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Paolo Patrizi

Esperimenti e tradizione: il “Don Pasquale” in video

Data di pubblicazione su web 24/09/2015
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Una cavalcata attraverso il Don Pasquale in video non può prescindere, in via di omaggio preliminare, da due pellicole che con il dramma buffo di Donizetti c’entrano solo fino a un certo punto. Uno è il remoto bianco e nero girato nel 1940 da Camillo Mastrocinque: non un film-opera, quali se ne vedranno molti in quel decennio, ma un vero adattamento cinematografico, dove la musica è sottofondo e la sceneggiatura – tra piccole gags aggiuntive e qualche riammodernamento lessicale – segue fedelmente il libretto. L’azione, invece, viene trasportata in un Settecento domestico e farsesco: scelta che valorizza la maschera vagamente molieriana del protagonista Armando Falconi, ma crea una frattura con quell’atmosfera da commedia borghese ottocentesca che si respira nell’opera, e ne è il vero motore.

Più labile – ma ancor più irresistibile – l’addentellato con il Don Pasquale nel Conte Max (1957, regia di Giorgio Bianchi), remake di un vecchio classico dei telefoni bianchi riaggiornato nei canoni della commedia all’italiana, con un Alberto Sordi popolano che sogna di entrare nel mondo della nobiltà. Per interposto Donizetti, il film contiene una sequenza che dovrebbe figurare in ogni antologia sordiana: siamo durante l’esecuzione amatoriale di Com’è gentil affidata a un coro di tranvieri romani, e Albertone brontola con il suo vocione da basso il plon plon di sottofondo, imitando in un esilarante effetto onomatopeico chitarre e tamburello che accompagnano la serenata. Erano anni in cui il cinema di consumo flirtava con il melodramma in quanto lessico popolare: e basterà ricordare come, l’anno prima, sempre Sordi aveva dato vita a un tragicomico Grenvil della Traviata in Mi permette, babbo! di Mario Bonnard.

Se il grande schermo circumnavigò Don Pasquale, il piccolo schermo l’affrontò direttamente. Nella serie di melodrammi girati in studio dalla neonata televisione italiana, l’ultima opera comica di Donizetti non poteva mancare: e infatti andò in onda nel 1955, con orchestra e coro della Rai di Milano e un team di specialisti, alcuni dei quali (Alda Noni, Cesare Valletti, il regista Alessandro Brissoni) reduci da un Elisir d’amore televisivo di pochi mesi prima. Pubblicata in dvd, l’edizione non ha solo un interesse di modernariato: se il gusto è un po’ invecchiato, la lezione stilistica della Noni, di Valletti e dei due “buffi” Italo Tajo e Sesto Bruscantini appare tutt’altro che appannata; mentre l’impaginazione di Brissoni – che avrebbe girato per la tv i più svariati titoli teatrali, da Shakespeare all’operetta – mostra una scioltezza narrativa che non ritroveremo nelle regie dei Don Pasquale documentati in video nel nuovo millennio.

Il dvd, infatti, non ha reso giustizia a quest’opera. Nonostante il cospicuo numero di edizioni disponibili – una decina – sono troppe le grandi assenze perché l’home video possa costituire un’attendibile mappatura della storia interpretativa del Don Pasquale: basterebbe il fatto che è stata questa, nel 1932, l’unica opera completa incisa da Tito Schipa per comprendere come solo una ricognizione discografica offra un quadro completo degli interpreti di riferimento. Quanto poi al doppio binario che ha puntellato l’approccio con il protagonista (da una parte “buffi” farseschi, propensi al lazzo, fedeli alla tradizione plautina e della commedia dell’arte, dall’altra “buffi” più malinconici e stilizzati, inclini a esprimere la comicità solo all’interno del dettato musicale), i dvd non possono esemplificarlo in maniera eloquente: per quanto riguarda il primo filone, manca una documentazione delle interpretazioni di Fernando Corena e Paolo Montarsolo; così come sul fronte opposto non troviamo testimonianza, almeno ufficialmente, né del Don Pasquale di Bruscantini (che nell’edizione televisiva interpretò Malatesta) né di quello di Enzo Dara.

Se dall’aspetto vocale si passa alla messinscena, che è la vera ragion d’essere di un dvd, le perplessità restano: le regie più personali e ambiziose di questa videografia mostrano una singolare sfiducia nel meccanismo teatrale messo in moto da Donizetti, destrutturandolo o, più spesso, sovrastrutturandolo. Dunque, col senno di poi, ancor più si apprezza la fedeltà al libretto e la linearità espositiva dell’edizione Rai, peraltro assai debitrice – quanto a gradevolezza degli esiti – alla scenografia di Luca Crippa, di un calligrafismo che non nasconde il suo pedigree di pittore surrealista, e con siparietti che paiono anticipare Carosello, destinato ad approdare di lì a poco nella televisione degli italiani. Corroborata da intenti divulgativi (le inquadrature degli strumentisti sono una piccola lezione musicale) e didascalica quanto basta (i personaggi appaiono in dissolvenza durante la sinfonia, quando l’orchestra ne evoca i rispettivi temi), la regia di Brissoni sfrutta poi al meglio la fisicità di cantanti capaci d’imprimere un tocco surreale ai primi piani: il volto di Tajo pare una maschera di gomma, la Noni è quasi un cartone animato nelle affettazioni di Mi vergogno… son zitella, Renato Ercolani trasforma il notaio in un nanetto marionettistico che travalica la mera caricatura.

Tajo è un protagonista singolare, capace di far convergere la tradizione dei Don Pasquale farseschi con quella dei “buffi” interamente risolti nel canto. L’interprete si adagia su un antipsicologismo tutt’altro che inconsapevole, incanalando il ruolo nella vetusta tradizione del vecchio gabbato: un Don Pasquale dalla senilità quasi asessuata (anche nel timbro, povero di colore e densità), la cui sconfitta è sotto il segno del ridicolo, senza le amarezze di una virilità agli sgoccioli ma ancora presente. Il vocalista, però, ha un’eleganza e una rifinitura solitamente appannaggio di protagonisti più consistenti e frastagliati: e il fatto che, dietro la maschera dell’anziano babbione, Tajo sia appena quarantenne (al momento di È rimasto là impietrato il trucco viene meno, e trapela una fisionomia giovanile che tanto più lo fa apparire distrutto) accentua tale dicotomia, potenziando la bifasicità di quest’incarnazione.

Bruscantini condivide con lui sia la soffice scorrevolezza del canto sia un certo pallore timbrico. Ma se come attore è perfetto nel ritrarre un filibustiere di gran classe (è un virtuoso pure quando gira lo zucchero nella tazzina del caffè), sul piano del fraseggio si sente che Malatesta gli va stretto: già da qualche anno affrontava la parte di Don Pasquale, e quel “far commedia con le sfumature” – che sarà sempre l’obiettivo artistico di Bruscantini – aveva trovato così totalizzante attuazione in questo personaggio da far apparire una vacanza il rientro nei panni del faceto dottore. Felicemente incline all’ironico-patetico, la Noni è meno telegenica, ma più compenetrata; e Valletti abbina un canto limpido e corretto (pochi sapranno far percepire come lui le appoggiature della serenata) a un appeal da vero «nipotino guastamestieri»: quasi un giovane Vittorio De Sica uscito da un film di Mario Camerini.

Alberto Erede esordisce con una sinfonia povera di contrasti, oltre ad applicare quei tagli di tradizione logici in un’edizione televisiva e che, nel caso della cabaletta di Ernesto, sono motivati dalla presenza di un tenore “corto” come Valletti. È peraltro vigile concertatore e sensibile accompagnatore, di personalità musicale contenuta e, tuttavia, non inferiore a quella mostrata da Nicola Rescigno in un’edizione newyorkese d’un quarto di secolo dopo (1979), non commercializzata ma a suo tempo disponibile in rete. Qui il direttore pare intimidito dalla presenza d’una coppia di divi, tra l’altro non più giovanissimi, come Beverly Sills e Alfredo Kraus: ma se la bacchetta tende a defilarsi quando agiscono soprano e tenore, in una totale (d’altronde ben riposta) fiducia nell’esperienza e nel carisma dei due maturi fuoriclasse, anche nei momenti in cui il primo piano è dell’orchestra la fantasia di Rescigno appare latitante. La sinfonia parte svigorita; e quando – sciorinati i temi di Com’è gentil e dell’Allegretto di Norina – la temperatura sale comunque, dato che Donizetti prende un abbrivio rossiniano, Rescigno si limita a un rossinismo prevedibile e un po’ pesante: almeno in rapporto alle sonorità ricamate cui la Rossini renaissance, in quegli anni, stava abituando.

Dato che pure la messinscena è convenzionale (la scenografia di Desmond Healey è sontuosa ma oleografica nella sua ambientazione romana di maniera, e l’unica originalità della regia di John Dexter sta nel fare di Don Pasquale un collezionista di farfalle), l’interesse si concentra su quella Norina e quell’Ernesto anagraficamente fuori tempo massimo – tanto più in video – ma catturanti. La Sills e Kraus si costruiscono su misura i personaggi, sia sul piano canoro sia su quello scenico: lei rinunciando a qualunque veridicità come «giovane vedova» e assumendo le sembianze di una signora-bene (molto americana, in fondo) matura, spiritosa e fumatrice, disincantata verso gli uomini ma civettuola nel piedino; lui trasformando Ernesto da «giovine entusiasta» a un introverso occhialuto forse precocemente invecchiato dalla timidezza.

Quanto alle rughe vocali, Beverly ne mostra più di Alfredo: il registro acuto resta agilissimo e cinguettante, i gorgheggi della cavatina galleggiano impavidi sull’orchestra, ma altrove il suono si fa vetroso e non sempre stabile. Resta comunque uno straordinario esempio di “attorialità canora”, nella fantasiosa estrosità delle cadenze come in certi affondi di petto sapientemente caricaturali. E anche quando il canto appare sovradimensionato rispetto al personaggio, la Sills è a suo modo un soprano filologico: non perché l’alto profilo rievochi la prima interprete (Giulia Grisi non fu certo una Norina soubrette), ma perché quell’impeto regale in stile Anna Bolena quando deve semplicemente enunciare «Pronta son, purch’io non manchi», e quell’innocua «moral di tutto questo» virata in mirabolante aria di congedo, rappresentano in fondo la traslazione da una a un’altra drammaturgia donizettiana. Ne fa un Donizetti al quadrato, insomma.

In Kraus la perdita di freschezza, invece, non infirma mai la tenuta vocale complessiva: al timbro inaridito risponde un canto formidabile per proiezione e risonanza, e questo Ernesto occhialuto finché si tratta di giocare al commediante, ma che si sfila le lenti quando c’è da fare il tenore sul serio, resta un’interpretazione stilizzata e icastica al tempo stesso. Cesellato nei recitativi, malinconico e sorvegliato nei cantabili (Kraus recupera la cabaletta, pur rinunciando al “da capo”), anche lui come la Sills occhieggia più ai grandi personaggi che al “mezzo carattere”: e quando intona la serenata fuori scena l’impressione è di ascoltare non la voce di Ernesto, ma quella del Tenore Donizettiano nella sua quintessenza.

Tra due tali mattatori una vecchia volpe come Gabriel Bacquier non si lascia intimidire e, anzi, sembra risarcire lo spettatore dell’assenza in video (ma d’altronde anche in disco) del Don Pasquale di Giuseppe Taddei. Come il Taddei del declino, pure Bacquier mostra le stimmate di un ex grande baritono fedele ormai alle ragioni più del cantar parlando che del recitar cantando; anche lui – voce in disordine ma ancora timbratissima, fisicità sfatta ma sanguigna – rischia di confondere Don Pasquale con Falstaff, con un rimescolamento però di così forte evidenza teatrale da trasformarsi in felix culpa. E al protagonista falstaffiano di Bacquier risponde il Malatesta operettistico di Håkan Hagegård: un dandy in cilindro e mantella nera che sembra uscire dal Pipistrello, con un’emissione in difetto di rotondità e “legato” (il che compromette un po’ la sua cavatina), ma scioltissimo nel sillabato. Con Bacquier e Hagegård, la girandola di Do centrali ribattuti nel duetto tra Don Pasquale e il suo dottore è la più spassosa tra quelle in dvd; ed è curioso che spetti a un baritono francese e a uno svedese la palma della dizione più intelligibile in quel frenetico scilinguagnolo.

L’ultima produzione in video del secolo scorso (1994, dalla Scala) sposta invece l’attenzione sul versante orchestrale. Ed era tempo. La cerchia dei grandi direttori che hanno affrontato Don Pasquale è ristretta pure in disco (Busch, Schippers, Kertész), ma il Riccardo Muti di quest’edizione milanese ne ha scavato la drammaturgia con un’attenzione a tutt’oggi ineguagliata. Che la sua militanza donizettiana si sia limitata a questo titolo è un paradosso e una sfortuna: sta di fatto che nessuno ha saputo far percepire come lui quella natura di melodramma romantico travasato nel genere buffo che è, poi, l’essenza più preziosa del Don Pasquale.

Emerge, in primo luogo, la componente sinfonica dell’opera – l’ampio organico previsto da Donizetti non viene sfoltito – e il tema di So anch’io la virtù magica, quando è esposto per la prima volta nell’ouverture, qui pare davvero di conio squisitamente strumentale. Ma tutto il senso della struttura esce fuori con chiarezza nella concertazione di Muti: la sequenza composta da Bella siccome un angelo di Malatesta e Un foco insolito di Don Pasquale viene restituita non come due distinti assoli, ma un blocco cavatina/cabaletta affidato a voci diverse, sottolineando l’interazione dialettica tra dottore e paziente; e il quartetto È rimasto là impietrato, lungi dal risultare uno stralunato flash rossiniano, dà l’idea di quel “momento sospeso” dove i personaggi fanno i conti con se stessi, che rimanda implicitamente al sestetto della Lucia di Lammermoor. Semmai si nota una certa aridità nel sorvolare sulla leggerezza del danzante ritmo ternario che puntella il coro della servitù: un momento vissuto da Muti come un riempitivo, e che rientra invece nella strategia – molto donizettiana – di fare delle masse corali non un commento degli eventi, ma un personaggio.

Muti trovò buon supporto nella messinscena di Stefano Vizioli e della scenografa Susanna Rossi Jost: ricca di spunti iconografici realistici nel ricostruire la Roma ottocentesca, trasfigurati però da una fantasia riassunta dallo squarcio di cielo spumoso alla Magritte su cui si alza il sipario, e che dilagherà in tutta la sua libertaria nuvolaglia quando entra in scena Norina con la relativa «virtù magica». Pure il lavoro sui personaggi appare tanto discreto quanto incisivo: è un’istantanea difficile da dimenticare quella su cui Vizioli chiude l’opera, con Don Pasquale che perdona tutti ma, a tu per tu con la propria sconfitta, appare scosso da brividi di freddo, mentre Norina gli fa un gesto protettivo e quasi materno.

Diseguali per valore, i protagonisti sono duttili strumenti nelle mani di Muti: la correttezza fin troppo circospetta di Nuccia Focile e la pesantezza d’emissione di Lucio Gallo, poco confacente a Malatesta, non disturbano in tale contesto. Primo Ernesto in video a eseguire la cabaletta nella sua interezza (suggellata da Muti con una coda orchestrale davvero rapinosa), Gregory Kunde sigla un’interpretazione tra le più persuasive dell’inizio della sua carriera: quando, cioè, era un tenore contraltino soave ma un po’ slavato, prima di trasformarsi in tenore drammatico energico e incisivo. Ma soprattutto spicca Ferruccio Furlanetto, protagonista con una complessione vocale inequivocabilmente da basso, dunque dove la comicità timbrica assume contorni ben precisi, occhieggianti più al barone Ochs che al “buffo” all’italiana; e se uso dei portamenti, robustezza fonica, aplomb scenico sono quelli di un grande basso serio, ciò assume un valore sotterraneamente ironico – mai però parodistico – e riconduce al profilo tragicomico del personaggio.

Quando Muti tornerà sui suoi passi, dodici anni dopo, gli esiti saranno diversi. Il video realizzato al Ravenna Festival nel 2006 (una produzione con cui partì il sodalizio tra il direttore e l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini da lui fondata) lo coglie in uno dei momenti più scabrosi della sua carriera – si era sciolto da poco il rapporto con la Scala – e ciò che emerge è soprattutto un grande nervosismo: i primi piani mostrano inequivocabilmente la tensione del maestro e il volto impaurito di molti ragazzi dell’orchestra. Il risultato è triste, perché quella tavolozza scura con squarci luminosi che, a Milano, aveva caratterizzato il Don Pasquale di Muti qui si converte in un pedale plumbeo; quello che era stato il biglietto da visita della concertazione scaligera – un incipit della sinfonia energico e scattante – cede il passo a una valanga sonora fin troppo dimostrativa; e, in generale, di quella lettura rigorosa ed elegante resta solo un’asciuttezza a tratti arida, o comunque troppo poco sensibile al comico.

Un Don Pasquale lugubre potrebbe non essere un ossimoro: è lecito – tanto più se pensiamo al valore testamentario che, retrospettivamente, avrà quest’opera – estrarre il nucleo tetro della vicenda, indugiare sulla cattiva coscienza dei personaggi piuttosto che sulle loro schermaglie, riproporre quel “cuore oscuro dell’Ottocento” che il classicista Rossini evitò di scandagliare e l’apollineo Bellini sfiorò soltanto, ma davanti al quale Donizetti non si coprì gli occhi. Allora, però, sarebbe stata necessaria una lettura musicale più estrema, e in dialettica con una regia sul medesimo binario. Laddove Andrea De Rosa firma una messinscena funerea, statica nell’impianto e cupa nelle scenografie di Italo Grassi, ma dove, a parte un guizzo inquietante (il coro dei servi che commentano impietosi visto come un incubo di Don Pasquale), la narrazione s’impantana: il regista tenta la carta del teatro nel teatro, anche se qui il palcoscenico è il salotto del protagonista e gli spettatori sono quei personaggi che, di volta in volta, non partecipano all’azione. Ne sortisce una drammaturgia posticcia, che anticipa i Don Pasquale “riscritti” dai registi dei dvd più recenti. Anche se rispetto a questi ultimi De Rosa ha un retroterra da uomo di teatro tradizionale che, pure nella sperimentazione, lo porta a un sostanziale accademismo.

La modestia del cast schierato a Ravenna è poi sintomatica del progressivo disinteresse di Muti verso le individualità vocali: Laura Giordano è una Norina troppo adolescenziale fisicamente e acerba vocalmente; Juan Francisco Gatell circoscrive Ernesto, sottodimensionandolo, al cliché del tenorino falsettante; Mario Cassi mira a un Malatesta rampante e cialtrone, ma un po’ cialtronesco risulta pure musicalmente, con il suo “legato” precario e le sue agilità abborracciate. Quanto al protagonista, se a Milano la scelta era caduta su un basso, qui troviamo un ex baritono: Claudio Desderi era ormai fuori carriera e accettò di partecipare a titolo di rentrée. Se accento e dizione sono quelli del grande artista, raceudini e stimbrature rendono arduo parlare di canto: più che la strada del “buffo parlante” imbocca quella di un personalissimo Sprechgesang ottocentesco, frutto del destreggiarsi tra le proprie macerie vocali, ma pure di una forte personalità musicale. Ne deriva un personaggio che, in linea con la lettura senza sorrisi imposta da Muti, non trasmette simpatia: burroso eppure tutt’altro che bonario, obnubilato dall’arroganza più che dalla sprovvedutezza, sempre con un’inestirpabile acredine di fondo. E vederlo carponi mentre cerca gli occhiali – dopo che lo schiaffo di Norina gli ha fatto saltare le lenti dal viso – dà sgomento, ma non suscita compassione.

Tra l’uno e l’altro dvd con Muti si colloca (2002) la ripresa di uno spettacolo a Cagliari, che ripropone con minimi cambiamenti – qui la sarabanda dei servi pettegoli assume una frenesia da musical – la messinscena scaligera del ’94. Vizioli è dunque l’unico regista, all’interno di una storia dei Don Pasquale in video, a venir documentato due volte: giusto destino per una regia rispettosa della musica ma senza autocensure creative, in una miscela equilibrata di tradizione e originalità. Anche qui trova un concertatore – Gérard Korsten – poco sensibile ai richiami della farsa: ma il divario di resa, tra Muti e il direttore sudafricano, è tale da scoraggiare ogni parallelismo, mentre a connotare questa lettura restano solo certe sonorità eccessive, la carenza di flessuosità e una strisciante pesantezza di fondo.

La compagnia di canto, però, ha un protagonista tra i migliori. Con voce magra e sapiente (il modello Bruscantini è dietro l’angolo) Alessandro Corbelli dà vita a un Don Pasquale tutto giocato sui mezzi toni: dolceamaro più che tragicomico, né babbione né stizzoso ma solo inasprito dagli acciacchi e dalle mancanze. E sono una miniera gli spunti originali del fraseggio, da un «Son rinato» detto in tono esausto, quasi già consapevole che quella contro l’anagrafe è una battaglia perduta in partenza, a un «Parta pure. Ma non faccia più ritorno» accentato non con collera, ma con rammarico: come fosse ancora innamorato, o si stesse innamorando solo allora.

In un dvd di undici anni dopo, purtroppo, ritroveremo Corbelli in condizioni vocali men che precarie. Resta indubbia però l’arte sottile di quest’esecuzione, cui la Norina di Eva Mei tiene testa con talento di vocalista e spirito di commediante, ma davanti alla quale l’Ernesto monotono e dolciastro di Antonino Siragusa dice poco e il Malatesta di Roberto De Candia, troppo sbiadito e bonaccione, non può competere. Semmai è Giorgio Gatti a ritagliarsi il suo spicchio di buffonesca gloria con un notaio pennellato in chiave di baritono, anziché di nasale tenore caratterista, che assurge al rango di “spalla” comica più che di comprimario.

Contemporanea all’edizione ravennate è invece una produzione di Zurigo che tenta di riprodurre certi Don Pasquale dei bei tempi andati, ma in anni dove regie e cantanti sono ormai troppo lontani da quelle consuetudini scenico-vocali per riproporle con scioltezza. Nello Santi non è solo l’ultimo custode di una tradizione che con lui forse scomparirà definitivamente, ma un’ottima bacchetta tout court: la sinfonia è ben contrastata nei volumi, anche se prevale un fraseggio orchestrale sussurrato che sottolinea la natura di “commedia da camera” del Don Pasquale, creando un rarefatto tappeto sonoro teso a valorizzare, o almeno agevolare, i cantanti. La distribuzione del cast, con un divo al tramonto (Ruggero Raimondi) e uno in piena fase ascendente (Juan Diego Flórez), rende con icasticità la dialettica generazionale tra zio e nipote: peccato che poi tutto s’impantani tra le rovinose condizioni vocali del protagonista e una regia di Grisha Asagaroff incline, sì, al buffonesco, ma imboccando un’altra strada.

In tale quadro, non ha grande costrutto che Santi riesumi tutto un repertorio di frizzi vocali (le ultime sillabe sempre marcatissime nello scontro tra Don Pasquale e Norina), varianti, interiezioni, battute aggiuntive («Non so se mi spiego, eh?!», «Se ho fatto la cura dimagrante!», «Dottore, scherzava!»): è una tradizione antica, anche sapiente, che però non c’entra nulla con la comicità sovrastrutturata del regista, né è spendibile – «la moral di tutto questo» forse sta proprio qui – con le vestigia canore di Raimondi, privo di qualsivoglia risorsa timbrica fino ad apparire spettrale, ma pure lontano dal “buffo parlante” all’antica italiana. Vocalmente altrettanto prosciugato, il Don Pasquale di Desderi manteneva una sua direzionalità interpretativa: qui, semplicemente, si ascolta una sgradevole arte di arrangiarsi; e solo in dirittura di arrivo, quando Raimondi mormora a denti stretti un ambiguo «Tutto dimentico, siate felici», sembra cogliersi una reale personalità.

Se allo spossato grigiore di questo protagonista si aggiunge poi la scarsa scioltezza di Oliver Widmer, si capirà come il duetto tra Don Pasquale e Malatesta – sebbene Santi, in omaggio ai tempi antichi, ne bissi la parte conclusiva – sia il meno divertente della storia del video; né alza il tasso di umorismo Isabel Rey, Norina dalle scarse attrattive scenico-vocali. Ma a entrare in collisione con la comicità dell’opera è soprattutto la regia. In una sorta di horror vacui, Asagaroff accumula oggetti e inventa personaggi: orsacchiotti di pezza con cui si balocca Don Pasquale; il ritratto del «nipotino» che campeggia nel salotto rifatto da cima a fondo; una fantesca di Norina, sorta di serva padrona muta testimone del complotto; un suonatore ambulante spettatore della cacciata di Ernesto, che si rivela (è la trovata più simpatica) essere lo strumentista cui, subito dopo, spetterà il dolente assolo di tromba. Il risultato è una drammaturgia centrifuga, disseminata di dettagli ora gratuiti ora comunque non riconducibili a un disegno unitario e che, inzeppando il palcoscenico, non rende giustizia neppure alla scenografia ingegnosa di Luigi Perego e ai suoi costumi zigzaganti tra anni Venti e anni Settanta.

In tale contesto, Flórez domina incontrastato. Ora in grigio ora con racchetta da tennis, dà vita a un amoroso dolce e risentito, malinconico e appassionato, di grande credibilità scenica e dalla tenuta vocale d’irrisoria facilità (sebbene il “vibrato” fosse tenuto meno sotto controllo di oggi). Timbratissimo pure negli attacchi più di grazia, spettacolare nella puntatura tenuta della cabaletta e in quella – smorzata ad arte – della serenata, si rivela un perfetto commediante sentimentale: come nella Figlia del reggimento, il Donizetti brillante esalta le sue potenzialità espressive. Laddove il più tecnicistico belcanto rossiniano l’indurrà, col tempo, a una certa meccanicità.

Quattro anni dopo, e a oltre un ventennio dall’edizione Sills/Kraus, nella videografia del Don Pasquale rientra il Metropolitan. Lo spettacolo allestito nel 2010 non è troppo lontano, sotto il profilo visivo, da quello del ’79: anche qui scenografie (di Rolf Langenfass) sovradimensionate rispetto all’andamento “cameristico” della vicenda e tendenti a un’ambientazione italiana totalmente di maniera (siamo a Roma, ma da certi sprazzi si direbbe di trovarci a Napoli). La regia di Otto Schenk, poi, è costruita su gags vecchiotte; e laddove si tenti la carta dell’ammodernamento quando è in scena Norina, i risultati appaiono poco spontanei. D’altronde un conto è ricucire il personaggio sulla classe di una diva autentica come la Sills, un altro arzigogolare il ruolo per la glorificazione di una stellina dello star system come Anna Netrebko.

Motivi d’interesse non mancano. Visibilmente in cattiva salute, costretto a dirigere seduto e a gestire con la mimica facciale ciò che il braccio non esprime più al meglio, James Levine sigla una lettura notevole: certi repentini cambi di temperatura, come il passaggio da Cercherò lontana terra alla relativa cabaletta, sono sottolineati con stacchi di formidabile incisività, mentre la speditezza del passo ha sempre una congruità psicologica (sottratta a eccessivi languori, la serenata recupera la sua natura di “Andante mosso”). I concertati, invece, tendono a svaporare l’accompagnamento orchestrale nella rapinosità del canto, si torna a qualche taglio e vengono concessi al protagonista pause, lazzi, sottolineature che, in Italia, sarebbero stati considerati d’antan. Questa miscela tra alto profilo della concertazione e omaggi a una tradizione “bassa” rende vitale l’interpretazione di Levine: il problema è che tale tradizione non viene esemplificata al meglio.

Cantante-attore amato al Met, John Del Carlo è l’unico protagonista in video a restituire un Don Pasquale sul solco di quei “buffi” caricati e “parlanti” che a New York erano stati appannaggio di Salvatore Baccaloni e, più tardi, dello stesso Corena. Ma rispetto a tali modelli la voce è troppo povera di risorse timbriche, la musicalità risulta tutt’altro che infallibile (soprattutto in termini di appiombo ritmico) e la vis farsesca appare annacquata, dietro una fisicità pletorica da gigante stolido e un faccione che ricorda il comico John Candy. D’altronde, pure la diva attorno alla quale gravita lo spettacolo è deficitaria: la Netrebko rimescola le carte tra Norina e Adina (entra in scena con una risata come la protagonista dell’Elisir d’amore), ha dizione poco scorrevole mentre legge del «cavalier Riccardo», risulta artificiosa vocalmente (i tentativi di scurire il suono la portano a forzature e disomogeneità) non meno che scenicamente. Come maliarda resta posticcia, non per finzione teatrale, ma per inclinazione massmediatica a un sex appeal modaiolo e plastificato; e gli urli rauchi, gli scatti erinnici, la puntatura urlata con cui sancisce il passaggio da zitella tremebonda a megera ingovernabile sono grotteschi, non umoristici.

Matthew Polenzani e Mariusz Kwiecien offrono un Ernesto e un Malatesta di maggior presa: per ricchezza di gradazioni dinamiche, ampiezza dei fiati, dialettica di suoni smorzati e rinforzati Polenzani qui supera lo stesso Kraus. La concezione, però, è del tutto diversa. Se Kraus giocava sulla timidezza, Polenzani aggredisce il ruolo facendo di Ernesto un vero “personaggio contro”: un ribelle insofferente di regole sociali e costrizioni familiari, modellato attraverso una linea vocale lontana da sospiri e soavità (l’attacco di Sogno soave e casto potrà sembrare troppo poco incantato), eppure capace di ricercatezze canore d’antico conio – l’uso degli “stentando”, ad esempio – tali da ricordarci che il nipote di Don Pasquale sarà disobbediente e antiborghese, ma certe squisitezze formali le conosce. Quanto a Kwiecien, baritono lirico-brillante di patina scura pur con qualche tentazione tenorile, un po’ aggressivo nelle agilità ma capace di uno spavaldo trillo di bravura, è – in assoluto – il Malatesta che rende meglio quell’idea di «uomo di ripiego» con cui il libretto definisce questo marpione e mercuriale personaggio.

Sempre al 2010 risale un’edizione con pretese di originalità (viene ricostruita una versione con Norina mezzosoprano scritta per Pauline Viardot), filmata nella cornice palladiana del Teatro Olimpico di Vicenza: ma la si può inventariare come un infelice intermezzo. Sebbene Giovanni Battista Rigon sia bacchetta agile e scattante, l’operazione appare pretestuosa: la versione Viardot nulla aggiunge e qualcosa sottrae al Don Pasquale tradizionale (il rondò conclusivo, oasi illuministica a guisa di morale in una commedia altrimenti all’insegna del realismo ottocentesco, cede il passo a un innocuo valzerotto ricco d’ornamentazioni, di provenienza non donizettiana), mentre la cantante prescelta – Federica Carnevale – ha un’ottava inferiore troppo acerba per quelle trasposizioni di tonalità che, sottraendo Norina alla dimensione da “prima buffa”, virano il ruolo verso una fisionomia vocale più ombreggiata.

I mezzi poco accattivanti (le nasalità e angolosità sono molte) di Lorenzo Regazzo contribuiscono poi a plasmare un protagonista di scarsa simpatia, né la regia di Francesco Bellotto, infarcita di gags sui problemi proctologici di Don Pasquale, fa nulla per insufflargli gradevolezza. Anzi, tutta la messinscena – che trova un limite, più che un motivo di fascino, nella griglia imposta dalla scenografia naturale dell’Olimpico vicentino – è basata sullo scontro tra una vecchiaia museale, incarnata appunto dal protagonista, e una gioventù “coatta” (come si sarebbe detto nella Roma successiva di un secolo e mezzo a quella del Don Pasquale), ma tutto sommato meno sgradevole, rappresentata dagli altri personaggi. In questa prospettiva l’Ernesto rockettaro di Emanuele D’Aguanno e il Malatesta teppistello di Gabriele Nani funzionano bene, e la loro mancanza di rifinitura vocale diventa un limite relativo.

Nel frattempo una produzione ginevrina del 2007, e poi quella di Glyndebourne nel 2013 che a tutt’oggi conclude la nostra videografia, dischiudevano – se non nuove frontiere – almeno altri punti di vista. Accomunate da una sostanziale riscrittura drammaturgica, e da concertazioni che sembrano retrodatare il Donizetti comico-romantico ora alla giocosità rossiniana ora all’antica tradizione buffa napoletana, le due edizioni restano diversissime: eppure marciano in parallelo. Sia Evelino Pidò sia Enrique Mazzola tendono a dinamizzare l’andamento e snellire il suono: il primo è un narratore forse più meditativo, mentre l’affondo grintoso e guizzante resta il fulcro della lettura di Mazzola, ma per entrambi è palese come l’obiettivo sia un Donizetti alleggerito (nel riagganciarlo a radici comiche settecentesche) e semplificato (intendendolo come geniale epigono, ma epigono pur sempre, di Rossini). E tanto Daniel Slater a Ginevra quanto Mariame Clément a Glyndebourne corroborano, con le loro regie che sovrappongono ai personaggi un’altra storia, questa visione poco fiduciosa nell’autosufficienza espressiva di Donizetti.

Memore che Don Pasquale ebbe battesimo al Théâtre Italien, Slater sposta l’azione da Roma alla capitale francese. Non siamo però nella Parigi di allora: lo spettacolo ci trasporta negli anni Venti del Novecento durante la rivoluzionaria stagione della pittura surrealista, cui la scenografia di Francis O’Connor tributa più d’un omaggio. Anziché negli interni domestici, tutto il primo atto si svolge presso il Café des Artistes: microcosmo dove l’antico e l’avanguardia si fronteggiano, con un Don Pasquale cultore della vecchia arte destinato a soccombere davanti al nuovo che avanza – siamo nei paraggi di Forte come la morte di Maupassant – e una Norina giovane pittrice seguace di Mirò, che curerà di conseguenza il restyling della casa quando ne prenderà possesso. E poiché erano pure tempi freudiani, Malatesta si trasforma da medico di famiglia in psicanalista, legge Totem e tabù ai tavolini del caffè e converte il raggiro a Don Pasquale in psicoterapia.

Le forzature sono ammortizzate da interpreti fisicamente congrui, a cominciare da un Ernesto di colore (il corretto e simpatico Norman Shankle) che rinvia a una Francia ancora coloniale. Dietro gli occhiali e i baffetti Marzio Giossi plasma un Malatesta brancatiano, oltre che uno psicanalista da operetta. Ma soprattutto è una bella sorpresa vocale: cantante ingiustamente posto in seconda fila, sfodera una signorilità della linea e un’omogeneità di emissione che ne fanno non solo un “buffo” di spessore, ma un vero baritono donizettiano. E Simone Alaimo ha un piglio aggressivo e giovanile, ancorché appesantito, profittevole alla delineazione di un personaggio non ancora vecchio, ma che semplicemente sta invecchiando. La voce appare invece più senescente, il suono è abraso, manca quella rotondità bassobaritonale che è il physique du rôle timbrico per rendere l’umanità di Don Pasquale. Ma soprattutto il declino, anziché acuire l’ingegno di Alaimo, pare aggravarne i difetti: le imprecisioni ritmiche – falla in una musicalità per altri aspetti molto accorta – sono più accentuate che in passato; il ricorso ai falsetti non è di gran gusto; e, nonostante la prestanza scenica, davanti allo schiaffo di Norina quello di Alaimo è il Don Pasquale meno dignitoso e più piagnucoloso, meno trasecolato e più isterico che si abbia in video.

Patrizia Ciofi ha voce magra, ma assai ben governata. Nonostante il timbro smunto (e i fiati tutt’altro che inesauribili) restituisce ogni sfumatura del personaggio, dal frizzo al languore. E – si tratti d’una sua intuizione o di un’indicazione di Slater – quel rivolgersi a Don Pasquale con un «Rifletti all’età» rabbioso, quasi disperato, apre una finestra nuova su Norina. Quasi volesse dire: non costringermi a continuare quest’imbroglio, lascia stare, è meglio per te.

Ancor più sovrastrutturato il lavoro registico della Clément, dove le manipolazioni portano a un autentico straniamento. L’azione è retrodatata a un Settecento metateatrale: in un ambiente ruotante che dischiude interni diversi – le scene di Julia Hansen sono macchinose come la regia – la vicenda viene osservata da un pubblico in binocolo, che però, quando il numero dei domestici aumenterà drasticamente, si trasforma nei nuovi servi di casa. L’ambientazione nel diciottesimo secolo dà poi al dottor Malatesta un tocco da medico ciarlatano di molieriana memoria: è lui il burattinaio della storia, a metà tra Don Alfonso e il Sade della Filosofia nel boudoir, visto che tutto assume il sapore dell’educazione erotico-sentimentale di una Norina tanto libertaria quanto sessualmente sottomessa al dottore.

I protagonisti sfociano in quattro caratteri antipatici: Danielle de Niese è arzigogolata tra abbellimenti, puntature e libertà ritmiche, dando vita a un personaggio piuttosto isterico, così come un giovanottone nevrotico è l’Ernesto di Alek Shrader, lontanissimo dalla dimensione del tenore di grazia, salvo però risolvere il ruolo – anziché in un canto baldanzosamente antistilizzato – con un’emissione tutta a squarciagola. Voce duttile ma povera di risorse coloristiche, Nikolay Borchev non ha l’incisività per giustificare un Malatesta deus ex machina, e dà vita a una figura più ambigua che demiurgica. Ma soprattutto intristisce la prova di Corbelli, irriconoscibile undici anni dopo la sua encomiabile interpretazione cagliaritana.

Parlato più che cantato, costretto a venire a patti con il periodare musicale per ragioni di fiato, questo Don Pasquale settecentesco in pomelli rossi come uno Scapino aristocratico, ma funereo nei tentativi di seduzione al pari del vecchio Casanova felliniano, è gravato da una sgradevolezza immedicata e non manca di affondi maligni. Come se una voce rovinata dovesse passare – viene in mente pure il caso di Desderi – attraverso un’incarnazione spiacevole, anziché farsi veicolo dell’umanità di Don Pasquale, della sua rettitudine cocciuta, del suo inaridimento per essere stato un uomo troppo dabbene.



Edizioni in video 


1955

Interpreti: Alda Noni, Cesare Valletti, Italo Tajo, Sesto Bruscantini, Renato Ercolani

Regia: Alessandro Brissoni. Scene e costumi: Luca Crippa

Direttore: Alberto Erede

Orchestra e Coro della Rai di Milano

Hardy Classic  HCD 4017

 

1979

Interpreti: Beverly Sills, Alfredo Kraus, Gabriel Bacquier, Håkan Hagegård, Nico Castle

Regia: John Dexter. Scene e costumi: Desmond Healey

Direttore: Nicola Rescigno

Orchestra e Coro del Teatro Metropolitan di New York

Non pubblicata ma diffusa in rete

 

1994

Interpreti: Nuccia Focile, Gregory Kunde, Ferruccio Furlanetto, Lucio Gallo, Claudio Giombi

Regia: Stefano Vizioli. Scene: Susanna Rossi Jost. Costumi: Roberta Guidi Di Bagno

Direttore: Riccardo Muti

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano

TDK DVWW OPDPSC

 

2002

Interpreti: Eva Mei, Antonino Siragusa, Alessandro Corbelli, Roberto De Candia, Giorgio Gatti Regia: Stefano Vizioli. Scene: Susanna Rossi Jost. Costumi: Roberta Guidi Di Bagno

Direttore: Gérard Korsten

Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari

TDK DV-OPLDL

 

2006

Interpreti: Laura Giordano, Juan Francisco Gatell, Claudio Desderi, Mario Cassi, Gabriele Spina Regia: Andrea De Rosa. Scene: Italo Grassi. Costumi: Gabriella Pescucci

Direttore: Riccardo Muti

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e Coro del Teatro Municipale di Piacenza

ArtHaus Musik  101 303

 

2006

Interpreti: Isabel Rey, Juan Diego Flórez, Ruggero Raimondi, Oliver Widmer, Valery Murga

Regia: Grisha Asagaroff. Scene e costumi: Luigi Perego

Direttore: Nello Santi

Orchestra e Coro dell’Opernhaus di Zurigo

Encore DVD 2875

 

2007

Interpreti: Patrizia Ciofi, Norman Shankle, Simone Alaimo, Marzio Giossi, Romaric Braun

Regia: Daniel Slater. Scene e costumi: Francis O’Connor

Direttore: Evelino Pidò

Orchestra e Coro del Grand Théâtre di Ginevra

Bel Air Classiques BAC 033

 

2010

Interpreti: Anna Netrebko, Matthew Polenzani, John Del Carlo, Mariusz Kwiecien, Bernard Fitch

Regia: Otto Schenk. Scene e costumi: Rolf Langenfass

Direttore: James Levine

Orchestra e Coro del Teatro Metropolitan di New York

DG –  0734635

 

2010

Interpreti: Federica Carnevale, Emanuele D’Aguanno, Lorenzo Regazzo, Gabriele Nani, Yiannis Vassilakis

Regia: Francesco Bellotto. Scene: Massimo Checchetto. Costumi: Carlos Tieppo

Direttore: Giovanni Battista Rigon

Orchestra di Padova e del Veneto e Coro Dodecantus

Bongiovanni AB 20026

 

2013

Interpreti: Danielle de Niese, Alek Shrader, Alessandro Corbelli, Nikolay Borchev, James Platt Regia: Mariame Clément. Scene e costumi: Julia Hansen

Direttore: Enrique Mazzola

Orchestra Filarmonica di Londra e Coro del Festival di Glyndebourne

Opus Arte Glyndebourne – OA1134D


Questo saggio fu commissionato dalla Fondazione Donizetti, che poi, per qualche ragione, preferì non pubblicarlo. L’autore ha dunque il piacere di offrire il suo lavoro ai lettori di Drammaturgia. (P. P.)


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