abbé Clément a disparu, moment de silence
Julie, comme sortant d’un rêve
La vie! La vie! Le pardon à ce prix! Non; j’aime mieux n’être pas pardonnée. Prêtre, ton absolution coûte trop cher; Je mourrai.
Comme en rêvant
JULIE Que disait-il? L’abbesse de Jouarre, dans dix mois… mendier pour son enfant… Est-ce possible? Quoi! Je serais mère?
Elle se prend la tête dans les mains, puis se lève brusquement
Oh! Si cela est, je veux vivre. La noblesse de la plus humble mère est supérieure à celle que donnaient tous mes anciens droits régaliens. Être déja cher, que je porte peut-être dans mon sein, petite divinité que je crée de mon sang et des mes larmes, toi, tu as droit de me commander. Ignominie et misère, je vous défie! L’approbation de mon oracle intérieur me suffit. Ah! Vous osez parler de honte, quand il s’agit de ce qu’il y a de plus saint dans la nature! Eh bien, vive la honte! Je serais mère, je braverai vos mépris par mon silence, je vivrai! [56]

C’è da chiedersi se proprio quest’ultima battuta di Giulia, citata da Pozza nella recensione prima ricordata, non sia stata quella utilizzata durante le repliche al Manzoni di Milano.

Diverso l’atteggiamento di Renan quando sarà Antoine a domandargli il permesso di rappresentare l’Abbesse de Jouarre nel 1888. Antoine nei Souvenirs sur le Théâtre Libre riporta la lettera scritta da Ernest Renan in risposta alla sua richiesta:

15 Juillet 1888

je ne nie que pas souvent je n’aie conçu certaines parties au moins de l’Abbesse de Jouarre comme pouvant produire une vive émotion. Voici pourtant mes objections. Médiocrement exécutée, la représentation porrait tout à fait manquer son effet […]. Ce qui s’est passé en Italie tient à la volonté d’une seule actrice, Mme Duse, personne d’une grande intelligence, qui ayant lu mon livre, se prit de goût pour le caractère de l’Abbesse et voulu absolument le créer […]. Si vous donniez l’Abbesse, je voudrais qu’elle fût représentée complète, telle qu’elle est imprimée, avec ses cinq actes. Je reconnais qu’il est tout à fait contraire aux habitudes du théâtre de prolonger de deux actes une composition dont la partie culminante est au troisième acte; mais ma pensé est absolument incomplète sans ces deux derniers actes. Ils les omettent à peu près en Italie, mais j’ai peine à me figurer que l’action générale, avec cette suppression, ne soit pas tout à fait boiteuse […].[57]

Secondo Renan era fondamentale che il pubblico “vedesse” l’umiliazione della badessa, il suo trascinarsi in abiti da mendicante con una bambina di pochi mesi in braccio, ma il quarto atto, quello dei giardini del Luxembourg, è tagliato da Eleonora Duse. Rimane opaca la motivazione di tale scelta, ma è curioso notare come proprio alcuni personaggi di madre-mendicante o di anziana madre sofferente e penitente diverranno prerogativa dell’ultima Duse. La ricerca della sublimazione dell’amore, tema costante del repertorio dusiano soprattutto a partire da questo periodo, prenderà spesso le sfumature della maternità, che nella Badessa di Jouarre non vengono messe a fuoco.

Il giardino del Lussemburgo è l’atto non amato, estromesso, non giustificato scenicamente e “risolto” in poche frasi nel manoscritto Tartarini. Tuttavia Renan lo aveva fortemente giustificato nel disegno complessivo dell’opera che in termini generali ravvisava nella manifestazione visiva insita nello spettacolo teatrale la potenza dell’epifania. Egli sembra cogliere della rappresentazione una qualità visiva e non solamente linguistica o legata agli avvenimenti. E non è da escludere un riferimento Platone ampiamente citato nell’Introduzione alla ventunesima edizione pubblicata il 2 dicembre 1886. È perciò lecito ipotizzare un paradigma della struttura della rappresentazione molto più consonante allo spirito della filosofia platonica, piuttosto che a quello delle convenzioni drammaturgiche e di messinscena dell’epoca, dalla pièce bien faite allo Shakespeare riadattato.

Secondo la sensibilità, sia del pubblico sia degli addetti ai lavori, il quarto e il quinto atto, per motivazioni diverse, non si confacevano alla percezione della “vera” dinamica dell’azione scenica che decenni di produzione drammaturgica avevano contribuito a costruire ottenendo un “effetto di realtà”. La Badessa di Jouarre è uno dei primi testi e uno dei primi spettacoli ad abbandonare le regole della pièce bien faite con lo spostamento del climax al centro dello spettacolo e l’assenza di spunti epici.[58]

Vorrei considerare tuttavia un ulteriore elemento perturbante per la società del tardo Ottocento, assai più dello scardinamento della struttura testuale. A differenza della legione di personaggi femminili interpretati da Eleonora Duse, personaggi colpevoli, colpevolizzati, penitenti, sofferenti la cui vita scenica terminava con la morte fisica o spirituale, la vicenda di Giulia di Saint-Florent si concludeva con un happy end, nonostante il “peccato”. Nulla vieta di sostenere che la polemica sulla frantumazione della dinamica della pièce bien faite coprisse come un mantello la scandalizzante felicità di una donna considerata immorale e dunque da vittimizzare.

Sarebbero sufficienti questi elementi a connotare la pièce come uno spettacolo-laboratorio rivoluzionario e ad attribuire a Eleonora Duse la prefigurazione di quello che diverrà prassi sulla scena e oltre la scena.

 

[1] La traduzione italiana di E. PANZACCHI, L’abbadessa di Jouarre,Milano, Treves, 1887, recita: «D’ARCY […] L’avreste detta una santa Fara o una santa Batilde che aveva letto Voltaire e commentato Rousseau […]» (p. 25).

[2] E. RENAN, Préface de la première édition, in ID., L’Abbesse de Jouarre, Paris, Calmann-Levy, 1888, p. VIII. “Mi figuro le conversazioni che si sono tenute in quelle grandi sale al piano terra nelle ore che precedevano l’appello e ho concepito una serie di dialoghi che intitolerei, se li facessi, Dialoghi dell’ultima notte. L’ora della morte è per essenza filosofica. In quell’ora tutti parlano bene poiché si è in presenza dell’infinito e non si è tentati di fare frasi retoriche. La condizione perché vi sia il dialogo è che i personaggi siano sinceri. E l’ora della morte è la più sincera di tutte […]”. Traduzione mia.

[3] Ivi, pp. IX-X. “Immagino spesso che se l’umanità conseguisse la certezza che il mondo dovesse finire nel giro di due o tre giorni, l’amore esploderebbe da ogni parte con una specie di frenesia, perché ciò che trattiene l’amore sono le condizioni assolutamente necessarie che la conservazione morale della società ha imposto. Se ci si trovasse in faccia a una morte vicina e certa, solo la natura parlerebbe; il più potente degli istinti, sempre imbrigliato e contrastato, riprenderebbe i suoi diritti […]. Questa sicurezza della coscienza, fondata sulla certezza che l’amore non avrebbe un domani, porterebbe a dei sentimenti che metterebbero l’infinito in qualche ora, delle sensazioni cui ci si abbandonerebbe senza paura di vedere la fonte della vita prosciugarsi. Il mondo berrebbe d’un colpo e senza timori un potente afrodisiaco che lo farebbe morire di piacere”. Traduzione mia.

[4] Citazione tratta da H. GOUHIER, Renan. Auteur dramatique, Paris, Librairie Philosophique J. Vrin, 1972, p. 65.

[5] Ernesto Renan drammaturgo, in RENAN, L’abbadessa di Jouarre, cit., p. XXVIII.

[6] «FEDIMA Signora, dove correte? Quale cieco impulso / vi spinge a compiere un crimine contro di voi? / Troppo severa con voi stessa, avete / fatto di un sacro diadema, un cappio terribile! / Non vedete che gli dei, più umani di voi, / l’hanno spezzato tra le vostre mani? // Monima – E tu, benda fatale, infelice diadema, / strumento e testimone di ogni mio dolore, / benda che mille volte ho bagnato di lacrime, / non potevi rendermi almeno un fatale servizio, / ponendo fine alla mia vita e al mio supplizio? / Va’, non offrirti più ai miei tristi sguardi. / Altre armi, senza di te, mi aiuteranno. / E muoia la luce, e la mano assassina / che per prima ti annodò sulla mia fronte!» (J. RACINE, Teatro, trad. it. di M. DE ANGELIS, Milano, Mondadori, 2009). Mitridate è il nome del tiranno di Ponto, pluriomicida e perverso protagonista dell’omonima opera di Racine. Nel finale il tiranno ha una conversione che da mostruoso lo rende umano, anche grazie alla virtù di Monima.

[7] Si tratta della brutta copia della lettera del 9 novembre 1886, riportata da Primoli stesso nel manoscritto preparatorio per l’articolo La Duse apparso in «La revue de Paris», 1° giugno 1897. Brutta copia della lettera e manoscritto si trovano presso la Fondazione Primoli di Roma. “Caro Maestro, la Duse, che è piena di audacia, si è messa in testa, pensi un po’, di imporre al pubblico romano l’Abbesse de Jouarre. È stata sedotta dalla benda, dall’apparizione della badessa a d’Arcy, che so… […]. Il dramma è costruito al contrario. La seconda parte ha la calma di un’esposizione e i primi due atti hanno la foga e la passione di un terzo e di un quarto; sembrerebbe che per rimettere in piedi il dramma, non basterebbe che rigirarlo […]”. Traduzione mia.

[8] Lettera di Eleonora Duse a Gegé Primoli, s.l., s.d., Roma, Fondazione Primoli, n. 5273, su carta intestata con motto stampato: «Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur». La firma di Denise corrisponde a un modo tipico dell’attrice di firmarsi con i nomi di diversi personaggi da lei interpretati.

[9] II, 2. La traduzione di Panzacchi (L’abbadessa di Jouarre,cit., pp. 48-50) recita: «GIULIA […] Pochi giorni fa, avrei potuto scampare dal tribunale rivoluzionario: mi bastava una piccola menzogna, una dissimulazione della mia dignità, appena colpevole. Ma io non ho mai creduto che l’abbadessa di Jouarre potesse abbassarsi a simili espedienti. Io ho accettata la morte, io sono andata incontro ad essa. No, non piegherò, mi è impossibile. Lasciatemi, lasciatemi D’Arcy. È vero, in questo momento noi non dobbiamo render conto a nessuno: ma fino alla caduta della mannaia sul nostro collo, dobbiamo rispettare noi stessi. Ho il mio orgoglio. Volete voi che io salga il patibolo diminuita ai miei proprii occhi?».

«D’ARCY Ah! Dell’orgoglio!… Cara Giulia, dell’orgoglio, in quest’ora, con me vostro fratello, vostro amico; dell’orgoglio coll’uomo a cui donaste il vostro cuore! come avevano ragione gli antichi di credere che la virtù d’una donna ha sempre bisogno di essere umiliata. La natura volle che l’umiliazione fosse necessaria alla donna. Abelardo non fu padrone di Eloisa che dopo averla avvilita. Voi credete di entrare nell’eternità, più grande per questo vostro atteggiamento inflessibile. Date retta a me: è un errore. Se fossi stato nel pensiero di Dante avrei fatto posto nel mio Inferno al cerchio di quegli orgogliosi che hanno ravvisata una grandezza nel disprezzo degli uomini. La virtù superba è vizio nella donna. Qualche cosa vi mancherà in eterno, credetemi. Il pianto della figlia di Jefte, voi lo piangerete per tutta l’eternità».

[10] La traduzione di Panzacchi (L’abbadessa di Jouarre,cit., pp. 85-86) recita: «ABATE CLÉMENT […] Qui è quistione [sic!] di umiltà. Se la vita vi è prolungata, accettatela. Sottomettevi alla legge comune. La vostra mente e il vostro nobile cuore vi designano per concorrere alla redenzione di una società imprudentemente caduta in braccio a grandi mali. Non vi vergognate troppo di essere scesa al livello di tutte le altre donne. Se voi saprete essere semplicemente donna, Iddio vi perdonerà. Vivete, siate sposa, siate madre […]».

[11] Cfr. C. MOLINARI, L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli (1985), Roma, Bulzoni, 19872, pp. 240-241.

[12] La “prima” è stata variamente datata fra l’8 e il 9 dicembre. Nel saggio di A. SICA, Eleonora Duse tragica sapiente, in Voci e anime, corpi e scritture, a cura di M.I. BIGGI e P. PUPPA, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 389-403, la datazione è correttamente indicata al 7 dicembre. Alcune pagine di tale contributo (399-403) sono dedicate alla rappresentazione della Badessa di Jouarre. L’interpretazione offerta da Anna Sica su un programma “eroico” non mi vede tuttavia d’accordo, poiché ben al di là da venire con la maturità estetica e la determinazione raggiunte solo durante la fase dannunziana. La Duse del 1886 è ancora sostanzialmente l’interprete del teatro d’amore di fine Ottocento, di cui sente i limiti ma che non cancella dal repertorio, come ad esempio dimostra la successiva messinscena del marzo 1887 di Francillon. Mi pare dunque una forzatura in chiave idealizzante leggere l’episodio della Badessa di Jouarre come paradigma di una ricerca di pura bellezza, come si legge. Va segnalato che nella citata edizione Treves (1887) compare, dopo l’elenco dei personaggi, la seguente dicitura: «Questo dramma non fu mai rappresentato, nell’originale francese, né in Francia né fuori. Lo fu invece in Italia, a Roma, al teatro Valle e, per la prima volta, la sera delli 17 dicembre 1886, dalla celebre artista Eleonora Duse, con questa traduzione, solo variata e ridottone l'azione nei due ultimi atti. Qui, per altro, è pubblicato nella sua più fedele integrità» (p. 7). Il debutto del 7 dicembre 1886 è certo e dunque la data del 17 dicembre è un probabile refuso.

[13] Il Direttore dell’«Osservatore Romano» e la Duse, in «Arte Drammatica», 18 dicembre 1886.

[14] «L’Osservatore Romano», 8 dicembre 1886.

[15] Le doti organizzative e strategiche dell’attrice sono oggetto di ampia trattazione in F. SIMONCINI, Eleonora Duse Capocomica, Firenze, Le Lettere, 2011. 

[16] Si veda a tale proposito il saggio di H. GOUHIER, Renan auteur dramatique, Paris, Librairie Philosophique J. Vrin, 1972.

[17] Si tratta di Souvenirs d’enfance et de jeunesse, Averroés et l’Averroïsme, Les Apôtres, come registrato in A. SICA-A. WILSON, The Murray Edwards Duse Collection, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2012, pp. 236 e 260.

[18] Ernesto Renan drammaturgo, cit., p. V.

[19] Rimando all’importante e piuttosto recente lavoro di D. PAONE, History, religion and science in Ernest Renan’s last writings, https://tel.archives-ouvertes.fr/tel-00547232 (data di consultazione: 26 ottobre 2015).

[20] L’opera Vie de Jésus è stata pubblicata la prima volta nel 1863 e ha avuto in seguito numerose edizioni. Ora in E. RENAN, Oeuvres complètes, Édition définitive établie par H. PSICHARI, Paris, Calmann-Lévy 1952, 10 voll.: IV, pp. 9-427.

[21] «Osservatore Romano», 10 dicembre 1886.

[22] Ernesto Renan drammaturgo, cit., p. XXVII.

[23] «Arte Drammatica», 27 novembre 1886.

[24] E. RENAN, Drames Philosophiques, Paris, Calmann-Levy 1888, p. IV, ora in ID., Ouevres complètes, cit., vol. III, p. 373. “Si arriva in questo modo a concepire, all’interno di un’umanità aristocratica dove le persone intelligenti formerebbero il pubblico, un teatro filosofico, che sarebbe uno dei più potenti veicoli per l’idea e l’agente più efficace di un’alta cultura. Un teatro di tal sorta non avrebbe evidentemente nulla in comune con il teatro attuale, succedaneo del caffè-concerto, dove lo straniero, il provinciale, il borghese non cercano altro che un modo di trascorrere piacevolmente la loro serata. Non sarebbe necessario che questo onesto divertimento sparisca; ma bisognerebbe che ci fosse qualche cosa di più. Per il libro, accanto al volume destinato alle biblioteche pubbliche di lettura, c’è il libro il cui successo consiste nell’essere apprezzato da poche centinaia di intenditori. Ma per il teatro l’equivalente del libro aristocratico non esiste. La necessità di attirare ogni sera milleduecento o millecinquecento persone che vogliono essere intrattenute, crea per il teatro una situazione simile a quella della libreria se non si potesse pubblicare un libro che dovesse avere meno di diecimila lettori. A una delle arti più espressive viene cosìimpedito il pensiero elevato […]”. Traduzione mia.

[25] III, 6. La traduzione di Panzacchi recita: «GIULIA (sola, singhiozzando) Graziata! Non v’ha più alcun dubbio! La morte mi rifiuta. O rabbia!… No; io non vivrò. Ciò sarebbe infame. O mio povero amico, la cui testa cade in questo momento sul patibolo… (Ella resta smarrita sulla panca). Io morirò. O grandi sorelle cristiane della leggenda, io m’allontano dai vostri esempi. La fierezza del morire romanamente fu a voi sconosciuta. Ma foste voi mai provate alla mia guisa? Orsù dunque, mie grandi sorelle pagane, consigliatemi. Se fossi rimasta fedelmente sommessa, come tante altre, troverei ancora una via all’espiazione. Ma, pur troppo, non ve n’ha alcuna per me. La mia alterezza è ferita a morte. Io sarei sempre spregevole ai miei propri occhi. Il secolo, foggiandosi all’antica grandezza, deve all’antica tradizione domandare e le sue soluzioni morali e la regola del dovere. Arria, Lucrezia, Cornelia, che avreste voi fatto al mio posto? Oh! la vostra risposta mi è evidente. Voi avreste scelta la morte. (Ella si alza vivamente)».

[26] «Il Popolo Romano», 9 dicembre 1886 (articolo a firma di Parmenio Bettoli).

[27] «Corriere di Roma», 15 dicembre 1886.

[28] «Arte Drammatica», 1° gennaio 1887.

[29] In data 26 dicembre 1885.

[30] Cfr. F.B. CRUCITTI, Una lettera inedita di Ernest Renan a Enrico Panzacchi, in «Rivista di letterature moderne e comparate», XX, 1967, 2, pp. 123-132 e H. PSICHARI, L’abbesse de Jouarre au théâtre, in «Revue de la société d’Histoire du Théâtre», 2, 1950, pp. 151-160. Cfr. anche naturalmente RENAN, Oeuvres complètes, cit., vol. III, pp. 609-683.

[31] Moleschott scrive una lettera a Renan, datata 8 dicembre 1886, in cui gli suggerisce di sopprimere completamente il terzo e il quarto atto. Lettera consultata in GOUHIER, Renan auteur dramatique, cit., pp. 73-75. Jacob Moleschott era un celebre medico, autore, fra l’altro, di La circulation de la vie (Paris, G. Ballière, 1866).

[32] Lettera trascritta a p. 45 da Primoli nel manoscritto preparatorio in vista dell’articolo La Duse apparso in «La revue de Paris», 1° giugno 1897. Il manoscritto si trova presso la Fondazione Primoli di Roma.

[33] G. NOCCIOLI, Diario (1906-1907), in Eleonora Duse nel suo tempo, a cura di G. GUERRIERI, Milano, Tipografica Milanese, 1962, p. 66.

[34] «Abito Obi». Così lo definisce la «Gazzetta Piemontese» del 12 dicembre 1886.

[35] «Corriere di Roma», 8 dicembre 1886.

[36] Così la traduzione di Panzacchi: «Essa ha una lunga veste nera e una specie di velo che l'avvolge dal sommo della testa fino ai piedi. La fronte è cinta da una benda bianca» (p. 19).

[37] Il volume di E. SALA, Il valzer delle camelie. Echi di Parigi nella Traviata, Torino, EDT, 2008, contiene uno sguardo d’insieme sulla presenza della musica nei teatri di boulevard, oltre a soffermarsi nello specifico sulla Dame aux camelia.

[38] PSICHARI, L’Abbesse de Jouarre au thèâtre, cit., p.152.

[39] «Il Popolo Romano», 9 dicembre 1886.

[40] «Arte Drammatica», 9 dicembre 1886.

[41] «Arte Drammatica», 22 gennaio 1887.

[42] «Gazzetta Piemontese», 12 dicembre 1886.

[43] Si legge sull’«Arte Drammatica» del 4 dicembre 1886: «[…] l’esecuzione è stata una miniatura, una meraviglia di finezza. La Duse s’è, ieri sera, manifestata sotto un nuovo aspetto – ella così grande nella passione violenta della Moglie di Claudio e della Fedora, è stata una tisichella incantevole per i suoi sguardi, per i suoi sorrisi che morivano sulle labbra pallide! Ah! la Duse può far miracoli, in arte; anche quelli di ridar vita a commedie morte, e Giovanni Verga deve esser molto grato a questa artista insuperabile!». Il volume di D. ORECCHIA, La prima Duse. Nascita di un’attrice moderna, Roma, Artemide, 2007, è dedicato agli anni artistici dal 1879 al 1886.

[44] Rimando al celebre saggio di F. ORLANDO, Due letture freudiane. Fedra e Il Misantropo, Torino, Einaudi, 1990, che voglio citare per il motivo della passione in quanto monstrum.

[45] «Si respira nella tragedia un’aria un po’ crepuscolare di rinuncia e sacrificio, che fa pensare alla Princesse de Clèves, il romanzo di Mme. de La Fayette pubblicato cinque anni dopo». A. BERETTA ANGUISSOLA, Commento e note a Mitridate, in RACINE, Teatro, cit., p. 1822.

[46] In particolare l’episodio che più ha visto la collaborazione fra Dumas, Primoli e la Duse è quello relativo alla realizzazione di Denise. Cfr. L’anno di Denise, a cura di F. FERRAIOLI E P. MINOJA, in G. GUERRIERI, Eleonora Duse. Nove saggi, a cura di L. VITO, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 249-297.

[47] Lettera dell’8 dicembre 1886. “Se mi è consentito esprimere un’opinione, proporrei di terminare con il terzo atto. Dopo la più forte tensione drammatica possibile, dopo aver visto il terrore e il mistero della morte, dopo aver assistito alla manifestazione di un amore sovrumano, il grande pubblico non riesce a gustare un idillio, per quanto bello possa essere. Dopo la conclusione uno spettatore, uno spettatore medio, non desidera che si arrivi a una conciliazione, preferisce rimanere in sospeso […]” (traduzione mia). La lettera è citata insieme ad alcuni altri documenti in SICA, Eleonora Duse tragica sapiente, cit., p. 401, dove l’autrice si sofferma sull’intricata vicenda relativa alla traduzione-adattamento del testo francese.

[48] J. LANDIS, La pièce bien défaite: physique et pragmatique du drame, in http://revel.unice.fr/loxias/?id=1213 (data di consultazione: 26 ottobre 2015). “Proseguendo le regole della composizione classica e mettendole sotto l’impero assoluto della logica, la pièce bien faite si identifica attraverso alcuni fattori invarianti: dopo una rapida esposizione che ‘prepara’ con abilità gli avvenimenti successivi, l’azione si sviluppa a partire da un centro fino a – eventualmente – qualche intrigo secondario e secondo una catena di causa-effetto senza interruzioni, per giungere a uno scioglimento verosimile e completo. Francisque Sarcey utilizza, per rappresentare questa drammaturgia, l’immagine delle palle da biliardo che si percuotono l’una contro l’altra a partire da uno choc iniziale. Per dire quanto la pièce bien faite sia prima di tutto una fisica del dramma di cui l’atomo è il fatto e il cui principio si basa su di una forza lanciata contro svariati ostacoli contro cui sbatte fino all’esaurimento totale della propria energia. All’interno di un tale sistema, il racconto occupa uno spazio ridotto e una funzione determinata: riportare un evento situato in un fuori scena oppure, più raramente, sostenere un argomento”. Traduzione mia.

[49] Così la traduzione di Enrico Panzacchi: «L’atto accade nel giardino del Luxembourg. A sinistra, sono formate alcune piccole mostre di pan confortino, pasticceria e caffé sopra scaldavivande. A destra, un boschetto, e ivi sotto, quattro o cinque seggiole» (p. 79).

[50] Cronache teatrali di Giovanni Pozza, a cura di G.A. CIBOTTO, Vicenza, Neri Pozza, 1971, pp. 38-39.

[51] Non sono riuscita a trovare notizie circostanziate sulla composizione del testo usato nelle rappresentazioni date al teatro Nuovo di Firenze (debutto: 15 marzo 1887).

[52] Mss. Tartarini, Bologna, biblioteca dell’Archiginnasio. Desidero ringraziare i bibliotecari per la sollecitudine e la cortesia.

[53] Rimando al capitolo dedicato al copione di Francesca da Rimini nel mio volume I copioni di Eleonora Duse. Adriana Lecouvreur. Francesca da Rimini, Monna Vanna, Spettri, Pisa,Giardini, 2000. L’influenza di Richard Wagner sulla concezione della messa in scena della Francesca da Rimini, tragedia di Gabriele D’Annunzio, è testimoniata anche da indicazioni autografe dell’attrice sul copione.

[54] A. ANTOINE, Mes souvenirs sur le Théâtre-Libre, Paris, Arthème Fayard & Cie Editeurs, 1921, p. 9. «La battaglia, già guadagnata nel romanzo dai naturalisti, nella pittura dagl’impressionisti, nella musica dai wagneriani, stava per trasportarsi sulla scena» (la citazione è tratta dalla traduzione di C. ANTONA TRAVERSI, I miei ricordi sul Teatro Libero, Roma-Milano, Mondadori, 1923, p. 5).

[55] Si legge, ad esempio, sulla «Riforma» dell’8 dicembre 1886: «Il motivo filosofico che l’informa è noto: se l’umanità acquistasse la certezza che il mondo deve finire in due o tre giorni, l’amore scoppierebbe da tutte le parti come una specie di frenesia». L’edizione Treves della versione di Panzacchi recita: «Ma deponete l’idea che l’amore sia una gioia volgare, respingete certe futili distinzioni intorno allo spirito ed al senso. Che è l’anima senza il corpo? E che sono altro i sensi se non il mezzo della nostra intima comunione con l’universo? In questo mondo il bene è il fine e l’amore è l’intensa espressione del bene. Nella natura tutto dice a noi: amatevi! Che havvi di più eloquente che la morte? supponete il genere umano alla vigilia di cessare; ebbene, io dico, che allora l’amore solo dovrebbe regnare senza norme, senza limiti, perché ciò che limita e regola l’amore non avrebbe più alcun significato» (p. 43). In questo, come in altri casi, la traduzione di Enrico Panzacchi opera delle “correzioni” moraleggianti, qui omettendo di tradurre il riferimento al frutto dell’amore presente nell’originale, oppure in III, 10 al posto del vocabolo “Dio”, probabilmente ritenuto irrispettoso dalla censura, la battuta francese di Jeanne: «[…] Madame, madame, il faut vous confesser; vous aviez donc oublié Dieu?» è resa in italiano con «Vi siete dunque dimenticata dell’anima vostra?» (p. 78). La traduzione è perciò pedissequa nello svolgimento strutturale delle scene, ma interviene talvolta usando degli eufemismi e apportando degli slittamenti semantici in una direzione generale di maggiore “decoro”.

[56] “Quando fu pubblicata l’Abbesse de Jouarre, una eminente attrice italiana, la Duse, fu colpita dal carattere di Giulia. Volle creare questo ruolo e ottenne un successo che le assicuravano la sua rara intelligenza e il suo meraviglioso talento. Enrico Panzacchi, professore all’università di Bologna e eccellente critico, fece la traduzione e gli adattamenti necessari per la messa in scena. La difficoltà consisteva soprattutto nel conservare l’interesse, secondo le abitudini del teatro, dopo il terzo atto. Credo di aver avuto ragione, nell’opera ideale, di prolungare la vita della badessa, per mantenere la concezione superiore della vita concepita come un dovere e mostrare l’espiazione, attraverso l’amore materno, di un errore commesso contro le regole necessarie della società. Ma era questa una idea da moralista, conveniente, lo riconosco, al romanzo piuttosto che al teatro. I miei amici di Roma mi scrivevano: ‘Il vostro dramma non può terminare con un idillio’. Ebbi a un certo punto l’idea di un quarto atto, che si svolgeva nel tribunale rivoluzionario ed era così concepito: Il tribunale rivoluzionario, secondo le incisioni del tempo: da un lato il presidente, l’accusatore pubblico, i giurati, dall’altro il banco degli accusati. Sul banco degli accusati l’abate Clément, La Fresnais, Giulia. Il pubblico accusatore fa la requisitoria all’inizio contro l’abate Clément, in poche parole: «Fanatismo, inciviltà, ecc. Subito dopo la condanna, l’abate è condotto via. Poi il pubblico accusatore fa una requisitoria contro La Fresnais all’incirca così: L’accusatore pubblico: il caso che vi è sottoposto, mostra bene l’inconveniente per le democrazie di cedere ai sentimenti di umanità e anche ai sentimenti più dolci della natura. Perché è necessario che la donna, questo capolavoro della creazione, sia sempre occupata a combattere la patria? Questo eroe, che vedete sul banco degli accusati, non è più stato un eroe da quando ha conosciuto una donna. Appena uscito dalle porte di Plessis, era chiaro che voleva la morte. L’hanno sentito gridare in strada: ‘Abbasso Fouquier-Tinville! Abbasso il tribunale rivoluzionario!’. Nello stesso tempo vomitava ingiurie contro i cittadini più virtuosi. È una sfida paragonabile a quella di gridare: ‘Abbasso la Nazione!’ perché il tribunale rivoluzionario è il più stabile appoggio della Nazione e il vostro virtuoso presidente… ecc. Il presidente: ‘Mi costa molto trovarti come colpevole, dopo una vita virtuosa. La morte, del resto, non ha nulla che spaventi un uomo come te… ecc.’. Lo portano via, la badessa gli stringe una mano e lo segue con un lungo sguardo. Il presidente alla badessa: ‘Il tuo fanatismo è decisamente incurabile. Salvata da questo giovane eroe, tu l’hai trascinato verso il crimine, tu hai voluto spendere la vita che ti era stata lasciata solo per combattere la Repubblica, dunque non accusare che la tua ostinazione, se ti mandiamo a morte. (con un tono più basso) Questa volta, lo sai, è sicuro’. Giulia si alza, dicendo con freddezza: ‘Certo’. Dal momento che mi obiettarono difficoltà sceniche insormontabili, proposi di limitare la rappresentazione ai primi tre atti, terminando in questo modo il terzo atto: Una volta scomparso l’abate Clément, un momento di silenzio. Giulia, come uscendo da uno sogno:‘La vita! La vita! Il perdono a questo prezzo! No, preferisco non venire perdonata! Prete, la tua assoluzione costa troppo cara, morirò’. Come in sogno Giulia: ‘Che cosa diceva? La badessa di Jouarre fra dieci mesi… elemosinare… per il proprio figlio? Possibile? Cosa? Sarò madre?’. Si prende la testa fra le mani, poi bruscamente si alza. ‘Se sarà così, voglio vivere! La nobiltà della più umile madre è superiore a quella che mi davano tutti i miei antichi diritti regali. Essere già caro che porto, forse, in seno, piccola divinità che creo con le mie lacrime e con il mio sangue, tu hai il diritto di comandarmi. Ignominia e miseria vi sfido! L’approvazione del mio oracolo interiore. mi è sufficiente. Ah! Voi osate parlare di vergogna, quando si tratta della cosa più santa che esista in natura! Ebbene, viva la vergogna! Sarò madre! Sconfiggerò il vostro disprezzo col silenzio, io vivrò!’” (RENAN, Oeuvres complètes, cit., vol. III, pp. 681-683; traduzione mia).

[57] ANTOINE, Mes souvenirs sur le Théâtre Libre, cit., pp. 105-106. «[…] non nego d’avere, spesso, concepito la possibilità che, almeno talune parti della Abbadessa di Jouarre, potessero produrre una forte commozione. Ma ecco qui le mie obiezioni. Mediocremente eseguita, la rappresentazione correrebbe il rischio di non far nessun effetto […]. Quel che accadde in Italia deve attribuirsi alla volontà di una sola attrice, la signora Duse, donna di grande intelligenza; la quale, avendo letto il mio libro, s’innamorò del carattere dell’Abbadessa, e volle assolutamente crearlo […]. Se reciterete l’Abbadessa, vorrei fosse rappresentata interamente, tale e quale è a stampa, con i suoi cinque atti. Riconosco esser contrario alle abitudini teatrali prolungare di due atti una composizione, onde il vertice si trova al terzo; ma il mio pensiero rimane assolutamente incompiuto senza quei due ultimi atti. In Italia li sopprimono, o quasi; ma duro fatica a figurarmi che l’azione generale possa, con questa soppressione, non zoppicare interamente […]» (cito dalla traduzione di Traversi, I miei ricordi sul Teatro Libero, cit., pp. 98-99).

[58] Cfr. J.R. TAYLOR, The Rise and Fall of the Well Made Play, New York, Hill and Wang, 1969 e LANDIS, La pièce bien défaite, cit. Rimando anche alla classica lettura di P. SZONDI, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1962.



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