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Elena Lenzi

L’edizione di un copione inedito: ‘La camaldolese rincivilita’ di Giovan Battista Zannoni

Data di pubblicazione su web 27/10/2014
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Ringrazio la Prof.ssa Teresa Megale per avermi suggerito di svolgere indagini presso la Biblioteca Roncioniana di Prato, rivelatasi proficuo luogo di ricerca, e per avermi consigliato lo studio di questo testo inedito.

«Io non ho voluto con queste commedie che far ridere, siccome ho io riso in comporle. Se il lettore e lo spettatore ride, io son pago abbastanza; e se rideranno pure quegli che le censureranno, il loro riso formerà la mia risposta».[1]


Gli ‘Scherzi comici’, edizioni e rappresentazioni 

La produzione drammaturgica di Giovan Battista Zannoni[2] ci è pervenuta tramite le varie edizioni degli Scherzi comici, quattro commedie animate da personaggi della plebe, «di faceto argomento, e di dialogo spiritoso»,[3] scritte nella lingua dei Camaldoli[4] e considerate le prime produzioni in vernacolo fiorentino.[5]

La prima edizione del Saggio di scherzi comici, stampata anonima nel 1819 nella stamperia del Giglio a Firenze, conteneva Le gelosie della Crezia e L’amicizia rinnovata ossia la ragazza vana e civetta. Celandosi dietro le iniziali del proprio nome, l’autore scrisse anche la dedica al canonico laurenziano Domenico Moreni, che aveva annunciato la pubblicazione degli Scherzi negli «Annali della tipografia Torrentiniana» di Firenze, e la dedica al Cortese lettore dove racconta, tra l’altro, la nascita del suo testo. Se dobbiamo credere alle sue parole, Zannoni, inizialmente contrario alla diffusione delle sue commedie fuori dal ristretto circolo per cui erano state scritte, decise di pubblicarle perché circolavano copie eseguite di nascosto dai testi usati per le recite e modificate ad ogni trascrizione.

Nel 1825 Zannoni, mantenendo l’anonimato, diede alle stampe il Saggio di scherzi comici, seconda edizione corretta ed accresciuta di due Commedie: La Crezia  rincivilita per la creduta vincita di una quaderna e Il ritrovamento del figlio. Aprono il volume una lunga Prefazione nella quale l’autore replica a non specificati «giornali» e «censori» che avevano criticato duramente la prima edizione, e una Lettera di Luigi Muzzi sulla questione della lingua.

La terza edizione del Saggio di scherzi comici, contenente le quattro commedie, fu realizzata nella stamperia della Gazzetta di Firenze nel 1838 con la prefazione e la lettera del Muzzi già nell’edizione del 1825. In una Nota l’editore menziona per la prima volta l’abate, ormai scomparso da sei anni, come autore delle commedie: «per quanto l’Autore degli Scherzi Comici non abbia mai voluto permettere che nelle passate edizioni, fatte lui vivente, fosse palesato il suo nome, ciò nondimeno è noto a tutti essere egli stato il celebre Abate Giovan Battista Zannoni R. Antiquario e Segretario dell’Accademia della Crusca, ben noto alla Repubblica Letteraria per molte opere di varia erudizione pregievolissime».[6]

Nel 1850 il Saggio di scherzi comici arrivò a Milano; Giovanni Silvestri incluse le quattro commedie nella collana «Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne» edita nel capoluogo lombardo.

Le ciane di Firenze ovvero scherzi comici del celebre abate G. B. Zannoni R. Antiquario e Segretario dell’Accademia della Crusca, con il nome ormai rivelato dell’autore aggiunto al titolo, furono stampate nel 1857 a Malta «a spese dell’editore». Nel 1865 la Gazzetta di Firenze ripropose la quarta edizione del Saggio di scherzi comici ossiano le così dette ciane.

La Crezia rincivilita, che ha avuto maggiore fortuna rispetto alle altre commedie, fu pubblicata con continuità a Firenze anche nella seconda metà dell’Ottocento. Accompagnata da note filologiche di Giuseppe Frizzi, uscì nel 1872 coi tipi del Tofani e, nel 1876, in seconda edizione, per il Ciardelli. Nel 1880 l’editore Salani la inserì nella «Nuova collezione teatrale» con il titolo Le ciane di Firenze ovvero La Crezia rincivilita per la creduta vincita di una quaderna, identificandola con tutta l’opera teatrale di Zannoni, mentre due anni prima aveva incluso Le gelosie della Crezia nella «Collezione di farse italiane e straniere».

Felicita Morandi, scrittrice e pedagogista lombarda, tradusse in lingua la maggiore commedia zannoniana per le scuole, modificandone scene e personaggi: trasformata in teatro educativo, La Crezia  rincivilita fu pubblicata a Milano per Agnelli nel 1872.

Nel Novecento le edizioni, tutte fiorentine, si fanno più discontinue. Nel 1908 e nel 1922 Salani ripubblicò Le ciane di Firenze ovvero La Crezia rincivilita per la creduta vincita di una quaderna; nel 1950 Barbèra ristampò tutte le commedie, rifacendosi al testo del 1825, con il titolo Le ciane di Firenze. Saggio di scherzi comici dell’abate G. B. Zannoni, con prefazione e note di Giuseppe Ugolini.

La libreria Chiari di Firenze ha riproposto nel 2000 La Crezia  rincivilita per la creduta vincita di una quaderna e, un anno dopo, La ragazza vana e civetta; entrambe le pubblicazioni, uscite nella collana «Commedia fiorentina», sono corredate da prefazione, biografia e glossario a cura di Alessandro Bencistà.

L’esordio sui palcoscenici fiorentini e i primi anni di vita scenica degli Scherzi sono descritti dall’autore nella prefazione all’edizione completa del 1825.
Molto interessato all’esito delle sue commedie, Zannoni ripercorre con senso critico le loro rappresentazioni; descrive i teatri e le compagnie che avevano scelto i suoi testi, la resa degli attori, le alterne reazioni del pubblico: «sulle scene han queste commedie generalmente ottenuto compatimento; ma quale più sodisfatto, e quale meno».[7]  Prima commedia a venir rappresentata in un teatro la Ragazza  vana e civetta:

«La bontà, con che il pubblico di Toscana, di Firenze in ispecie, e quello d’alcune città dello Stato romano ascoltato hanno la Ragazza vana e civetta, è riuscita maggiore assai d’ogni mia aspettativa. Fu gran ventura per questa commedia l’esser dopo la stampa rappresentata nel Teatro Goldoni nell’estate del 1819 dagli Alunni del signor Antonio Morrocchesi, meritissimo professore di Declamazione in questa I. e R. Accademia delle Belle Arti; il quale pel buon riuscimento pose su di essa la cura medesima che è usato porre sulle rappresentanze d’importanza incomparabilmente maggiore. Certamente non è [stata] mai più questa mia commedia declamata né con tanto impegno, né con tanta perizia. […] Il buon successo raccomandò sì la lettura del giocoso libretto, che divenn’esso in tempo brevissimo di difficile acquisto.[8] Venuta la Quaresima dell’anno 1822 una scelta società di giovani fiorentini, che sé e gli altri dilettava con sceniche rappresentanze nel Teatro degli Arrischiati, avventurar volle in sul finir d’essa la recita della Ragazza vana e civetta. Sì cortesi mostraronsi gli affollati ascoltatori, che dopo la Pasqua fu mestieri ripeterla alla richiesta dei molti, cui erasene da quelli favorevolmente parlato. La bontà però dei miei ottimi concittadini inverso di me non ebbe qui compimento; ma dettermene essi poco di poi prove assai maggiori. La comica compagnia che agiva nella primavera del medesimo anno nel Teatro dei Solleciti, sgomenta per la scarsezza degli Spettatori, tentò di richiamarli per mezzo della detta mia commedia. Parve allora che essa mai non si fosse recitata; dacché per tredici sere, dieci delle quali si successero senza interruzione, sentita fu non senza diletto da folta udienza, composta per la massima parte dei cittadini dell’ordin primo e del mezzano. I più del popolo recavansi al Teatro della Quarconia, ove per molte sere fu ugualmente replicata».[9]

Continua ripercorrendo la minor fortuna delle Gelosie della Crezia:

«Nell’un teatro e nell’altro [teatro dei Solleciti e teatro della Quarconia] avventurar pur si volle la recita delle Gelosie della Crezia: primo mio tentativo in questo nuovo genere di scherzoso componimento; ma l’esito di questa, tale non fu da potersi a quel dell’altra paragonare. Pel primo atto restò l’udienza presso che indifferente; prese solo interesse e rise assai nel secondo. Fu però nondimeno nell’uno e nell’altro dei menzionati luoghi replicata, e con sufficiente numero di ascoltatori».[10]

La Crezia rincivilita per la creduta vincita di una quaderna fu un successo fin dal suo esordio, avvenuto al teatro dei Solleciti nel 1823 quando l’autore, due anni prima della pubblicazione, decise di sottoporla all’esperimento della scena:

«Non era che un informissimo abbozzo la Crezia rincivilita per la creduta vincita di una Quaderna. Confortato dal buono ed inatteso successo della Ragazza vana e civetta, posi mano nelle ore di ricreazione a quella, e rendutala, siccome a me pare e ad altri similmente è paruto, regolar commedia di carattere, in cui un incidente nasce da un altro, e le volute unità scrupolosamente si conservano, la sottoposi all’esperimento della scena, affidatala ad una compagnia nazionale che nella primavera dell’anno 1823 recitava nel rammemorato Teatro dei Solleciti. Vi accorsero in folla le persone dei due ordini rammentati di sopra nelle sei sere non disgiunte da intervallo, in che fu essa rappresentata. Non dissimile esito ebbe e nell’Arena Goldoni ed altrove. Ripetuta poi per due sere in Firenze nel detto Teatro degli Arrischiati l’Autunno del 1824 sodisfece ugualmente».[11]

Zannoni non tace le mancanze riguardo al Ritrovamento del figlio:

«È fatta essa sopra un nulla, e frutto è da dirsi del capriccio più presto che di matura considerazione. Non è moto, che nel secondo atto: gli altri due, in ispecie il primo, non han molto interesse […]. Questa commedia nel Carnevale del passato anno fu per tre sere dalla detta compagnia toscana, e nel detto Teatro dei Solleciti, rappresentata. È però da dire che gli uditori della prima sera, che moltissimi erano, troppo non ne rimasero paghi, sì pei notati difetti, e sì per non averla i comici bene ancora mandata alla memoria».[12]

La prima edizione a stampa, le rappresentazioni nei maggiori teatri di Firenze, il buon successo tra gli spettatori, ma anche l’anonimato dell’autore e il sospetto su chi potesse celarsi dietro gli Scherzi, produssero un certo clamore e resero le commedie popolari in città. La lingua degli Scherzi, riprodotta dal parlare del popolo, ma anche solidamente fondata sulle conoscenze linguistiche dell’autore cruscante, suscitò pareri contrastanti. Sebbene dotata di indubbia forza scenica, provocava perplessità se non avversità in chi la vedeva un facile bersaglio per i detrattori della lingua fiorentina, nel pieno del dibattito che si stava svolgendo a livello nazionale. Altri invece, come l’amico ed estimatore Muzzi, incoraggiarono Zannoni a non preoccuparsi delle critiche e a pubblicare tutte le sue commedie.[13]

E così Zannoni fece, spiegando il suo progetto e il suo operato nella citata prefazione alla seconda edizione del 1825. L’autore concretizza la sua idea di commedia con la messa a punto di una scrittura derivata dalla lingua parlata dal popolo più basso; ne elenca punto per punto i «vizi di pronunzia», mentre accenna soltanto a quelli della grammatica vernacolare, che ritiene di non poter correggere perché nell’«emendato volgare […] rimarran sempre i bassi modi e plebei, che il volgare illustre non vuole».[14] Tali aspetti sono oggetto di uno studio di Neri Binazzi che estrapola dalla Crezia rincivilita sia i vizi di pronuncia, che le strutture sintattiche (cioè i «bassi modi e plebei»), individuando proprio in queste ultime, legate all’oralità e a precise modalità intonative, la vera specificità di una fiorentinità linguistica «sottotraccia, eppure in grado per le sue caratteristiche di investire profondamente il tessuto della commedia».[15]

Nel 1829, trascorsi dieci anni dalla prima edizione e dal debutto sulle scene, Zannoni doveva ancora difendere le sue commedie. Scrive a Celestino Cavedoni, suo amico e biografo, che «sono state in dieci anni stampate e ristampate, e non passa carnevale che non sian rappresentate quattro, cinque, e più volte per ciascheduna. Anzi ancor quelli che ne sparlavano qui in Firenze, e sono non pochi e letteratissimi, han finito anch’essi coll’andare a sentirle, e ripetutamente, e congratularsene meco, fingendo di averle sempre applaudite».[16]

Le commedie di Zannoni sono rimaste, però, inesorabilmente legate a un ambito locale. Dopo i primi anni di successo, la tentata trasposizione in lingua e l’‘esportazione’ delle commedie in altre regioni non riesce. Gli Scherzi nei quali la maggior parte dei personaggi parla in italiano (Le gelosie della Crezia e La ragazza vana e civetta) sono meno efficaci della Crezia rincivilita, in cui la forte presenza del vernacolo e il conseguente contrasto linguistico divengono la molla della comicità e gli strumenti efficaci per tratteggiare i caratteri dei personaggi e le dinamiche dei loro rapporti. Come rileva Ugolini nella citata edizione del 1950, Zannoni ha chiuso il suo mondo nei Camaldoli e ha creato il linguaggio per quel mondo; con la trasposizione nella lingua illustre le commedie perdono la loro vivezza perché perdono la loro cornice.

Al di là della mancata diffusione, i motivi di interesse che ancora oggi fanno scrivere della Crezia rincivilita e la portano sulle scene non mancano. Si pensi alle rappresentazioni fiorentine degli anni Novanta del Novecento ai teatri dell’Oriuolo e di Cestello.[17]

Considerata un «piccolo capolavoro di brio e di formale eleganza»,[18] la commedia non nacque in un clima di ricreazione e di disimpegno, come l’abate cruscante voleva far credere (atteggiamento cui la sua posizione forse l’obbligava). Conoscitore del teatro a lui contemporaneo, aveva un’idea precisa di come lo avrebbe voluto ed agì in base a un progetto di cui La Crezia rincivilita rappresenta l’esito più riuscito.[19] Nell’Elogio di Giovanni Gherardo De’ Rossi, poeta e commediografo romano, letto nell’adunanza dell’accademia della Crusca l’11 settembre 1827, Zannoni auspicava pubblicamente la rinascita di una scena comica fiorentina, sostenendo la necessità di allontanarsi sia dai drammi di sentimento che da quelli dove «il servo e il villano moralizza[no] da cattedrante» e invitava i toscani a scrivere e recitare le commedie nel loro dialetto, «pieno di facezie e di sali, e acconcissimo al motteggiare, e al proverbiare».[20]

Nella stessa occasione Zannoni dichiarava il proprio appoggio al progetto, mai realizzato, di alcuni aristocratici concittadini (tra cui Cosimo Ridolfi, Gino Capponi, Pier Francesco Rinuccini) per la formazione di una compagnia stabile a Firenze. I firmatari del progetto, datato 1 marzo 1822,[21] auspicavano la formazione di una società di azionisti appoggiata dal governo fiorentino che assumesse la direzione e il mantenimento di un teatro, quello del Cocomero, nel quale un capocomico e una compagnia fissa di attori, toscani e non, mettessero in scena commedie e tragedie sotto la vigilanza e secondo la scelta di commissioni formate dagli azionisti. Auspicavano altresì la formazione e la pubblicazione di un repertorio di opere da scegliere accuratamente, attingendo anche a quelle straniere solo se adattabili al nostro teatro. L’idea era quella di una vera e propria impresa alla base della quale ci fosse, come condizione indispensabile, una compagnia stabile di attori, ai quali fossero garantiti i mezzi di sostentamento. Riprendendo tale progetto, Zannoni confermava che quello era il «modo unico per affinar gli attori, e il gusto migliorar dell’udienza; […] onde l’ingegno di que’ che sono atti a scriver tragedie e commedie, grandemente si accende».[22] Le riflessioni di Zannoni sembrano evidenziare uno dei motivi della mancata diffusione del suo teatro: all’accademico della Crusca e regio antiquario degli Uffizi ‘in ricreazione’, mancò probabilmente il sodalizio con attori di professione (forse nemmeno cercato o comunque non praticabile data la sua posizione) che sperimentassero sulla scena le sue idee di rinnovamento linguistico e drammaturgico.

Conoscitore e ammiratore di Goldoni, Zannoni compì comunque la sua piccola riforma teatrale scrivendo commedie per un teatro fatto di personaggi ‘reali’ che soppianteranno nel lungo periodo la contemporanea maschera di Stenterello (creata da Luigi del Buono intorno al 1793). Non a caso i fautori della rinascita novecentesca del teatro in vernacolo fiorentino si ispirarono alla sua drammaturgia. Si pensi ad Augusto Novelli che, con la compagnia Niccoli, rivisitò, aggiornandolo, il vernacolo ‘urbano’ di Zannoni,[23] o a Ferdinando Paolieri, che portò in scena il vernacolo ‘rustico’ della campagna intorno al capoluogo toscano.[24] Entrambi, come già Zannoni, utilizzarono la scrittura drammaturgica dialettale come mezzo per indagare la realtà di chi quel vernacolo lo parlava rivelandone il ‘mondo’.[25] Un ruolo, quello di Zannoni, confermato oggi dagli studiosi che individuano in lui, e poi in Novelli e in Paolieri, i fondatori, o i riformatori, del teatro vernacolare.

Nelle quattro commedie di Zannoni la materia sviluppata, così come la struttura dei testi, sono simili. Le vicende si svolgono sempre in microcosmi familiari e cittadini secondo lo schema drammaturgico ordine-disordine-ritorno all’ordine. Le scene, quando non avvengono in interni domestici, si svolgono per le strade del centro storico di Firenze secondo precise coordinate topografiche. I personaggi che incarnano la vera anima di quei quartieri ne parlano la lingua, il vernacolo cittadino; gli altri si esprimono in altre declinazioni del vernacolo (quello rustico) e dell’italiano.

La reciprocità tra lingua e ambiente sociale, se rappresentò un punto di forza negli autori-fondatori del teatro in vernacolo, ha poi portato gli autori vernacolari successivi a vedere garantita l’autonomia del toscano rispetto all’italiano, e la sua più sicura aderenza linguistica, solo all’interno di una dimensione popolare, quotidiana, domestica, dunque ristretta, invariabile, spesso stereotipata.[26]

Ancora in tempi recenti la nuova drammaturgia toscana ha preso esplicitamente le mosse da Zannoni e Novelli. Ugo Chiti, ad esempio, inizia il suo testo teatrale-antologia La Soramoglie  del 1977 dalla Crezia rincivilita, mettendo in scena sia Crezia che lo stesso Zannoni.[27] Rivolgendosi al teatro vernacolare del passato, Chiti ne assembla i testi, collegandoli con interventi di ‘voci critiche’, per creare un percorso storico-didattico attraverso le diverse declinazioni del personaggio della donna-moglie, al centro di tanta drammaturgia toscana; prima però dell’entrata in scena della Crezia, prototipo del personaggio, l’autore pone sul proscenio Zannoni che impartisce una ‘lezione’ sul suo lavoro filologico, per dimostrare che la nascita del personaggio-modello della popolana, che anima due commedie zannoniane, «coincide con quella del moderno dialetto toscano in uso teatrale».[28] Riconoscendo l’abate, ancora una volta, creatore di quel teatro insieme a Novelli, Chiti evidenzia le carenze drammaturgiche a loro successive e avvia la difficile ‘riabilitazione’ del dialetto toscano ammettendolo nell’ambito del teatro d’autore.     La Soramoglie, infatti, è considerato il prologo al teatro successivo di Chiti e al suo progetto di ricerca di un nuovo linguaggio teatrale, e costituisce una sorta di ricognizione sulla materia trattata oggi da autori che, nelle loro diversità, usano la lingua toscana come denominatore comune «credendo nelle sue potenzialità di lingua teatrale a tutto campo».[29]

Prima degli Scherzi comici: le commedie per marionette 

L’originaria stesura degli Scherzi comici precede però di qualche anno le edizioni a stampa, così come la loro storia scenica inizia prima della presentazione della Ragazza vana e civetta nell’estate del 1819, da parte degli alunni di Morrocchesi, sulla scena del teatro Goldoni.

Nelle prefazioni alle prime due edizioni Zannoni scrive, infatti, che le sue commedie erano già state rappresentate in altre occasioni e con altre modalità sceniche, ‘confessando’ di averle composte per allietare le ore di svago suo e di «alcuni riguardevoli soggetti dedicati per professione alle scienze»[30] che si dilettavano a fare le «parti» in un teatrino di marionette. Per questo tipo di svago aveva pensato a un «nuovo genere di comica rappresentanza»,[31] più adatto alle marionette altrimenti noiose, ispirandosi alle ‘scene’ che si svolgevano nelle strade dei Camaldoli fiorentini e alla lingua che vi si parlava. Racconta, inoltre, come quelle rappresentazioni avessero suscitato molta attenzione, tanto che «se ne parlava nei crocchi e nelle conversazioni […]. Molte persone distinte, massime per cultura d’ingegno, vollero recarsi a vederle».[32]

Zannoni non fece i nomi dei compagni, «d’altronde alla città notissimi», per non renderli bersaglio delle critiche «di quelli, che affettando gravità, comparir vogliono alieni da tutto ciò che è scherzevole e puerile».[33] Pur essendo solo ipotizzabile il contesto nel quale avvennero le rappresentazioni con le marionette, le velate parole dell’abate sembrano ricondurre all’ambiente accademico.

Il ‘drammaturgo’ era membro di numerose accademie[34] che, come è noto, promuovevano e producevano quel teatro che, talvolta, si può considerare uno dei filoni produttivi caratteristico della cultura fiorentina di antico regime. Tuttavia il confine tra il teatro dei dilettanti e quello dei comici professionisti è sfumato e ricco di scambi e interferenze. Le commedie di Zannoni sembrano nascere in ambiente accademico, attirare altre categorie di spettatori rispetto alla ristretta cerchia di affiliati e amici per approdare, successivamente, ai teatri pubblici.[35]

Riguardo a queste rappresentazioni, Emilia Ceccherelli ha rintracciato nell’epistolario di Zannoni un’importante lettera di Sebastiano Ciampi datata 1813. La scherzosa epistola scritta da Pisa, precedente di sei anni la prima edizione e rappresentazione degli Scherzi in teatro, accenna alla particolare attività dell’abate fiorentino. Ciampi, dopo essersi compiaciuto con l’amico per l’«impiego di poeta da Teatro Camaldolese» che sicuramente gli avrebbe reso «più piacevole il mestiere d’antiquario», critica la Chiesa pisana, che sarebbe stata meno tollerante rispetto a quella fiorentina nei confronti di un prete «capocomico».[36]

È molto difficile ricostruire la vicenda di queste rappresentazioni, avvenute in una dimensione privata e appena menzionate dall’autore che invece anni dopo, seppur celato dietro all’anonimato (più formale che reale), sarà prodigo nell’analizzare le commedie date alle stampe e nel raccontare le rappresentazioni nei teatri pubblici. Riguardo alle serate intorno al teatrino, nelle quali era coinvolto in prima persona in quanto ‘poeta’ e ‘capocomico’ (probabilmente manovrava le marionette, dava la voce a qualche personaggio e istruiva gli altri suoi colleghi), Zannoni scelse la riservatezza.

Ora le parole dell’abate trovano piena conferma nel ritrovamento di quei testi per marionette, tra cui spicca l’«informissimo abbozzo» della Crezia rincivilita prima di diventare «regolar commedia di carattere».

La Biblioteca Roncioniana di Prato ha acquistato nel 1866 una serie di volumi e carte di Giovan Battista Zannoni.[37] I materiali, per la maggior parte manoscritti, riguardano soprattutto le attività pubbliche e professionali dell’abate: lettere, spogli di libri, studi linguistici, archeologici (questi ultimi completati talvolta con disegni dei reperti studiati), di algebra e di geometria, iscrizioni antiche a stampa o copiate sul campo e commentate, un trattato illustrato di geografia universale, l’inventario della sua libreria redatto dopo la morte. Tra quelle carte sono conservate anche alcune poesie (come gli inni in onore di Innocenzo XI), trattati di teologia dogmatica, prediche e sermoni sacri, elogi e iscrizioni funebri, come quella per la morte del granduca Ferdinando III (18 giugno 1824), le cui esequie solenni furono officiate anche da Zannoni in santa Felicita. L’attività di commediografo, non privata ma certamente non ufficiale, è documentata da tre brevi commedie manoscritte su fogli di carta celestina cuciti in altrettanti fascicoli, ovvero Le gelosie della Crezia. Commedia camaldolese in due atti del Sig. G. B. Z. per le Marionette di Casa Marchionni. 1812. (42 pagine complessive numerate in modo alterno dalla 2 alla 21), La Camaldolese  Rincivilita. Commedia del Sig. G. B. Z. in tre atti. 1812. per le Marionette di Casa Marchionni (38 pagine complessive numerate in modo alterno dalla 2 alla 20), Il bene imprevisto derivato dal manifestare un segreto ossia il figlio creduto morto e impensatamente ritrovato. Commedia Camaldolese pe’ Burattini del Teatro di Casa Marchionni. 1812.(54 pagine numerate in modo alterno dalla 2 alla 27); sui frontespizi delle tre commedie, in alto a destra, la scritta «originale».[38] Si tratta di tre dei quattro Scherzi comici (manca il manoscritto de La ragazza vana e civetta) che saranno pubblicati a partire dal 1819.

Elemento nuovo, oltre l’anno 1812,[39] è l’indicazione del luogo delle rappresentazioni, cioè «Casa Marchionni». Questo dato, taciuto poi dallo Zannoni nel presentare le edizioni a stampa, conferma la dimensione privata e salottiera, signorile (se non aristocratica) e culturalmente elevata nella quale furono rappresentati (ma anche creati) gli Scherzi.

La ricerca dei Marchionni, nome molto diffuso in città ad ogni livello sociale, o di casa Marchionni (non sempre il nome della casa coincide con quello della famiglia che la occupa), ha condotto in varie direzioni. Un dato certo è il contesto privato, sia che si tratti di un luogo così denominato, che di una famiglia che apriva la propria dimora per le rappresentazioni marionettistiche. Questa circostanza, ed è un altro dato certo, non ha impedito l’uscita dal palazzo degli Scherzi comici, confermando la reciprocità fra i vari livelli della teatralità cittadina. I testi creati per le marionette, quali precedenti delle commedie che di lì a qualche anno saranno pubblicate e rappresentate nei teatri fiorentini, sono il punto di partenza della drammaturgia in vernacolo e, quindi, quel teatrino privato è il tramite per la sua, seppur limitata e discontinua, diffusione. In questo caso, infatti, come in altre realtà italiane del tempo, la produzione di testi in vernacolo fu realizzata per i signorili teatri delle marionette, se non per quelli più popolari dei burattini, i quali furono i mezzi per il rapido passaggio degli stessi testi (ampliati e corretti come nel caso dello Zannoni) nel teatro di attori.

I copioni per le marionette sono fortemente caratterizzati dal compromesso fra realismo e convenzioni della Commedia dell’Arte. Un tratto che viene attenuato nella riscrittura per gli attori e per la stampa, in cui l’autore interviene sulla lingua e sullo svolgimento delle vicende, arricchendole talvolta con l’aggiunta di scene e personaggi.

Se il mondo a cui guarda Zannoni è la realtà più popolare di Firenze e i personaggi che incarnano la vera anima di quei quartieri ne parlano la lingua, vi si trovano gli espedienti del travestimento e dei fraintendimenti linguistici (La Camaldolese  rincivilita), degli scambi di persona (Il bene imprevisto derivato dal manifestare un segreto ossia il figlio creduto morto e impensatamente ritrovato), delle identità non rivelate (Le gelosie della Crezia), consueti nei canovacci dell’Arte. Anche i personaggi e i loro nomi si rifanno alla tradizione comica. Al centro di due commedie è Crezia che, già ruolo della Commedia dell’Arte,[40] viene elevata da Zannoni a protagonista e descritta ‘realisticamente’ come una donna dei Camaldoli «ciarliera e di caldo temperamento».[41] Sulla scena delle marionette è affiancata, ancora, da servitori che si chiamano Mangia-sorci e Succia-pere (Le gelosie della Crezia), mentre l’impostore più furbo che imbastisce il raggiro nella Camaldolese rincivilita è il Maestro, e il bellimbusto esecutore dell’inganno si chiama Cavaliere Spavento (nomi che saranno cambiati nelle edizioni a stampa).


Una Crezia inedita 

La commedia per marionette La Camaldolese  rincivilita quando viene rielaborata per la stampa con il titolo La Crezia  rincivilita per la creduta vincita di una quaderna è sottoposta a una revisione profonda ad ogni livello, sia linguistico che contenutistico.

In entrambe le versioni l’intreccio prende le mosse da una vincita di Crezia al gioco del lotto. Questo, già diffuso nel granducato al tempo di Zannoni, rappresenta l’unica possibilità di elevazione sociale per una famiglia dei quartieri popolari. Nella commedia per marionette la grande fortuna di Crezia viene però vanificata dall’imprudenza del marito Giandomenico che, attratto dalla promessa di un guadagno sicuro, consegna la vincita a un individuo senza scrupoli che poi fallisce e perde tutto. Lo smodato desiderio di cambiare vita da parte di una donna dei Camaldoli, improvvisamente concretizzato con la vincita, e la prepotenza con la quale agisce con tutti coloro che la circondano per raggiungere il ruolo di ‘signora’, consentono a Zannoni di creare una serie di situazioni comiche fino a quando, con la perdita altrettanto repentina di quanto miracolosamente ottenuto, tutto rientra nella normalità non senza lieto fine e chiusura morale.

Nella stesura pubblicata, già ricevuta una parte della vincita e dissipata da Crezia nella bramosia di ‘rincivilirsi’, arriva in famiglia la notizia che per un errore del prenditore (l’odierno ricevitore), rilevato solo dopo il riscontro della cartella a Parigi,[42] in realtà è stato realizzato solo il terno.

Gli impostori Maestro e Cavaliere Spavento, nella versione per marionette, vogliono semplicemente approfittare della vincita di Crezia e non appena vengono a conoscenza della perdita del denaro si dileguano immediatamente, dopo aver rivelato a tutta la famiglia (riunita per il finale della commedia) le loro identità e i loro progetti alternativi (andare in piazza a levare i denti e a vendere il balsamo, adunando la gente con storielle e musica). Nella stesura successiva i due raggiratori affiancati dal servitore, saputo della mancata vincita, provano a farsi ladri, svuotando la casa di Crezia, e falsificatori di firme intestando una cambiale a proprio favore, ma vengono smascherati e finiscono in prigione.

Questi e altri cambiamenti sono significativi in quanto modificano l’agire dei personaggi. Nella seconda versione alcuni di essi sono delineati con più cura e precisione; fra tutti il marito di Crezia che, già elemento fondamentale, viene rafforzato come carattere in contrasto continuo con quello della protagonista e reso così più efficace nel fare emergere chiaramente pregi e difetti della consorte.

Oltre ad aumentare considerevolmente le scene (da 17 a 48), anche i personaggi passano da 9 a 11 (compaiono l’usuraio e un servitore, nella prima versione solo evocati) assumendo nomi diversi. Il cognome di Crezia da Mangani diventa del Chiacchiera, mentre il marito Giandomenico Benuti diviene Saverio Lasciafare e sono modificati i nomi della figlia, del suo innamorato, dell’amica e degli impostori; per uno di questi – Cavaliere Spavento nella versione per marionette, poi Roberto – è chiara l’allusione a una parte della Commedia dell’Arte (il Capitan Spavento da Vall’Inferna portato sulle scene da Francesco Andreini dalla fine del Cinquecento). Ma non è un riferimento isolato, né limitato alla scelta dei nomi: la forte presenza del plurilinguismo lega esplicitamente questa versione per marionette all’illustre fenomeno storico non ancora tramontato quando Zannoni scrive.

 

L’autore, il cui intento principale è «mordere, in ispecie colla potentissima arme del ridicolo, il pregiudizio e la malvagità del costume»,[43] utilizza per il suo scopo i diversi piani linguistici presenti in una società dalla molteplicità di culture e dai forti dislivelli sociali. Alcuni personaggi ostentano la propria cultura o il proprio ceto elevato, veri o fasulli, attraverso lo sfoggio esagerato, e per questo comico, di erudizione linguistica. È il caso dei truffatori che Zannoni fa parlare, mettendoli costantemente in ridicolo, nella lingua dell’occupante francese (le commedie sono datate 1812) oppure in latino, mentre Crezia cerca l’elevazione sociale non soltanto cambiando abiti, cibo e casa (si trasferisce da via Sguazza in Oltrarno alla prestigiosa via Larga), ma anche sforzandosi, maldestramente, di adeguarsi alla lingua dei ‘signori’.

Ma la vera peculiarità di questa commedia, rispetto alle altre, è l’uso del vernacolo che, parlato dalla maggior parte dei personaggi, dà vita a un dialogo fatto di battute spontanee, pungenti e incisive capaci di dare più forza alle situazioni comiche. Per la riuscita delle sue commedie l’autore ritenne indispensabile, infatti, far parlare i personaggi come nella realtà e per questo dovette «adattar la scrittura alla pronunzia e quella far viziosissima»,[44] precisando di non avere inventato una lingua, ma di avere ‘solo’ ascoltato parlare i suoi concittadini dei quartieri popolari e di avere trascritto ciò che aveva sentito. La Camaldolese  rincivilita per marionette può essere considerata il primo passo verso il più felice esito dell’idea zannoniana.

Quando la commedia esce dal teatro di marionette e dal palazzo frequentato da lui e dai suoi pari, l’autore sente l’esigenza di far scomparire gli arditi giochi linguistici puntando tutto sulla contrapposizione tra la lingua della plebe, che muta in base alla provenienza cittadina o campagnola dei personaggi, e l’italiano, mantenendo anche per quest’ultimo, a seconda di chi lo parla, le gradazioni del ridondante, del forbito e del rozzo. Mentre abbandona il plurilinguismo, Zannoni rielabora e disciplina l’uso del vernacolo modificandone, in certi casi, l’ortografia (segno della difficoltà di scrittura che, per le incoerenze e le eccezioni nel parlato, gli causò «molta pena»[45]e impegnerà anche gli autori dopo di lui).

Le ragioni della revisione linguistica e di contenuto delle commedie di Zannoni, come di altri autori dei quali ci sono pervenute doppie stesure delle stesse opere, sono da ricercare nelle diverse occasioni rappresentative per le quali furono create o rielaborate.[46]

Nella commedia per marionette il contrasto tra il vernacolo dei quartieri più popolari della città parlato da Crezia, quello meno accentuato di suo marito Giandomenico (che frequenta il bidello del Magistrato supremo), il vernacolo ‘rustico’ del figlio Paolino (allevato dai contadini) e l’italiano esageratamente forbito fuso col francese e il latino e farcito di citazioni colte (magari deformate) parlato dagli impostori (Maestro e Cavaliere Spavento) produce incomprensioni e, di conseguenza, ilarità. Tuttavia solo gli eruditi, ai quali era inizialmente riservata la commedia, potevano apprezzare fino in fondo i giochi di parole, i fraintendimenti, i doppi sensi di questa piccola babele dai tanti livelli linguistici quanti sono i personaggi. Inoltre la dominazione francese è finita quando si stampa la commedia e l’uso di quella lingua a fini comici poteva risultare inadeguato.

Forse proprio la riflessione linguistica in senso realista, cui Zannoni sottopone la commedia per consegnarla agli attori, è alla base della maggiore complessità delle situazioni e dei caratteri dei personaggi, non delineati più solo dai contrasti innescati dai molteplici, e talvolta assurdi, piani linguistici.

Ma Zannoni, probabilmente, cerca di compiere il salto di qualità rispetto a una forma tutto sommato arcaica di spettacolo, affrancandosi dalle marionette e dalla Commedia dell’Arte e cercando di approdare alla «regolar commedia di carattere». 

 

Nota al testo 

Per la prima volta si propone la maggiore commedia di Zannoni nella versione per marionette datata 1812. Per la trascrizione si sono scelti criteri sostanzialmente conservativi allo scopo di mantenere inalterato il testo creato appositamente per la forma di spettacolo cui era inizialmente destinato e poter rilevare le differenze rispetto alla stesura che l’autore avrebbe rielaborato per la messa in scena in teatro (1823) e per la pubblicazione (1825).

Si mantengono tutti gli incostanti ‘vizi di lingua’ della plebe fiorentina secondo Zannoni, rispettando le frequenti oscillazioni nella grafia delle stesse parole anche se pronunciate dal medesimo personaggio (es.: ache / ate per avete; figliola / figghiola, figliolo / figghiolo per figlia, figlio; mi’ / me per mio, mia; nun / un per non; andaa / andaca per andata; ghi / gli per gli). I pronomi possessivi quando diventano me, to, so sono stati uniformemente trascritti senza l’apostrofo.

Anche le parti in francese e in latino, scomparse dalla commedia pubblicata salvo qualche battuta in latino, sono state trascritte fedelmente.

Si sono lasciate inalterate le unioni di parole (es.: dapponqua per da un po’ in qua; dibborgo per del borgo) in quanto particolarità dello Zannoni nella scrittura del vernacolo (talvolta criticata), così come le divisioni di alcuni avverbi (es.: ne anche per neanche; in somma per insomma).

Si è rispettato il modo di scrivere n’un / n’una per in un, in una e si è mantenuta l’oscillazione nell’uso dell’apostrofo dopo la e quando vale per l’articolo plurale maschile i o come riempitivo (es.: Atto I, scena 1, battuta 5 Giandomenico: E’ quattrini e’ son di molti).

Si è invece inserito l’apostrofo, dove mancante, nei casi di caduta della lettera, soprattutto la v, all’inizio di parola (es.: oglio > ’oglio per voglio; oi > ’oi per voi); lo stesso nei casi di caduta della sillaba iniziale (es.: gna > ’gna per bisogna) o finale (es.: vo > vo’ per voglio). Anche se si tratta di un’altra caratteristica della grafia zannoniana, in questo caso si è ritenuto di intervenire per facilitare la lettura.

Sono stati separati il soggetto e il verbo nelle forme interrogative vuoi…?, hai…?, inserendo in quest’ultimo caso la lettera h (es.: votù > vo’ tu; atù > ha’ tu), così come è stata separata la forma gliè > gli è (e ghiè > ghi è).

Le iniziali maiuscole degli appellativi e titoli (Signor, Eccellenza, Cavaliere) sono state mantenute, mentre si sono sciolte le abbreviazioni (es.: Sig. > Signor) e le tachigrafie (usate per scrivere non, per, perché); si è uniformata la j finale in i (es.: novizj > novizi) e si è provveduto a eliminare gli accenti degli avverbi di luogo (es.: quì > qui).

Si sono corrette le poche inesattezze di scrittura, che si presenta generalmente veloce, talvolta imprecisa e di difficile lettura per le macchie di inchiostro e la trasparenza dei fogli sottili compilati recto e verso. Le parentesi quadre all’interno del testo indicano integrazioni per parole mancanti o lacune per parole illeggibili.

Per agevolare la lettura si è rivista in pochi casi la punteggiatura, salvo mantenere l’eventuale assenza della segnalazione interrogativa che, come rileva Binazzi nel citato studio sulla commedia pubblicata, denota l’attenzione di Zannoni nel perseguire le effettive modalità intonative del parlato. Si sono, infine, introdotte le note per rendere comprensibili alcuni termini e modi di dire.

Sono stati utilizzati soprattutto i seguenti dizionari:

Il vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, Giovanni Alberti, 1612, anche in edizione online.

P. Fanfani, Vocabolario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1855 e Id. Vocabolario dell'uso toscano, Firenze, Barbéra, 1863 (rist. anast. Firenze, Le Lettere, 1976).

N. Tommaseo-B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, Società l’Unione tipografico-editrice, 8 voll., 1861-1874, parzialmente online.

Accademia della Crusca, Vocabolario del Fiorentino Contemporaneo


La camaldolese rincivilita,
Commedia del Sig. G. B. Z., in tre atti, 1812, per le marionette di Casa Marchionni
 

Personaggi:

Crezia, moglie di Giandomenico Benuti

Carmelitana e Paolino, i loro figli 

Piero, contadino

Ticca, amante della Carmelitana

Maestro e Cavaliere Spavento, raggiratori

Caterina, vecchia amica della Crezia

La scena è in Firenze nella casa della Crezia.[47]


Atto I 

I 1
Crezia e Giandomenico.

Giandomenico:
Crezia mia, s’i’ t’ho a dir la verità mi trovo impicciato con questi panni. I’ er’avvezzo a andare in carniera, ora che la decenza vuole ch’i’ vada in giubba, mi par d’aver le pastoie.

Crezia:
Che vo’ tu fare; pensa a il grado che no’ siamo. Bisogna far di necessità virtue. Anch’io ti vo’ dire che avvezza com’i’ ero a andare sciabbiaca,[48] ora così vestica e’ mi pare d’esser ritornaca in fascia. Più di tutto e’ mi dà noia il capo. Tutti questi diaoli che la m’ha messo la crestaia,[49] e’ mi pungano che ghi assaettano. E poi i’ sento sempre un prudore ch’e’ pare ch’i’ abbia una mezzetta[50] di quegli animalini. Tu puo’ creder s’i’ patisco. E un conviene a il nostro grado di grattarsi com’i’ faceo in via Sguazza. Ma questa, eh Benuti, la non è una casa a garbo? I’ non fo per rimproerartelo, ma se tu sei il sior Benuti tu lo siei per mene. S’i’ nun giocao quella cartina e’ non si vincea tutti que’ quattrini, ... quanto Benuti?

Giandomenico:  
Sedicimila scudi.

Crezia:  
Che beil monte eh, Benuti! E’ un si potran finir mai. Di’, c’entrerebbegghi un po’ di strascico, un po’ di carrozzuccia; ailmeno una timonella com’e’ dottori. C’entrella eh?

Giandomenico:  
La c’entra; ma bisogna veder per quanto. E’ quattrini e’ son di molti; ma leva leva ogni gran monte scema. Anzi, a dirtela, i’ ho dato retta a un signore il quale me gli ha chiesti a cambio. Gli è un signor co’ baffi.

Crezia:  
A si gli è co’ baffi, perché t’ha egli detto che tu ghi dia e’ quattrini a guadagno?

Giandomenico:  
E’ lo fa per ben mio. E’ m’ha detto che in due o tre anni i’ gli consumerei tutti. E lo credo sai. Perché no’ altri che non siamo mai stati avvezzi a aver quattrini e’ si crede quand’e’ se ne vede, che non abbino a finir mai. Ora lui gli ha presi tutti e mi dà il 36 percento. Sicché tu vedi che n’abbiamo un’entratina di quasi se’mila scudi l’anno. E allora e’ c’entra anche la carrozza.

Crezia:
Bravo Benuti. Ma ha’ tu fatto bene il conto?

Giandomenico:
Non pensare che va benissimo.

Crezia:  
Ma di’; in cucienzia che si pole dar’a frutto e’ cattrini a tant’interesso?

Giandomenico:  
Si, non aver paura. Che non lo fanno gli altri? E’ si pole anche al 40. Eppoi i’ non gliegli ho chiesti; lui gli è stato che megli ha offerti.

Crezia:  
Ahenne coreste ee,[51] t’ha’ ragione. ’Gna pensare anche a metter sue un po’ di servitue.

Giandomenico:  
A poco alla volta si farà tutto. A proposito, quel maestro che dee insegnare a Paolino quando verraegli?

Crezia:
I’ ho dato ordine ch’e’ venga in tutt’il giorno. Giandomenico grattami nelle rene un poco ora che nessun ci ’ede. Dianzi che tu un c’eri i’ son andaca alla sogghia dell’uscio.

Giandomenico:
(la gratta)

Crezia:
Serra serra, tu mi sbrani, bada ail floscine. Egliene egliene… aiutami a dillo… di… di…di fil[…]. Ghi è sottile com’una tela di ragno. I’ bubbolo da il freddo. I’ er’avvezza (tu lo sai) a tener sullo stomaco il floscine a do’ doppi; ma a poco alla ’oilta i’ ci farò l’uso. … Seguitiamo il nostro discorso. Com’i’ diceo il maestro verrae in tutt’il giorno. E Paolino quando torneraegghi da’ nocenti. A proposito, che tu nun dicessi che e’ s’è ripreso da’ nocenti. T’hai a dire che ghi è staco fin qui da un so zio in Maremma.

Giandomenico:  
Non ci pensare. Del resto mi confondo che Paolino a quest’ora non sia qui. Il balio e’ mi scrisse che alle 10 sarebbe stato a Firenze.

Crezia: 
E ora che or’è egghi? Guarda un po’. (gli accenna un oriolo spropositato, che avrà accanto)

Giandomenico:  
Gli è dieci ore e 5 minuti.

Crezia:
Come ghi arria ’gnarà gridallo, ailmeno per non parere. Ora che no’ siam Signori ’gna sgallettare un poco.


I 2
Paolino, Piero balio e detti.

Paolino:
(di dentro) O doe mi conduceche ’oi. Do’ egli quest’altro me pae che vo’ m’ate ditto?

Piero:
Pazienza; Roma la non fu fatta n’un giorno.

Crezia:
O Benuti ha’ tu sentico? Ghi arebbe a esser Paolino. Quil villano spicciamolo presto. Dagghi da mangiare e una lira e mandalo via.

Giandomenico:
Tu di’ bene.

Piero:
Eccogli lae, to pae e to mae veri.

Crezia:
Come c’entregghi to pae e to mae? Villanaccio. Che si dà di tue a il Signor figghiolo di Sue Accellenze Lugrezia e Giandomenico Benuti?

Piero:
Scusatemi, i’ sono un uomo rozzo.

Crezia:
E io ti farò piallare, o Paolino vien qui, dammi un bacio.

Paolino:
Che gne n’ho a dare, eh me pae. (a Piero)

Crezia:
Noe, e un [è] lui to pae, ghi è quie il Sior Giandomenico Benuti.

Piero:
Animo la vadia Signor Paolino.

Crezia:
Vieni vieni Paolino. Ghi è secco questo bambino; come vo’ l’ache tenuco male?

Piero:
No’ siam poera gente.

Crezia:
Non v’hai da credere ch’ i’ v’arei rimeritaco.

Piero:
Ma io non sapeo veramente che neanche la ci fossi ail mondo.

Crezia:
Come vu non ahe mai sentico nominare la famigghia Benuti?

Piero:
Accellenza noe; i’ nun l’ho ma’ sentuta alluminare. Ma la Signoria e un son pochi dì che l’è arricchica?

Crezia:
Che v’importegghi cercar queste brache. V’andereche in cucina e vo’ fareche culazione; e poi vi si darà la mancia e potreche ritornare adagio adagio a casa ’ostra. Ma per tornare un passo addreco, ora ch’i’ me ne ricordo; perché sieche voi arriato qua alle dieci e 5 minuti, quando vo’ scriesti a il Benuti, a Sua Eccellenza Benuti, voleo dire, che vo’ saresti arriaco alle 10.

Piero:
Accellenza, cinque minuti più o meno tra noi e un contano. Tra lor ailtri Signori Accellenze i’ non lo soe. A mene imperoe e’ un pare un grand’erro.

Crezia:
Pe’ noailtri Signori 5 minuti son dimolti. Mala cosa vo’ un poteche sapere quanto e’ concrudino 5 minuti per noi che s’ha tante cose da fare. Che per dispolle tutte tutte e ci vole proprio la testa dil biancone.[52] Bisogna proprio esser avvezzi. Dio guardi a esser novizi nell’accellenzatura.

Giandomenico:
(Grandonna che l’è la me moglie. La sa proprio far bene da signora). Galantuomo andate in cucina; che ora verrò io o la me moglie a davvi un po’ di cacio.

Crezia:
E’ verrà lui o io, perché il servitore ghi è ito ai mercaco. Ghi [ha] a provveder dimoilta roba e gli starà un pezzo imperoe.

Piero:
(L’arebbe a ’i bene. E’ si principia dimoilto male. Basta mi daranno una bona mancia).

Paolino:
Vengo anch’io eh? a mangiar il cacio.

Crezia:
’Gnor noe, lei l’ha a star qui. Ghi paregghi mangiar il cacio, e poi a far culazione con un contadino.

Piero:
La si ricordi che ora l’è Accellenza. La prego a aere in memoria il so balio.

Paolino:
Si v’aroe in memoria. Si i’ v’aroe. Me ne ricorderò sempre finché i’ campo, e vorrò sempre più bene a voi che a quest’altro babbo.

Crezia:
Voleche ’oi andar a mangiare ancora. Levachevi di quie; vo’ nun vedeche che Paolino ghi ha più attenzione a voi che a mene e a Sua Accellenza Benuti?

Piero:
Accellenza sie, i’ vo’ ire. (parte)

Giandomenico:
Eccomi anch’io.


I 3
Crezia e Paolino.

Crezia:
O vien qua il mio caro Paolino. Raccontami un poco chicche tu facei fra que’ villanacci.

Paolino:
I’ non vo’ dir nulla, i’ non voe. I’ voglio andar da il me pae Piero. I’ non ci vo’ più stare in questa casa. I’ vo’ andare a Quaracchi a veder la me mamma Sandra, e la sorellina Pippa. I’ vo’ riedere il me gattino e […].

Crezia:
Sii bono Paolino. Anche qui tu trovi una sorella. Ti compreroe un canino e un gattino. T’andera’ in carrozza. Tu mangerai de’ cibi scerti.

Paolino:
Noe, a mene e’ mi piace d’andar su il carro e di manicare i fagioli, la pulenda e la minestra di caolo.

Crezia:
Anch’io i’ er’avvezza, a dirtela, a que’ cibi; ma la possibilitae e [la] goletta la m’ha[n] fatto accostumare a quegghi che son meglio. Ah vieni intanto a girar la casa e tu vedrai la bella camera ch’i’ t’ho preparaco.

Paolino:
I’ viengo; ma i’ vo’ veder Piero.

Crezia:
Sì, e’ lo ’edrai. (partono)


I 4
Strada. Il Ticca e la Carmelitana.

Ticca:
Io ho il capo in campana proprio. Dapponqua che la Crezia l’è arricchita, la non mi vuol più dar la sua figlia, che già la m’avea promessa. Per me se la ragazza persiste ni volermi, i’ farò di tutto perché la sia mia. Se poi la non mi vole ne anche lei, farò qualche pazzia. O m’impicco, o mi butto in Arno, o nel pozzo, o mi butto giù dalla cima d’un campanile. Gli è più di un mese ch’i’ non l’ho vista. E’ m’hanno detto che l’è torna qui oltre. Vo’ provare a fistiare secondo il solito. (fischia)

Carmelitana:
O Ticca che se’ te.

Ticca:
Sì son io Signora Carmelitana.

Carmelitana:
Sie striscia la Signoria.[53]  Un me ne far piue, guà.[54] Ghi ha la Signora: pane e torsoli e gusci di nocciola.

Ticca:
Che lo so io? I’ non so se tu degni più i poveri ora che tu sie’ diventata ricca.

Carmelitana:
Per mene i’ son sempre la stessa. O tene, o nessuno. Me pae gli storce; ma la peggio l’è me mae. La non vole a tutti i costi. La s’è messa in capo gran cose da po’ ’nquae che l’ha vinto a il lotto. Se i’ te l’ho a dire com’i’ la sento, i’ ho paura che un s’abbia a ritornar baroni come prima.[55] Per mene i’ non mi ci so attenere. E per quanto e dichino che a passar da il peggio ail megghio ognun s’adatta, a mene un m’ha fatto nessuna ’mpressione. Il to viso, bestia budellone, e’ me la fae. Il giorno i’ t’ho sempre in mente, e la notte i’ t’ho sempre ’n visione, seppure i’ un giro il letto senza poter dormire pensando a tene. Senti i’ te la vo’ dire: l’esser innamoraca per un verso l’ene una bella cosa; ma per un ailtro l’è una gran tribolazione e un grande sturbo di macchina. I’ son dienuta maghera, spenta. I’ non trovo più la ’ia a laorare (fortuna che non c’è più il bisogno che ci pressi), i’ non mangio, i’ non beo, i’ non dormo. E tue tu seguiti a aere una cera da ’mperatore. Si ’ede bene che non te n’importa più nulla della Carmelitana.

Ticca:
Perché mi mortifichi tu così? Se tu sapessi quant’i’ ho girato per ritrovarti! Domanda a quella, e la mi dicea: oh! la Benuti la non istà più fra’ poveri. La non ha neanche detto dove l’è torna. Domanda a quell’altra, e la mi dicea: Ticca mio i’ lo so dove la sta; ma i’ non te lo vo’ dire; non ostante la Carmelitana la non è più ciccia pe’ to denti. E’ voglian maritarla a un cavaliere.

Carmelitana:  
A un caaliere? Tu se’ il me caaliere, e io son la to dama.


I 5
Crezia che vien furiosa e detti.


Crezia:
La so dama l’ene? Va’ ’ia e non aer più l’ardire ne anche di passar di quie; anzi ne anche di guardarci se tu ci troi fora.

Ticca:  
Ma voi non mi avete più volte promessa la mano di Carmelitana?

Crezia:
Ah il promettere l’è una cosa, e il mantenere l’è un’ailtra. I’ son Signora, e’ Signori e’ mantengan la parola solamente quando la gli torna. Tu se’ spicciaco. Ti paregghi d’aere a aere la me figliola? Ah la sarebbe assetta[56] a maritarsi a un trippaio! L’occasione per la me figghiola la c’ee. C’è il caaliere Spavento che me l’ha fatta chiedere un quarto d’ora fa per il maestro del me figghiolo Paolino. Lui l’ha da aere. Le cicce della me figghiola le son proprio da caaliere e non da trippaio. Tu se’ spicciaco va’ ’ia. E te pettegola a dagghi retta! Serra la finestra e mettiti a far la cailza; altrimenti s’i’ torno sue i’ ti do le lecche[57] in maniera che tu non l’arai ma’ sentite.

Carmelitana:  
Sentiche me mae; a ogni modo i’ vo’ il Ticca.

Ticca:  
E io vo’ te la me cara Carmelitana.

Crezia:  
E io standarò un ordine da il commessario, che vi proibisca anche di passar di quie.

Ticca:
Crezia, non istancate la mia sofferenza; altrimenti…

Crezia:
Che vorresti tu fare? I’ non ho paura né di tene, né di cento come tene. Ha’ tu capito. I’ son capace d’attagliolarti il fegato, di sbranarti con queste mane, di fatti in minuzzoli sicchene il pezzo più grosso sia un orecchio.


I 6
Giandomenico e detti

Giandomenico:
Che chiasso fate voi? Crezia […]. Ricordati chi sei.

Crezia:
Ah Benuti mio t’ha’ ragione. Chi sa chi m’ha visto; chicche gli ha detto di mene. Ah una persona ’ducata come mene! che essere! che vergogna. Poera accellenza doe se’ tu ita. Ma se ghi è costui che mi fa entrare in bestia. Va’ via. I’ mi ritiro perché la decenza non vuole ch’i’ stia più qui.

[Fine Atto I]


Atto II 

 

II 1
Crezia e Giandomenico.

Giandomenico:
Ma Crezia mia che danni mi fa’ tu? Ti paregli che si convenga l’andare a schiamazzar nella strada? Ricordati che no’ siamo in via Larga e non più in via Sguazza.

Crezia:
T’ha’ ragione. Tu mi rimproeri con tutt’il motio. Ma che vo’ tu; no’ siam principianti nell’accellenzatura. Di cheste cose ne scapperanno dell’ailtre. Ma a proposito di quella figliolaccia, che vol per forza il Ticca, che se n’ha egli a fare? Piuttosto in Arno che dalla a colui. Mi parrebbe d’aer le corna a dieci pailchi si l’aessi a maritare a quell’omo di basso rilieo.

Giandomenico:
Io ho pensato al rimedio. E’ mi parrebbe bene che e’ si dicesse a il maestro che la scaponissi,[58] e che la persuadessi a pigliare il Cavaliere Spavento che ci ha già esso proposto. Che te ne paregli di questo pensiero?

Crezia:
E’ mi par che tu pensi bene. Che te ne paregghi eh di quil maestro? I’ lo credo un omo a modo io. E poi e’ mi pare che la sappia lunga. Ha’ tu sentico dianzi come gli andaa ’ia a taola. L’hanno a essere tutte cose subrimi, perch’i’ non intendo una saetta.[59]

Giandomenico:
Io qualche cosa ho raccapezzato.

Crezia:
Ine lo credo: tu se’ staco sempre co’ il bidello dil Magistraco Supremo. Gli era un omo che tienea abbricco tutti. Anche que’ parrucconi de’ senatori gli andaan delle ’oilte da lui prima di sentenziare, e lui e gli digeria.[60] Ma s’ha egli a chiamare il maestro? Intanto gli si dirà tutte l’incommenze; e si fisserà il salario.

Giandomenico:
Si, tu di’ bene. Ora gli do una voce. O maestro, o maestro. (forte)


II 2
Maestro e detti.

Maestro:
(di dentro) Vengo, vengo. Servo delle Loro eccellenze.

Giandomenico:
Che ce l’ha a dare d’eccellenza il maestro?

Crezia:
Se un è gobbo.[61] Oh addio maestro. Discorriamo un tantino delle nostre cose.

Maestro:
Parlons pure messieurs domini mei.

Crezia:
Come?

Maestro:
Dico che io sono prontissimo a trattare di noi.

Crezia:
Ora ho capico. O diche sue. Quante voleche ’oi di salario per insegnare a Paolino. Già vo’ vedeche che vi si dà vitto, taola e quartiere, sicchene un metteche la mira ailta.

Maestro:
Io lascerò vobis il juger quanto si perviene a moi per questo munere.

Crezia:
Ah no’ vi vogliam rimunerare di sicuro imperoe i’ vi dimando quali sono le ’ostre pretensioni.

Maestro:
(Ah che animali, hanno proprio otturate le auricole de l’entendement). Bene, voi mi darete sei zecchini al mese.

Crezia:
Che diamin diche ’oi? Che sieche impazzaco? Un ghi butto ’ia così e’ mi’ cattrini. O se ma’ mai e’ si mette su carrozza quante voleche ’oi che si dia a il cocchiere? il quale n’ha a guidar due, e po’ strigghiargli e ripulire il legno eccetera eccetera?

Maestro:
Ma voi siete di così ottusa mente che non fate discrimen da un equo a un parto di voi même.

Crezia:
Noe maestro, e non è un patto equo quello che vo’ ’orresti far voi. V’ache daco di fora.

Giandomenico:
Bene, guardate di ristringervi; e se no’ vi potremo pigliare, bene chidem;[62] ailtrimenti vo’ ci darete una lira del mangiare che vi s’è dato stamattina, e potrete andare pe’ fatti vostri.

Maestro:
(Veramente pediculi infarinati! Quali spilorci non sono mai ceux-ci!). Io mi ristringo quanto mi è possibile; vous me donnerez quattro zecchini.

Crezia:
Sentiche maestro, come vo’ non fache a lire, e’ non si concrude nulla. Ah, per non perder il tempo tuttetrene, i’ vi do se’ lire. Se vi pare, bene; se noe, addio sani;[63] nun ci siemo ’isti né conosciuchi.

Maestro:
(pensa)

Crezia:
E’ viene sai Benuti. E’ tirano; se coilgano, coilgano. Ma meco un c’è da far questo, un son terreno doe por vigna.[64]

Maestro:
(Ah fame, fame! Quid non mortalia corpora cogis![65] Ma anche un altro riflesso mi fa accettare. Il Cavalier Spavento che je nommai a queste neonate eccellenze per esser coniuge della lor figlia verginella (in fama est) non è un cavaliere, mais un fiaccatissimo mio fratello, che ha preso a nolo in ghetto “fra la nazione circoncisa e brutta”,[66] una dorata casacca, e fra poco qua se feret. Quando la preda puellula si sarà con indissolubil vincolo a lui mariée, allora egli si smoscirà; e come al fatto nullum est remedium, i suoi maggiori si placheranno, e tutti staremo qui in casa, il mio fratello a prolificare, ego erudiam sobolem benutam,[67] et filios de mon frère).

Crezia:
E così che risolveche ’oi? La unne stette tanto me ma’ a fammi.

Maestro:
Bene, fiat come vous voulez.

Crezia:
Come gli è un fiat[68] questo? Sarae; a mene par di moilto. In somma non mi teneche più a bada.[69] Dichemi chicche v’ate risoilvuto.

Maestro:
Ho risoluto di sì.

Giandomenico:
Veramente ci ho gusto d’avere in casa un uomo come voi.

Crezia:
I’ ci ho piacere anch’io. Vedeche ’oi maestro, ora che vo’ vi sieche messo alle cose giuste tutti no’ vi vogghiam bene, e seguiteremo a guardavvi sempre di bonocchio, purchene vo’ vi portiache come vo’ doete. I’ vi so dire che la non finirae in quil salario fissaco. E’ ci saranno anche de’ regalucci. Fachemi la finezza maestro, andachemi a vedere se quil ferro ch’i’ ho messo nil foco per istirar la gala ail Benuti ghi è caldo ancora! Intanto guardache se quil villano ghi è ito via ancora.

Maestro:
Che comandi me donnez vous? A un uomo della mia sorta ordinare che vada in culina? Sono l’educatore del vostro figlio o il vostro servo il più vile?

Giandomenico:
(I’ lo soe, questi maestri e’ brontolano a far queste cose; e’ un voglian capire che e’ son mercenari, che o che gl’insegnino, o che faccin l’ambasciate, o altre faccende, e’ si pagano perché e’ ci servino). Maestro non vi alterate. Andrò io in cucina a vedere del ferro. Sai Crezia, del contadino non occorre discorrerne per oggi. Paolino non si vole in nessun modo staccar da lui. Lasciamo passar due o tre giorni: poi la furia la passerà, e lo faremo andar via una mattina di levata, senza ch’e’ lo vegga. (via)


II 3
Maestro e Crezia.

 

Crezia:
Dite maestro: in somma quel caaliere quando verraegli?

 

Maestro:
Dovrebbe esser qui fra poco; impatiens sono anch’io de l’attendre.

 

Crezia:
Bisognerà pure che ghi faccia un comprimento. Vi diroe di corregghimi; e’ n’ho trattachi degghi ailtri, ma sempre di confidenzia. Un Signore come sarà questo, i’ non l’ho trattaco mai. Sicchene i’ veggo che ci vorrae un comprimento scerto. Me pae e me mae m’hanno daco ’ducazione; ma ora e’ s’usa n’un ailtro moe. Sicchene voi che sieche sappiente vo’ mi mettereche nella bona ’ia.

 

Maestro:
Oui maxime, Eccellenza sì.

 

Crezia:
Agnamo[70] qui donche a taolino, e ’ncominciamo la lezione. Prima di tutto in che lingua gne n’ho io a fare?

Maestro:
In francese; in francese.

 

Crezia:
Vo’ diche bene voi che la sapeche; ma io che non ne soe ailtro che quailche parola, i’ rimarroe a bocca aperta.

 

Maestro:
Courage courage madame.

 

Crezia:
Ecco ora i’ ho inteso che v’ate detto, ch’i’ ho in quil servizio la ragia.

 

Maestro:
(Che bestia!) Ne formidas tutto andrà bene.

 

Crezia:
I’ lo credo anch’io che gli spropositi formicheranno.

 

Maestro:
Su da brava. Monsieur le chevalier vous etes la personne la plus illustre de cette ville. Quel plaisir me faites vous a soutraiter la main de ma jeune fille! Animo da brava, ripetete il complimento. Ma non siete in tempo; ecco il Cavaliere.

 


II 4
Cavaliere e detti.

 

Crezia:
Menesser Cioccolattier vo’ siete venu in personna così illustre dalla vetta della villa. Che piaccichio mi fate voi a sottrarre la mano della mi’ figghiola digiuna!

 

Cavaliere:
Ah madama, il vostro bel discorso mi sciarma. Se così eloquente è la madre che sarà la figlia, la vezzosa Ciprigna, l’idolo mio, l’amor mio, colei per cui solo vivo? Perché io non la veggo a me davanti? La vorrei con un solo sguardo tutta divorare.

 

Crezia:
Maestro chiamache la Carmelitana, perché se noe questo poero caaliere morquie. (Maestro parte) Dichemi cavaliere; ma che l’ate vista la mi’ figghiola?

 

Cavaliere:
No. Ma come dal tramontar del sole si vede se il vegnente giorno sarà chiaro o nuvoloso, così da così vaga madre non che corrusca femmina, che sire manda a brillar nel bel mondo, comprendo che cosa dee esser la figlia. Ma eccola.

 


II 5
Carmelitana, Maestro e detti.

 

Cavaliere:
Ecco la face che desta gl’incendi nel mio cuore. Mia Venere che non un Amore ma mille ne avete partoriti; e tutti han nido nel mio petto. Io avvampo, io brucio; e se voi non ispengete col farvi tutta mia questa fiamma, in pochi istanti il Cavaliere Spavento muore arrostito più d’un rosbif.

 

Carmelitana:
Sior Caaliere i’ son ubbrigata distintamente a lei; ma coreste sue belle palore[71] la un fanno nulla d’impressione sul me core, il quale la sappia come qualmente[72] i’ l’hoe ’mpegnato pel Ticca.

 

Maestro:
Ma questi è un sordido e puzzolente oste di gatti; e voi sareste veramente male adibita a vous faire sua moglie.

 

Carmelitana:
Quie e’ un c’entra né pipita, né bufera. I’ ho promesso a il Ticca e vogghi’esser sua di lui.

 

Cavaliere:
Carmelitana, vita mia, ma voi avrete cuore di veder morire a’ vostri piedi uno che non vede che pe’ vostr’occhi, che non ha pace se voi non lo amate? Povero Cavaliere Spavento umiliato! Mille dame hanno ambita la tua mano; e tu l’hai rifiutate. Ora che ardi, che ti consumi per una bellezza che non ha pari, ella ti disprezia!

 

Carmelitana:
A pari, e caffo;[73] se v’ardeche per mene, bruciache pure, ch’i’ non vengo a spegnere. Se vo’ voleche ritornar da quelle dame che v’ate ricusate, vo’ potete pure andar segnaco e benedetto[74] che per mene i’ vi mando lae, e più lae anche dibborgo.

 

Crezia:
Per carità Sior Caaliere non un gli dache retta, la fa celia; la dice così per favvi dire. Un pensino che la farà a mo’ di so pae e di so mae. (Se tu un fai chicche ti s’ordina o ti sgozzo con queste mane, o ti fo chiudere in aterno n’un conversatorio).

 

Carmelitana:
Fate quello che volete; ma io vogghio il Ticca. I’ voggh’il Ticca, ate ’o’ ’nteso? I’ voggh’il Ticca; i’ voggh’il Ticca.

 

Cavaliere:
E voi maestro indegno, vitupero di tutti i nerbo-scettrati pedagoghi dell’orbe, mi avete dunque chiamato qua per vilipendiarmi, per esser esposto alla berlina? Voi non potevate ignorare l’ostinazione di questa barbara tirannicida dell’avvampante mio cuore.

 

Maestro:
Io non era nescio che ella aimait Monsieur Trippa; sed putabam che allorquando avesse veduto questo decoro volto, ove tanquam in loro sede abitano le Grazie, si sarebbe strutta d’amor per esso. Ma poiché tal vista l’ha magis fatta inviperire, resto mortificato, m’esinanisco[75] alla faccia vostra e mi dissipo su nequam nebula. (Andate fratello; vedrò se potrò io ammansare questa feroce belva). (via)

 

Cavaliere:
Io parto adunque. E s’i’ salii le scale avvampante d’amore, le scendo ardendo di collera; e questa collera forse pria del giorno di domani andrà tutta a rovesciarsi sopra di voi. (via)

 

Carmelitana:
A rotta di collo. Addio. Sapeche me mae, se un’ailtra voilta vo’ mi chiamache per altri che non il Ticca, i’ vi fo dire ch’i’ un ci ’engo quie. (via)

 

II 6
Crezia, poi Caterina.

 

Crezia:

Proprio e’ un si po esser mai felici in questo mondo. Ora che s’aa da stare in barba di micio,[76] c’entra la figghiola a turbar la pace! I’ contao d’andare per mezzo dil Caaliere ail Casino, e d’esser amica della pura nobirtae di Firenze, e’ c’è entracha la scomunica, e il diaol ci ha messo la coda…. Il clume?[77] Come la Crezia fassi sopraffare da una figghiolaccia capricciosa l’ha dovuco. Ah questo poi un vo’ che si dica. La un vol fare a modo? I’ la gastigheroe co’ il baston della bambagia:[78] pane e acqua; e se un si concruderà nulla, i’ la metterò tra le borrine.[79]

 

Caterina:
Gira e rigira, finalmente i’ t’ho troa la me cara Crezia. Sa’ tu quant’e ghi è ch’i’ giro? I’ son passaca di quie a caso, e i’ ho visto i’ Benuti ch’uscia di casa e io ’nfila subito drento. Lui m’ha richiamaco addreto (i’ mi fiuro che un m’abbia ricognosciuco. Il poer omo e’ un ne capace[80] d’aermi fatto uno sgarbo), ma io un ghi ho daco retta. Crezia mia, quanto gusto ch’i c’[h]oe che tu sia arricchica! Cappita che bella casa che tu hai! Che belle seggioline! Un le tenere a ugni giorno, le ti si sciuperanno tutte. Dice che t’ha’ ripreso anche i’ to figghiolo ch’era [da’] nocenti? T’ha’ fatto bene. Poero bambino! I’ c’ho gusto che sia ascico da stentare. I’ ero ’enuca da tene a conto di chella tela che tu m’avviasti. I’ troo un imbroglio ora ch’i’ sono quasi nil fine; e nun troo la ’ia a venirne a capo. Se tu potessi venir da mene, tu mi faresti una gran caritae.

 

Crezia:
V’ache ciarlaco tanto, e i’ un so chi vo’ vi siache. E mi meraigghio che v’abbiache a entrar nelle case degghi ailtri franca franca;[81] e poi non far neanche passar l’ambasciaca.

 

Caterina:
Ma tu non sei la Crezia Mangani?

 

Crezia;
Io sono Sua Accellenza la Signora Lugrezia Benuti, nata Mangani. Ebbene, che voleche ’oi da mene?

 

Caterina:
I’ te l’ho detto chicchi ’oiglio; e mi pare d’essermi spiegacha a bastanza.

 

Crezia:
Come ch’io abbia a venire a rieder la tela? Io? Eppoi quand’i’ volessi non vi potre’ gioare. Io un m’intendo di tele.

 

Caterina:
Ma tu che nun facei l’avviatora?

 

Crezia:
Sarae; ma i’ un me ne ricordo.

 

Caterina:
Tu un te ne ricordi? Ma se ghi è poco più d’un mese che tu m’avviasti la tela ch’i’ ebbi dall’Albuti. Quil rasetto; tu un te ne ricordi?

 

Crezia:
I’ un mi ricordo di nulla. Vo’ poteche andavvene e non ci tornar più! Oiltre che poi v’ache sbagliacho; che modo egli di dar di tu a una che ha d’accellenza anche da il maestro?

 

Caterina:
Ecco doe le hanno a finire l’amicizie! Finché no’ siam tutti nil medesimo grado, no’ siam fiori e baccelli.[82] Ma appena che una parte della bilancia la si sollea la un vede più quell’altra parte che s’è abbassaca e tocca terra. Noe un ci pensare, un ci ’errò piue. I’ un ero venuca, come tu se’ venuca tante ’oilte a casa mia, per isfamatti. Noe, i’ un vogghio nulla né da tene, né da’ to quattrini. Finché e’ campa il poero me marito, che s’arrosta[83] dalla mattina alla sera, i’ non ho paura che m’abbia a mancare un boccon di pane per mene, e pe’ mi’ figghioli. Tienti pure la to felicitae, ch’i’ mi terroe la me miseria.

 

Crezia:
Voleche vo’ andar via ancora? Vo’ m’ache appestaco tutta la casa con questo puzzaccio che v’ache addosso; e con coresto grattavvi sempre su’ fianchi, vo’ m’ache seminaco do’ mezzette di pulce per la casa.

 

Caterina:
Sie e’ sarà dimoilto che t’eri gremita anche tue. Quand’e’ ti ’estinno da signora, ti messan n’una conca di ranno bollente; e lie con una spazzola da baccalà ghi dettan di zona;[84] e l’acqua la dientoe come quande e’ si laa e’ calamai.

 

Crezia:
Vo’ tu andavvia ancora?

 

Caterina:
Sie i’ voe, un pensare. Ma prima ti vo’ seminare de[ll]’ailtre pulce (si gratta). Addio sani, sai bella figura. Se tu capiti nella mi’ strada ti vo’ fare scorger da tutt’il vicinaco; e se ma’ mai tu vien dalla garbata sorella dil to marito, i’ ti metto la granata a la finestra.[85] E s’i’ non te lo foe, mozzo mi sia [la testa].[86] (via)

 

Crezia:
E’ m’è dispiaciuco di fagghi quella scena; ma s’i’ principio a dar udienza a quella genia, i’ mi troo tutti [i] Camardoli in casa. Po’ poi e’ un mi par di far affronti a nessuno nil men ghi deo riceere. E’ mi disse il Botteghino, che mi pagò la caderna:[87] Crezia mi rallegro (lo disse perché e’ ghi dessi venzoldi di mancia) voi sieche dientaca un’ailtra. Donche s’i’ son un’ailtra, i’ un ho più che fare con quelle ch’i’ conosceo prima. Prima i’ ero la Crezia di via Sguazza; e ora son la Crezia di via Larga.

 

II 7
Paolino e detta.

 

Paolino:

(di dentro) No no maestraccio, i’ non vogghio leggere. (esce fuori)

 

Crezia:
Ch’ha’ tu figghiol mio?

 

Paolino:
Quil maestro, ghi è veramente un tormento. Sempre e’ vorrebbe ch’i’ studiassi. E io mi c’annoio. Sentiche me mae; se e’ s’ha a stare d’accordo, e’ bisogna che vo’ lo mandiache via.

 

Crezia:
Sii bono, Paolino; il maestro fa per ben tuo.

 

Paolino:
E a mene un me n’importa a mene. Sentiche e’ mi fa proprio andare in furia. I’ mi vo’ sfogare; i’ voggh’ire a dagghi do’ cotaloni.[88] (fugge)

 

Crezia:
Ah! poera a mene. (gli corre dietro furiosa)

 

 

[Fine Atto II]


Atto III 

 

III 1
Crezia e Maestro, poi Giandomenico.

 

Crezia:
Che s’ha egghi a fare maestro mio, che quell’omo non è torno stanotte a dormire, e ora che ghi è giorno ailto e un si ’ede ancora? Che nottolaca[89] ch’i’ ho passaco maestro mio! rivoltati di qua, rivoltati di là; un v’è staco modo né verso, ch’i’ abbia potuco chiuder un occhio. Po’ m’è entraco mille cose per la testa. Un animo[90] e’ mi dicea, il to marito s’è butto ’n Arno. Un altro mi replicaa, ghi è capace n’un fosse ricco.

 

Maestro:
Ma quest’uomo che ha il vizio di tracannare in gran copia il vino?

 

Crezia:
Prima, e’ mi tornaa briaco un dì si e un dì no. Ora ’eramente ghi è un pezzo che un me lo fa piue.

 

Maestro:
Ma quando v’è il vizio non se ne perdono mai le tracce. Scende all’uomo come ad alcune piante, le quali nell’inverno […], sed vere superveniente ripullulano e buttan fuori les fleurs e depuis les fruits.

 

Crezia:
I’ credo anch’io che no’ siam fritti, quande e’ c’è de’ vizi. Ma un saprei, sebbene carche ailtra voilta sia stato una notte senza tornare a casa, a undimeno questa voilta i’ un so pensare che a quailche disgrazia. Maestro mio, i’ n’ho tutta la ragione. Un maladetto cane un n’ha fatt’ailtro che abbaiare in tutta la notte. E poi una cietta l’ha fatto tanti ’ersacci sulla cappa dil camino, che un po’ far’ailmeno e’ c’ha a esser quailche gran disgrazia in casa.

 

Maestro:
Ma queste cose sono proprie delle donne del volgo, e non stanno bene in una pari vostra. Madame, Madame, ista deturpant excellentiam tuam.

 

Crezia:
Ah che nun ci credeche voi all’aria maestro?

 

Maestro:
Minime, […].

 

Giandomenico:
Ahime! Crezia… Maestro… aiutatemi, io non ne posso più. (cade svenuto sopra una seggiola)

 

Crezia:
Aiuto aiuto.

 

Maestro:
Soccorso. Venite properate.

 


III 2
Piero, Paolino, Carmelitana e detti

 

Piero:
Che v’è egghi?

 

Paolino:
Perché bociache ’oi in questa maniera?

 

Carmelitana:
Ahime! Che veggh’io? Me pae svenuco. Che ghiache fatto cailcosa voi eh, me mae?

 

Crezia:

Ah figghiola mia, i’ ho la gola scorata dalle convursioni; i’ non ne posso proprio più. Ah poera a mene; o poero Benuti e’ more.

 

Carmelitana:
Ma in somma che c’è egghi?

 

Crezia:
I’ un lo soe io. Gli è venuco qui e s’è svenuco. Gl’ha a aer auto sailmisia[91] cailche accidente. Un n’è possibile ailtrimenti alla fiura che ghi ha fatto.

 

Giandomenico:
Ahime! Crezia… Carmelitana… Paolino, i’ v’ho tutti traditi.

 

Crezia:
Tu m’ha tradito? ch’ha’ preso un’ailtra mogghie?

 

Carmelitana:
Che m’ate promessa ail Caaliere Spavento?

 

Paolino:
Che m’ache porto via la mi’ gallina?

 

Giandomenico:
Vi ho fatto tutti ritornare nel poero stato d’infelicità e di miseria. Mi lasciai sedurre dal guadagno, dando a uno spiantato, a un bindolo tutto il mio capitale. Non sono ancora passate 24 ore da che glie l’ho consegnato, e iersera si pubblicò il suo fallimento. Io ho girato tutta la notte per Firenze piangendo, urlando, dicendomi villania. Finalmente son tornato a casa risoluto d’impiccarmi.

 

Crezia:

O’ che diamin di’ tu? Ghi è vero ora mi dispiace di un poter far più da signora; ma e’ ci ’orrà pazienza. Bisognerà ch’i’ torni al sicutera.[92] Ma sai Benuti, la coilpa l’è tutta mia. E’ cattrini un ci potean far frutto. I’ giocai la caderna co’ cattrini ch’i’ ti rubai di tasca una sera che tu tornasti briaco marcio, e che andaco a letto tu cominciasti a dormir com’un ghiro.

 

Carmelitana:
Da come vo’ sieche rassegnaca voi me mae, i’ sono anch’io. Anzi e’ mi ’ene un pensiero. Quande i’ son venuca di quae, i’ ho lasciaco il Ticca, che mi discorrea dalla ’ia, e ghi ho detto che m’aspettassi. I’ lo ’ogghio introdur sue; e vo’ sentireche chicchi ghi dirò in presenzia vostra. (via)

 

Crezia:
La ghi dirà se e’ la vol per mogghie. A lui e un ghi parrà vero; lei starà bene, perché e’ po’ far un mestiero sudicio, ma ghi ha della roba e de’ cattrini, e noi poerini si ritornerà a stentare.

 

Giandomenico:
Questo solo mi dispiace. Ma non mi rincresce di me; ma di te e di tutta la me famiglia.

 


III 3
Ticca, Carmelitana e detti.

 

Ticca:
La mi dice qui la Carmelitana che vo’ siete falliti. E’ mi dispiace; ma se questo tronca ogni ostacolo perché io abbia la mano della mia cara Carmelitana, ne ringrazio il Cielo. Questo mi fa scordare tutti i cattivi trattamenti, che mi avete fatto per conto di lei. Io vi scuso perché venivano da fantasia riscaldata e penso, che nel caso vostro forse avrei fatto lo stesso che voi. I’ mi ricordo di aver sentito dire da uno che la sapeva lunga, che vi sono dei vizi attaccati ai vari stati degli uomini, e chi si trova in questi, riman da essi attaccato. Voi credevi di aver mutata condizione e d’esser divenuti signori, non vi volevi imparentar meco che son di vile condizione. Ma i sentimenti che ho sempre avuti sono superiori certo alla mia nascita. Dunque per fare il discorso corto, se voi mi accordate la mano della vostra figliola, vi ritirerò tutti in casa mia, e tutto il tempo che camperete, non avrete a penuriare di un boccone di pane.

 

Crezia:
Ah che tu sia benedetto; i’ l’ho sempre detto che t’eri un gioan di garbo.

 

Ticca:
Questo non è vero; ma fo come che lo abbiate creduto.

 

Giandomenico:

Caro Ticca perdonami, se mai in qualcosa t’avessi offeso.

 

Ticca:
Perdono a tutti. Solo sono contento di possedere la mia Carmelitana.

 

Carmelitana:
Io sarò sempre tua, com’i’ te n’ho fatta più voilte la promissione.

 

Crezia:

Io vo’ correre a learmi quest’imbrogghi di capo e mi ’o’ mettere un poe la me rete.

 

Maestro:
Et ego quid agam?

 

Crezia:
Vo’ voleche un ago? Ve ghi ricucirò io tutti coresti buchi ch’aete addosso, e poi potrete andar via pe’ fatti ’ostri; perché il Ticca naturailmente un vorrà quest’aggraio.

 

Maestro:

Eheu me miserum! Quel homme malheureux que je suis!

 


Scena Ultima
Cavalier Spavento e detti.

 

Cavaliere:
Si può penetrare? La vezzosa mia Venere mi guarda più in cagnesco, ovvero ammansato l’orgoglio desidera la mia destra?

 

Maestro:
Ah fratello!

 

Crezia:
Fratello? Da quando in quae è egghi ’ostro fratello?

 

Maestro:
Purtroppo è così. Oui qu’il est mon frère. Questa non fu che una finzione. Io sperai che maritata che si fosse l’eccellenzina Carmelitana a lui, noi saremmo stati, mon frère et ego, in barba di micio ad barbam dei quattrini vinti dalla Crezia.

 

Crezia:
Ah che birbone!

 

Maestro:
Ma falliti i Benuti secoloro è fallita ogni speranza.

 

Cavaliere:
Falliti! Che sento!

 

Maestro:
Si falliti, decotti.

 

Cavaliere:
E noi che faremo, quando qui non si può por vigna?

 

Maestro:
Aspettate un momento… senza che voi vi leviate cotest’abiti, noi andremo in piazza, e saliti sopra un palco, voi leverete i denti e venderete il balsamo, ed io col suono di un corno e con qualche storiella adunerò la gente, facendo così da pagliaccio. Minerva, Apollo torcete da me il guardo; e riflettendo che tutto per isbattere il dente[93] è permesso, non mi vogliate guardar di mal’occhio se insinuandolo la fame disonoro alcun poco[94] ed offusco quei lumi che vous m’avez donné.

 

Cavaliere:

Mi piace o fratello il vostro consiglio. Andiamo dunque e non perdiamo tempo. (via)

 

Maestro:

Eamus. (via)

 

Paolino:
Io vo’ ritornare a casa di Piero.

 

Piero:
E io ti riceo con tutt’il core. Da manicare s’i’ te n’ho daco finquie, i’ te ne darò anche per l’avvenire.

 

Crezia:
E’ mi dispiace caro Paolino che tu mi lasci; ma tu le ’edi anche tue le circostanzie.

 

Ticca:
Andiamo adunque in mia casa e i vostri casi serviranno per far conoscere quanto sbagli chi sollevato dalla fortuna s'inorgoglisce e tien per certo ch'ella non voglia mai più abbandonarlo.

[Fine]




[1] [G.B. Zannoni], dedica al Cortese lettore, in [Id.], Saggio di scherzi comici, Firenze, Stamperia del Giglio, 1819, p. XIV. 
[2] Giovan Battista Zannoni nacque a Firenze il 29 marzo 1774 e vi morì il 12 agosto 1832. Nonostante le umili origini riuscì a compiere studi classici e, nel 1798, fu ordinato sacerdote e assegnato alla parrocchia di santa Felicita, impegno che manterrà per tutta la vita. Letterato, archeologo, storico, conoscitore del greco, del latino e dell’ebraico, fu bibliotecario della Magliabechiana, regio antiquario della galleria degli Uffizi e segretario perpetuo dell’accademia della Crusca, della quale scrisse la storia. Tra le sue opere vi sono scritti archeologici, filologici, letterari e comici; in qualità di antiquario fu anche illustratore di antichità.
[3] [Zannoni], dedica al Cortese lettore, cit., p. VI.
[4] «Così chiamansi in Firenze due parti della città con vie strette e povere case, dove stanno la povera gente, e la meno civile, dette Ciani gli uomini o Beceri, e Ciane le donne». Ci sono i Camaldoli di san Frediano, di là d’Arno, che presero il nome da una chiesa di monaci camaldolesi che vi si trovava, e quelli di san Lorenzo che lo presero dai primi. «Nei Camaldoli si parla il vero idiotismo fiorentino, quale ce lo diede lo Zannoni nelle sue Ciane» (anche con questo nome vengono chiamati gli Scherzi zannoniani). Definizione di Camàldoli in P. Fanfani, Vocabolario dell’uso toscano, Firenze, Barbèra, 1863, pp. 205-6 (rist. anast. Firenze, Le Lettere, 1976).
[5] Al di là del significato letterale del termine, così viene indicato convenzionalmente «il filone di letteratura che in Toscana, soprattutto a partire dall’Ottocento, ha utilizzato varietà dialettali per particolari esigenze rappresentative». N. Binazzi, Lingua e dialetto in Toscana, on line all’indirizzo http://www.pannostrale.it, sito internet di Pan Nostrale. Progetto regionale di promozione del teatro in lingua toscana, sezione Aspetti e personaggi del teatro in lingua toscana, 2005 (data di consultazione: 18/11/2010).
[6] Nota dell’Editore, in [G.B. Zannoni], Saggio di scherzi comici, Firenze, Alla dispensa della Gazzetta, 1838, p. 19.
[7] Ivi, p. 10 (Prefazione). Qui si è consultata la terza edizione del 1838 che contiene la medesima prefazione alla seconda edizione del 1825.
[8] La messa in scena degli allievi di Morrocchesi sul palcoscenico dell’arena estiva del teatro Goldoni, fu indubbiamente una «gran ventura» perché assicurò alla commedia e al testo una formidabile ribalta cittadina legata al nome del celebre attore tragico. Acclamato interprete dei drammi alfieriani, e non solo, nei maggiori teatri italiani e apprezzato direttore di compagnie, Antonio Morrocchesi si era dedicato all’insegnamento dal 1811, chiamato dal governo toscano che volle aggiungere la cattedra di declamazione all’Accademia di Belle Arti di Firenze; da questa esperienza nacque il suo manuale, Lezioni di declamazione e d’arte teatrale, edito nel capoluogo toscano nel 1832.
[9][Zannoni], Prefazione, cit., pp. 10-11.
[10] Ivi, p. 11.
[11] Ivi, pp. 11-12.
[12] Ivi, p. 12.
[13] La lunga Lettera del Chiar. Sig. Luigi Muzzi all’autore degli ‘Scherzi comici’ (ivi, pp. 19-31), datata 15 maggio 1824, termina con l’invito a ripubblicare gli Scherzi già usciti e ad aggiungere i nuovi; stampata come seconda prefazione all’edizione completa del 1825, riprende un argomento, quello degli Scherzi, molto trattato nello scambio epistolare tra Zannoni e Muzzi dal 1819 al 1825. Cfr. E. Ceccherelli, Giovan Battista Zannoni con speciale riguardo ai suoi Scherzi comici e al teatro vernacolo fiorentino, Firenze, R. Bemporad e figlio, 1915, p. 157.
[14] [Zannoni], Prefazione, cit., p. 13.
[15] N. Binazzi, Una lingua per i Camaldoli di Firenze: prime riflessioni sulla ‘Crezia rincivilita’ di Giovan Battista Zannoni, in Discorsi di lingua e letteratura italiana per Teresa Poggi Salani, a cura di A. Nesi e N. Maraschio, Pisa, Pacini, 2008, p. 88.
[16] C. Cavedoni, Biografia del cavaliere ab. Giambatista Zannoni, in Della continuazione delle Memorie di Religione Morale e Letteratura, Modena, Eredi Soliani, 1835, to. IV, p. 70, n. 68.
[17] Cfr. A. Bencistà, prefaz. a G.B. Zannoni, La Crezia rincivilita, Firenze, Libreria Chiari, 2000, p. 15.
[18] M. Ferrigni, La Crezia rincivilita per la creduta vincita d’una quaderna, in Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, nuova ediz. riveduta e integrata, Milano, Bompiani, 2005, vol. II, p. 2035.
[19] Sul teatro di Zannoni e sulla situazione del teatro comico fiorentino del tempo: Ceccherelli, Giovan Battista Zannoni con speciale riguardo ai suoi Scherzi comici e al teatro vernacolo fiorentino, cit., in partic. pp. 135-44.
[20] G.B. Zannoni, Elogio di Gio. Gherardo De’ Rossi, in Storia della Accademia della Crusca e rapporti ed elogi editi ed inediti detti in varie adunanze solenni della medesima dal Segretario Cav. Ab. Gio. Batista Zannoni, Firenze, Tip. del Giglio, 1848, p. 339.
[21] Cfr. Progetto per la formazione in Firenze d’una stabile compagnia comica, 1o marzo 1822, opuscolo a stampa, biblioteca Roncioniana di Prato (da ora in poi BRP), Manoscritti Roncioniani, Giovan Battista Zannoni, busta 994 U V 3, cartella 3 23. I primi progetti per l’istituzione di una compagnia stabile presso il teatro del Cocomero risalgono al 1810, durante l’annessione della Toscana all’impero napoleonico (1807-1814), e prevedevano la presenza nel teatro di due compagnie di prosa, una francese e una toscana. Cfr. M.I. Aliverti, Comiche compagnie in Toscana (1800-1815), «Teatro archivio», settembre 1984, 8, in partic. pp. 182-99.
[22] Zannoni, Elogio di Gio. Gherardo De’ Rossi, cit., p. 339.
[23] Novelli indica Zannoni come il creatore di un «teatro toscano prettamente paesano e senza la maschera» contemporaneo a quello, peraltro molto apprezzato dal pubblico, di Stenterello (A. Novelli, Il teatro fiorentino da Stenterello a ‘L’acqua cheta’, «La lettura», dicembre 1909, p. 985).
[24] Cfr. N. Binazzi-S. Calamai, Voci di Toscana: il teatro di Novelli, Paolieri, Chiti, «Studi di grammatica italiana», XXII, 2003, pp. 105-69.
[25] Cfr. L.M. Personè, Il teatro fiorentino, prefaz. a G. Bucciolini, Cronache del teatro fiorentino, Firenze, Olschki, 1982, pp. 5-13. Per la storia della commedia fiorentina in vernacolo v. anche A. Bencistà, La commedia fiorentina in vernacolo. I teatri e i principali autori dalle origini a oggi, Firenze, Sarnus, 2008 e Id., La commedia in vernacolo fiorentino dall’abate Zannoni a Giovanni Nannini, on line all’indirizzo http://www.pannostrale.it, cit., sezione Aspetti e personaggi del teatro in lingua toscana, 2005 (data di consultazione: 27/10/2009).
[26] Cfr. Binazzi, Lingua e dialetto in Toscana, cit.
[27] Ugo Chiti, formatosi nel teatro di ricerca dopo l’apprendistato come attore vernacolare, nel 1973 entra a far parte del centro F.L.O.G. di Firenze per la ricerca e la documentazione delle tradizioni popolari. La Soramoglie, zibaldone creato per celebrare gli ottantacinque anni dell’attrice vernacolare Cesarina Cecconi è tratto anche dall’Acqua cheta di Augusto Novelli e da Ferdinando Paolieri, Bruno Carbocci, Giulio Bucciolini, Gino Pagano, e rientra nel progetto di recupero e di analisi della drammaturgia vernacolare toscana.
[28] A. Severi, Onda per cui, vagamente vague, introd. a Novelli Vague. Nuova drammaturgia in lingua Toscana fra tradizione e discontinuità, a cura di A. S., Corazzano (Pisa), Titivillus, 2007, p. 15. Per un approfondimento linguistico del teatro di Ugo Chiti v. le edizioni delle commedie curate da Silvia Calamai: U. Chiti, La recita del popolo fantastico (una trilogia), introd. di S. Calamai, Milano, Ubuliri, 2004; Id., Volta la carta… ecco la casa, scritti di P. De Simonis e M. Brandolin, nota al testo di S. C., Corazzano (Pisa), Titivillus, 2009.
[29] Severi, Onda per cui, vagamente vague, cit., p. 12.
[30] [Zannoni], dedica al Cortese lettore, cit., p. V.
[31] Ivi, p. VI.
[32] Ivi, p. VII.
[33] Ivi, p. V.
[34] Nominato aiuto e poi sottobibliotecario alla biblioteca Magliabechiana, come tale Zannoni fu ammesso nell’accademia Fiorentina nel 1802; quando da essa si staccò l’accademia della Crusca, divenne socio e segretario di quest’ultima (rivedi n. 2). Oltre ad essere accolto quale illustre antiquario nell’accademia Etrusca di Cortona e in quela degl’Indefessi di Alessandria, nel 1807 divenne socio dell’accademia Colombaria di Firenze, animata da molteplici interessi culturali. Tra le opere letterarie di Zannoni si registra la Cicalata in lode dell’Asino, un tipo di componimento burlesco che i soci recitavano nelle accademie letterarie (come per esempio in quella della Crusca); composta e recitata da Zannoni per la «società pappatoria» (così l’autore nell’Avviso al lettore definisce il misterioso committente), fu pubblicata nel 1808 nella stamperia di Borgo Ognissanti a Firenze. Cfr. Ceccherelli, Giovan Battista Zannoni con speciale riguardo ai suoi Scherzi comici e al teatro vernacolo fiorentino, cit., pp. 43-44.
[35] La situazione teatrale a Firenze nella seconda metà del Settecento, caratterizzata anche dall’attività delle accademie, è indagata da L. Zambelli-F. Tei, A teatro con i Lorena. Feste, personaggi e luoghi scenici della Firenze granducale, Firenze, Edizioni Medicea, 1987, pp. 9-32; A. Tacchi, Della 'regolata' vita teatrale fiorentina (1765-1790), tesi di dottorato in Storia dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, VI ciclo, 1994, tutor prof. Siro Ferrone; L. Zangheri, Feste e apparati nella Toscana dei Lorena 1737-1859, Firenze, Olschki, 1996; I teatri storici della Toscana: censimento documentario e architettonico, a cura di E. Garbero Zorzi e L. Zangheri, VIII. Firenze, Firenze-Venezia, Giunta regionale Toscana-Marsilio, 2000; T. Megale, La pubblica felicità regolata. Spettacolarità fiorentina nel periodo di Pietro Leopoldo, in Mozart a Firenze …qui si dovrebbe vivere e morire, catalogo della mostra a cura di P. Gibbin, L. Chimirri e M. Migliorini Mazzini (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, 22 settembre-21 ottobre 2006), Firenze, Vallecchi, 2006, pp. 59-73; C. Pagnini, Gli Infuocati di Firenze: un'Accademia tra i Medici e i Lorena (1664-1748), tesi di dottorato in Storia dello spettacolo, Università degli studi di Firenze, XIX ciclo, 2007, tutor prof. Sara Mamone; G. Villa, Il teatro del Cocomero all'epoca dei Lorena (1748-1790), tesi di dottorato in Storia dello spettacolo, Università degli studi di Firenze,  XXIV ciclo, 2011, tutor prof. Sara Mamone.
[36] Lettera di Sebastiano Ciampi a Giovan Battista Zannoni, Pisa, 1813, cit. in Ceccherelli, Giovan Battista Zannoni con speciale riguardo ai suoi Scherzi comici e al teatro vernacolo fiorentino, cit., pp. 153-54.
[37] Si ringrazia il personale della BRP per la disponibilità dimostrata nel corso delle ricerche.
[38] G.B. Zannoni, Le gelosie della Crezia, La Camaldolese rincivilita, Il bene imprevisto derivato dal manifestare un segreto ossia il figlio creduto morto e impensatamente ritrovato, mss., BRP, Manoscritti roncioniani, Giovan Battista Zannoni, busta 989 U IV 14, cartella 5 a b c.
[39] Secondo la Ceccherelli La Crezia rincivilita per la creduta vincita di una quaderna fu scritta nel 1810, ma non indica la fonte. Cfr. Ceccherelli, Giovan Battista Zannoni con speciale riguardo ai suoi Scherzi comici e al teatro vernacolo fiorentino, cit., p. 159.
[40] Crezia (diminutivo di Lucrezia, secondo l’uso popolare) compare come serva nelle commedie fiorentine del Cinquecento (come Il diamante, Le cedole, Lo sviato, Le maschere di Giovan Maria Cecchi, I parentadi di Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca), nate in ambito accademico e considerate le antenate del teatro vernacolare. Diventa poi Zèza, moglie tirannica di Pulcinella.
[41] [Zannoni], Prefazione, cit., p. 6.
[42] Durante il periodo napoleonico in Toscana, al gioco del lotto furono applicate le regole vigenti in Francia; in caso di grossa vincita le cartelle dovevano essere inviate a Parigi per la verifica.
[43] [Zannoni], Prefazione, cit., p. 5.
[44] Ivi, p. 14.
[45] [Zannoni], dedica al Cortese lettore, cit., p. XIII.
[46] Cfr. S. Ferrone-T. Megale, Il teatro, in Storia della Letteratura Italiana, VI. Il Settecento, diretta da E. Malato, Roma, Salerno editrice, 1997, p. 840. Il concetto è espresso a proposito della produzione di Giovan Battista Fagiuoli, drammaturgo fiorentino che nel Settecento, insieme a Girolamo Gigli e Iacopo Angelo Nelli, sperimentò la riforma teatrale in Toscana.
[47] L’elenco dei personaggi e il luogo, mancanti nel manoscritto, sono rilevati dall’edizione a stampa de La Crezia rincivilita per la creduta vincita di una quaderna del 1838.
[48] Sciabbiata: vestita in modo disordinato.
[49] Crestaia: lavoratrice di creste o d’altri abbigliamenti ad uso delle donne; cresta: abbigliamento che tengono in capo le donne.
[50] Mezzetta: antica misura di capacità corrispondente a mezzo boccale, cioè a mezzo litro circa.
[51] Sta per cheche; locuzione levarsi con, avere le cheche: essere intrattabile, nervoso, detto specialmente di bambini.
[52] Biancone: la statua del Nettuno in piazza della Signoria a Firenze.
[53] Forse da strisciare una riverenza: strisciare il piede facendo una profonda riverenza; qui l’espressione è usata ironicamente con il titolo onorifico signoria.
[54] Guà: forma ridotta di guarda. Varia il senso secondo i casi: esprime meraviglia, rassegnazione, disapprovazione.
[55] Tornar baroni come prima: tornare alle medesime, da buona ricadere in bassa fortuna.
[56] Essere assetta: essere adatta.
[57] Lecche: colpi, percosse.
[58] Scaponire: vincere l’altrui ostinazione.
[59] Una saetta: nulla.
[60] Digerire: qui probabilmente con il significato di intendere, comprendere a pieno.
[61] Se non è gobbo:  riferito a una persona che deve fare una determinata cosa, lo voglia o no.
[62] Da bene quidem: a modo di approvazione, se così vi piace, bene, se no...
[63] Addio sani: modo di dire addio! è finita!
[64] Non è terreno da porci vigna: non ci si può far fondamento, o porre speranza.
[65] È la citazione, modificata, del verso di Virgilio (Eneide III 56-57): «Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames!» («A cosa i cuori mortali non induci, esecrabile fame dell’oro!»); consultato Virgilio, Opere, a cura di C. Carena, Torino, Utet, 2008.
[66] Le virgolette sono di Zannoni che cita da una satira di Benedetto Menzini; qui si è consultato B. Menzini, Poetica e Satire con annotazioni, Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1808, satira XI, pp. 385-91. Il verso completo è: «Or sali in l’anticamera, furbetto, / Salivi pur, ch’io te la dono tutta, / Ch’io per me star mi vo’ piuttosto in Ghetto / Fra la genìa circoncisa, e brutta». Nelle Annotazioni alla satira undecima è spiegato: «Per mezzo del presente Dialogo si biasiman quelle Corti, ove son più graditi i buffoni, che gli uomini savj; […]» (ivi, p. 392).
[67] La prole ‘benuta’, cioè dei Benuti.
[68] Fiat: fare le cose in un fiat, in un istante.
[69] Tenere a bada: trattenere, ritardare uno dal suo pensiero, dalla sua impresa.
[70] Agnamo: corruzione popolare di andiamo, da cui anche ’gnamo.
[71] Palore: corruzione popolare di parole.
[72] Come qualmente: come e precisamente, per filo e per segno.
[73] Caffo: numero dispari. Giocare a pari e caffo: scommettere sul numero pari o dispari delle dita, in un gioco simile alla morra. Di due persone che non si accordano.
[74] Andare segnato e benedetto: modo di licenziare altrui; mandarlo via volentieri e con animo di non rivederlo.
[75] Esinanirsi: annientarsi, umiliarsi, avvilirsi.
[76] Stare in barba di micio: godere di una situazione privilegiata, comoda, agiata
[77] Forse sta per colmo, culmine.
[78] Gastigare col baston della bambagia: più in effetto che in apparenza.
[79] Borra: cascame di lana o altri tessuti, legna da ardere tagliata; cosa di poco valore.
[80] Un ne capace: non capisce.
[81] Franca: libera.
[82] Esser fiori e baccelli: esser sano, lieto e contento; esser tutto fiori e baccelli con qualcuno: vivere con esso in perfetta concordia e amore.
[83] Arrostarsi: affaticarsi spropositatamente e furiosamente.
[84] Dare di zona: fare qualcosa con impeto, di buona lena.
[85] Mettere la granata alla finestra contro le streghe. Modo di dire delle donne del volgo quando litigano.
[86] La frase, non terminata nel manoscritto, lo è nell’edizione a stampa della commedia.
[87] Quaderna o quaterna: nel gioco del lotto combinazione di quattro numeri che vincono se fanno parte dei cinque estratti in ciascuna ruota.
[88] Cotalone: ceffone, pugno.
[89] Nottolata: nottata.
[90] Animo: qui con il significato di interno sentimento che fa presentire il bene o il male di chicchessia.
[91] Sta per salva io mi sia.
[92] Sicutera: corruzione popolare dell’espressione latina sicut erat, come era. Si usa con il significato di riportare le cose come erano prima.
[93] Sbattere il dente: mangiare.
[94] Alcun poco: così, un poco.

 



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