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Siro Ferrone

Sul teatro di Eduardo. Una questione di metodo

Data di pubblicazione su web 31/10/2014
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La drammaturgia può avere diversi caratteri, anzi numerosi, ma volendo descriverla sinteticamente può essere classificata come consuntiva o come preventiva. La drammaturgia consuntiva è tendenzialmente governata da uno scrittore che spesso, ma non sempre, è anche un attore; è la drammaturgia che trascrive sulla carta le dinamiche, i rapporti e soprattutto l’elaborazione dei personaggi tenendo conto di una precisa compagnia di attori e del loro concertato possibile. Il testo è al servizio delle competenze attoriali presenti. La drammaturgia preventiva non è preordinata ad alcuna compagnia teatrale futura, ma è frutto della mente del drammaturgo che può essere anche un attore; si tratta di una drammaturgia che è spesso la conseguenza secondaria di esperienze sceniche precedenti, che nel nuovo testo trovano l’occasione di rinnovarsi e talvolta chiarificarsi.

Il teatro di Eduardo appartiene alla prima categoria, come quello di Shakespeare, Molière e Goldoni. Come quello di Giovan Battista Andreini. Ed anche quello di Dario Fo. Alla seconda categoria appartengono i testi teatrali prodotti soprattutto nelle accademie, nei collegi, negli ambiti ‘ridicolosi’, spesso opera di letterati anche di talento, che agli attori di professione si rivolgono come agli esecutori pratici dei loro copioni: in antico regime i casi italiani più interessanti – peraltro assai complessi nella loro genesi – sono quelli riconducibili alle accademie cinque-settecentesche.

La drammaturgia consuntiva – spesso soggetta alla modellizzazione dettata dalle categorie letterarie – è incline all’ ipercorrezione delle incongruenze dei suoi risultati e tende a farlo osservando la modellizzazione della drammaturgia preventiva, la quale si fa forte dell’autorità che le deriva dall’ appartenenza al santuario della letteratura.

Si veda Molière che, nel momento di dare alle stampe i suoi copioni, li corresse in modo da corrispondere alle attese della società letteraria non lasciando nessuna traccia dei suoi manoscritti. Ma si vedano anche gli scrittori che non furono attori (Goldoni, Pirandello) e che vollero purgare i loro testi delle incursioni (in verità non sempre dannose) degli attori. Nel caso di Goldoni vanno anche considerate le trascrizioni clandestine di copisti che, opportunamente celati nei palchi, ascoltavano e trascrivevano quelle che oggi chiameremmo le performances live e si facevano fornitori di editori-pirata (ma la pratica della pirateria live era comune anche ai tempi di Shakespeare e in qualche caso ci ha permesso di ‘salvare’- certo in forme che non sappiamo quanto distanti dalla volontà dell’autore – alcuni copioni altrimenti perduti).

Si prenda il caso di Andreini, attore della Commedia dell’Arte e scrittore del secolo XVII. Quando leggiamo le stampe giunte fino a noi, appaiono evidenti le aggiunte e le ipercorrezioni letterarie: particolarmente ingombranti sono le didascalie implicite che l’autore volle inserire nelle battute dialogate a vantaggio dei lettori in modo da mettere questi ultimi nelle condizioni di ‘vedere’ già sulla carta le azioni recitabili (per questo rinvio al mio studio: Attori mercanti corsari, Torino, Einaudi, 2011).

Ma la questione della trascrizione dall’ oralità alla stampa si ripropone per tutti gli attori-drammaturghi editi, coinvolgendo ogni volta un differente grado di complicità dell’autore e dell’editore. Veniamo dunque al caso Eduardo: attore e autore che fu editore di se stesso (molto più forte e determinante di Goldoni che nei confronti dei suoi editori dovette più volte aprire dei contenziosi per difendere le sue volontà testuali dagli arbitrî degli stampatori). La pubblicazione libraria delle commedie di Eduardo – una delle più preziose testimonianze del teatro agìto, parlato e scritto del Novecento – risponde alla medesima strategia culturale che nel Seicento fu, ad esempio, di Andreini, anche lui figlio d’arte, discendente di due grandi attori. Ed è propria dei figli d’arte quella schietta coscienza culturale che spinge a tutelare in modo più solido che nella trasmissione orale il patrimonio artistico di famiglia. La tutela del proprio patrimonio drammaturgico in forma di monumento letterario destinato a futura memoria costituisce in qualche modo il risarcimento di un lutto  artistico. E in questa opera Eduardo non fu meno tenace dei comici dell’Arte prima ricordati, consapevole anche lui come loro che la conservazione in forma di libro del proprio lavoro è anche la celebrazione di una tradizione che affonda le sue radici nella storia del teatro dei professionisti più antichi.

Una volta compresa l’appartenenza dell’ opera scritta di Eduardo a questa ‘religione della memoria’, ci si può domandare quanto i testi che possiamo leggere, stampati nelle edizioni approvate dagli autori, riflettano la complessità e la ricchezza del recitato piuttosto che le preoccupazioni del decoro letterario o editoriale, nel momento che da copioni diventano libri. Tornando al caso specifico di Eduardo, siamo in parte facilitati, ma rischiamo di essere fuorviati dalle testimonianze parziali; non sempre – come si dice nella filologia classica – recentior est ed in parte ci sono ancora, per fortuna, coloro che hanno visto, commentato e analizzato gli spettacoli di Eduardo dal vivo. O coloro che con lui hanno lavorato. Esistono anche registrazioni audio e video di quel teatro. Oltre alla memoria degli spettacoli visti dal vivo, noi possiamo contare sul supporto della memoria radiofonica e televisiva che – per quanto insufficiente a restituire la complessità e ricchezza dello spettacolo in azione – consente di apprezzare e studiare il confronto tra il recitato e lo scritto di Eduardo. Tuttavia, anche osservando attentamente e con la dovuta capacità critica i testi a stampa, si può tentare di rispondere alla domanda su quanto resta della vitalità del recitato eduardiano nel copione stampato e edito.

E qui mi permetto di stabilire un confronto e un accostamento che potrà ad alcuni sembrare sacrilego ed intempestivo. Parlo di Carmelo Bene, grande attore e – a modo suo – drammaturgo, appartenente alla generazione seguente del Novecento.

Una delle caratteristiche più evidenti del linguaggio scenico di Carmelo Bene – apprezzabile soprattutto negli allestimenti shakespeariani più che nelle letture dantesche o byroniane – è certamente quella relativa alla ‘triturazione’ delle parole nei lunghi monologhi nei quali ha adattato molti dei testi da lui messi in scena. Una triturazione sistematica che travolge molti dei significati del testo, ma fa galleggiare, per contrasto rispetto a quel magma, lacerti più nitidi, ripetuti come un’aria da melodramma e sottolineati spesso proprio da citazioni musicali del repertorio ottocentesco (e non solo).

Eduardo ha troppo rispetto e cura per la tramatura delle azioni così come per la profilatura dei personaggi minori per procedere ad una triturazione tanto violenta. Eduardo non esercita la dittatura, ma governa piuttosto una repubblica o se volete un presepe più complesso. Perciò, proprio in quanto scrittore-protagonista, lascia che i suoi compagni di scena (i personaggi maggiori e i minori) mettano in moto l’avanzamento delle azioni e dei sentimenti; li convoca a gruppi oppure uno dopo l’altro sul palcoscenico per avviare poco a poco la schermaglia che precede l’accensione delle scene maggiori, laddove il protagonista, adeguatamente preannunciato, dà il meglio di sé. Ma questo "meglio” non è, appunto, costituito da monologhi sapienti o sofferti, che io chiamerei – mi si permetta l’allusione ottocentesca – monologhi a vapore, in cui primeggiava il mattatore ottocentesco o il primattore che dir si voglia: quello che ha continuato a fare proseliti ancora nel pieno Novecento come nel caso di Vittorio Gassman (nel teatro come nel cinema).

La dizione di Eduardo procede al contrario, secondo una tecnica «in levare», con vuoti e pieni sincopati, trascinati da una gestualità e da una mimica essenziali, cadenzate in maniera imprevedibile, spesso volutamente in contro-tempo, addirittura scostanti rispetto al resto della compagine in scena. Il suo recitare si configura perciò come uno scontroso capovolgimento dell’attore mattatore o protagonista: un vuoto pieno di attrattive che Eduardo dispiega ora al centro ed ora ai margini del palcoscenico, senza rispettare nessuna etichetta o gerarchia scenica che non sia quella del capocomico-autore-regista. Una tecnica questa probabilmente maturata avendo negli occhi e nell’ orecchio certe ombre e certe voci del teatro di Pirandello (peraltro presente con non poche tracce nelle trame e nei soggetti di una parte del teatro di Eduardo: su questo tema molto ci sarebbe da lavorare). Penso ad esempio alla trasformazione del ruolo del brillante-raisonneur da personaggio calato nell’ azione a commentatore decisamente straniato e quasi disincarnato, portavoce dell’autore, quel guscio vuoto di un uovo di cui si parla (Il gioco delle parti) come di un personaggio non più psicologicamente approfondito, ma piuttosto funzionale alla struttura. Di quel guscio vuoto possiamo riscontrare tracce ancora negli anni Trenta-Quaranta-Cinquanta del Novecento ad esempio nei lunghi sfibranti recitativi, talvolta sussurrati, di Ruggero Ruggeri (si pensi alla sua lettura in minore dei monologhi dell’Enrico IV di Pirandello). Con una tecnica non troppo distante Eduardo si fa lui stesso raisonneur, apparentemente abdicando al ruolo di primattore mattatore e protagonista: si ritrae quasi in una posizione liminale (allo steso tempo ‘fuori scena’ ed ‘in scena’) senza le ambizioni filosofiche dei 'brillanti' pirandelliani, e perciò meno verboso e apodittico di quelli; addirittura contraddittorio rispetto allo schema dei ruoli e delle parti che la tradizione italiana aveva mutuato dal secolo precedente, sostituendo alle molte parole di quelli molti silenzi e alcuni vuoti sorprendenti, lievissime controscene che lo distanziano dall’ agitato intreccio degli altri; facendo peraltro capire allo spettatore che quell’ azione che si svolge attorno a lui - brillante o raisonneur – è in realtà il frutto non tanto della sua debolezza quanto della sua forza e volontà demiurgiche. Ad osservarla ancora meglio, questa sua azione-non azione in scena lo apparenta a molti personaggi del teatro barocco che guidano l’ intreccio ed il suo scioglimento osservando e commentando – secondo la convenzione scenica di quel tempo – con molti a parte e con opportuno straniamento, le azioni e i percorsi (anche interiori) degli altri personaggi pur fingendo, al tempo stesso, di stare in mezzo a loro, al loro pari. Ripensando ad altri spettacoli del tardo Novecento, questa attitudine si trova – ed è una evidente filiazione eduardiana – nella posizione scenica spesso assunta da un attore-regista come Carlo Cecchi, artefice di una recitazione spesso giocata sull’ azzeramento vistoso e compiaciuto del protagonismo: apparente raffigurazione dell’ esilio del protagonista dal centro della scena, in  realtà la sua mise en abyme.

Quasi a ribadire questa funzione di playmaker interno alla scena ma sospeso sulla trama dell’opera, fino a suggerire l’accostamento della propria maestria a quella di un artefice magico che sta al di sopra dell’azione, Eduardo volle incarnare la voce e la funzione del Prospero shakespeariano in una bellissima versione de La tempesta proposta nel 1984 all’ Università di Roma La Sapienza. Il testo, composto in un napoletano cavato dalle fonti del secolo XVII, «ricorre a termini arcaici e alla combinazione personalizzata di settenari, senari, ottonari, alla citazione libera dei procedimenti formali del barocco napoletano (l’egloga di Basile) insieme a un dialetto teatrale, stilizzato e affrancato dal naturalismo della parlata quotidiana»: dunque una lingua più scritta che parlata, la quale, combinando senari, settenari, ottonari, costituisce un suggestivo richiamo alla tessitura verbale  ‘barbarica’ dell’originale inglese[1].

E fu, quella, una delle ultime se non l’ultima apparizione vocale di Eduardo, il suo lascito testamentario. Ma fu anche – quel nastro registrato – il rispecchiamento sintetico e conclusivo di un tema che aveva percorso tutta l’avventura dell’attore-drammaturgo: la messa a nudo – divertita o commovente – dei trucchi del mestiere, quell’ arte povera dell’ illusione comica che in età giovanile aveva disegnato come attore e autore sul palcoscenico di un «artefice magico» (cfr. Sik-Sik, l’artefice magico del 1929); ed era stato, quello, il corrispettivo ‘umile’ del mitico Prospero a venire. I due spettacoli citati (quello giovanile e quello shakespeariano della vecchiaia) sono esempi di una medesima visione del mondo, nella quale il teatro costituisce - anche quando è costretto ed avvilito dai condizionamenti della sua materialità (attrezzerie, trucco, costumi, spazio delimitato) e dalle miserie della vita quotidiana dei comici - un territorio franco, liminale tra realtà e sogno, attraverso il quale è possibile accedere (forse) a un riscatto fantastico e (forse) aspirare – come nel caso dei comici poveri ma magici artigiani di Sik-Sik – ad una redenzione sociale. 

Anna Barsotti nella Nota storico critica Sik-Sik, l’artefice magico, nell’ edizione da lei curata della Cantata dei giorni pari [2] ha sottolineato come «Nella piccola vicenda esemplare di un piccolo eroe di palcoscenico, che lotta contro banali ma – per lui – tragiche difficoltà, pur di salvare il proprio sogno di grandezza, [Eduardo] sperimentava l’incontro che diventerà sempre più consapevole nelle Cantate: tra i due strati culturali dell’oralità e della scrittura».  È l’ultimo aspetto su cui vorrei soffermarmi. L’attore-drammaturgo Eduardo dimostra infatti una sensibilità assai sottile nell’ uso del linguaggio parlato, sostenuta peraltro da una forte coscienza critica. Nelle sue Lezioni di teatro tenute all’ Università di Roma e poi edite a cura di Paola Quarenghi (Torino, Einaudi, 1980, p. 135) arriva a definire la lingua letteraria come un vero e proprio «carcere per il teatro» e a contrapporre a questa la «lingua usuale». Nei tempi recenti –mi permetto di notare – il fenomeno della ricerca estenuata degli esiti letterari in molte drammaturgie, anche di giovani drammaturghi soprattutto di area centrosettentrionale – ci ha fatto intravedere le sbarre di quel penitenziario.

Peraltro mi pare che Eduardo non si sia mai spinto, come altri scrittori di teatro a noi contemporanei, a ideologizzare l’ uso del dialetto, facendo piuttosto ricorso a quello che è stato definito un «mistilinguismo italiano-napoletano». Come è stato scritto, «i due codici possono contrapporsi, come nel caso dell’italiano lingua burocratica a fronte del dialetto lingua parlata; oppure essere complementari, quando lo stesso parlante usi le due varietà secondo le diverse funzioni del discorso[…]. Si arriva insomma alla consapevolezza acquisita del bilinguismo italiano-dialetto e del suo sfruttamento a fini espressivi».[3] L’intuizione linguistica dell’attore-capocomico appare precorritrice di quanto sarebbe successo nei tempi seguenti: «Gli attori napoletani vanno scomparendo» – così si esprimeva Eduardo nel 1970 – «Ma hanno già assolto al loro compito. La naturalezza, la verità, la spontaneità tipiche della recitazione dialettale oggi si ritrovano anche in molti attori italiani. La loro recitazione è migliorata proprio perché sono esistiti gli attori dialettali, napoletani, siciliani, ecc. Il mio sforzo, non di anni, ma di una vita, è stato quello di far superare al teatro dialettale i suoi confini, portandolo a far parte d’un teatro nazionale italiano». Il  programma enunciato nel 1970 ricorda a distanza di due secoli quello di Goldoni, fondato come è sulla pedagogia del drammaturgo applicata agli attori: «l’attore napoletano […] possiede naturalezza, spontaneità, ritmo, creatività (e se è bravo, può improvvisare, cosa quasi impossibile a un attore in lingua); possiede un bagaglio tradizionale di convenzioni sceniche, sotterfugi, malizie, intendimenti che sono un patrimonio straordinariamente utile, se ad esso si accompagna la sensibilità. Il loro difetto è purtroppo l’ignoranza».[4] Evidente qui il richiamo ad un programma di pedagogia teatrale di grande respiro che è rimasto in gran parte deluso.



 

[1]  Su questa versione e sulla sua genesi si veda la rapida rievocazione di colui che fu l’organizzatore dell’evento: F. Marotti, La lettura de ‘La tempesta’ di Shakespeare in napoletano come strumento didattico per un corso universitario a ‘La Sapienza’, in Eduardo De Filippo, Atti del convegno di studi sulla drammaturgia civile e sull’impegno sociale di Eduardo De Filippo senatore a vita (Roma, 9 novembre 2004), a cura di E. Testoni, Catanzaro, Rubettino, 2005, pp. 141-147; per la citazione cfr. ivi, p. 144.

[2]  A. Barsotti, Nota storico critica Sik-Sik, l’artefice magico, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1998, p. 212. Alle pp. 221-226 dello stesso volume si rimanda per le interessanti notizie circa le riprese dello spettacolo.

[3]  P. Trifone, L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali,  2000, p. 145.

[4]  Per le due citazioni cfr. E. De Filippo, Sulla recitazione, in Eduardo nel mondo, Roma, Bulzoni & Teatro Tenda editori, 1978, p. 81: lo scritto di Eduardo rispondeva ad un questionario che gli era stato inviato da Toby Cole, curatrice, insieme a Helen Chinoy, del volume Actors on Acting (New York, Crown, 1970), un’antologia di scritti di attori e registi intorno alla recitazione.



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