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Massimo Bertoldi

Un personaggio in divenire: da “Hamlet” ad “Amleto”

Data di pubblicazione su web 31/08/2015
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Il contatto seminale di Alexander Moissi con il repertorio di William Shakespeare, preceduto dalle esperienze formative al Neues Deutsches Theater di Praga, è il frutto del rapporto artistico con Max Reinhardt.[1] Il regista dimostra una particolare predilezione per Shakespeare, considerato l’incarnazione dell’essenza della scrittura teatrale per la mescolanza di più registri linguistici propri del genere comico e tragico. Trasferiti sul palcoscenico rivelano la natura dell’attore che è tale, sostiene Reinhardt, «soltanto quando ha dimostrato di saper recitare Shakespeare» e ha trasmesso il sapore di modernità dell’opera svincolato da quella «patina di pathos e di vuota declamazione» proprie dell’«incartapecorita tradizione del teatro di corte». Perciò gli autori classici «bisogna rappresentarli come se fossero autori d’oggi, come se le loro opere fossero vita di oggi […], bisogna comprenderli con lo spirito del nostro tempo, con i mezzi del teatro contemporaneo».[2] A questo il regista affianca un’altra operazione che produrrà allestimenti inediti per le platee tedesche: guiderà i suoi attori su palcoscenici convenzionali, sulla scena girevole montata nel Deutsches Theater e nell’impianto monumentale del circo Schumann di Berlino trasformato dopo la Grande Guerra in Grosses Schauspielhaus. Alla varietà degli spazi teatrali corrispondono altrettante forme di regia. Un esempio significativo sono gli allestimenti di Hamlet con Moissi nel ruolo del titolo.

La prima interpretazione del Principe di Danimarca avviene al Künstlertheater di Monaco di Baviera il 17 giugno 1909, un edificio progettato dall’architetto Max Littmann e inaugurato l’anno prima con una memorabile messinscena del Faust di Goethe.[3] Nella scena plastica (Reliefbühne), che sbalza il corpo dell’attore come un bassorilievo scultoreo, Reinhardt imposta 17 cambi di scena e 8 diverse decorazioni e Moissi presenta un Amleto avvolto nel mantello nero, carico di furore giovanile, «ribelle e primitivo», privo di grandezza eroica. Accantonati malinconia e atteggiamenti vittimistici, ora primeggia la caparbietà, e «nei monologhi un’ostinazione amara che tortura lui stesso, nei duetti e nelle scene d’insieme un’ostinazione passionale». Il senso di pudore è espresso da una voce «luminosa, piena, solenne». Si tratta, a detta di Siegfried Jacobsohn, di un’interpretazione incompleta che restituisce una visione parziale dell’«universalità» di Shakespeare.[4] Uno spettatore d’eccezione come Hugo von Hofmannsthal, che ben conosce le potenzialità dell’attore esibite come protagonista di diversi suoi drammi, valuta la rappresentazione «commovente e profonda», e specifica: «L’immensa tragedia mai mi apparve così semplice e vicina. Moissi fu la massima umanità, la massima commozione, il massimo della decenza, il massimo della vitalità che si possa pensare».[5]

Il giudizio di Jacobsohn non muta in occasione della replica di questa edizione di Hamlet dal 16 ottobre 1909 al 9 gennaio 1910 sull’imponente scena girevole (diciotto metri di diametro con orizzonte fisso) montata sul palcoscenico del Deutsches Theater di Berlino dove si esibiscono i principali attori della compagnia di Reinhardt, Paul Wegener (re Claudio), Adele Sandrock (Gertrude), Eduard  von Winterstein (Orazio), Wilhelm Diegelmann (Spettro), Camilla Eibenschütz (Ofelia), Victor Arnold (Polonio), Oscar Beregi (Laerte), Hans Wassmann (Rosenkratz).[6]

Anche il pubblico viennese accorso nel maggio 1910 nella sala del Theater an der Wien, un teatro di tradizione, ammira un Amleto fanciullesco, «più sentimentale che tragico», un «principe educato» e tenero soprattutto nella scena dell’incontro con lo spettro e nel fondamentale dialogo con la madre. Nei momenti più dolorosi Moissi trasfigura la passione in «grazia raffaellita».[7] Si dimostra debole nel dialogo con la regina e nella scena del cimitero, dove manifesta un atteggiamento più nervoso che psicologico, mentre nelle situazioni di intimità e di silenzio l’esibizione diventa di «assoluta bellezza». Declama il monologo Essere o non essere con ritmo lento, senza pathos; parla ad Orazio con il calore della «nobile amicizia»; esprime sincera avversione verso Rosenkratz e Guildenstern. L’essenza tragica si rivela nella scena con Ofelia e, in modo particolare, nella battuta «Va’ in convento, va’, addio» (a. III, sc. 1) declamata in modo «del tutto nuovo». Per manifestare un’«espressione di tenerezza verso la persona amata», Moissi abbassa il tono di voce, reprime la rabbia dell’abbandono, si posiziona alle spalle di Ofelia (Tilla Durieux subentrata a Camilla Eibenschütz) e le fa una «carezza involontaria». In questo gesto si stigmatizza il senso più profondo dell’Hamlet moissiano: la «capacità distruttiva dell’amore in modo così commovente […], che provoca la putrefazione dell’amore, il suo decadimento nell’oscurità e nella melanconia», non in modo artificialmente teatrale ma dimostrando «l’eterna umanità in modo nitido». L’unicità dell’attore triestino sta nella combinazione armonica tra l’«anima artistica [che] è assolutamente drammatica e il suo corpo [che] è assolutamente lirico». La sua mimica esprime «gesti in versi», la sua «parola una cantilena ondulata». Su questo incidono tanto la regia di Reinhardt quanto la connessa «profondità interiore nella musica della parola, deambulazione e postura». Gli occhi infiammati e febbrili manifestano grazie e nervosismo, le rughe intorno alla bocca appaiono di ricercata intensità. Alla resa artistica del sognatore Amleto e della sua furia giovanile partecipano anche i movimenti essenziali delle mani che ricordano «la gestualità tipica dell’italiano».[8]

Permeato di pessimismo e malinconia, accompagnato da una voce dolcemente musicale, questo modello da un lato raggiunge la sua perfezione formale, dall’altro palesa un certo logoramento soprattutto per la stampa berlinese. Nella recensione alla nuova edizione curata nel 1913 da Reinhardt, che riunisce in un ciclo (“Shakespeare Ziklus” in programma tra novembre 1913 e maggio 1914) i suoi allestimenti shakesperiani arricchiti con Heinrich IV (Enrico IV) e Othello (Otello), Jacobsohn paragona l’attore a un sacerdote «pieno di sofferenza, con gli occhi incandescenti e bramosi, […] la faccia incendiaria», fermo nell’angolo nascosto di un duomo gotico, in attesa di annunciare dal pulpito il destino del casato.[9]

Il modello di riferimento era Hamlet di Josef Kainz, recitato per oltre vent’anni a partire dal debutto all’Ostend-Theater nel 1891 cui seguirono nel 1909 esibizioni trionfali al Burgtheater di Vienna e al Deutsches Theater di Berlino. A differenza delle interpretazioni precedenti, il celebre attore assume in un delicato e complesso equilibrio la dicotomia tra temperamento e intelletto, pensiero e passione propria del personaggio, che diventa perciò «un folle dello spirito e un fanatico della volontà».[10] Si vedano in merito le sostanziali differenze circa la resa del monologo Essere o non essere: Kainz è aspro e vigoroso, mantiene un ritmo martellante, la voce è selvaggia; Moissi declama lentamente, quasi trascinando le parole verso l’elegiaco. Kainz è la consapevolezza della conoscenza, Moissi è la proiezione nel sogno.

Gli effetti della prima guerra mondiale, alla quale il ventiseienne Moissi partecipa nell’esercito germanico, e la coeva esplosione di soggettività e irrazionalità mistica dell’espressionismo e l’affermazione di una recitazione basata sulla parola vibrante, passionale, gridata più che parlata, concorrono a una parziale revisione del personaggio shakesperiano. In questo periodo di sconvolgimenti bellici, accompagnati da tensioni politiche che preludono alla nascita della repubblica socialista di Weimar, lo stesso Reinhardt considera con maggiore attenzione le implicazioni sociali del testo, come emerge dall’Hamlet allestito alla Volksbühne di Vienna nell’aprile 1918. Moissi si presenta spoglio di abiti principeschi e con una rinnovata spiritualità. Ora la malinconia esprime nostalgia e diventa una sorta di diaframma nei riguardi del mondo circostante.[11] L’esibizione alla Neue Wiener Bühne dell’anno successivo precisa meglio la metamorfosi in atto. La grazia cede il posto alla rabbia, l’inerzia diventa ribellione adolescenziale («questo pugnale esagerato deve colpire l’orgoglio!»), che poi sfuma nella resa del pensatore solitario.[12]

In occasione del ritorno di Moissi a Vienna nel settembre 1921 Raoul Auernheimer pubblica un feulleton (Moissi der Gast) nel quotidiano «Neue Freie Presse» in cui parla dei personaggi di successo interpretati da questo attore adorato dal pubblico locale. L’attento critico accorpa le origini triestine, i trascorsi giovanili viennesi e la sua formazione berlinese alla sua particolare identità. Segnatamente in Hamlet converge l’anima del «fanciullo» italiano che si esprime con una gestualità finemente romantica e nella voce che, pur «notevolmente cambiata negli ultimi anni» (prima «suonava come un violino»), pronuncia le vocali della lingua tedesca applicando le regole del bel canto italiano («ha acquisito una r, che taglia come un coltello»). L’atteggiamento spirituale risponde ai canoni tedeschi del pensatore e sognatore solitario avulso da un «fanatismo quasi dottrinale» e proprio di chi vuole «pronunciare programmi politici».[13]

Il principe di Danimarca si conferma «un uomo raffinato in lotta contro la bestialità» anche nella messinscena curata nel 1922 dalla compagnia del Deutsches Theater di Vienna. Avvolto nel costume nero alla maniera rinascimentale, Moissi, che «non ha niente di teatrale», agisce spinto dalla «tensione del temperamento» e da una «forza spirituale» interiore sprigionata lungo tutto lo spettacolo. Assomiglia a un filosofo solitario, consapevole del destino di morte («anche il suo viso sembra esprimere il lutto, come il suo corpo […], con il collo nudo e gli occhi rivolti verso l’alto») e perciò può compiere gesti tragici: recita il monologo in cui maledice la sua gioventù (a. I, sc. II) seduto sullo spigolo del trono reale per trasmettere un simbolico distacco; non si impaurisce di fronte allo spettro del padre, gli va incontro in silenzio e a braccia aperte (a. I, sc. V); declama Essere o non essere «in maniera distaccata dai sentimenti».[14]

È difficile capire se un simile Amleto dalle tante e delicate sfumature interiori corrispondesse a quello visto dagli oltre tremila spettatori presenti nel gennaio 1920 nel Grosses Schauspielhaus di Berlino che Reinhardt aveva eletto come esempio del cosiddetto «Teatro dei cinquemila».[15] L’imponenza della scena monumentale di questo Festspielhaus a forma di anfiteatro senza sipario e quinte pone «l’attore al centro mescolato agli spettatori e il pubblico stesso, divenuto popolo, è trascinato dentro come parte dell’azione e del testo». Non solo: questo inedito contatto comporta per l’arte declamatoria il recupero della «forza della parola» e «dell’armonia della voce»: elementi espressivi fondanti, al pari della «cultura dell’espressione e del movimento» del corpo che «dovrà conoscere un incremento».[16]

L’applicazione di queste prescrizioni per la rappresentazione di Hamlet, a detta della critica specializzata, risulta fallimentare. I problemi acustici e la distanza tra gli stessi attori sul palco e rispetto agli spettatori, producono una performance dell’attore in cui la cifra espressiva è sbilanciata verso la comunicazione gestuale. Tuttavia le attitudini di Moissi arginano in parte queste oggettive difficoltà: la forza sonora della voce in alcuni momenti dello spettacolo diventa «uno splendido momento dell’arte italiana dell’attore. Piaceri per le orecchie» anche se muove «le braccia e le gambe come una silohuette».[17]

I cronisti presenti al Deutsches Volkstheater di Vienna la sera del 10 aprile 1926 annotano nei loro taccuini reazioni di sconcerto e risate di scherno. Sul palco si muovono attori inediti nei costumi e nei gesti: Orazio indossa un cappotto grigio; lo Spettro è un vecchio generale con fare militare; Laerte porta un’uniforme bianca da ufficiale danese e impugna la pistola; Ofelia si distingue per il vestitino di seta con gonna corta mentre la regina indossa un elegante abito di seta e alla moda; re Claudio è il direttore della ditta, Polonio un procuratore e Amleto un uomo d’affari in stile americano. Tutti tre si presentano in frac. Agli abiti contemporanei corrispondono analoghe situazioni. Si gioca a brigde e si sorseggia caffè nero, Amleto scrive la lettera a Ofelia sul block notes e nei momenti di tensione si accende una sigaretta. L’attualizzazione prodotta dalla regia di Henry Kiell Ayliff pare incidere poco sullo stile di recitazione degli attori. Moissi, per esempio, mantiene i consueti toni vibranti e nervosi, «canta altrettanto bene in frac».[18]

Il principe di Danimarca segue come un’ombra l’attore triestino nel corso delle numerose tournées che si susseguiranno a partire dagli anni Venti in Svezia, Olanda, Russia, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Egitto. Figurerà anche nel repertorio presentato al pubblico italiano in due distinti momenti della sua carriera. Il primo contatto avviene al Teatro Verdi di Trieste nel maggio 1918, dove la compagnia della Volksbühne di Vienna guidata da Anton Rundt e Hans Ziegler recita in lingua tedesca anche Oedipus rex (Edipo re), Romeo und Julia (Romeo e Giulietta), Gespenster (Spettri). Per il pubblico si tratta di una novità: vede un «Amleto sopra tutto personale, lontano dalla tradizione; semplice e suggestivo». Colpiscono l’interiorizzazione del dramma e l’umanizzazione del dolore che Moissi rivela prima recitando con «voce lenta e dolce, scandendo i versi come singole note staccate», poi si agita, si infiamma e la sua voce esibisce una «potenza straordinaria». Manca l’enfasi istrionica del Grande Attore di scuola italiana. Molte battute sono pronunciate a mezza voce, quasi sospirando, come Essere o non essere, recitato da «seduto, direi quasi a sé, partorito dal dolore, non declamato ad una folla plaudente».[19] Condivide la serata trionfale di Moissi la moglie Johanna Terwin nella parte di Ofelia. Il secondo appuntamento con le platee italiane è nel 1934 in ditta con Wanda Capodaglio. Per pubblico e critica i punti di riferimento sono fondamentalmente Amleto di Ermete Zacconi e di Ruggero Ruggeri. Il primo, recitato dal 1887 al 1933, segue un’impronta di ispirazione naturalistica, che colorando il personaggio di sfumature patologiche, lo rendono «ben muscoloso e virile» ma lo privano delle sue caratteristiche «principesche e feudali di figlio di re». Secondo Silvio d’Amico questa impostazione «non può darci della poesia».[20] La versione di Ruggeri, al debutto il 20 aprile 1915 al Teatro Lirico di Milano e poi recitata fino al 1929, si presenta in contrapposizione al realismo di scuola positivistica. Mantiene lo stile personale proprio di questo Grande Attore: «una sobrietà talvolta poco languida, talvolta elegantemente stilizzata», uno «sguardo assonnato», «cadenze nasali ma melodiche» avvolgono il Principe di malinconico pessimismo che lo rende impotente di fronte all’azione.[21] 

Recitato in lingua italiana secondo la tradizione di Raffaello Piccoli, Amleto “tedesco” di Moissi è uno spettacolo di rottura con la tradizione italiana. Supera il tratto «lirico, declamatorio, apertamente eroico e festoso», in parte rivisitato da Ruggeri (anche se «resta sempre un palpito tutto ali»), e offre un personaggio «non diverso ma “suo”», ossia modellato sulla sua personalità «superba e ineguale, agile e dinoccolata, balenante e felina, canuta e coraggiosa, violenta e sommessa», che si armonizza con l’alternanza di passione sentimentale e speculazione filosofica. Così commenta Gino Rocca.[22] Sulle pagine del quotidiano «Il Piccolo di Trieste» Vito Tranquillini descrive un Amleto «semplificato, purificato, umanizzato, liberato dalle scorie estetiche dell’eroe vecchio tipo, un Amleto intimo», che al dualismo tra volontà dell’azione e contemplazione (perno espressivo del Grande Attore italiano) contrappone il gioco della «frizzante e sottile ironia», attraverso la quale assume un atteggiamento di distanza filosofica dalla realtà. In tal modo rimbalza «dall’impulso violento all’estasi dolorosa, dalla contemplazione della propria disfatta alla violenta requisitoria, dalla pietà vestita di follia per Ofelia al sarcasmo sulla morte di Polonio».[23] Allestito da Nando Tamberlani, questo Amleto valorizza anche le prove di Wanda Capodaglio (Gertrude), Maria Fabbri (Ofelia), Pio Campa (Claudio).

Se questa messinscena shakesperiana incanta le platee, non altrettanto unanimi risultano le valutazioni della critica. Silvio d’Amico sbrigativamente giudica Moissi «tutto esteriore» e Carlo Terron lo etichetta «studente da ginnasio».[24] Renato Simoni osserva che il taglio psicologico produce una «eccessiva semplificazione del personaggio» e della sua sostanza tragica che diventa «raziocinante».[25] A Wanda Capodaglio, sua compagna di scena, spetta l’ultima parola: «un Amleto quasi di una sensibilità femminile: un Amleto italiano che pareva un irrequieto prigioniero dell’atmosfera nordica shakesperiana».[26]



[1] Durante il periodo formativo (1901-1904) maturato nella compagnia del Neues Deutsches Theater di Praga diretto dal viennese Angelo Neumann, Moissi interpreta Tubal in Der Kaufmann von Venedig (Il mercante di Venezia), Tebaldo in Romeo und Julia (Romeo e Giulietta), Don Giovanni in Viel Lärm um nichts (Tanto rumore per nulla); è il personaggio del titolo in Richard II (Riccardo II, parte I) e in Heinrich IV (Enrico IV, parte I), il Conte di Westmoreland nella seconda parte della stessa tragedia, ricopre il ruolo del protagonista di Heinrich V (Enrico V), mentre in Heinrich VI (Enrico VI, parti I e II) interpreta il Conte di Salisbury e nella terza parte è il conte di Northumberland.

[2] M. REINHARDT, Discorso sull’attore, in M. FAZIO, Lo specchio, il gioco e l’estasi. La regia teatrale in Germania dai Meininger a Jessner (1874-1933), Roma, Bulzoni, 2003, pp. 181-185. Qui p. 181.

[3] Si tratta di un teatro costruito assumendo il modello auspicato da George Fuchs, ossia un teatro del popolo inteso come luogo festivo della comunità sulla scorta delle esperienze dei Misteri, delle Passioni e delle feste cicliche medievali. All’eliminazione della tradizionale suddivisione a palchetti corrisponde una disposizione del pubblico come in un anfiteatro; l’abolizione delle quinte, soffitti e macchineria teatrale, produce una scena divisa in tre parti: il proscenio aggettante collegato alla sala mediante gradini, esteso in larghezza e poco profondo, da un lato, offre poco spazio al movimento degli attori, dall’altro lato, fa risaltare la forma del corpo sullo sfondo neutro della scena centrale, alle spalle della quale è disposta la scena di fondo, chiusa da un fondale dipinto a carattere tridimensionale che, appeso ad un carrello, scorre su un binario fissato al soffitto. Vedi M. LITTMANN, Das Münchner Künstlertheater, München, Wernerarchitekturbuchhandlung, 1908. La concezione di Georg Fuchs, espressa nel saggio Teatro del futuro (Die Schaubühne der Zukunft, 1905) e che sta alla base della forma architettonica del Künstlertheater, è esposta da S. SINISI-I. INNAMORATI, Storia del teatro. Lo spazio scenico dai greci alle avanguardie, Milano, Mondadori, 2003, pp. 209-212. Vedi anche L. ADLER, Max Reinhardt sein Leben, Salzburg, Festungsverlag, 1964, pp. 115-152.

[4] S. JACOBSOHN, Max Reinhardt, Berlin, Erich Reiss, 1910, p. 153. 

[5] Da una lettera al conte Harry Kessler datata 27 giugno 1909, in Hugo von Hofmannsthal und Harry Kessler. Briefwechsel 1898-1929, a cura di H. BURGER, Frankfurt am Main, S. Fischer, 1968, p. 248.   

[6] Il Deutsches Theater è rilevato da Reinhardt nel 1904 a seguito dello scioglimento del contratto del direttore Adolphe L’Arronge con Otto Brahm. La nuova gestione di Paul Lindau si rivela subito fallimentare, così L’Arronge affida il più importante teatro tedesco dell’epoca al trentaduenne Reinhardt, che sottopone l’edificio a ristrutturazione per dotarlo delle più moderne tecniche e tecnologie. I miglioramenti principali riguardano la platea, ridotta per allargare la fossa dell’orchestra, e soprattutto la zona del palcoscenico per l’installazione della scena girevole. Si tratta di un dispositivo già usato nel 1896 al Residenztheater di Monaco come semplice supporto tecnico che Reinhardt assume come strumento drammaturgico per il suo progetto di regia. Vedi E. STERN, Die Drehbühne. Der Aufbau für ein Stück, in Reinhardt und seine Bühne, a cura di ID. e H. HERALD, Berlin, Eysler & C., 1919, pp. 174-180. Mentre procedono i lavori a ritmo serrato, Reinhardt in una lettera a Berthold Held (28 luglio 1905) scrive: «Una grande scena girevole, sulla quale si disponga prima con cura possibilmente tutto lo spettacolo, con sicure costruzioni, con soffitti (allora ovviamente costruiti), con alberi provvisti di chiome e una volta celeste sopra – questo è il mio ideale […]». La lettera è pubblicata in I sogni del mago, a cura di E. FUHRCH e G. PROSSNITZ, traduzione dal tedesco di F. FORADINI, Milano, Guerini e Associati, 1995, pp. 53-56: 53. Il Deutsches Theater diventa epicentro e fucina della creatività di Reinhardt. Nel retro viene allestito un laboratorio permanente per scene e costumi, con depositi, magazzini, una falegnameria, un’officina elettrica, ateliers per parrucchieri e parrucche. Annessa all’edificio viene aperta una scuola di recitazione.

[7] A. [R. AUERNHEIMER], in «Neue Freie Presse», 20 maggio 1910. Vedi anche «Arbeiter Zeitung», 20 maggio 1910 e L. JACOBSON, in «Neues Wiener Journal», 20 maggio 1910.

[8] A. POLGAR, Reinhardt in Wien, in «Die Schaubühne», a. VI (1910), Band I, nr. 24/25, pp. 642-643: 643.

[9] S. JACOBSOHN, Hamlet, in «Die Schaubühne», IX (1913), Band II, nr. 50, pp. 1228-1229: 1229. Questo ciclo di spettacoli shakesperiani comprendeva Ein Sommernachtstraum (Sogno di una note di mezza estate), Viel Lärm um nichts (Tanto rumore per nulla), Hamlet (Amleto), Der Kaufmann von Venedig (Il mercante di Venezia), King Lear (Re Lear), Romeo und Julia (Romeo e Giulietta), Heinrich IV (Enrico IV, parte prima), Heinrich IV (Enrico IV, parte seconda), Wie es euch gefällt (Come vi piace), Othello (Otello). Rispetto alla precedente edizione di Hamlet cambia la distribuzione di alcuni ruoli affidati ad attori di riconosciuto talento, Theodor Danegger (Spettro), Werner Krauss (Re Claudio), Rosa Bertens (Regina Gertrude), Elsa Eckersberg (Ofelia), Fritz Delius (Laerte).

[10] L’innovazione kainziana sta nella corrispondenza tra la gestualità di scuola naturalistica e la ricerca degli effetti della voce che si enuclea dallo scavo interiore del personaggio e perciò vi si armonizza. Il suono compone la partitura di una melodia sinfonica di stati d’animo flessibili, in un rimbalzo continuo tra l’espressione ora rabbiosa e vigorosa ora languida e patetica. Nella variabilità timbrica e sonora della voce, ora assunta come musicalità della parola con potenzialità e connotati drammaturgici, si riconoscono l’originalità e la creatività dell’attore che, in questo modo, concorre al superamento della visione “oggettivante” propria della monocromia del naturalismo. Vedi S. JACOBSOHN, Max Reinhardt, cit., pp. 156-158; H. JHERING, Von Josef Kainz bis Paula Wessely. Schauspieler von Gestern und Heute mit 32 Bildern, Heidelberg, Hüthig, 1942, p. 13; J. EISERMANN, Josef Kainz – zwischen Tradition und Moderne. Der Weg eines epochales Schauspielers, a cura di J. SCHLÄDER, München, Utz, 2010, pp. 238-243.

[11] Vedi «Neue Freie Presse», 19 aprile 1918. I ruoli principali competono a Paul Wegener (Re Claudio), Adele Sandrock (La regina Gertrude), Camilla Eibenschütz (Ofelia), Eduard von Winterstein (Orazio).

[12] «Arbeiter Zeitung», 5 giugno 1919. Vedi anche «Neue Freie Presse», 5 giugno 1919 che definisce Moissi «instabile nevrastenico» prossimo alla monomania, e il giudizio di Max Mell che parla di «inorridito e afflitto Amleto» (Max Mell als Theaterkritiker, a cura di M. DIETRICH, Wien, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 1983, pp. 102-103: 103). La regia dello spettacolo compete ad Emil Geyer, direttore della Neue Wiener Schaubühne, che si avvale di Elisabeth Bergner (Ofelia), Eugen Jensen (Re Claudio), Lothar Mendes (Laerte).

[13] R. AUERNHEIMER, in «Neue Freie Presse», 24 settembre 1921. Questi tratti dell’Hamlet moissiano sono rilevati, tra gli altri, da LUDWIG ULLMANN, Moissi (Wien-Leipzig, Goldschmiet, 1922, pp. 21-22: 21), che sottolinea il suo «scetticismo da sciamano», il suo essere «apostata principesco» in conflitto tra sentimento ed ethos culminante in una visione di rassegnato pessimismo.

[14] E. AUERNHEIMER, «Neue Freie Presse», 11 giugno 1922. Lo stesso critico, in una recensione successiva (ivi, 8 settembre 1923), parla di Amleto «pacifista», completamente svincolato dalla sfera dell’esibizionismo attorale dell’edizione del 1909, a dimostrazione della maturità artistica raggiunta dal triestino.

[15] Il Grosses Schauspielhaus di Berlino, realizzato da Hans Poelzig tra il 1919 e il 1920, rappresenta il primo esperimento di teatro di massa del Novecento. La trasformazione in arena dell’edificio preesistente, il Circo Schumann (ex vecchio mercato pubblico) annulla la divisione tra la scena e la sala, trasferisce l’azione drammatica dall’orchestra, ora diventata platea, al palcoscenico sporgente con la scena girevole intorno al quale sono distribuite le tribune per gli spettatori. Il Grosses Schauspielhaus, inaugurato il 29 novembre 1919 con Orestie di Eschilo e funzionante per due anni, è concepito da Reinhardt come luogo adatto alla restituzione della tragedia antica con il ricorso alle tecnologie e illuminotecnica moderne, per richiamare a teatro, come allora, anche le classi sociali meno abbienti secondo il progetto del cosiddetto “Teatro dei Cinquemila”.

[16] M. REINHARDT, Il teatro che ho in mente, in M. FAZIO, Lo specchio il gioco e l’estasi, cit., pp. 155-159: 158.

[17] A. KEER, in «Berliner Tageblatt», 19 gennaio 1920.

[18] «Neue Zeitung», 17 aprile 1926. Il primo Hamlet in abiti contemporanei spetta a Barry Jackson, direttore della Birmingham Repertory Company da lui fondata nel 1911. Dopo alcuni esperimenti in provincia, nel 1925 presentò lo spettacolo al Kingsway Theatre di Londra. La direzione della messinscena fu condivisa con lo stesso Ayliff. Il ruolo di Amleto fu affidato a Colin Keith-Johnston.

[19] «Il lavoratore», 7 maggio 1918. Vedi anche A. DUGULIN, L’anima sotto la pelle: Moissi, in G. PRESSBURGER, Eroe di scena fantasma d’amore (Moissi), Trieste, Teatro Stabile del Friuli – Venezia Giulia, Quaderno n. 32, Nuova Serie, pp. 7-9: 7-8; P. UGOLINI BERNARSCONI, Il Teatro Verdi di Trieste 1801-2001, in G. GORI, Il Teatro Verdi di Trieste 1801-2001, Venezia, Marsilio, 2001, p. 72.

[20] S. D’AMICO, L’Amleto di Zacconi al Costanzi, in La vita del teatro. Cronache, polemiche, e note varie, I, 1914-1921. Gli anni della guerra e della crisi, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 77-79.

[21] S.D.A [SILVIO D’AMICO], in «Idea nazionale», 21 novembre 1918, cit. da D. ORECCHIA, Il critico e l’attore. Silvio d’Amico e la scena italiana di inizio Novecento, Torino, Accademia University Press, 2012, p. 53. Vedi anche R. SIMONI, Trent’anni di cronaca drammatica, Torino, Società Edizione Torinese, 1951, vol. I, p. 94) che accosta l’esibizione di Ruggeri alle «grandi interpretazioni romantiche del passato».

[22] G. R. [GINO ROCCA], in «Popolo d’Italia», 18 marzo 1934.

[23] V. T. [VITO TRANQUILLINI], in «Il Piccolo di Trieste», 8 marzo 1934.

[24] S. D’ AMICO, Teatro drammatico, in «Nuova Antologia», settima serie, marzo-aprile XIII (1935), p. 630; C. TERRON, Amleto al telescopio, in «La lettura», 6 dicembre 1945, p. 135.

[25] R. SIMONI, Alessandro Moissi, in Teatro di ieri. Ritratti e ricordi, Milano, Treves, 1938, pp. 163-164.

[26] W. CAPODAGLIO, Commemorazione di Alessandro Moissi, in G. PRESSBURGER, Eroe di scena fantasma d’amore (Moissi), cit., pp. 21-22: 21.




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