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Rossella Palmieri

«Non è egli un bel mulino il pianto e il riso?». Dal “Mondo risibile” di Doni al “Mondo simbolico” di Picinelli

Data di pubblicazione su web 22/01/2015
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Scrittore visionario e fantasioso in grado di fondere nei suoi Mondi parole e immagini, Anton Francesco Doni occupa, come è noto, un posto importante nel panorama del Cinquecento. Nel tentativo di aggiungere un ulteriore tassello agli studi sino ad ora pubblicati[1], si intende in questa sede approcciarsi in particolar modo al Mondo risibile tenendo presente due presupposti di partenza, e cioè il ruolo attivo del lettore quando si accosta a un testo – quale esso sia – e la specificità dell’arte retorica che, se sapientemente ordita, trova sbocco in una rappresentazione sensibile, e dunque nelle immagini[2]. Contribuisce a rafforzare questi intenti la forza teatrale e iconografica dei Mondi non già in rapporto al periodo in cui visse Doni – e cioè in una stagione ormai al suo autunno[3] – ma nella prospettiva delle inquietudini manieriste che già permeano l’universo dell’autore. Gli elementi della sua opera che possono essere già inscritti a buon diritto nell’alveo della «letteratura nevrotizzata»[4] confluiranno di lì a poco nel Barocco; di qui la possibilità di tracciare un parallelo con il Mondo simbolico di Picinelli, ove si consideri che dall’esegesi di quest’opera emergono diversi traits d’union con la parola per così dire “dipinta” dell’autore fiorentino[5].

L’idea di “spingere in avanti” alcune tematiche contenute nei Mondi e vederne gli esiti nel Mondo simbolico di Picinelli e in altri autori del Seicento trova conforto in un passo della Zucca. Le «chimere et castegli in aria» del proemio del quinto libro[6] sono evidentemente parenti prossimi della bizzarra stagione barocca e comunque influenzano già la letteratura del tardo Cinquecento[7] che fa leva proprio sul lavoro verbale e sulla «locuzione»[8]. All’aspetto propriamente lessicale si aggiungono le suggestioni visive dell’autore[9] che non sono così lontane da quelle di Marino[10]. Con quest’ultimo è possibile evidenziare una ulteriore analogia: nella Galeria, ad esempio, i ritratti prendono forma in un lessico spesso contraddistinto dall’enumerazione caotica[11], non diversamente da quanto aveva già fatto Doni sfruttando al massimo grado, nei Mondi e non solo, la tendenza all’accumulo. Tra la sensibilità tardo-rinascimentale e la fantasia barocca, insomma, il passo è breve.

La suggestiva gamma di toni e stili presenti nei Mondi, che mira a riprodurre all’infinito l’effetto stupefacente di una visione su ampia scala dell’universo, non è scevra, si diceva, della componente teatrale, sulla falsariga della tradizione erasmiana[12]. Tutto il Mondo risibile fa leva su questo aspetto in quanto ad essere messi alla berlina sono gli uomini con le loro “maschere”, ove s’intendano, con esse, le innumerevoli nevrosi che accompagnano il loro stare al mondo, come si evince anche dalla Moral filosofia[13].

Non è il caso di addentrarsi nella follia che grande spazio ha nel Mondo savio/pazzo – ma di cui pure è imbevuto il Mondo risibile – e nemmeno ha senso evidenziare i numerosissimi agganci con l’utopia da una parte[14] e con la realtà della vita politica e sociale dall’altra[15], la cui degenerazione è la diretta conseguenza delle azioni umani fallaci e incontrollate. L’intento è quello di puntare l’attenzione sul solo Mondo risibile nel tentativo di scorgere quelle avvisaglie che dal citato «autunno del Rinascimento» conducono alla piena temperie barocca.

Un primo dato s’impone già nell’Allegro academico peregrino a’ lettori, dove viene esemplificato il motivo della vanitas, sia pure con esiti diversi a parità di metafora. La menzione dei fiori[16] e la citazione biblica[17] assolvono in Doni alla funzione di rendere risibile il mondo descritto: ciò che qui produce riso – non comico ma grottesco, elemento che in Doni ha una precisa valenza iconografica[18] – diventa nel Seicento un vero e proprio memento mori[19].

Il Mondo risibile vede interagire Giovambattista Cortese[20] e il più noto Ludovico Dolce; il primo espone in crescendo le vane occupazioni dell’uomo e il secondo lo incalza al punto tale che la vanitas dei comportamenti umani enucleati si traduce in una vera e propria congerie linguistica[21]. Tale procedimento sarà sfruttato tanto dai lirici quanto dai predicatori barocchi[22]. Contribuisce ad amplificare questo effetto l’impiego della forma dialogica, accresciuta da una ulteriore tensione interna tra i due interlocutori per effetto dell’intrusione di un generico e immaginario «signore». A lui è affidato l’inedito compito di inserire rutilanti “botta e risposta” per generare un effetto illusionistico e di moltiplicazione che si compendia nel motivo dell’insaziabile appetito degli uomini, eppur corrosi dal tedio «di balli, comedie, donne, banchetti, maschere e giochi»[23]. Questo disorientamento prodotto dal frastuono della vita fa pensare, per converso, a quella capacità machiavelliana di orientarsi nelle «cose del mondo» – il che spiega una certa simpatia di Doni per l’autore fiorentino[24] – e allo stesso tempo anticipa il tedio barocco in cui è insita la matrice veterotestamentaria delle mondane occupazioni degli uomini sintetizzate nella vanitas[25].

Dalla foggia dei vestiti alla maniera in cui ci si conforma alle mode del momento – persino la larghezza di una porta o il modo di sistemare i letti diventano esemplari di un certo comportamento uniformato, quando non proprio stantio[26] – non vi è ambito entro il quale Doni, per bocca dei suoi interlocutori, non instilli un riso che deborda a vario titolo nel grottesco o nel tragico, come accade, ad esempio, quando Cortese e Dolce discettano della volubilità dell’amicizia[27].

Nel Mondo risibile Doni si serve dell’immagine particolarmente icastica del mulino per compendiare i molteplici aspetti dell’esistenza umana, dal tempo che fugge alle lettere dell’alfabeto, dalle semplici occupazioni quali il vestirsi o lo spogliarsi alle istanze propriamente ontologiche:

Non giriamo noi il mulino dell’ore? Del continuo passa l’una, vien l’altra; quando sei da piedi, ti fai da capo. Non è un mulino da girar questo? Di’, lieva, poni, vesti e spoglia, giorno e notte. Non è mulino da girare il votare del continuo ed empire il corpo? Le lettere dell’alfabeto sono un mulino […] la generazione e corruzione è un mulino grandissimo da girare; nel farci portare e riportare nel caminare, andando e ritornando a torno, è egli altro che uno aggiramento?[28]

Vista l’insistenza con cui l’autore si serve del termine – per dirla con Mauron siamo di fronte a una «métaphore obsédante»[29] – è il caso di vedere fino in fondo la forza di questa immagine che, oltre a rinviare all’ambito architettonico e teatrale dell’«artificiosa rota»[30], si attaglia perfettamente «sia alla dimensione della metamorfosi, grazie alla quale la vita si conserva, sia alla dimensione angosciosa della condanna alla ripetitività, al mondo del già dato»[31]. La potenza analogica, insomma, agisce in questo caso come una sorta di “demone” – si pensi alle innumerevoli varianti del termine, al traslato del girotondo e della «rota temporis» presente nei Marmi[32] – che ha una pregnanza quasi aforistica. Nella Libraria, ad esempio, l’autore afferma che «questo mondo è un mulino»[33].

La ripetizione del termine e il suo impiego con la medesima accezione in altre opere doniane spingono ad andare oltre il lessico per provare a scandagliare in profondità l’ambito sempre affascinante delle corrispondenze interne di un testo, nel nome di quella «agnizione di lettura»[34] volta in questo caso a riconoscere, in una singola immagine, dei motivi “altri” per effetto del sistema della memoria[35] che consente combinazioni e variazioni di uno stesso tema. È interessante, in tal senso, vedere gli esiti di poco posteriori ai Mondi: il mulino, nella fattispecie, ovvero la ruota, rinvia anche all’emblematica per via della suggestione della ruota di Issione[36] che sarà sfruttata anche da Marino[37] e da Picinelli[38]. Nondimeno è lecito supporre che nella rete delle associazioni e nel sistema mnemonico agirà questa fascinazione anche in Della Valle: nella Reina di Scotia il senso dell’instabilità delle cose è associato al «volubil giro»[39].

La ruota doniana abbraccia pertanto una pluralità di aspetti, per cui nel Mondo risibile si passa quasi ex abrupto dalla pregnante raffigurazione della vita e della morte che «hanno un mulino ancora loro da girare» al «mulino del favellare» che comporta un vero e proprio inanellamento in ordine alfabetico, da «arrogante» a «volubile»[40], di termini che connotano l’uomo al negativo. L’elenco è arricchito dalla menzione di animali che avranno la loro fortuna nel bestiario barocco quali esseri «imperfetti e fastidiosi» secondo la catalogazione di Picinelli[41]. Con questa costruzione ad elenco opportunamente variata, o meglio con questo perpetuo e angosciante girare della ruota che rende «stracco» il Dolce, si chiude la prima parte del dialogo[42].

È suggestivo notare in che modo Picinelli elabori nel Mondo simbolico l’immagine del mulino e della ruota e faccia leva sulla pregnanza del messaggio visivo. L’abate milanese, ad oggi ancora poco studiato, stila questa enciclopedica raccolta di imprese, arricchita anche da illustrazioni, per predicatori, accademici e poeti: al chiaro intento educativo si associa la componente per così dire laica, per cui al côté sacro di matrice barocca fanno da contraltare la descrizione dei vizi e la sapidità dei motti di matrice umanistico-rinascimentale[43].

Per Picinelli, che nel commentare il termine rafforza l’esegesi ricorrendo all’autorità dell’Ecclesiaste[44], il «mulino» è un traslato che compendia diversi aspetti della vita degli uomini: può essere allo stesso tempo simbolo della persona che «della grazia divina non è prevenuta», della vita umana «di continuo travagliata» e del falso amico che «al soffio di ogni altro vento si rigira e si distoglie dai suoi primieri affetti»[45]. Infine, è emblema di «ambizione» e «dipendenza»[46]. Alla «macina da mulino» è assimilata la «rota» e a quest’ultima si lega l’immagine del tempo edace sulla scorta di Ovidio[47]. Non mancano, infine, altri traslati che si attagliano alla dimensione del sacro[48]. Colpisce ancora, per analogia di immagine, la suggestione sottesa all’esegesi di «Fortuna», intendendo con essa il perpetuo girare del pianto e del riso, come afferma Doni e come si è voluto icasticamente titolare questo contributo.

Nella Pittura della Fortuna, quando Doni enumera i modi in cui essa è stata già raffigurata, compaiono proprio, tra le numerose varianti, «palle, ruote, sopra mondi et girelle»[49]. Anche per Ripa è un oggetto sferico, il timone, a rappresentarla[50] (fig. 1) così come per Cartari[51]. Non è, infine, una suggestione di poco conto il fatto che l’abate Picinelli non accosti la Fortuna alla ruota, ma comunque a un oggetto sferico, il «globo»[52]. Se si pensa, di converso, alla grande importanza che ha la «bulla»[53] (fig. 2) nell’iconografia della vanitas e, in generale, a tutti i simboli sferici quali segni della fragilità umana, non si può non convenire sulla persistenza di un modello, la cui ricezione comporta costanti e varianti allo stesso tempo.

Una sapida combinazione di antico e moderno apre il Ragionamento secondo. A fronte delle medaglie spettanti non già a quanti si sono distinti nelle battaglie, ma a coloro che «hanno atterrato i litigi, il furore»[54] segue una lunga disamina sull’immortalità dell’anima di ascendenza platonica utile, di converso, per mettere alla berlina i comportamenti risibili di alcuni imperatori. Tra questi spicca senz’altro l’aneddoto, già attestato da Svetonio[55], secondo cui l’imperatore Domiziano cercava di rendersi immortale per il suo modo di afferrare le mosche[56]. Tralasciando le già studiate argomentazioni circa il plagio di Guevara e la difficoltà di reperire fonti relative ad altri stravaganti comportamenti degli imperatori[57], è il caso di sottolineare la capacità dell’autore di dilatare e amplificare la portata del Mondo risibile evidenziando quei comportamenti poco ortodossi dei grandi uomini del passato. Se Scipione russa o Licurgo incede con la testa sempre bassa o Cimonide parla a voce troppo alta si comprende che l’intento è quello di far emergere per contrasto l’invidia: il compendio sentenzioso che ne deriva, e cioè «se l’invidia biasima la ragione ci loda»[58] chiude non a caso la carrellata.

Tutto il Ragionamento secondo verte, è vero, sugli exempla antichi degni di riso[59]; ma è lecito scorgere al fondo quella vanitas sempre palpabile che attraversa come una sorta di fil rouge gli aneddoti, la cui verosimiglianza è messa perennemente in discussione, se è vero che, a dire di Doni, secondo Pausania «i Romani facevano scrivere le cose a modo loro […] e tutte le cose che venivano loro mal fatte, le facevano scrivere che si leggessero ben fatte»[60]. Al di là del gioco di parole e la malcelata ironia, si può scorgere, dietro l’apparente filtro delle narrazioni falsate degli storiografi, il motivo della fallacia del sapere e della conoscenza che largo spazio avrà nel periodo barocco anche attraverso una spiccata iconografia[61] (fig. 3). Al sapere e alla cultura, del resto, Doni oppone un netto rifiuto[62], ma su tale aspetto non è facile individuare una chiave di lettura univoca.

Al termine dei due Ragionamenti subentrano Momo e Giove a Dolce e Cortese – questi ultimi interagiscono comunque con le divinità – e il dialogo si fa più serrato per effetto di una rafforzata funzione argomentativa[63]. L’elemento dialogico, insomma, si combina e si contamina attraverso concrezioni sempre diverse al punto che diventa più forte la disposizione “drammatica”, intendendo con essa la forza teatrale che scaturisce dall’impiego dell’ipotiposi nell’ordito retorico. Anche in questo caso è possibile scorgere un’avvisaglia del Barocco: i contrasti più serrati e le antinomie – connaturate alla struttura stessa del dialogo – aprono la strada al genere misto dei cosiddetti prologhi dialogati in auge nel Seicento in cui sono fuse tanto le strutture dialogiche codificate nel Quattrocento[64] quanto quelle cinquecentesche dei prologhi da commedia, sulla falsariga dell’opera del bitontino Giovan Donato Lombardo[65]. Questa nuova modalità di dialogo usato a mo’ di prologo, che oltretutto presenta stretti agganci con l’utopia[66], si fa strada solo trent’anni dopo Doni e invero mostra diversi punti di contatto con i Mondi: veri e propri prologhi dialogati saranno quelli della Strega di Lasca[67], dell’Ortensio di Piccolomini[68], della Prigione d’amore di Sforza d’Oddi[69] e dell’Amor pazzo di Nicola degli Angeli[70].

Nel 1612 il più còlto dei comici dell’Arte, Andreini, si servirà proprio di Momo per esporre la sua teoria del riso nel Prologo in dialogo tra Momo e la Verità, ma già qualche anno prima questi due interlocutori si erano sfidati a singolar tenzone nella Furiosa di Della Porta[71]. A fronte della personificazione della Verità, evidentemente sentita più consona alle esigenze di un teatro che faceva fatica a essere legittimato, Doni si serve di Giove, la divinità per eccellenza, il che spiega la natura di un dialogo in fondo non particolarmente serrato al punto da sfiorare il contraddittorio, se non proprio la rissa verbale, come accade in Andreini. Nel dialogo doniano tra Momo e Giove, d’altra parte, almeno a giudicare dalla sostanziale uniformità di vedute, manca quella “tipicità” quattrocentesca, e cioè servirsi del genere letterario per trattare teorie differenti[72]. All’autore interessa questo tipo di dialogo perché «è giocato nei termini di una collaborazione alla riforma del genere umano»[73]; ne costituisce una riprova l’assenza di litigiosità che si riscontra invece nella Furiosa di Della Porta e nel Prologo in dialogo tra Momo e la Verità di Andreini[74]. In quest’ultimo caso la mordacità del dialogo è funzionale a far emergere la validità delle teorie della Verità (già personificata da Ripa quale donna bellissima[75]) (fig. 4) chiamata a operare una distinzione, sottile ma indispensabile, tra i due fini della commedia, «il fine ultimo e il fine non ultimo»[76]. Alla donna è conferito il potere di mettere fine al dialogo – e di conseguenza al contenzioso – nobilitando la funzione del riso quale diletto e ristoro: smontando il ben noto proverbio sul riso in ore stultorum[77] loda, per converso, l’uomo che ha raggiunto l’eutrapelia, la virtù mediana del divertimento di ascendenza tomista[78].

In Doni, invece, il riso che scaturisce dalla miseria dei comportamenti umani comporta uno sconforto e un disincanto di fondo: è lo stesso Momo a dirlo quando evidenzia la «gabbiata di pazzi»[79] di un mondo in cui evidentemente non vi è possibilità di ordine. Ecco perché Mondo risibile diventa in qualche modo un “teatro” nella duplice accezione di “rappresentazione” delle consuetudini risibili dell’uomo civile e “macchina” ruotante, quel mulino che, si è visto, trita le vicende umane. L’«autunno del Rinascimento» sta cedendo il posto al secolo per eccellenza incerto, e la forma-dialogo scelta da Doni per suscitare interrogativi e allo stesso tempo fornire disincantate risposte fa il paio con l’impiego di quei meccanismi retorici che saranno ampiamente sfruttati nel Seicento[80]; da qui all’instabilità barocca e al memento mori il passo è breve.

Non altrimenti si può leggere l’ultima parte del dialogo tra Momo e Giove nel Mondo risibile in cui viene messa alla berlina la “moda” degli epitaffi e le follie di quanti non solo pretendono marmi e ori per sepoltura, ma anche imperitura memoria o attraverso bizzarri accorgimenti – è il caso di un tale che per la paura di non essere «ben ben morto» vuole una tomba «fatta a graticole di sopra per poter sfiatare»[81] – o con messaggi tronfi e contorti che della semplicità e della brevità propria dell’epigramma, come si conviene al genere, non hanno proprio nulla[82]. Queste trovate rientrano nella tradizione burlesca e sono perfettamente in linea con la materia stessa del Ragionamento, e cioè con le follie umane che generano il riso; tuttavia non può non ravvisarsi ancora una volta quella “spia” barocca della vanitas che largo spazio accorda all’elemento mortuario. Sì, è anche l’effetto della relatività di tutte le cose e in primo luogo del tempo disperso in mille occupazioni, come già aveva detto Seneca le cui reminiscenze sono palpabili nei Mondi[83]; ma la persistenza di questo concetto – la métaphore obsédante di cui si è detto[84] – va di pari passo con la predilezione della medesima immagine da parte degli autori barocchi che attingono al repertorio cinquecentesco imitandolo e contaminandolo (non diversamente da quanto fa Doni praticando la scrittura come riscrittura[85]).

Non si tratta soltanto di abilità letteraria quanto piuttosto di prospettive di vedute in fondo non dissimili. A fronte della senechiana brevità della vita, l’abitudine a non stare nel presente, nel tempo – incombe già la clessidra barocca la cui sabbia scivola via[86] – è chiaramente evidenziata nel Mondo risibile con l’impiego, non meno icastico di un dipinto seicentesco, di una serie di interrogative. Quando Dolce chiede “retoricamente” al suo interlocutore se mai ci sarà un momento in cui si smetterà di stare al di là del tempo[87], già sa che è nella natura umana non riuscirci, assodato che – è lo stesso Doni a dirlo – «il tempo et la morte sono i nostri padroni»[88]. Si può ravvisare in questo aspetto un preciso anello di congiunzione che segna l’approdo dell’uomo a una condizione di vita pienamente barocca, emblematizzata in quel mulino in movimento, fatto di «annaspamenti di dare, d’avere, di torre, di rendere, di edificare, di distruggere»[89]. Di qui la curiosa conclusione del Mondo risibile con l’incipit e l’explicit agli antipodi; nel primo domina il caos, e dunque l’assenza di senso[90]; nel secondo si fa strada un’accettazione che rende superfluo un riso che, temperato, può solo essere espressione di una saggezza acquisita[91].

 



[1] Sarebbe arduo citare tutti gli studi su Doni in generale e, in particolare, sul rapporto tra scrittura e immagini. Mi limito in questa sede a segnalare alcuni imprescindibili punti di partenza riservandomi di citare in seguito altri saggi tematici. Cfr. A.F. Doni, I Mondi e gli Inferni, a cura di P. Pellizzari, introd. di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994, da cui sono tratte le successive citazioni; «Una soma di libri». L’edizione delle opere di Anton Francesco Doni. Atti del seminario (Pisa, 14 ottobre 2002), a cura di G. Masi, presentazioni di M. Ciliberto e G. Albanese, Firenze, Olschki, 2008; Pitture del Doni Academico Pellegrino, a cura di S. Maffei, Napoli, La Stanza delle Scritture, 2004; G. Masi, Echi ficiniani. Dal dialogo “Torricella” di Ottone Lupano al “Mondo savio/pazzo” del Doni, in «Filologia e critica», XVII, 1992, 1, pp. 22-72; Id., «Quelle discordanze sì perfette»: Anton Francesco Doni: 1551-1553, in «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e Lettere “La Colombaria”», XXXIX, 1988, pp. 9-112; Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, a cura di G. Mazzacurati e M. Plaisance, Roma, Bulzoni, 1987; C. Ricottini Marsili-Libelli, Anton Francesco Doni scrittore e stampatore. Bibliografia delle opere e della critica e annali tipografici, Firenze, Sansoni antiquariato, 1960.

[2] Su queste chiavi di lettura dei testi cfr. L. Bolzoni, Il lettore creativo. Percorsi cinquecenteschi fra memoria, gioco, scrittura, Napoli, Guida, 2012, in partic. il cap. Tra parole e immagini: per una tipologia cinquecentesca del lettore creativo, pp. 26-57.

[3] C. Ossola, Autunno del Rinascimento. Idea del tempio” dell’arte nell’ultimo Cinquecento, Firenze, Olschki, 1971, p. 1.

[4] Cfr. G. Candela, Manierismo e condizioni della scrittura in Anton Francesco Doni, New York, Peter Lang, 1993, pp. 25 ss.

[5] Il rapporto tra immagini e parole è stato affrontato a più riprese; cfr., in partic., E. Parlato, Le “Sorti” nell’“Iconologia”, l’“Iconologia” nelle “Sorti”. Un percorso tra immagini e parole all’ombra di Anton Francesco Doni, in Cesare Ripa e gli spazi dell’allegoria, a cura di S. Maffei, Napoli, La Stanza delle Scritture, 2004, pp. 39-60; S. Maffei, Tortuose storie di parole e immagini. Un’”impresa” di Anton Francesco Doni, in «Bollettino Roncioniano», IV, 2004, pp. 5-18; M. Plaisance, Il riuso delle immagini ne “I Marmi” del Doni, in Percorsi tra parola e immagini (1400-1600), a cura di A. Guidotti e M. Rossi, Pacini Fazzi, Lucca, 2000, pp. 9-18. Sull’assunto secondo cui «ogni pittor dipinge sé» (cit. in La Libraria di Anton Francesco Doni, a cura di V. Bramanti, Milano, Longanesi, 1972, p. 278), cfr. N. Ordine, La soglia dell’ombra. Letteratura, filosofia e pittura in Giordano Bruno, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 180 ss.

[6] A.F. Doni, La Zucca, a cura di E. Pierazzo, Roma, Salerno Editrice, 2003, to. II, p. 679.

[7] Cfr. G. Bàrberi Squarotti, L’onore in corte. Dal Castiglione al Tasso, Milano, Angeli, 1986, p. 174, che evidenzia «l’accumulo fantasioso e un poco allucinato di “varietà”» contenute nella Zucca.

[8] Cfr. G. Ferroni-A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 28 ss.

[9] Doni, La Zucca, cit., p. 750 (La Zucca, Il Seme - La Pittura della Morte): «L’errore del vulgo usa questo spaventacchio di morte in pittura, fatto d’ossa secche e di ritirati nervi […]. Ma sul teschio gli fece una delicata maschera che la più bella faccia si vede mai, quasi che la morte nostra sia la bellezza del mondo, non perché cominci con l’ossatura la gentil pelle incarnata e la finisca con cenere scolorita, ma perché con mille varietà e mille facce l’addorna e imbellisce». Sulle “invenzioni” di Doni relative alla Pittura della Morte che si ricollegano in qualche modo alle iconografie precedenti cfr. S. Maffei, «Qua bisogna invenzione non piccola…». Il manoscritto delle “Nuove pitture” del Doni e i suoi percorsi di lettura, in A.F. Doni, Le nuove pitture del Doni fiorentino. Libro primo consacrato al Mirabil Signore Donno Aloise da Este illustrissimo et reverendissimo. Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Patetta 364, a cura di S. M., Napoli, La Stanza delle Scritture, 2006, pp. 159-220 (in partic. alle pp. 175-177).

[10] L’Adone, VI, 203, 1-8: «Quel teschio scarno e nudo di capelli, / quella rete di coste e di giunture, / dele concave occhiaie i voti anelli, / del naso monco le caverne oscure, / dele fauci sdentate i duo rastelli, / del ventre aperto l’orride fessure, / de’ secchi stinchi le spolpate fusa / Amor mirar non seppe a bocca chiusa». Su questa tematica cfr. G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, Milano, Mondadori, 2000, p. 52.

[11] Cfr. G.B. Marino, La Galeria, a cura di M. Pieri, Padova, Liviana, 1979, to. I, p. XLI. Secondo il curatore «l’ingombro catalogo degli uomini e delle donne celebri è rigorosamente contemplato a porte chiuse, finestre chiuse, che l’aria o la luce, affondando quei manichini di parole, non li scancellino». Quanto al nesso tra parole e immagini, si consideri che l’interesse di Marino andrà sì ai suoi contemporanei, ma anche agli artisti dell’alto Rinascimento, con Raffaello, Correggio e Tiziano in testa (ivi, p. XLIII).

[12] Cfr. Erasmo, Stultitiae laus, XXIX.

[13] A.F. Doni, Le novelle, to. I. La Moral Filosofia; Trattati, a cura di P. Pellizzari, Roma, Salerno, 2002, p. 187: «Il mondo è una comedia, dico ch’ ’l mondo è una tragedia, una tragicomedia, uno spettacolo che rappresenta una scena piena di strioni […]. Ma che altro facciamo noi tutto il giorno, che passeggiare sopra la scena di questa macchina et essere spettacolo l’un l’altro? Tutto il tempo della vita nostra mutiamo in vestimenti, ora faccendo un personaggio e ora contrafacendone un altro. Alla fine della comedia ciascuno si rimette indosso i suoi primi panni (come fanno gli strioni) e ritorna nello stato che prima si trovava». Sull’aspetto teatrale della Moral filosofia cfr. anche M. Guglielminetti, Il libro indiano di Anton Francesco Doni, in Studi sul Manierismo letterario, per Riccardo Scrivano, a cura di N. Longo, introd. di G. Ferroni, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 87-105.

[14] Cfr. C. Rivoletti, Le metamorfosi dell’utopia. Anton Francesco Doni e l’immaginario utopico di metà Cinquecento, Lucca, Pacini Fazzi, 2003; P. Pissavino, Ludovico Zuccolo, tra dottrina della conservazione e utopia, in Vite di utopia, a cura di V. Fortunati e P. Spinozzi, Ravenna, Longo, 1997, pp. 123-136; A. Del Fante, Note sui Mondi di Anton Francesco Doni, in «Annali dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Firenze», II, 1980, pp. 111-149; G. Abou-Sleiman, Fable et histoire dans l’utopie de Anton Francesco Doni, Université Paris X-Nanterre, Paris, 1976; M. Santoro, Fortuna, ragione e prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento, Napoli, Liguori, 1967, in partic. al cap. L’esclusione della fortuna dal destino dell’uomo. L’utopia di A.F. Doni, pp. 411-437; Utopisti e riformatori sociali del Cinquecento, a cura di C. Curcio, Bologna, Zanichelli, 1941.

[15] Cfr. Scrittori politici del ’500 e del ’600, a cura di B. Widmar, Milano, Rizzoli, 1964; L. Firpo, Il pensiero politico del Rinascimento e della Controriforma, in Grande Antologia Filosofica, diretta da U.A. Padovani, Milano, Marzorati, 1964, vol. X, pp. 561-581.

[16] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 129: «Noi altri siamo a peggior condizione, comparando noi al mondo, perché ci stiamo manco assai in questo mondo a tanto per tanto che non ci stanno i fiori».

[17] Ivi, p. 130: «Quia pulvis es, et in pulvere reverteris» (Genesi, 3, 19). Gli ammonimenti biblici sono frequenti nei Mondi.

[18] È opportuno rinviare all’uso del grottesco nelle immagini che a me sembra essere una sorta di corrispettivo iconografico del riso che scaturisce dall’osservazione dei folli comportamenti umani. Cfr. F. Quiviger, Arts visuels, iconographie et déraison dans l’oeuvre d’Anton Francesco Doni, in «Trois. Révue d’écriture et d’érudition», III, 1988, pp. 52-65. Sullo studio delle “grottesche” alla luce del trattatello doniano pubblicato nel 1549 con il titolo Disegno si sofferma P. Morel, Il funzionamento simbolico e la critica delle grottesche nella seconda metà del Cinquecento, in Roma e l’antico nell’arte e nella cultura del Cinquecento, a cura di M. Fagiolo, Roma, Istituto della Enciclopedia, 1985, pp. 149-178, il quale evidenzia che Doni «gioca sull’ambiguità tra l’irrealtà del soggetto e la potenzialità dell’oggetto, ed è in questa frattura, incessantemente colmata, che egli situa il fenomeno delle “grottesche”» (p. 153). Analogo discorso si può applicare alla natura del riso.

[19] Tale tema è esemplificato nel multiforme motivo della vanitas per cui cfr. Les vanités dans la peinture au XVIIe siècle. Méditations sur la richesse, le dénuement et la redemption, a cura di A. Tapié, Paris, Albin Michel, 1990. La ridondanza dei fiori nel periodo barocco si spiega con il fatto che essi rappresentano stati complementari e diventano allo stesso tempo simbolo della vanità di ogni cosa mondana e apoteosi di essa: cfr. A. Tapié, Le sens caché des fleurs. Simbolique et botanique dans la peinture du XVIIe siècle, Paris, A. Biro, 2000, pp. 11 ss.

[20] Autore del poema Il selvaggio, Venezia, Nicolini da Sabbio, 1535.

[21] A uno spoglio linguistico complessivo del Mondo risibile si evince chiaramente l’andamento ad elenco frutto di una sistemazione simmetrica del «contenuto» (Summationsschema), oltre all’impiego di figure retoriche che contribuiscono a rendere ipertrofico il lessico. Correctio, varietas, interrogative retoriche e metafore sapientemente combinate saranno riprese in chiave barocca per amplificare l’effetto dell’artificio. In assenza di uno studio linguistico complessivo delle opere doniane, come evidenzia C.A. Girotto, In margine agli atti di un seminario su Anton Francesco Doni (con una “tessera” bibliografica sconosciuta), in «Humanistica», VI, 2011, pp. 97-115, rinvio alle caratteristiche tipiche della scrittura del periodo in questione (ma anche allo stesso C. Girotto, Osservazione su lingua e stile nelle “Nuove pitture” di Anton Francesco Doni, in Doni, Le nuove pitture del Doni fiorentino, cit., pp. 227-245). Cfr., pertanto, P. D’Achille, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Roma, Bonacci, 1990, pp. 291 ss. F. Chiappelli, Sull’espressività della lingua nei “Marmi” del Doni, in «Lingua nostra», VII, 1946, pp. 33-38, individua alcune costanti linguistiche dell’autore, «dalla scompaginazione del modo di dire» (p. 35) alla predilezione per la «combinazione di più espressioni» (p. 37), passando per le lunghe sequele «frutto del vezzo di collezionare diversi modi del parlato corrente» (p. 36).

[22] Cfr. O. Besomi, Esplorazioni secentesche, Padova, Antenore, 1975; Giovanni da Locarno, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul P. Emmanuele Orchi, Roma, Institutum Historicum Ord. Fr. Min. Cap., 1954, pp. 77 ss.

[23] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 132.

[24] Cfr. M.C. Figorilli, Orientarsi nelle «cose del mondo». Il Machiavelli “sentenzioso” di Anton Francesco Doni e Francesco Sansovino, in «Giornale Storico della letteratura italiana», CLXXXVIII, 2011, pp. 321-365.

[25] Cfr. Ecclesiaste, 1, 1-16.

[26] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 133: «la porta con una grande entrata, acconciala; i letti così, fagli colà».

[27] Ivi, p. 134: «che fa a lui che tu muoia in una prigione, o che tu crepi per venticinque scudi?».

[28] Ivi, p. 135.

[29] Cfr. C. Mauron, Des métaphores obsédantes au mythe personnel. Introduction à la Psichocritique, Paris, Corti, 1988.

[30] Cfr. G. Barbieri, L’artificiosa rota. Il teatro di Giulio Camillo, in Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento, catalogo della mostra a cura di L. Puppi (Venezia, luglio-ottobre 1980), Milano, Electa, 1980, pp. 209-218.

[31] L. Bolzoni, Il mondo utopico e il mondo dei cornuti: plagio e paradosso nelle traduzioni di Gabriel Chappuys, in Id., Il lettore creativo, cit., p. 203, evidenzia un aspetto non meno rilevante, e cioè che «anche l’esperienza della stampa concorre a far sì che l’immagine della ruota accomuni l’esperienza esistenziale e quella della scrittura».

[32] Cfr. C. Rivoletti, Le metamorfosi del tempo. Immagine del tempo e utopia nelle opere di Anton Francesco Doni, in «Intersezioni», XXI, 2001, pp. 489-518.

[33] La Libraria di Anton Francesco Doni, cit., p. 248.

[34] Cfr. G. Nencioni, Agnizioni di lettura, in «Strumenti critici», 2, 1967, pp. 191-198.

[35] Cfr. L. Bolzoni, La stanza delle memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, 1995, in partic. il cap. Come tradurre le parole in immagini: memoria e invenzione, pp. 187-244.

[36] L. Bolzoni, Emblemi e arte della memoria: alcune note su invenzione e ricezione, in Il lettore creativo, cit., pp. 109-132, mette in evidenza alcune associazioni topiche in forza delle quali una immagine del teatro diventa una impresa. In tal senso l’autrice accosta L’idea del theatro di Giulio Camillo alle Imprese illustri di diversi di Camillo Camilli per i quali cfr. rispettivamente G. Camillo, L’idea del theatro (1550), a cura di L. Bolzoni, Palermo, Sellerio, 1991, pp. 110-111 e C. Camilli, Imprese illustri di diversi, Venezia, Girolamo Porro, 1586, vol. III, p. 13. Sui rapporti tra Camillo e Doni si veda ancora L. Bolzoni, Il teatro della memoria. Studi su Giulio Camillo, Padova, Liviana, 1984, pp. 68-69.

[37] L’Adone, IX, 72, 1-2: «La rota eletta a terminar le liti / qual nova d’Ission rota si volve».

[38] Per F. Picinelli, Mondo simbolico formato d’imprese scelte, spiegate ed illustrate. Con sentenze, ed eruditioni, Sacre e Profane, che somministrano a gli Oratori, Predicatori, Accademici, Poeti et con infinito numero di concetti (1653), Venezia, Combi, 1678, libro II, cap. XXII, p. 99, con Issione «si rapresentano al vivo le inquietudini dei mondani». Segue la citazione compendiata di Seneca che cito per esteso: De vita beata, XXVIII, 1: «Nonne nunc quoque, etiam si parum sentitis, turbo quidam animos vestros rotat et involvit, fugientes petentesque eadem et nunc in sublime allevatos nunc in infima allisos?».

[39] Reina di Scotia I 1 79-85: «Se pur è alcun, che nel volubil giro / de le cose mortali / cerchi come si caggia o si ruine / da nubi di fortuna alte e felici / a dolorosi abissi / di sorti infelicissime meschine / senta me che ragiono e me rimiri».

[40] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 137.

[41] Se si eccettua il cavallo, già elogiato nel trattatello di Leon Battista Alberti De equo animante, tutti gli altri animali citati da Doni («asino», «bue», «castrone», «lumacone», «moscone», «pecora», «tafano») sono classificati come animali «imperfetti». Cfr. Picinelli, Mondo simbolico, cit., pp. 170, 174, 222, 296 e, più in generale, Animali della letteratura italiana, a cura di G.M. Anselmi e G. Ruozzi, Roma, Carocci, 2009.

[42] La varietas è una costante retorica di Doni ed emerge anche nelle Lettere e nelle novelle: cfr. M.C. Figorilli, Meglio ignorante che dotto. L’elogio paradossale in prosa nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 2008, in partic. alle pp. 164-176; e P. Pellizzari, Varietà di forme nelle novelle di Anton Francesco Doni: il caso delle “Lettere”, in Favole parabole istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno (Pisa, 26-28 ottobre 1998), Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 483-507.

[43] Si noti che in questo periodo la predicazione è un importante strumento di mediazione culturale oltre che religiosa tout court. Aresi compendierà al meglio le finalità di questo nuovo percorso: cfr. E. Ardissino, Il Barocco e il sacro. La predicazione del teatino Paolo Aresi tra letteratura, immagini e scienza, presentazione di G. Pozzi, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2001.

[44] Picinelli, Mondo simbolico, cit., libro XVI, cap. XIII, p. 505.

[45] Ibid.

[46] Ibid.: «Qual mulino da molti emuli si trovava investito, i quali chi con maggiore e chi con minore veemenza contro di lui imperversavano»; «inferisce dipendenza dall’altrui aiuto».

[47] Ivi, libro XXIV, cap. X, p. 632: «la rota, o vogliam dire, la macina da mulino, portandosi col suo peso addosso al grano, lo frange, lo sminuzza e lo riduce in polvere. Rotando conterit; idea del tempo che con le sue continue rivolte, trita, guasta e consuma le cose tutte». Segue la citazione ovidiana (non specificata dall’autore e incompleta, ma Met., XV, 234-236): «Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, / omnia destruitis, vitiataque dentibus aevi / paulatim lenta consumitis omnia morte».

[48] Sotto la medesima voce del Mondo simbolico (libro XXIV, capp. X e XI, pp. 632-633) sono compendiate altre glosse di matrice eminentemente sacra: «cooperar alla grazia», «costanza», «travagli», «contemplazione», «martirio», «gioventù».

[49] Doni, Le nuove pitture del Doni fiorentino, cit., pp. 77-86 (la citazione è a p. 83).

[50] C. Ripa, Iconologia overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi […], Roma, Eredi di Gio. Gigliotti, 1593, p. 250: «Una bella donna in piedi, che con la destra mano si appoggi sopra un timone».

[51] V. Cartari, Le imagini con la spositione de i Dei degli antichi, Venezia, F. Marcolini, 1556, p. 406: «forse anco Pindaro, come riferisce Plutarco, la fece volgere due temoni con mano […] gli antichi le posero un temone da nave, come che a lei stesse il dare le ricchezze e fosse in sua mano in sua mano il governo delle umane cose».

[52] Picinelli, Mondo simbolico, cit., libro III, cap. XIII, p. 96: «La Fortuna, dipinta sopra d’un globo, con la vela nella mano fu introdotta a dire: “audaces iuvo”».

[53] Cfr. I. Bergström, Homo bulla. La boule transparente dans la peinture hollandaise à la fin du XVIe siècle et au XVIIe siècle, in Tapié, Les vanités, cit., pp. 49-54.

[54] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 138.

[55] Cfr. Svetonio, Vite dei Cesari, Domiziano, 3.

[56] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 141: «L’imperador Domiziano cercava di farsi immortale con il pigliare assai mosche».

[57] Cfr. ibid.

[58] Ivi, p. 143.

[59] Si veda, in particolare, l’episodio relativo allo schiavo dell’imperatore Tito gettato nell’arena per essere dato in pasto a un leone improvvisamente ammansitosi alla vista dell’uomo.

[60] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., pp. 146-147.

[61] Tutto ciò che è studio, scritto, libro, lungi dall’essere attributo del sapere finisce con il diventare vanità della conoscenza: si pensi ai crani poggiati sui libri dalle pagine lise o ai libri posti su un piano ma sul punto di cadere, simboli della scienza subordinata alla consunzione mortale. Cfr. Tapié, Les vanités, cit., p. 61, per alcuni esempi di «natura morta» dei libri.

[62] Si vedano, al riguardo, le riflessioni di C. Rivoletti, Modelli e fonti nella riscrittura doniana della novella della “Pioggia della follia”, in «Una soma di libri», cit., pp. 81-109, in partic. alle pp. 94-95.

[63] Cfr. R. Girardi, La società del dialogo. Retorica e ideologia nella letteratura conviviale del Cinquecento, Bari, Adriatica, 1989, in partic. al cap. Le vertigini della parola. A.F. Doni e il “teatro del mondo”, pp. 161-186.

[64] In merito alle dispute sulla codificazione del genere dialogico e sulla diversa natura del dialogo, dottrinale e dialettico, cfr. F. Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967, in partic. al cap. La tradizione classica e le forme del dialogo umanistico, pp. 223-249. Cfr. inoltre C. Forno, Il “libro animato”. Teoria e scrittura del dialogo nel Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1992. La bibliografia sul dialogo è piuttosto estesa; mi limito a segnalare, tra gli altri, G. Ferroni, Il dialogo, Scambi e passaggi della parola, Palermo, Sellerio, 1985 e le riflessioni sul discorso Dell’arte del dialogo per cui cfr. T. Tasso, Dell’arte del dialogo, introd. di N. Ordine, testo critico e note di G. Baldassarri, Napoli, Liguori, 1999, pp. 3-33.

[65] Con il suo Novo prato di prologhi di Gio. Donato Lombardo da Bitonto, detto il Bitontino. Con l’aggionta d’altri nuovi, e varij prologhi dello stesso autore, In Venetia, appresso Pietro Dusinelli, 1612, Lombardo può essere considerato l’antesignano di una nuova figura di intellettuale, quella del prologhista di professione in grado di compendiare le più disparate teorie teatrali a mo’ di prontuario ad uso di autori e attori. Sulla sua figura cfr. G. Attolini, Un commediografo fra ’500 e ’600: Giovan Donato Lombardo “il Bitontino”, in «Studi bitontini», 27-29, 1979, pp. 127-129.

[66] Cfr. D. Riposio, Una soglia verso utopia. La funzione-autore nei prologhi di commedie del Cinquecento, in I mondi impossibili: l’utopia, a cura di G. Bàrberi Squarotti, Torino, Tirrenia Stampatori, 1990, pp. 95-109.

[67] A.F. Grazzini, La strega comedia d’Antonfrancesco Grazini, Academico fiorentino, detto il Lasca, In Venetia, appresso Bernardo Giunti, e fratelli, 1582.

[68] A. Piccolomini, L’Hortensio comedia de gl’Academici Intronati di Siena, In Venetia, per gli heredi di Bortolamio Rubin, 1586.

[69] S. Oddi, Prigione d’amore commedia nuoua dell’eccellentissimo signor Sforza Oddi. Recitata in Pisa da scolari l’anno secondo del felice rettorato del signor Lelio Gauardo asolano, In Venetia, appresso Gio. Battista Bonfadino, 1596.

[70] N. Angeli, Amor pazzo comedia del sig. Nicola de gli Angeli, In Venetia, appresso gli heredi di Marchio Sessa, 1596.

[71] G.B. Della Porta, La Furiosa. Comedia, In Napoli, Appresso Gio. Giacomo Carlino & Costantino Vitale, 1609. Edizione moderna: G.B. Della Porta, Commedie, a cura di R. Sirri, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2003, vol. IV, p. 103: «MOMO  Oh, che meglio ciascun di loro andasse a far il suo essercizio e gli renderebbe meglior conto che far comedia, e voi altri spensierati andassivo per le vostre facende e non per perder questa giornata inutilmente, ch’io non tanto mi vergogno della loro vergogna, che recitano, quanto della vostra pazzia, che l’ascoltate! Oh che umori, dispareri, scompigli, guazzabugli fra loro!  VERITÀ  Tu sei una cattiva lingua, un maldicente Momo».

[72] F. Tateo, «Per dire d’amore». Reimpiego della retorica antica da Dante agli Arcadi, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1995, p. 196, quando sottolinea tre momenti del dialogo: «il primo rappresenta l’obiettivo polemico, la posizione da rimuovere, il secondo l’argomento per rimuoverla e preparare frattanto la posizione finale che si giova della precedente confutazione e riprende, trasformandoli, gli elementi positivi scaturiti da quest’ultima».

[73] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. XX.

[74] Cfr. G. B. Andreini, Opere teoriche, introd., note e commento di R. Palmieri, Firenze, Le Lettere, 2013, pp. 147-167.

[75] Per Ripa, Iconologia, cit., p. 347, la Verità assume le fattezze di una «donna, risplendente, e di nobile aspetto, vestita di color bianco, pomposamente, con la chioma d’oro, nella destra mano tenendo uno specchio ornato di gioie, nell’altra una bilancia d’oro […]. Et lo Specchio insegna, che la Verità all’hora è in sua perfettione, quando, come si è detto, le cose sensibili si conformano con quelle, che si vedono dall’intelletto, come lo Specchio è buono quando rende la vera forma della cosa, che vi risplende, e è la Bilancia indicio di questa egualità».

[76] Andreini, Opere teoriche, cit., p. 156: «Oh, qui ci vuole una distinzione perché il fine è di due sorti, cioè ultimo e non ultimo: ella adunque non ha per ultimo e nobilissimo fine il riso e diletto, ma il purgare gli affetti dell’animo ed il moverli al bene e l’ammaestrare in modo che si fugga il vizio e s’abbracci la virtù».

[77] Con questo proverbio si chiude anche il Mondo risibile di Doni. Sul loro impiego cfr. le osservazioni di G. Masi, Introduzione, in A.F. Doni, Umori e sentenze, a cura di V. Giri e G. Masi, Roma, Salerno Editrice, 1988, pp. 131 ss. Anche Andreini conosce la consolidata prassi poetica secondo cui i proverbi, soprattutto se inseriti nelle commedie, sono funzionali ad una maggiore comprensione degli eventi, come dirà anche Campanella, peraltro appassionato lettore di Doni. Cfr. T. Campanella, Poetica italiana, in Opere letterarie, a cura di L. Bolzoni, Torino, UTET, 1977, p. 437: «Devono essere le commedie piene di proverbi popolareschi e di metafore, cavate da cose basse da quegli uomini che sono introdotti, li quali, facendo ridere, insegnano a vivere, ché queste restano più a mente».

[78] Andreini, Opere teoriche, cit., p. 173, riprende il principio di Tommaso (Summa Theologiae, quaestio 168) per cui l’eutrapelia è «allegria costituita da azioni adeguate all’onesto svago dell’anima». Andreini ricorre di frequente all’auctoritas di Tommaso e della sua Summa.

[79] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 148.

[80] Cfr. G. Bàrberi Squarotti, La letteratura instabile. Il teatro e la novella fra Cinquecento ed Età barocca, Treviso, Santi Quaranta, 2006, in partic. al cap. Della Porta o il teatro del mondo, pp. 171-194.

[81] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 154.

[82] Ivi, p. 155: «Io nacqui di corruzione, vissi di materie che si corrompono e morto son corrotto. Lo spirito è stato, è e sarà incorruttibile».

[83] Sen., De brevitate vitae, VII, 2: «omnia istorum tempora excute, aspice quam diu computent, quam diu insidientur, quam diu timeant, qua diu colant, quam diu colantur, quantum vadimonia sua atque aliena occupent, quantum convivia, quae iam ipsa officia sunt».

[84] Cfr. n. 29.

[85] Cfr. P. Procaccioli, Cinquecento capriccioso e irregolare. Dei lettori di Luciano e di Erasmo; di Aretino e Doni; di altri peregrini ingegni, in Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nell’Italia del classicismo. Seminario di Letteratura italiana (Viterbo, 6 febbraio 1998), a cura di P. P. e A. Romano, Roma, Vecchiarelli, 1999, pp. 7-30.

[86] Il carattere transitorio della vita umana trova riscontro nell’iconografia della vanitas attraverso la raffigurazione di orologi e clessidre: cfr. Tapié, Les vanités, cit., pp. 212-213.

[87] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 132: «Vedete del tempo, ciascuno cerca d’andare inanzi».

[88] Doni, La Pittura del Tempo, in Le nuove pitture del Doni Fiorentino, cit., pp. 82-96 (la citazione è a p. 93).

[89] Doni, I Mondi e gli Inferni, cit., p. 135.

[90] Si noti che il parlare di cose che inducono al riso produce caos, come si legge nell’incipit del Mondo risibile (ivi, p. 131: «L’avere a parlare di tutte le cose risibili che noi facciamo sarebbe un caos maggiore di quel primo»; l’autore allude con l’espressione «di quel primo» al Caos primordiale). Al contrario, l’explicit insiste sulla necessità di ridere troppo, e l’assunto è suffragato dalla chiusa proverbiale (ivi, p. 157: «non più, che il ridersi ancora d’ogni cosa non è troppo atto da savio»). Sulla natura dei finali, in particolare nel Cinquecento, cfr. I finali. Letteratura e teatro, a cura di B. Alfonzetti e G. Ferroni, Roma, Bulzoni, 2002 («Semestrale del Dipartimento di italianistica e spettacolo dell’Università di Roma “La Sapienza”», 10), in partic. al cap. di B. Alfonzetti, Finali tragici dal Cinquecento a Manzoni, pp. 41-72.

[91] Sulle innumerevoli gradazioni del riso con le relative analisi cfr. N. Ordine, Teoria della novella e teoria del riso nel Cinquecento, prefaz. di D. Ménager, Napoli, Liguori, 2009, pp. 19 ss.

 




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