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Anna Scannapieco

Caterina Bresciani, chi era costei?

Data di pubblicazione su web 24/05/2013
Frontespizio edizione Pasquali

Il contributo presenta il ragguaglio sintetico di un’indagine ad ampio raggio (e di prossima pubblicazione) sulla figura della più importante attrice goldoniana. I primi risultati di tale indagine sono stati presentati al convegno conclusivo del progetto PRIN 2008 «AMAtI Archivio Multimediale degli Attori Italiani», Coordinatore scientifico Siro Ferrone (‘Per una nuova enciclopedia dello spettacolo italiano’, Napoli, 13-15 settembre 2012), in una relazione il cui sottotitolo (‘Per uno studio sui comici goldoniani: problemi e prospettive’) rendeva ragione di quel taglio di ordine soprattutto metodologico che appare ancora riflesso nei primi due ‘atti’ di questo studio, e a cui non mi è parso utile rinunciare: ma a cui beninteso potrà rinunciare il lettore insofferente agli indugi. Segnalo altresì che il mio interesse per la Bresciani si è maturato nell’ambito di una ricognizione sistematica della compagnia del San Luca, che data ormai da molti anni; per i più recenti tra i contributi editi, cfr. A. Scannapieco, ‘«…e per dir la verità sinora la mia Compagnia trionfa». Sulle tracce dei comici goldoniani (teatro di San Luca, 1753-1762)’, in ‘Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone’, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 292-301; Ead., ‘Carlo Goldoni direttore e “salariato” dei suoi comici’, «Studi goldoniani», n.s., i, 2012, pp. 27-37.

Per le citazioni goldoniane saranno utilizzate le seguenti abbreviazioni: mn = C. Goldoni, ‘Tutte le opere’, a cura di G. Ortolani, 14 voll., Milano, Mondadori, 1935-1956; en = C. Goldoni, ‘Le Opere’, Edizione Nazionale, Venezia, Marsilio, 1993-. Salvo diversa avvertenza, i corsivi occorrenti in citazione sono originali.

1. Prologo

  

Al «lume scarso d’una piccola lucerna», appollaiati su una «vecchia seggiola», ignari degli imbrogli in cui ci stringerà la notte, potremmo anche noi una sera sentirci sussultare nella domanda: «ma chi diavolo era costei?». Il nome della Bresciani potrebbe rimbalzarci in testa come quello di Carneade: e farci sentire, per un istante almeno, novelli Don Abbondio che scrutano nella fitta nebbia delle proprie enciclopedie. Magari, ad auspicabile differenza del modello, potremmo trasformare la domanda nel salutare utensile che ci faccia schivare ogni pavidità – e farci così salvare da un quieto vivere troppo spesso esiziale. La nostra notte degli imbrogli non sarebbe, forse, meno drammatica: ma per certo più consapevole la coscienza nell’attraversarla. E forse impareremmo a distinguere i contorni nel buio, o almeno ad immaginare che, anche nel buio, i contorni delle cose e delle persone esistono, anche se il buio li ha cancellati.

«Caterina Bresciani, chi era costei?»: una domanda salutare, in verità.

2. Atto primo

All’alzarsi del nostro sipario, la scena della critica goldoniana appare rapita da un’ipnosi ormai ventennale: dall’annus mirabilis del bicentenario (1993), lo studio dei comici è stato additato come la nuova frontiera della storiografia e della critica teatrale settecentesca.[1] Se ne è fatta sollecita interprete, grazie anche alla pluralità delle prospettive epistemologiche che mette in campo, l’Edizione Nazionale delle Opere, e quella che è poi divenuta la sua operosa officina:[2] una ribalta polimorfa, e non di rado disomogenea, su cui sono state allestite alcune rappresentazioni in grado di ridisegnare un paesaggio che per lungo tempo aveva conservato i connotati del bozzetto folklorico.[3]

Ciò nondimeno, la ricognizione della geografia attoriale concimata da quell’operato goldoniano di cui è stata imprescindibile humus, continua ad apparire viziata da due limiti strutturali – o sedicenti tali – che, se di primo acchito sembrano elidersi a vicenda, in realtà congiurano solidali a irretirci in un maledetto cul-de-sac. Si tratta, detto in estrema sintesi, di un difetto e di un eccesso: e se l’eccesso, non meno del difetto, nutre – come vedremo –  la nostra indigenza, messi assieme hanno, troppo spesso, ipnotizzato la ricerca in una trance di inerme soggezione.

Partiamo dal difetto, dei due limiti il più noto e al tempo stesso il più rimosso. Nella maggioranza dei casi, ci si deve misurare con un’inquietante vacanza di fonti primarie: e l’arsura che sprigiona tale deserto documentario induce a trasfigurare le fonti indirette (la ‘bibbia’ del Bartoli, il repertorio del Rasi, i romanzi teatrali di Chiari e Piazza) in oasi a cui abbeverarsi fiduciosamente, troppo fiduciosamente. Forse perché storditi dal miraggio, ci si dimentica in tal modo di esaminare alcuni complessi documentari che, per quanto già noti, sono ben lontani dall’aver esaurito le proprie risorse (il riferimento va senz’altro all’archivio Vendramin; ma altri sarebbero gli esempi possibili);[4] e ci si dimentica soprattutto di impegnarsi in quell’umile lavoro di ricognizione documentaria, funzionale a qualsiasi indagine biografica, a cui pare debbano restare impermeabili i comici goldoniani. Forse perché più facile immaginarli contornati dall’aureola del mito – e perciò, di fatto, esclusi dalla ruvida ribalta della storia. Il che è quanto farne, a ben vedere, i soliti figli di un dio minore.

A rendere, se possibile, ancora più incresciosa la pigrizia dello sguardo storico-critico subentra poi l’alacre culto degli utensili in voga. Tra le altre cose, appare infatti in scena il rilancio – di per sé ragionevolissimo – del «Plutarco dei comici italiani»,[5] Francesco Saverio Bartoli e le sue miliari Notizie istoriche de’ comici italiani. Il Bartoli di cui in molti avremmo auspicato una ristampa della meritoria anastatica Forni[6], e di cui invece ci siamo visti elargire una versione digitale e commentata, che – com’è d’obbligo – si sta già imponendo nell’uso.[7] Oltre ai ben discutibili criteri editoriali (la soppressione, ad esempio, degli inserti documentari con cui il compilatore corredava le sue voci, rimozione del tutto incomprensibile in sé e per sé e tanto più nello spazio illimitato dell’immateriale), sorprende, non di rado, la sciattezza di quel commento che pure avrebbe inteso dispiegare per il futuro della ricerca tutte le risorse documentarie dell’opera: per limitarsi infatti a un simbolico spoglio goldoniano, le note, che a vario titolo avrebbero l’ambizione di arricchire il prezioso repertorio, allineano spropositi che possono andare da una Teresa Gandini interprete nel Festino di quel personaggio di madama Doralice che era invece stato tagliato su misura (e ovviamente poi impersonato) dalla concorrente-rivale Caterina Bresciani,[8] a una Caterina Bresciani retrocessa al ruolo di terza donna nell’attribuirle la parte di Lucietta nei Rusteghi[9] (costruita invece su misura della «giovinetta alquanto innocente» Matilde Maiani),[10] da un Pietro Gandini che avrebbe abbandonato nel 1755 la compagnia Medebach, pur non avendovi mai militato in vita sua, alla stessa compagnia Medebach che avrebbe agito (e negli anni cruciali della ‘riforma’ goldoniana!) in quel teatro di San Luca dove invece non sarebbe mai approdata nel corso della sua pur longeva e gloriosa carriera[11] – e così via motteggiando, in una collana di «spiritose invenzioni» a cui la maneggevolezza e l’immediata accessibilità dello strumento conferisce surrettiziamente una patente di autorità da cui i futuri studi goldoniani (e non solo) trarranno ben poco giovamento.[12]

In non minori ristrettezze costringe il secondo dei limiti strutturali di cui si diceva, correlato opposto del precedente: e cioè quell’eccesso che – come si sarà già intuito – è costituito dall’esuberanza della fonte goldoniana. È ben noto che, almeno sotto questo profilo, l’avvocato veneziano si situa effettivamente agli antipodi del suo ‘fratello nemico’: laddove Carlo Gozzi, com’è stato dimostrato, riserva radi cenni – spesso peraltro riduttivistici quando non denigratori – al profilo dei suoi attori,[13] Goldoni, nell’estroversione affabulatoria delle sue molteplici pratiche autobiografiche, concede generoso spazio alle compagnie per cui prestò servizio. La messe delle informazioni, tuttavia, produce talora effetti di ebbrezza tali da opacizzare la vigilanza dello sguardo critico. Si trascura così, in primo luogo, di soppesare il diverso grado di attendibilità delle varie tessere documentarie: un conto, ad esempio, è l’affidabilità delle peraltro scarne annotazioni contenute nell’epistolario, un altro la tendenziale attendibilità degli Autore a chi legge (ivi compresa la loro declinazione macrostrutturale, affidata alle prefazioni Pasquali, le cosiddette Memorie italiane), un altro ancora la sostanziale tendenziosità dei Mémoires, pure già acclarata sotto altri profili. Anche gli Autore a chi legge, fra l’altro, obbediscono spesso a una formularità passepartout che ben poco può offrire ad una storia materiale dello spettacolo (se non il dato, pur di per sé interessante, di una topica dell’elogium fortemente codificata): basti pensare a come ricorrano immutati i termini per magnificare il decisivo apporto interpretativo (e, si può aggiungere senz’altro, co-autoriale) delle ‘muse’ goldoniane per antonomasia, Maddalena Marliani e Caterina Bresciani, nella confezione di due popolari cult pièces: se alla felice riuscita della Serva amorosa valse il «merito personale di quell’eccellente attrice [«la signora Maddalena Marliani veneziana»] che sostenne mirabilmente il personaggio di Corallina»,[14] a quella della Sposa persiana, ugualmente contribuì il «merito singolarissimo dell’eccellente Attrice, la Valorosa Signora Catterina Bresciani».[15] Una formularità che Goldoni beninteso condivide con altri addetti del mestiere, e che rende assai ardua l’assunzione critica del dato documentario, in particolar modo quando interviene a caratterizzare il profilo fisico o le risorse (pre)interpretative degli attori: tanto per limitarsi a un solo esempio, sufficiente a illuminare l’interscambiabilità delle attribuzioni e quindi la loro drammatica evanescenza, la «voix sonore» e la «prononciation charmante» che svettano nella descrizione goldoniana della Bresciani vanno di pari passo con la «voce dolcissima, e chiara» della Medebach immortalata da un Bartoli e con il «tuono di voce chiaro, armonioso, soave» con cui un Piazza consegna alla storia l’effigie della Marliani.[16]

Ma indubbiamente sono i Mémoires la fonte più affascinante e più insidiosa, con quella loro natura di romanzo teatrale che rende indecifrabili i confini tra ‘vero storico’, ‘invenzione’ e convenzione rappresentativa; una natura che, proprio nel settore di nostro interesse, non ha mancato di condizionare anche i critici, inducendoli talora ad assumerne la medesima ottica fictional.[17] Al riguardo gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma sarà bene concentrarsi su una sola campionatura: attorno cui si snoderà la trama del secondo atto, indispensabile ponte verso la catastrofe e lo scioglimento, più o meno a lieto fine, della nostra tragicommedia.

3. Atto secondo

Entra qui in scena Caterina Bresciani, chiamata a rappresentare il caso più emblematico delle difficoltà in cui si imbatte oggi una moderna e avveduta storiografia dei comici goloniani. È il caso più emblematico, detto in estrema sintesi, come quello che esibisce un rapporto inversamente proporzionale tra incidenza di un attore sulla storia del teatro goldoniano  e oscuramento del suo profilo umano e professionale.

È infatti l’artista che vanta il più duraturo rapporto col ‘Riformatore’ del teatro italiano: la loro collaborazione oltrepassò il decennio, fruttificando una sessantina di pièces, a fronte delle più modeste proporzioni in cui si espresse l’ascendenza delle altre due muse muliebri del teatro goldoniano, la Medebach e la Marliani.[18]  

È inoltre l’attrice che influenzò la drammaturgia del nostro nella maniera più incisiva e moderna: è alla sua personalità interpretativa che va ascritta, come è stato opportunamente sottolineato, la cosiddetta «svolta “femminista” […] degli anni ’60»[19]: una convinzione senz’altro da sottoscrivere, a patto di non restringerla ai soli casi di Ircana, Eugenia e Giacinta (le tormentate eroine, nell’ordine, della trilogia persiana, degl’Innamorati e della trilogia della villeggiatura), prototipi di quel nuovo modello femminile «emergente dalla sensibilità e dalla cultura europee», che «sostituiva alla tradizionale titolarità dell’istinto e della malizia» (appannaggio delle «brillanti e disperanti seduttrici celebrate e in un certo senso liquidate con l’astuta locandiera») «il tormentoso privilegio della passionalità intensa ed inquieta, tanto più disarmata quanto più ardente».[20] Un profilo in verità troppo stretto e troppo di maniera – ancorché di per sé lusinghiero – per rendere davvero giustizia alla nostra attrice, e alla composita modernità del teatro goldoniano: è sempre alla Bresciani, infatti, all’ampio spettro delle sue potenzialità interpretative, nonché (forse) alla sua figura – come si scoprirà poi – alquanto agée,  che si deve anche l’ideazione e lo sviluppo drammaturgico di quella dirompente figura che è la madre di famiglia, incupita dalle pene del vivere e pervicacemente renitente a qualsiasi cliché comico, di volta in volta incarnata dall’Anzola delle Donne de casa soa (1755), dalla Barbara della Buona madre (1761) o dalla Marcolina del Todero (1762), inquiete  dominae di un governo domestico disertato –  a vario titolo – dalla figura maschile.[21]

Non meno significativo, infine, il fatto che Caterina Bresciani risulti – allo stato attuale della documentazione superstite – l’unica attrice che si sia rapportata al poeta di compagnia con funzioni presumibilmente simili a quelle di portavoce della troupe, o comunque di suo autorevole esponente, e che abbia avuto con lui rapporti epistolari;[22] e sia stata l’unica a cui l’autore apparve dedicare sempre «un’intonazione singolarmente riguardosa, non aliena addirittura da una certa sfumatura di soggezione».[23]

Per quanto incontrovertibile e – per così dire – sotto gli occhi di tutti, tale centralità della Bresciani nell’universum artistico di Goldoni è sostanzialmente passata sotto silenzio: un silenzio tombale (ad alto e sinistro tasso simbolico) è quello in cui l’inabissa il Dizionario biografico degli italiani[24], ma non meno eloquenti appaiono le intermittenti e distratte premure riservatele dagli studi di settore.

Non è quindi a caso che un fitto mistero continua ad aleggiare attorno alla sua personalità umana e artistica: un mistero che colpisce innanzitutto il principium individuationis per eccellenza, il nome stesso: dato che nulla sino ad oggi si è potuto sapere del cognome originario di una donna che, nel medesimo momento in cui – repentinamente, al suo stesso esordio sulla scena veneziana – guadagnò «la fama di celebratissima Attrice», vide anche spegnersi la propria identità nel Nome-maschera «d’Ircana famosa»;[25] mentre, al bisogno, il referente anagrafico sarebbe rimasto oscurato dal cognome coniugale: sicché neanche il buon Bartoli – che in altri casi sa essere più prodigo di dati – seppe o volle andare oltre la rubricazione sotto il nome del primo marito, Natale Bresciani.

Neppure il nome dunque è stato sinora possibile conoscere, come d’altronde non l’età: anche se per tale dato l’ignoranza storiografica è alimentata dalla fonte goldoniana. È stato infatti l’autore ottuagenario, nella rammemorazione oltremodo compiaciuta del leggendario trionfo della Sposa persiana, a chiosare maliziosamente: «une Esclave de vingt-cinq ans [la nostra Caterina] l’emportoit sur une épouse de cinquante [la povera Teresa Gandini]».[26] Nessuno, a quanto consta, ha colto il gioco palesemente beffardo con cui l’anziano autore fa le sue vendette contro le deprecate etichette dei comici (fondamentale dispositivo fictional del romanzo teatrale), immortalando in una sapida e spietata relazione ossimorica da un lato i 25 anni dell’«esclave» (tale anche nella gerarchia comica, non certo perché servetta, ma in quanto destinata a «rôles de charge»,[27] e proprio in quanto tale ora invece sbalzata a rango protagonistico dalla magia drammaturgica dell’autore) e dall’altro i 50 di un’«épouse» a cui è stato sì riconosciuto il rôle-titre in osservanza del suo grado di prima amorosa, ma per poi mostrarne la marginalità scenica di attrice ormai «surannée». L’icasticità di questo vero e proprio coup de théâtre è stata di tale impatto che il pur trasparente simbolismo delle cifre – funzionale all’illusionismo ‘rappresentativo’ del caso –  è stato trasformato in verità storica, di modo tale che persino il non sprovveduto Ortolani parla spesso e volentieri della «venticinquenne Caterina Bresciani», e un Attilio Gentile – di recente additato come il più autorevole storico dei comici goldoniani – si spinge al punto di sostenere che la Gandini «poteva esserle [alla Bresciani] quasi nonna».[28] Peraltro nessuno, proprio a tale proposito, si è ricordato di quanto segnalava il Bartoli, e magari di farlo riflettendo sulle implicazioni retoriche della formula litotica cavallerescamente messa in campo: «Viderla i Teatri di Venezia la prima volta non giovinetta».[29]

La ‘pettinatura’ dei dati anagrafici va d’altronde di pari passo con la  ‘messa in posa’ di quelli relativi alle doti artistiche dell’attrice, stilizzate nell’icona sommaria di un’interprete inarrivabile nel «rendre une passion vive et intéressante avec plus de force, plus d’énergie, plus de vérité»[30] (o in quella, decisamente più significativa, di un’attrice così versatile da essere capace di suscitare applauso tanto «dans les Pieces de haut-Comique que dans celles du plus bas»).[31] Una messa in posa che naturalmente non manca di obbedire a un cliché di lunga durata quale il narcisismo divistico, e a quello correlato delle tensioni conflittuali con il poeta di compagnia, paziente pigmalione che sa «punir doucement ses Acteurs» confezionando pièces di presunto rispecchiamento terapeutico. Come la Donna sola: una commedia in realtà giocata su tutt’altra tramatura allegorica (quella, come informa l’attento Gradenigo, intesa a colpire «alcuni Nobili giovani, et il fare di certe Dame, che affettano primaria vista»),[32] ma per il cui significato ha goduto di molto più credito la gustosa aneddotica dei Mémoires:

Madama Bresciani qui jouoit les premiers rôles, et qui jouissoit d’une considération qu’elle méritoit à tous égards, n’étoit pas sans défaut. Elle étoit jalouse de ses camarades, et ne pouvoit pas souffrir qu’une autre Actrice fut applaudie. Ce ridicule de Madame Bresciani me déplaisoit, me gênoit, et j’étois dans l’habitude de punir doucement mes Acteurs, quand ils me causoient du chagrin. Je composai une Piece où il n’y avoit qu’une femme, et je voulois dire par le titre et par le sujet à Madame Bresciani: Vous voudriez être seule; vous voilà contente.[33]

L’immagine mito/oleo-grafica della prima donna divorata da un solipsismo narcisistico che andava punito sulla scena per redimerlo nella vita, si attagliava troppo bene, incrementandolo sapientemente, all’orizzonte d’attesa dei lettori contemporanei, mentre induceva nei posteri l’irresistibile impulso a pennellarla ulteriormente con la propria fantasia interpretativa. E così, se in molti hanno continuato a rivisitare e aggiornare gli aggraziati acquerelli di Ortolani («Caterina Bresciani […] nella testolina aveva più d’un capriccio, e fece disperare più d’una volta il povero poeta»),[34] nessuno si è ricordato di quanto pur lo stesso autore dei Mémoires aveva rimarcato circa la capacità di ironico sdoppiamento con cui l’attrice sapeva portare al successo anche pièces in cui doveva commisurarsi con l’interpretazione di un personaggio sgradevole.[35]

Ma i Mémoires hanno condizionato gli sviluppi della ricerca e le relative acquisizioni storico-critiche ben oltre le intenzioni dell’autore. La loro potenza rappresentativa è stata infatti così pervasiva da far in modo che talora la voce narrante sia stata introiettata – si perdoni la sinestesia – anche dallo sguardo degli studiosi più eminenti. Non si spiegherebbe altrimenti come alcune tra le grandi firme della critica abbiano potuto attribuire a Caterina Bresciani un originario ruolo di servetta (che poi si sarebbe emancipata grazie alle energie di un autore ‘illuminato’ e antiregolistico), giungendo persino a documentarlo con espressioni che Goldoni ha impiegato sì, peraltro dagli spazi più appartati (e credibili) di un Autore a chi legge: ma in riferimento a Giustina Campioni Cavalieri, un’attrice che si era effettivamente formata al San Luca in qualità di servetta, sin dai tardi anni quaranta, e che poté ascendere di rango (per concludere poi la sua fortunata carriera con l’impresariato), essendo state le sue disposizioni fortuitamente incentivate da precisi riassesti strutturali della compagnia. «L’attrice solita a rappresentare in allora il personaggio della servetta nella compagnia che dicesi di San Luca – scriveva Goldoni nel 1758, dalla prefazione alla Cameriera brillante, protagonista eponima appunto la Campioni – sostenne egregiamente la parte della cameriera brillante; ora è passata ad un altro grado, e fa spiccar sempre più il suo talento nelle parti serie, là dove specialmente la passione vi è interessata, movendo graziosamente gli affetti»:[36] non c’è che dire, potrebbe essere il profilo ideale di Caterina Bresciani, e lo è senz’altro – comprensibilmente – per i lettori dei Mémoires,  anche i più disincantati. Per i quali vale infatti, subliminalmente, quella sorta di foreshadowing che si esplicita sin dal racconto dell’adolescenza («j’ai toujours eu par la suite un goût de préference pour les Soubrettes»)[37] e che si disvela appieno nel microromanzo delle rivalità tra la Medebach e la Marliani, una prima donna ipocondriaca e depressa e una servetta vitale e brillante. Se dalla passione per Maddalena era sortita la rivoluzione drammaturgica e spettacolare della Locandiera, come immaginare che non fosse stata un’altra soubrette (oltretutto ineguagliabile nel «rendre des passions vives et intéressantes») a ispirare – nella nuova, ma ‘per forza di cose’ simmetrica, fase del San Luca – analogo sconvolgimento di una prassi scenica e culturale vetusta quanto inossidabile? Un Goldoni illuministicamente meritocratico, insomma, che in base ad una valutazione disinibita ed equa delle ‘risorse umane’ disponibili promuove l’affrancamento dai gioghi delle gerarchie comiche e prefigura quello dalle catene sociali; e che potrebbe essere molto à la page nell’assiologia fictional dei nostri sventurati giorni. Ahinoi, e povera anche Caterina.

4. Atto terzo

«Caterina Bresciani, chi era costei?»: le peripezie degli atti precedenti dovrebbero ormai aver rappresentato a sufficienza il senso di questa domanda. L’ultimo atto proverà allora a denudare, almeno un po’, la maschera di Ircana,[38] e appariranno in scena, telegrafici, i principali risultati di un’indagine i cui labirintici sentieri rimarranno discretamente dietro le quinte.

Scena prima. Caterina Angiola Mazzoni nasce a Firenze il 16 novembre 1722, primogenita di Giuseppe Mazzoni e Maria Rosa Sersoli.[39] Molto diffuso a Firenze e in Toscana, Mazzoni è anche cognome che ha annoverato personalità illustri, con cui beninteso non ha nulla a che fare il nostro Giuseppe. Quando nasce Caterina, i genitori, trentenni, vivono nella parrocchia di San Lorenzo, una delle più antiche della città, per certo la più popolosa e animata.[40] La loro abitazione, per l’esattezza, era ubicata in via Porciaia,[41] corrispettivo in parte dell’odierna San’Antonino (la lunga strada che collega la piazza dell’Unità italiana a quella del Mercato Centrale) e che ancora a metà Ottocento era detta comunemente Porciaia[42], nonché ritenuta «il luogo ove risiede la classe più infima del popolo».[43] La denominazione, che si afferma verso il 1550, si era originata dalla presenza di conciatori di porci nel tratto terminale di Sant’Antonino, in corrispondenza dei portici ottocenteschi che oggi costeggiano il Mercato Centrale; e venne affiancandosi a quelle – più antiche, relative ai tratti precedenti della strada – di via dell’Amore e via Cella di Ciardo. Una toponomastica eloquente, che, sin dai primi anni del Quattrocento,[44] aveva – e avrebbe, per ben quattro secoli – immortalato i tratti somatici dominanti del luogo: da un lato la taverna (cella) appartenuta a Ciardo di Betto, uno dei più animosi protagonisti del tumulto dei Ciompi; dall’altro, le comuni pratiche di meretricio, a cui non a caso si ispirò l’ideazione e l’ambientazione della Mandragola;[45] dall’altro ancora, ultima arrivata che avrebbe finito per sussumere denominazioni e significati limitrofi, un’attività sordida per antonomasia. Insomma, Caterina nasce e cresce in un luogo onusto di memorie e potenzialità teatrali o romanzesche, ma lei per certo non lo sapeva.

Scena seconda. Nulla noi sappiamo della sua formazione, trascorsa comunque al riparo della casa natale fino ai 23 anni, in un’atmosfera peraltro che dovette essere frequentemente attraversata da venti luttuosi: dei fratelli minori sopravvisse solo Maddalena, di otto anni più giovane di lei, mentre – nell’arco di un decennio – Pietro, Maria Anciliana, un altro Pietro, Giuseppe Maria Baldassar vennero tutti  falciati via, tra i 3 giorni e i 12 mesi. [46]

E nulla sappiamo di come intraprese la carriera teatrale.[47] Facile supporre – ma tenendo la fantasia a freno – che dovette trattarsi di una scelta di sopravvivenza e di libertà. Come quella di unirsi in matrimonio con un suonatore di violino se non anziano, per certo mal in arnese, visto che già nel dicembre del 1754 poteva redigere un testamento, considerato l’«istato di pocca buona salute, sebbene per grazie del Signore sano di mente, ed intelletto». Natale Bresciani dovette verosimilmente amare sine adiecto quella «dilettissima Consorte» che gli avrebbe garantito la permanenza – ancorché assai opaca – nella storia, e non a caso le destinava «tutto quello che al presente mi rittrovo, e che al tempo della mia morte si ritroverà di propria, e particolar mia ragione il tutto incluso, e niente ecetuato […]; cosiche abbia da godere liberam.te ogni cosa senza render conto a chi che sia».[48] Nonostante gli acciacchi, e in presumibile condizione di permanente, sollecita penombra, Natale continuò a vivere ancora diversi anni, dato che figura come il firmatario dei contratti di Caterina sino al 1766.[49] Gli sarebbe succeduta un’altra spalla silenziosa e adorante, Angelo Lapy, anche lui suonatore di violino in quella che era nel frattempo diventata la compagnia del padre.[50]

A Venezia, dove approda nel gennaio 1753, Caterina alloggia nella contrada di San Luca, in una casa prossima al teatro Vendramin. In Venezia, una diecina d’anni dopo, potrà indicare quella «che Patria mia chiamar io vanto, / Per la lunga non men dolce dimora», un’«illustre Cittade, al Ciel diletta» che «tanto mi ama e favorisce tanto, / Che, sortito il natal d’Etruria al lido, / Quest’è mia Patria e qui formato ho il nido».[51]

Scena terza. «Sono pochissimi anni, ch’io faccio un tale mestiere, e l’ho sempre fatto, il cielo sa come»,[52] le fa recitare Goldoni nel pezzo d’esordio sulla scena del San Luca (e dei teatri veneziani tutti), per presumibili ragioni di captatio.[53] Che l’apprendistato – fisiologicamente condotto lontano dalla prestigiosa scena veneziana – sia stato breve, è lecito dubitarne: dato che il primo contratto con il teatro Vendramin, sottoscritto in data 13 gennaio 1753, la arruola come «seconda donna assolutta» e a condizioni economiche molto vantaggiose[54] – clausole insomma non propriamente congrue al profilo di una sprovveduta esordiente.

Quando celebra il suo battesimo sulle scene veneziane, Caterina ha d’altronde 31 anni, un’età ragguardevole, in generale, per una città la cui mortalità media nel decennio 1751-1760 si attestava sui 29 anni,[55] e in particolare per un’attrice, oltretutto se chiamata a giocare un ruolo affatto rilevante nel tempio del teatro comico cittadino (e si può ora ben comprendere il cavalleresco non giovinetta di Bartoli). D’altro canto, è a tutti nota la politica di reclutamento dei Vendramin, che, dopo la fase riccoboniana, evitarono la scrittura in blocco di una compagnia e preferirono condurre direttamente la trattativa con ciascuno dei singoli membri  della troupe da loro stessi formata e amministrata, affrontando così gli inevitabili, stressanti oneri comportati da un simile tipo di conduzione, ma anche garantendosi la possibilità di «disporre di una formazione selezionata in tutti i ruoli».[56] Per necessità Caterina doveva dunque rispondere a requisiti certi, tanto più che la sua assunzione s’iscriveva in quel più generale ammodernamento di tutta la compagine attoriale del teatro Vendramin che ebbe a prodursi in non causale concomitanza con l’arrivo del nuovo poeta di compagnia. Quando infatti Goldoni approda al San Luca non trova affatto – mitologema di lunga durata – una compagnia sedimentata e arroccata nelle proprie pratiche spettacolari:[57] ben 5 attori degli 11 che la compongono sono new entries proprio a partire dall’anno comico 1753-1754.[58] Insomma, se Caterina è esordiente sulla scena veneziana, in buona compagnia del Brighella Angeleri, tre attori ancora (già ben noti al Goldoni) sono altrettanto esordienti, in quel medesimo 1753, sulle scene del San Luca. Una così massiccia immissione di nuovi profili interpretativi e di nuove memorie spettacolari era stata verosimilmente ispirata da – o almeno concordata con – colui che sin dal febbraio 1752 aveva già firmato un contratto per svolgere funzioni tanto di aggiornamento repertoriale quanto di direzione artistica:[59] in ogni caso, veniva per certo a innovare e rendere spontaneamente dinamici gli equilibri della compagnia (e difatti, a ripercorrerla senza pregiudizio, la drammaturgia goldoniana per il San Luca è molto più sperimentale di quanto non avesse potuto esserlo quella per il Sant’Angelo).

L’investimento sull’unica nuova recluta femminile, Caterina appunto, era stato per certo ponderato con occhio esperto, dato che la sua redditività si palesò immediatamente all’indomani dell’apertura dell’anno comico, con quel trionfo della Sposa persiana che tenne cartellone per gran parte della stagione autunnale. La nostra «povera donna» – questa la formula di autopresentazione che era stata escogitata per lei dal poeta di compagnia –[60] fu incoronata «Ircana famosa», allora e per sempre, dal plauso delirante del pubblico veneziano. «Un’infatuazione collettiva – come è stato osservato – di proporzioni inusitate»,[61] ma che non si produsse per fanatismo effimero, e tanto meno come esclusivo parto della virtù pigmalionica del dottor Carlo Goldoni. Non a caso, accanto alla Sposa persiana, i titoli che nei decenni successivi  svettarono negli indici di gradimento del repertorio del San Luca furono quelli della Dalmatina (1758), dell’Artemisia (1759) e della Scozzese (1761), tre pièces, guarda caso, costruite sull’esclusiva misura di Caterina Bresciani.[62] Mirabilia della drammaturgia maieutica (e non pigmalionica) di un Carlo Goldoni, lecito non dubitarne; ma anche, per certo, di una personalità interpretativa originale e matura quale doveva già essere espressa, in quel 1753, da Caterina Mazzoni, «Florentine charmante».

Scena quarta. Già, una «Florentine charmante». Come charmante – sempre secondo la delibazione del ricordo nell’autore ottuagenario – era la sua «prononciation». Una qualifica che, a volerle prestare credito, rimanderebbe comunque non alle attrattive fisiche dell’attrice, ma a quella che doveva essere la sua aura di fascinazione seduttiva.

Se infatti il disseppellimento dei dati anagrafici ci consente di immaginare una donna che non poteva vantare il prorompente appeal della giovinezza, altre fonti – su cui in questa sede non è possibile intrattenersi –[63]  ci restituiscono l’effigie di una bellezza per certo non pronunciata e, soprattutto, di una costituzione fisica minuta. E dunque un singolare contrasto, sin dalla presenza in scena, doveva crearsi con quel «boccon de donna»[64] che era la sua diretta superiore di grado, la prima donna Teresa Gandini, un’antagonista che poteva invece vantare un «maestoso aspetto», un’«alta statura e grave», nonché un «seno che imprigionato suol tenere a fatica».[65]

Ma più significativo, e dirompente, il contrasto che si doveva irradiare – e sprigionare sorprendente nell’orizzonte d’attesa del pubblico – tra la sembianza fisica raccolta e un talento comico la cui cifra stilistica doveva essere l’eccesso: un eccesso «di sensualità, di insicurezza, di violenza, di masochismo, di barbarie, di abnegazione sentimentale», come è stato osservato nello specifico di Caterina-Ircana,[66] ma che, nella varietà delle sue declinazioni, può riconoscersi proprio di tutti i personaggi che Goldoni venne cucendo con la stoffa interpretativa della Bresciani. È fra l’altro proprio grazie all’interazione creativa tra autore e attrice (caso davvero emblematico di tutta la drammaturgia goldoniana) che si rende oggi possibile, da un lato, effettuare una recensione verosimile di tutto il repertorio goldoniano della Bresciani (una ricognizione capace di andare finalmente al di là delle consuete tessere – da Ircana a Zandira, da Eugenia a Giacinta – che si è soliti allegare);[67] dall’altro, di misurare l’incidenza che la cosiddetta storia materiale dello spettacolo – nell’incarnato vivo di una specifica individualità interpretativa – rivestì per la fase più decisiva dell’evoluzione drammaturgica goldoniana.

Quanto all’evoluzione artistica della nostra attrice, ci si limiterà a segnalare che dovette essere proprio la peculiarità della sue attitudini interpretative a far sì che quei «rôles de charge» cui era originariamente destinata (vale a dire le parti ideate con funzione di contrappunto scenico alla prima amorosa: la donna maritata o vedova, la «mere difficile» o l’«amie pétulante»)[68] fossero sin dall’inizio giocati secondo l’accento che doveva esserle più congeniale: e cioè non solo e non tanto nella prospettiva della deformazione satirico-caricaturale, sulle soglie del farsesco, ma anche e soprattutto in quella dell’outrance, secondo quanto del resto prescritto dal campo metaforico originario, quello delle arti figurative, cui attingeva la lessicografia teatrale: «Pour qu’une chose soit chargée, il n’est pas nécessaire que le Peintre ait eu intention de la rendre ridicule, il suffit qu’elle soit outrée».[69] Congeniale per certo a Caterina, questa capacità di essere outrée – pur mantenendosi nella difficile dialettica del «jeu naturel» –,[70] che veniva a porgere lenti acute, nonché materia prima d’osservazione, a quel formidabile ricognitore delle mentalità e sensibilità emergenti che fu il teatro goldoniano. Nel caso specifico, la personalità interpretativa della Bresciani – quella sua outrance che travolgeva anche «dittatura dei ruoli» e «leggi della teatralità di moda»[71] – valse la possibilità di sovvertire gli schemi delle convenzioni rappresentative vigenti, e di tracciare il disegno – come abbiamo già visto – di un nuovo e poliedrico paradigma muliebre, attraverso cui percorrere la moderna topografia dell’interiorità.

Scena quinta e ultima. Dal Libro Quinto dei Defonti vergato nella parrocchia di Sant’Alessandro a Brescia:

2 Luglio 1780

È mancata fra’ vivi jeri alle ore 10 in età d’anni 58 munita del solo Sag.to della Penitenza per essere mancata quasi improvvisamente Catterina moglie di Angelo Lapi; ed è stata sepolta in questa chiesa Parrocchiale.[72]

Così si concluse il transito terreno di Caterina Angiola Mazzoni, forse mentre era chiamata a interpretare il classico exitus dei grandi protagonisti della scena.[73] Le sue spoglie mortali furono infatti accolte nella bresciana chiesa di Sant’Alessandro perché contigua al Teatro Grande, dove era attiva, in quella stagione, l’ex compagnia goldoniana del San Luca.

A quella compagnia, l’«Ircana famosa», dall’esordio sulle scene veneziane, nell’ormai lontano 1753, era rimasta fedele con la sua consueta ‘ostinazione selvaggia’, vedendovi probabilmente specchiata indelebile la propria identità artistica; e, più di ogni altro, ne era venuta rappresentando – gelosa custode – la storia e la memoria. Nei ventisette, ininterrotti, anni, che vi prestò servizio, Caterina infatti vide e visse, come scoglio immoto resta, tutti i rivolgimenti della compagnia. A poco a poco, tutti se ne erano andati: nel ’62 il suo «benedetto»[74] poeta di compagnia e nel ’67 la collega che le era da poco subentrata come prima donna (Giustina Campioni Cavalieri, già storica servetta del San Luca);[75] né vi avevano potuto brillare a lungo le nuove stelle del firmamento teatrale veneziano, assunte a sostituirla in quello che era stato il suo ruolo: prima la celebratissima – e, per pietosa ironia del destino, quasi omonima – Caterina Manzoni, poi Margherita Gavardina Cotei.[76] A dirla in breve: quando Caterina muore, di tutti i sodali che avevano formato l’ensemble goldoniano erano rimasti solo Antonio Martelli e Giuseppe Lapy, arruolati d’altronde al San Luca dopo di lei.[77] Ma ad essersi dileguata, soprattutto, era stata l’eccellenza artistica di una compagnia che per circa un ventennio aveva troneggiato nel tempio del teatro comico cittadino: estromessa infatti dal San Luca nel 1770, riuscì a tenere per poco più di un lustro la modesta ‘piazza’ del Sant’Angelo e – mentre quelle che erano state in passato le marginali comprimarie della scena veneziana, le troupes di Medebach e di Sacco, ascendevano di grado – aveva dovuto lasciare la città stessa e ridursi al rango di compagnia di giro, fatta salva un’occasionale comparsa sulla mediocre ribalta del San Cassiano, ormai ridotto a ricettacolo di «donne di mala vita e giovinetti prostituti».[78]

In questo processo di irreversibile degrado – e poco prima che, di lì a poco, la sua ‘famiglia comica’ si estinguesse del tutto – anche su Caterina, «quasi improvvisamente», cala il sipario. Non sappiamo se, come recita la sapienza retorica del Bartoli, fosse «Vecchia, e tremante» quando raccoglieva gli ultimi applausi del pubblico.[79]

Sappiamo solo che aveva 58 anni.

5. Epilogo

«Cossa me me piase quella Donna Ircana! / […] / No vorria che l’andasse mai lontana; / co no la vedo, i denti se me inchiava, / e la malinconia cussì m’aggrava, / che perdo, se pol dir, la tramontana»:[80] sarebbe bello e giusto ricordarla così, Caterina Bresciani.

Ma nei silenzi della storia qualche volta trapelano voci – sarebbe bello e giusto imparare ad ascoltarle, e provare così a rendere accettabile il buio.


[1] «Credo che sotto il titolo di ‘prospettive della ricerca goldoniana’, che ci raccoglie intorno a questo tavolo, vada segnalata con la dovuta chiarezza l’esigenza di leggere il teatro di Goldoni […] in una dimensione di storia dello spettacolo, in cui anche il testo vive in rapporto con la realtà dell’attore. […] vorrei sottolineare come in futuro gli studi goldoniani non potranno prescindere dall’ampliamento dell’indagine al contesto della recitazione settecentesca» (F. Vazzoler, Qualche (modesta) proposta sul ‘libro del teatro’, in Carlo Goldoni 1793-1993, Atti del Convegno del Bicentenario [Venezia, 11-13 aprile 1994], a cura di C. Alberti e G. Pizzamiglio, Venezia, Regione del Veneto, 1995, p. 160).

[2] Per un bilancio dell’impresa, varata dalla Marsilio nel 1993 e ancora in corso, mi sia consentito rinviare a Bilanci e progetti da un centenario all’altro: l’Edizione Nazionale di Goldoni, in Parola, musica, scena, lettura. Percorsi nel teatro di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi, Atti del Convegno (Venezia, 12-15 dicembre 2007), a cura di G. Bazoli e M. Ghelfi, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 419-34.

[3] Tra i volumi editi nell’ultimo lustro che si siano particolarmente distinti in tal senso, si segnalano quelli della Locandiera (a cura di S. Mamone e T. Megale, en, 2007), della Serva amorosa (a cura di P. D. Giovanelli, cura filologica di C. Mazzotta, en, 2007), dell’Avare fastueux (a cura di P. Luciani, en, 2010) e del Servitore di due padroni (a cura di V. Gallo, introd. di S. Ferrone, en, 2011).

[4] Il pensiero potrebbe correre, per limitarsi solo ad alcune tra le fonti già individuate, alle lettere di Medebach ad Arconati Visconti o ad Ubaldo Zanetti. Pare tuttavia soprattutto utile suggerire la necessità di un più ponderato utilizzo dei fondi documentari noti, e non solo per sfruttarne tutte le risorse ancora inedite, ma anche per evitare di trasformarle incautamente nel presupposto di considerevoli storture interpretative: come quella, di fresco conio, secondo cui «Darbes collaborò con la compagnia Medebach per il Teatro dei Vendramin fino al 1750». I dubbi del lettore che ricordasse come Medebach non lavorò mai per il San Luca (appunto il «Teatro dei Vendramin») e come nel periodo in questione la sua compagnia agiva invece al Sant’Angelo (dove D’Arbes fu una delle colonne della ‘riforma’ goldoniana),  dovrebbero essere dissipati da quello che viene proposto come un inequivocabile riscontro documentario, in grado – se reale – di comportare aggiustamenti storico-interpretativi di ampia portata: «Darbes, infatti, era legato formalmente al teatro dei Vendramin, come si evince da un contratto stipulato dall’attore in data 2 novembre 1749 e sottoscritto nuovamente in data 7 marzo 1750 (Biblioteca Casa Goldoni di Venezia, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, cc. 24r-v)» (G. Bazoli, La compagnia Sacchi, in Ead., L’orditura e la truppa. Le ‘Fiabe’ di Carlo Gozzi tra scrittoio e palconscenico, prefaz. di P. Vescovo, Padova, Il Poligrafo, 2012, p. 214 e n.; cfr. anche Ead., La vita spettacolare dei testi, in Metamorfosi drammaturgiche settecentesche: il teatro ‘spagnolesco’ di Carlo Gozzi, a cura di J. Gutiérrez Carou, Venezia, lineadacqua, 2011, p. 132. Inoltre si veda infra, n. 11). Ma in realtà il contenuto dei due contratti citati (il primo, peraltro, del 2 novembre 1748 e non ’49) non documentano affatto la militanza dell’attore nella compagnia del San Luca, e a rigore neanche un ingaggio propriamente detto: quanto piuttosto il diritto di ‘prelazione’ che il Vendramin si assicurava (attraverso un esborso di 25 ducati annui) sull’utilizzo dell’attore, per il periodo 1749-1754: dapprima, nel caso in cui D’Arbes fosse riuscito ad ottenere «il placito» del «Cappo» della sua compagnia (Medebach); poi (scrittura del 7 marzo 1750), se non fosse andato a buon fine il suo programmato ingaggio presso la corte di Dresda. L’attore in realtà sarebbe approdato al San Luca solo nel 1768, una volta scioltosi dalla compagnia Sacco in cui era confluito al ritorno da Dresda: come fra l’altro documenta il contratto stipulato con Vendramin in data 22 dicembre 1767 (cfr. Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere dall’anno 1733 sino 1764 attinenti alli accordi con li Sig.ri Comici per dover recitare nel Teatro di San Salvador, cc. 106-107; contrariamente a quanto indicato nel titolo del fascicolo, i documenti si estendono sino all’anno 1769. Per i contratti precedentemente citati, cfr. ivi, cc. 24-25).

[5] Così nella definizione di A. D’Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Firenze, Sansoni, 1911, rist. con prefaz. di E. Bonora, ivi, 1974, pp. 108-109.

[6] F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all’anno mdl. fino a’ giorni presenti, tt. 2, Padova, Conzatti, 1781-1782; rist. anast. Bologna, Forni, 1978.

[7] L’edizione (a cura di G. Sparacello, introd. di F. Vazzoler, trascr. di M. Melai), è stata pubblicata nel settembre del 2010 all’indirizzo IRPMF (ultimo accesso al sito del 16 febbraio 2013).

[8] Il dato documentario, tra i più antichi a conoscenza della critica goldoniana (anche perché esibito dallo stesso autore in una nota alla prima edizione della commedia), è stato di recente riletto, in una rivisitazione complessiva del sistema dei personaggi-interpreti del Festino, da C. Biagioli, Dai personaggi agli interpreti: il caso del ‘Festino’, «Studi goldoniani», n. s., I, 2012, pp. 71-86.

[9] Sintomatiche le probabili ragioni dell’errore attributivo: siccome la Bresciani fu per certo interprete della Lucietta delle Baruffe chiozzotte, come da diretta testimonianza goldoniana, in base ad un ingenuo slittamento avrebbe dovuto esserlo anche dell’omonimo personaggio dei Rusteghi, pur essendo affatto difforme il suo profilo attorico-drammaturgico e pur non essendo più da tempo in gioco un’onomastica di ‘ruolo’.

[10] Cfr. la lettera di Carlo Goldoni a Francesco Vendramin del 21 agosto 1759, in mn, vol. XIV, p. 225. Per i lineamenti fondamentali della Maiani (incline a incarnare quello che poi sarà il ruolo dell’ingenua) in rapporto alla drammaturgia goldoniana, cfr. C. Goldoni, La buona madre, a cura di A. Scannapieco, en, 2001, p. 282 (colgo l’occasione per un doveroso mea culpa: avendo in quella sede erroneamente attribuito la parte di Agnese a Vittoria Falchi, quando invece – come ho avuto modo di comprendere in seguito – era stata indubbiamente sostenuta da Giustina Campioni Cavalieri).

[11] Le citate affermazioni si leggono nei commenti alle voci «Gandini Teresa» (G. Sparacello), «Bresciani Caterina» (F. Arato), «Landi Lucio» (F. Crisanti), «D’Arbes Cesare» (G. Bazoli). Non meno degna di nota – sempre per limitarsi ad una campionatura di interesse goldoniano – la ‘delucidazione’ offerta a lettori e studiosi sui ruoli di Vittoria Falchi e Caterina Landi al tempo del loro ingaggio presso la troupe di Medebach (poeta di compagnia Goldoni): entrambe costrette, al di là ogni di ragionevolezza, nel medesimo e simultaneo ruolo di «seconda donna»:  e pazienza se la Falchi, come da espressa testimonianza goldoniana, era in realtà terza donna (il commento alle due voci in questione è fra l’altro a cura della medesima persona, Flavia Crisanti). Caterina Landi, che fu davvero seconda Donna, viene in compenso definita «spalla sicura per la Prima Donna, Maddalena Raffi Marliani»: la quale Maddalena da servetta si ritrovò così padrona, non prima di aver fatto fuori, a nostra insaputa, Teodora Medebach, la titolare del ruolo. A dare una misura della ‘bizzarria’ dell’annotazione storico-critica, si consideri infine come il lettore venga informato, sempre nel commento alla relativa voce, che Teresa Gandini sarebbe morta nel 1773, quando Bartoli stesso la dice ancora ben viva e vegeta nel 1782.

[12] Duole invece constatare che proprio uno degli ultimi volumi dell’Edizione Nazionale Goldoni ne legittimi l’autorità: cfr. Prefazioni e polemiche, ii, Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti, a cura di R.Turchi, Venezia, Marsilio, 2011, p. 60; e altrettanto dicasi per uno dei primi parti della pur lungamente meditata Edizione Nazionale Gozzi: cfr. La donna serpente, a cura di G. Bazoli, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 372-73.

[13] Cfr. A. Scannapieco, Le convenienze di una «volontaria amichevole assistenza»: Carlo Gozzi e i comici, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur: un carrefour artistique européen, Atti del Convegno (Paris, 23-25 novembre 2006), a cura di A. Fabiano, «Problemi di critica goldoniana», XIII, 2006 [ma 2007], pp. 11-27.

[14] C. Goldoni, L’Autore a chi legge de ‘La serva amorosa’, cit., pp. 70 e 192. L’identità dell’interprete veniva esplicitata in una nota introdotta solo nella seconda edizione della commedia (che qui ho riprodotto tra parentesi quadre), mentre veniva taciuta nella princeps (rispettivamente t. III Pasquali, 1762 e t. I Paperini, 1753). Goldoni peraltro dimentica la vera origine della Marliani, non veneziana ma, com’è noto, romana.

[15] C. Goldoni, L’Autore a chi legge de ‘La sposa persiana’, in Id., La sposa persiana, Ircana in Julfa. Ircana in Ispaan, a cura di M. Pieri, EN, 1996, p. 149 (nella citazione ripristino la lezione originale per «dell’eccellente», erroneamente trascritta come «nell’eccellente»). 

[16] Cfr., rispettivamente, C. Goldoni, Mémoires, p. II, chap. XVIII, in mn, vol. I, p. 326; F. Bartoli, Notizie istoriche, cit., t. II, p. 42; A. Piazza, Giulietta ovvero il seguito dell’impresario in rovina, Venezia, Fenzo, 1771, p. 74.

[17] Esemplare in tal senso, e sin dal titolo, uno dei più citati contributi in materia di comici goldoniani (e non solo): G. Herry, Goldoni e la Marliani ossia l’impossibile romanzo, «Studi goldoniani», 8, 1988, pp. 137-58 (se ne riconsideri in particolare l’assunto programmatico, p. 138: «Mettendo a confronto tra di loro queste diciassette commedie [quelle scritte da Goldoni per la compagnia Medebach da quando vi rientrò l’attrice], che formano una specie di ciclo se vengono più attentamente considerate quelle la cui parte principale fu ideata per la Marliani, si può immaginare che pure Goldoni abbia concepito per lei – con lei, su di lei e di lui – un vero romanzo, scritto a frammenti. Il romanzo ciclico della servetta – splendore e miseria di Corallina – intrecciato con quello delle illusioni – fervide, poi perdute – del poeta Pigmalione»).

[18] Dal 1753 e almeno fino a tutto il 1764 (cfr. mn, vol. XIV, pp. 310 e 852) Goldoni commisura le sue strategie drammaturgiche soprattutto al profilo della Bresciani; poco più di un lustro aveva invece agito l’ispirazione della Medebach, e appena un biennio quella della Marliani.

[19] M. Pieri, Introduzione a Goldoni, La sposa persiana, cit., p. 26. Il retroterra critico di tale assunto era stato egregiamente costruito da Manlio Pastore Stocchi, per cui si veda la nota successiva.

[20] M. Pastore Stocchi, Introduzione a C. Goldoni, La trilogia di Ircana, a cura di M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1993, pp. XXVIII-XXIX; merita citare per esteso il contesto di riferimento: «il temperamento e l’intelligenza di costei [Caterina Bresciani], sostenuti da una prestanza ammirabile e probabilmente adorni di una qualche cultura, configuravano un tipo di femminilità molto diverso da quelli con cui Goldoni aveva avuto a che fare per i teatri come uomo e come artista e che si era fino ad allora specializzato a rappresentare, splendidamente, nelle sue commedie. Attraverso la Bresciani egli scoprì o comunque ottenne la possibilità di realizzare quell’immagine nuova di donna che al culminare del secolo si imponeva nella civiltà europea dei salotti e dei romanzi come segno di una sensibilità assai più complicata di quella accreditabile alle brillanti e disperanti seduttrici celebrate e in un certo senso liquidate con l’astuta locandiera. Era una donna nata, più che per la disperazione dell’uomo, per la disperazione di se stessa; che sostituiva alla tradizionale titolarità dell’istinto e della malizia il tormentoso privilegio della passionalità intensa ed inquieta, tanto più disarmata quanto più ardente; che mutava il vanto della vittoria sul maschio nel rovello di non saper accordare ragione e sentimento. Nel decennio seguente al 1753, accanto ai personaggi femminili senza tempo attinti al minuto vero del popolino e della gretta borghesia veneziana Goldoni continuerà a studiare e a rendere sempre più perfetto attraverso l’arte scenica di Caterina Bresciani il modello storicamente definito, emergente dalla sensibilità e dalla cultura europee al livello più avanzato, di una protagonista borghese colta e votata al dramma, dominatrice e al contempo insicura fino alla nevrosi, non gratificata quasi mai da un lieto fine vero e proprio».

[21] Sull’argomento, di cui tratterò più distesamente altrove, cfr. intanto A. Scannapieco, In viaggio con Todero per le scene dell'Italia ottocentesca. Appunti sulla nascita del (l'anti)classicismo goldoniano, «Problemi di critica goldoniana», V, 1998, pp. 266-70 e 320-31; Ead., Commento a Goldoni, La buona madre, cit., pp. 278-79.

[22] Cfr. la lettera di Goldoni a Francesco Vendramin del 23 giugno 1759 («a riserva d’una lettera della sig.a Bresciani […], non ho avuta veruna notizia della Compagnia») e quella al medesimo dell’11 settembre 1759 («Ho ricevuto una lettera assai cortese dal sig.r Maiani in nome della Compagnia, un’altra ne ho ricevuto dalla sig.a Bresciani, e per la parte della Compagnia ho ragion di sperare una buona condiscendenza al mio progetto, e gratitudine all’attenzione che mi propongo»: mn, vol. XIV, pp. 218 e 230; cfr. anche ivi, p. 215). Il dato – mai sinora rilevato, a quanto mi consta – non ha riscontro per nessuna delle altre ‘comiche’ goldoniane, così come d’altronde è estremamente ridotto il numero degli interpreti maschili di cui è documentato un rapporto epistolare con l’autore (cfr. A. Scannapieco, «…e per dir la verità sinora la mia Compagnia trionfa», cit., pp. 299-300).

[23] Così puntualmente M. Pastore Stocchi, Introduzione, cit., p. XXVIII, che tuttavia pare desumere il dato («solo alla “signora” Bresciani dedica sempre un’intonazione singolarmente riguardosa […]») unicamente dal fatto che l’autore menzioni sempre l’attrice con l’appellativo rispettoso di signora, appellativo invece impiegato da Goldoni anche in riferimento ad altri attori. Ciò nondimeno, la percezione è esatta, come confermano le citate testimonianze epistolari.

[24] Per cui sostanzialmente immutato resta quanto amaramente rilevava un ventennio fa il già citato Franco Vazzoler: «nei volumi fino ad ora pubblicati del Dizionario biografico degli italiani le voci dedicate agli attori goldoniani (e in generale agli attori settecenteschi) sono estremamente ridotte, al punto che è assente, per esempio, quella relativa a Caterina Bresciani, per la quale, dopo aver consultato l’Enciclopedia dello spettacolo, dobbiamo rifarci ancora al vecchio repertorio del Rasi se non ai due volumi delle Notizie istoriche dei comici italiani del Bartoli» (F. Vazzoler, Qualche (modesta) proposta sul ‘libro del teatro’, cit., p. 160). Presso il monumentale repertorio del dbi, ai comici goldoniani non arride particolare fortuna neanche negli anni successivi al 1993: a parte la voce dedicata a Francesco Falchi (a cura di Roberta Ascarelli, vol. 44, 1994), mancano all’appello i Gandini, i Landi, i Lapy, i Maiani, Antonio Martelli; mentre solo a Giuseppe Marliani e a Girolamo Medebach sono state dedicate due voci (entrambe a cura di Teresa Megale, voll. 70, 2008, e 73, 2009), peraltro non innovative dal punto di vista documentario.

[25] «Nell’Autunno dell’anno 1753 esponendosi nel Teatro S. Luca La Sposa Persiana del Celebre Sig. Dottor Goldoni per la prima volta, vi rappresentò  la Bresciani la parte d’Ircana, fiera, ed iraconda; e lo fece con tanto foco, e con tanta verità investissi di quell’orgoglioso carattere, che oltre l’essersi stabilita con essa la fama di celebratissima Attrice, acquistossi poi anche il Nome d’Ircana famosa» (F. Bartoli, Notizie istoriche, cit., t. I, p. 132); «Cette Actrice qui ajoutoit à son esprit et à son intelligence les agrémens d’une voix sonore, et d’une prononciation charmante, fit tant d’impression dans cette heureuse Comédie, qu’on ne la nomme depuis que par le nom d’Hircana» (Goldoni, Mémoires, p. II, chap. XVIII, in mn, vol. I, p. 326).

[26] Mémoires, p. II, chap. XIX, in mn, vol. I, p. 327.

[27] Sul valore della definizione, additata da Goldoni stesso (ivi, p. 317), cfr. quanto verrà osservato di seguito a testo e nella n. 68.

[28] A. Gentile, Carlo Goldoni e gli attori, con pref. di R. Simoni, Trieste, Libreria L. Cappelli, 1951, p.  57. Sulla recente rivalutazione dello studio di Gentile come di una «grande e indubbia opera di ricostruzione della struttura delle compagnie e delle loro modificazioni e della individuazione delle corrispondenza fra i personaggi goldoniani e gli attori che li recitavano» (F. Vazzoler, La critica goldoniana e il problema degli attori, «Problemi di critica goldoniana». XVI, 2009, p. 270), mi permetto di rinviare alle riserve espresse in «…e per dir la verità sinora la mia Compagnia trionfa», cit.

[29] Il corsivo è mio.

[30] Mémoires, p. II, chap. XVIII, in mn, vol. I, p. 326.

[31] Ivi, p. II, chap. XLII, in mn, vol. I, p. 420.

[32] «[4 gennaio 1756] Si diede permissione di valersi delle maschere diurnamente, e nel Teatro di S. Luca si recitò una Comedia intitolata: la Donna sola. Li personaggi sembrano adattati ad alcuni Nobili Giovani, et al fare di certe Dame, che affettano primaria vista» (Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Codice Gradenigo-Dolfin n° 67, vol. III, c. 125r). La testimonianza del Gradenigo aiuta a decriptare i toni reticenti della prefazione con cui l’autore corredò la prima edizione della commedia (nel t. vii della Pitteri, 1761): «Questa non dovrebbe essere cattiva lezione. Se l’applichi a se stessa chi per avventura ne abbisognasse. Io saprei forse applicarla, ma Dio mi guardi dal dichiararmi. Scrivo per tutti; parlo all’universale; taccia chi pungere si sentisse, e si corregga se può, e mi compatisca se vuole» (mn, vol. VI, p. 449). Merita sottolineare che nel corso della prefazione – intonata secondo le strategie retoriche che Goldoni è solito impiegare quando il suo obiettivo polemico è altolocato e dunque impone prudente reticenza – mai viene menzionato o anche solo alluso il nome della Bresciani, su cui poi invece indugeranno i Mémoires (si veda di seguito a testo la relativa citazione). Circostanza che puntualmente si riproduce anche nelle prefazioni alle altre due commedie che ciò nonostante vengono per solito, da Ortolani ai giorni nostri, allegate a documento del profilo umano o professionale della Bresciani, e cioè La donna stravagante e Lo spirito di contradizione (rappresentate rispettivamente nel carnevale 1755-1756 e in quello 1757-1758, e pubblicate nel t. I, 1760, e nel t. IX, 1763, dell’edizione Pitteri): cfr. mn, vol. VI, pp. 99 e 799.

[33] Mémoires, p. II, chap. XL, in mn, vol. I, p. 413. Lo stesso cliché rappresentativo viene retrospettivamente azionato nel caso della Donna stravagante, la cui prefazione invece – come già sottolineato – non implicava alcun riferimento alla nostra attrice: «Cette Piece eut assez de succès, et elle étoit faite pour en avoir un plus marqué; mais Madame Bresciani qui, de son naturel, étoit un peu capricieuse, crut se voir jouée elle-même, et sa mauvaise humeur affoiblit le succès de l’ouvrage» (ivi, p. II, chap. XLII, p. 420).

[34] È utile citare per esteso quanto lo studioso annota sull’ideazione della Donna sola: «il G. aveva forse vagheggiato nella fantasia un’altra Mirandolina, elegante e imperiosa, una Circe settecentesca che ricevesse le adorazioni degli evirati servi d’amore, e non si concedesse a nessuno. E certo aveva già un modello nella mente, come confessava nei Mémoires […]: non Maddalena Marliani (la Locandiera), né Serafina Penni (Bellarosa), né Cornelia Barbaro Gritti, l’allegra maga veneziana, ma la sdegnosa Ircana del teatro di San Luca, Caterina Bresciani, che nella testolina aveva più d’un capriccio, e fece disperare più d’una volta il povero poeta» (mn, vol. VI, p. 1248; dalla Nota storica alla Donna sola). Sempre sulla falsariga dei Mémoires (cfr. supra, n. 33), così Ortolani si esprimeva nella presentazione della Donna stravagante: «qualche cosa del carattere della Donna stravagante è già in Mirandolina che si diverte nel far soffrire il Cavaliere, e molto più nella Ircana della trilogia persiana […]. Afferma il G. nei Mémoires che la recita ebbe buon esito, ma poteva esser migliore se l’attrice Bresciani, genietto capriccioso, credendosi preso di mira, non avesse recitato freddamente» (ivi, pp. 1229-30).

[35] Sistematicamente ignorato è stato infatti il prosieguo del racconto relativo all’allestimento e all’esito della Donna sola: «Elle avoit de l’esprit; elle n’en fut pas la dupe, mais elle trouva la Piece à  son gré; elle s’y prêta de bonne grace et avec intérêt. L’Actrice fit beaucoup de plaisir, et la Piece eut beaucoup de succès» (mn, vol. I, p. 413).

[36] C. Goldoni, La cameriera brillante, a cura di R. Cuppone, introd. di P. Puppa, en, 2002, p. 96. Per il profilo dell’attrice, su cui ritornerò più diffusamente altrove, mi sia consentito per ora rinviare a Id., La dalmatina, a cura di A. Scannapieco, en, 2005, pp. 259-61. L’errore segnalato a testo, che è andato spesso e non a caso di pari passo con l’utilizzo inerziale delle testimonianze sulla Bresciani confezionate nell’ottica romanzesca dei Mémoires, ha il suo nucleo generatore nella parentela tipologica che Ortolani, come s’è visto (cfr. n. 34), frequentemente statuisce tra Mirandolina-Marliani e Ircana-Bresciani, e che, fra l’altro, ha trovato autorevole sviluppo nell’impianto interpretativo della più recente edizione della trilogia persiana (Goldoni, La sposa persiana, cit., pp. 23-27). Al contributo di Marzia Pieri, cui la critica (non solo goldoniana) deve pagine di acuta innovatività, hanno poi probabilmente attinto altri studiosi di rango (cfr. ad es. P. Vescovo, Carlo Goldoni: la meccanica e il vero, in I. Crotti-P. Vescovo-R. Ricorda, Il “mondo vivo”. Aspetti del romanzo, del teatro e del giornalismo nel Settecento italiano, Padova, Il Poligrafo, 2001 p. 108).

[37] Mémoires, p. I, chap. VI, in mn, vol. I, p. 29.

[38] Come ha suggestivamente sottolineato Marzia Pieri, «l’attrice assunse, con una nuova identità, la maschera del personaggio, come era mille volte accaduto a tanti Arlecchini suoi colleghi: giacché il pubblico non cercava ormai i suoi beniamini tra i buffoni, ma fra le anime tormentate» (M. Pieri, Introduzione, cit., p. 26).

[39] Firenze, Opera di Santa Maria del Fiore, Archivio storico delle fedi di battesimo, reg. 306, fg. 30 (2 novembre 1722-19 novembre 1722). Troppo lungo sarebbe in questa sede spiegare il percorso che ha reso possibile l’identificazione del cognome originario e poi l’individuazione precisa della nostra Caterina Angiola, nome con cui nel periodo in questione sono battesimate figlie di diversi Mazzoni: mi riprometto pertanto di chiarirlo in altra sede.

[40] Cfr. P. Pieraccini, Note di demografia fiorentina. La parrocchia di S. Lorenzo dal 1652 al 1751, «Archivio Storico Italiano», 315, LXXXIII, 1925, pp. 39-76.

[41] Il dato è desumibile dalla consultazione degli Status animarum della parrocchia di San Lorenzo, conservati presso l’omonimo Archivio Capitolare, da cui si evince che i genitori di Caterina abitano stabilmente in via Porciaia: nel 1722 da soli (4082, c. 39) e nel 1723 con la figlia di un anno (4085, c. 77); l’ultimo anno in cui la primogenita dei Mazzoni risulta abitare nella casa natale è il 1745 (4128, c. 85).

[42] Cfr. Stradario sinottico per alfabeto rigoroso della città di Firenze. Con le respettive parrocchie, monasteri, conventi, conservatorj, spedali, ospizi, e popolazione, Firenze, Tipografia Arcivescovile, 1856, p. 16.

[43] F. Fantozzi, Nuova guida ovvero Descrizione storico-artistico-critica della città e contorni di Firenze, Firenze, Ducci, 1847, p. 18. I dati demografici confermano ampiamente, per il periodo di nostro interesse, questa realtà: in via Porciaia infatti risiedevano 94 famiglie, distribuite in 35 edifici, di cui 65 indigenti, 28 povere, 1 «comoda», nessuna benestante o ricca (P. Pieraccini, Note di demografia fiorentina, cit., pp. 42-43).

[44] Questo e i dati immediatamente precedenti sono desunti dallo Stradario storico e amministrativo del Comune di Firenze, a cura di P. Fiorelli e M. Venturi, Firenze, Polistampa, 20043, s.v. Via Sant’Antonino (consultabile anche in rete sul sito del Comune di Firenze).

[45] Dell’incidenza che via dell’Amore dovette rivestire nella genesi compositiva della Mandragola pare costituire indizio significativo il fatto che sia richiamata sin dal prologo della commedia  («[…] / quella via, che è colà in quel canto fitta, / è la via dello Amore, / dove chi  casca non si rizza mai»). La storicità del suo nome, facilmente equivocabile nei termini di una convenzionale allusività, era già stata segnalata da Santorre Debenedetti nella propria edizione della commedia (Strasburgo, Heitz, 1910), ed è stata di recente suggestivamente ricondotta da Pasquale Stoppelli ad una precisa volontà dell’autore di rendere ancora più tagliente la polemica che si intreccia attorno al personaggio di frate Timoteo: data l’ubicazione della via, che mette capo sulla piazza vecchia di Santa Maria Novella, il richiamarla intendeva essere «una puntura velenosissima nei confronti dell’affarismo dei domenicani» del convento omonimo, cui risulta per questa via appunto aggregato il torbido personaggio (P. Stoppelli, La Mandragola: storia e filologia. Con l’edizione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 50-51 e n.). Senza nulla togliere all’acutezza di tale prospettiva interpretativa, credo che essa possa anzi ricevere un’ulteriore articolazione con il ricordare che via dell’Amore era una di quelle «strade e luoghi deputati per le meretrici» accuratamente censiti dagli Ufficiali dell’Onestà e con cui d’altronde messer Niccolò aveva profonda dimestichezza (sul tema, cfr. da ultimo S. Sieni, La sporca storia di Firenze, Firenze, Le Lettere, 2002).

[46] Cfr. Firenze, Archivio Capitolare di San Lorenzo, Stati d’anime, 4090 (1726), c. 84; 4094 (1728), c. 113; 4098 (1730), c. 81; 4102 (1732), c. 84; 4128 (1745), c. 87. Ivi, Libro de’ morti, 5096, cc. 151 e 310.

[47] Al riguardo, nessun risultato hanno sinora prodotto le mie ricerche, esercitatesi fra l’altro sullo spoglio sistematico del Fondo Teatro Niccolini, conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, che costituisce la riserva documentaria più ricca per le attività di quel teatro del Cocomero (1644-1860; poi Niccolini) presso cui Caterina avrebbe potuto compiere il suo apprendistato. Il Cocomero, che traeva nome dalla sua ubicazione (l’attuale via Ricasoli), distava una manciata di minuti da via Porciaia.

[48] Venezia, Archivio di Stato, Notarile, testamenti non pubblicati, Notaio Andrea Bonamin, b. 73, n° 41. Il documento è redatto in data 27 dicembre 1754.

[49] Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere, cit., cc. 83r-v; il contratto, stipulato in data 22 dicembre 1766, è sottoscritto «Io Natale Bresciani Aff.mo per me e mia moglie Catterina Bresciani» e prevede anche per il marito dell’attrice il rinnovo dell’ingaggio (nell’«Orchestra»). Sottoscritti nel medesimo modo erano stati gli altri tre contratti precedenti (cfr. ivi, cc. 44-46).

[50] Sull’evoluzione-denominazione della compagnia del San Luca, di cui è stato erroneamente attribuito a Giuseppe Lapy il capocomicato sin dal 1753, cfr. A. Scannapieco, «…e per dir la verità sinora la mia Compagnia trionfa», cit., pp. 295-98. Com’è noto, all’altezza del 1777-1778 Antonio Piazza, nella caricaturale trasposizione romanzesca de Il teatro ovvero fatti di una veneziana che lo fanno conoscere (Venezia, Costantini), avrebbe schizzato anche il profilo della «comica compagnia del L. … bolognese», nel cui ambito il ritratto della «famosissima e celebratissima Ircana» sarebbe stato pressoché interamente assorbito da quello del suo secondo marito e del loro ménage; l’acre deformazione satirica e farsesca lascia suo malgrado intravedere i tratti di una dolente umanità: «Suo marito, quando ella recita, va nel parterre a batter le mani. Alcuni gondolieri a Venezia, che di ciò se ne accorsero, gli andavano sempre vicini e applaudivano la sua cara metà con quella voce che si fa sentire tanto dagli orecchi come dal naso. Egli ardeva di rabbia, ma bisognava soffrir e tacere. Era questi zoppo e pareva Vulcano che avesse presa la Beffana per moglie. Oh che bel matrimonio! Che smorfie! che dolcezze reciproche! che carezze! Udire quella brutta vecchiaccia a chiamarlo sempre col “viscere mie”, “mio core”, “anima mia”, parole paralitiche che le ballavano in bocca prima di uscire; veder lui zoppicando starle attaccato sempre alla gonna, usare il diminutivo nel di lei nome, vaneggiarla alla presenza di tutti, era cosa da eccitare il vomito alli stomachi più forti eziandio» (A. Piazza, L’attrice, a cura di R. Turchi, Napoli, Guida, 1984, pp. 129-30).

[51] C. Goldoni, Introduzione alle recite Autunnali in Venezia nell’anno 1761. Recitata dalla Signora Caterina Bresciani, Prima Donna della Compagnia che dicesi di San Luca, vv. I.2-3 e 6-8, XVI.8 in Id., Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti, cit., pp. 217 e 221. L’ubicazione della casa è desumibile dal citato testamento di Natale Bresciani.

[52] Id., Introduzione per l’apertura del teatro comico detto di San Luca la sera de’ 7 ottobre 1753, ivi, p. 87.

[53] Come spesso accade, la convenzione rappresentativa è stata assunta in una valenza letterale, laddove il poeta di compagnia era solito praticare (e non di rado reinventare) accorte strategie di captatio per la presentazione al pubblico di attori esordienti sulla scena veneziana; particolarmente eloquente il caso del Pantalone Collalto nel fatidico anno comico 1750-1751, per cui cfr. A. Scannapieco, Goldoni tra teoria e prassi del teatro comico. Appunti proemiali, in Carlo Goldoni in Europa, a cura di I. Crotti, «Rivista di letteratura italiana», I, XXV, 2007, pp. 13-37, in partic. pp. 21-28.

[54] Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere, cit., cc. 45r-v. All’attrice, ingaggiata «in qualità di seconda doña assolutta», erano garantiti  «quegli profitti tutti che suole avere la seconda doña di detta Compag.a, cioè la sua giusta parte intera di Cassetta e lire tre Veneziane di spesatto per ogni Recita, come pure la sua porcione delli ducatti Ottocentocinquanta, che dona S. E. al capo della Compagnia, giusto, e nelle forme e tempi praticati, e la porcione delli soldi tre per scagno il Carnovale, che godono essi Comici»: era cioè non solo gratificata del trattamento economico riservato agli attori titolari di ruolo (le cosiddette «parti prime»), ma riceveva anche un supplemento fisso a recita.

[55] Cfr. D. Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della repubblica, Padova, Cedam, 1954, p. 176 e, per la realtà fiorentina, P. Pieraccini, Note di demografia fiorentina, cit., pp. 66 e 76. Il dato è peraltro da assumere in un senso molto relativo, data la forte incidenza della mortalità infantile sul calcolo dell’età media.

[56] Cfr. N. Mangini, I teatri di Venezia, Milano, Mursia, 1974, pp. 112-13.

[57] Per la discussione di questo inossidabile topos storico-critico, mi sia consentito rinviare ancora a «…e per dir la verità sinora la mia Compagnia trionfa», cit.

[58] Oltre a Caterina, è esordiente sulla scena veneziana anche il milanese Giuseppe Angeleri («un excellent Acteur», come lo ricorderà lo stesso Goldoni: Mémoires, p. II, chap. XXII, in mn, vol. I, p. 340; cfr. inoltre Id., Introduzione per l’apertura del teatro comico detto di San Luca la sera de’ 7 ottobre 1753, cit., b. 9 e n., p. 86); sono poi esordienti sulla scena del San Luca Francesco Maiani e i coniugi Francesco e Vittoria Falchi, come attesta non solo la citata Introduzione (bb. 15 e 39) ma anche i relativi contratti (Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere, cit., cc. 29r-v e 38r-v: rispettivamente Francesco Maiani, 13 marzo 1753, e coniugi Falchi, 7 agosto 1753). I Falchi e Maiani erano stati attori di formazione goldoniana: gli uni, com’è noto, perché fino al 1753 nell’organico della compagnia Medebach (da cui si staccarono proprio per seguire al San Luca il poeta di compagnia), l’altro perché aveva esordito, nel 1740 al San Samuele, proprio sotto la direzione goldoniana (cfr. A. Scannapieco, Alla ricerca di un Goldoni perduto: “Osmano re di Tunisi”, «Quaderni Veneti», 20, dicembre 1994, pp. 9-56, in partic. pp. 21-27). L’autore aveva inoltre avuto modo di conoscere a Milano, nel 1733, Francesco Rubini (all’epoca Pantalone nella compagnia di Buonafede Vitali, dal 1735 al San Luca, in sostituzione del celebre Pantalone Garelli), e, soprattutto, Pietro Gandini, zanni ‘trasformista’ nella compagnia Imer nei primi anni dell’ingaggio goldoniano presso il teatro Grimani.

[59] Cfr. A. Scannapieco, Carlo Goldoni direttore e ‘salariato’ dei suoi comici, cit.

[60] «Clarice Signori miei, se tanta soggezione si prende il Signor Brighella, che finalmente è uomo, che cosa dovrò far io, che sono una povera donna?» (Introduzione per l’apertura del teatro comico detto di San Luca la sera de’ 7 ottobre 1753, cit., b. 14, p. 87).

[61] M. Pieri, Introduzione, cit., p.  26.

[62] Per i dati documentari cfr. A. Scannapieco, «…gli erarii vastissimi del Goldoniano repertorio». Per una storia della fortuna goldoniana tra Sette e Ottocento, «Problemi di critica goldoniana», VI, 1999, pp. 143-238, in partic. pp. 166-183. Si vedano inoltre in en le edizioni critiche delle tre pièces (La dalmatina, cit.; La scozzese, a cura di M. Pieri, 2006; L’Artemisia, a cura di Ead., in corso di stampa).

[63] I documenti in questione, che saranno distesamente allegati e analizzati altrove, attingono prevalentemente alla drammaturgia goldoniana per il San Luca: qualora passata in rassegna con vigile pazienza, essa si dimostra infatti una tra le fonti principali per accedere alla conoscenza di Caterina e di tanti suoi colleghi.

[64] È l’espressione che Zamaria della Bragola, alias Pietro Gandini, impiega per indicare allo «stropolo» Francesco Falchi (primo amoroso), l’attrice (e cioè la moglie Teresa, prima donna) con cui avrebbe dovuto concertare il proprio ruolo (C. Goldoni, Introduzione per l’apertura del teatro comico detto di San Luca la sera de’ 7 ottobre 1753, cit., b. 47, p. 91: «Ma come diavolo voléu far scena co sto bocon de dona?»; la nota d’autore precisa che il riferimento va alla «statura grande della prima donna»).

[65] Questi dettagli fisici – evidentemente non ascrivibili a truccatura scenica – sono desunti dalla descrizione di uno dei personaggi costruiti su misura della Gandini, la sposa persiana Fatima (cfr. C. Goldoni, La sposa persiana, cit., pp. 165-66).

[66] M. Pieri, Introduzione, cit., p.  26.

[67] Tale recensione verrà naturalmente offerta e argomentata nell’approdo conclusivo dell’indagine.

[68] Come già accennato, la destinazione originaria della Bresciani a «rôles de charge» è documentata da una preziosa indicazione dell’autore stesso: «On venoit de recevoir une Florentine charmante, mais c’étoit pour l’emploi de seconde; et je courois le risque d’être obligé de donner les rôles de charge à la jeune, et ceux d’Amoureuse à la surannée [Teresa Gandini, «premiere Actrice de la Troupe»]» (Mémoires, p. II, chap. XVII, in mn, vol. I, p. 317; il corsivo è mio). Al di là delle indicazioni che può offrire un Littré («Au théâtre, exagération dans la manière de jouer un rôle, de représenter un personnage», s.v. charge, n. 15), o recenti dizionari settoriali (cfr. ad es. A. Pierron, Dictionnaire de la langue du théâtre, Paris, Le Robert, 2009, pp. 106-107), valgono quelle desumibili dallo stesso Goldoni: che, per esempio, addita nelle tipologie dei personaggi citati a testo parti congeniali alle attitudine interpretative richieste da «rôles de charge» femminili, contrastivi rispetto ai «rôles graves et sérieux» (cfr. Mémoires, p. III, chap XXII, in mn, vol. I, pp. 534-35). È inoltre possibile desumere – come si proporrà altrove – ampie esemplificazioni delle caratteristiche di tali ruoli proprio esaminando moltissimi dei personaggi interpretati dalla Bresciani nei primi due anni della drammaturgia goldoniana per il San Luca.

[69] Dictionnaire universel françois et latin, contenant la signification et la définition tant des mots de l’une et l’autre Langue, avec leurs différens usages, que des termes propres de chaque Etat et de chaque Profession. […] Nouvelle édition corrigée dans laquelle on a placé les Additions selon leur rang, t. II, Nancy, Pierre Antoine, 1740, col. 371 (nell’antiporta: Dictionnaire universel françois et latin, vulgairement appellé Dictionnaire de Trevoux).

[70] Sainte-Albine traccia non a caso le sue preziose considerazioni sulla «charge au Théâtre» nell’ambito del capitolo intitolato al «Jeu naturel» (p. II, chap XI): cfr. P.R. de Sainte-Albine, Le Comédien (1747), Paris, Desaint & Saillant, 17492, pp. 214-27.

[71] Così nell’acuta definizione che Siro Ferrone ha impiegato per la Bresciani ispiratrice-interprete di Eugenia, «amorosa sui generis, ribelle alla dittatura dei ruoli e delle teatralità di moda» (Introduzione a C. Goldoni, Gl’innamorati, a cura di S. Ferrone, en, 2002, p. 27).

[72] Brescia, Archivio parrocchiale di Sant’Alessandro, Libro Quinto dei Defonti Nella Chiesa Parrocchial Preposit» di S. Alessando di Brescia che incomincia il dì 9. Genaro 1774. e termina il dì 14 Ottobre 1794, c. 42r. Risulta per questa via confermata l’attendibilità della testimonianza del Bartoli: «Morì in Brescia, unita alla Compagnia del Lapy, dalla quale non mai si divise, e ciò fu la Primavera dell’anno 1780». La compagnia aveva effettivamente trascorso la stagione primaverile a Brescia, dove doveva essersi intrattenuta ancora ai primi di luglio e prima di recarsi per la stagione estiva nella piazza di Cremona (i dati, ora e di seguito, sono desunti dall’Indice de’ teatrali spettacoli, per la cui riproduzione anastatica e integrale cfr. Un almanacco drammatico: l’Indice de’ teatrali spettacoli 1764-1823, a cura di R. Verti, Pesaro, Fondazione Rossini, 1996. È senz’altro preferibile ricorrere a tale fonte diretta, dal momento che parziali sono i dati della stessa utilizzati dalla pur meritoria ricognizione di O. Giardi, I comici dell’arte perduta. Le compagnie comiche italiane alla fine del secolo XVIII, Roma, Bulzoni, 1991).

[73] Secondo il sistema di computo in uso sino alla fine del '700, l’ora del decesso (le 10 ore dopo l’Angelus, calcolate a partire da mezz’ora dopo il tramonto del sole) dovette avvenire – stante la stagione estiva – nottetempo, poco dopo la rappresentazione. Il carattere repentino della morte («quasi improvvisamente») corrobora l’ipotesi di evento che coglie persona nella sua normale routine.

[74] Cfr. la celebre battuta di Madama Doralice-Bresciani che, nel Festino, difende il creatore della sua ‘maschera’-Ircana: «Mille volte al poeta io dissi: oh benedetto!» (mn, vol. V, p. 472).

[75] Stando ad una lettera di Goldoni a Marco Milesi, la Campioni era già diventata prima donna all’altezza del febbraio 1763 (cfr. mn, vol. XIV, p. 275); ma nel nuovo contratto che ella aveva sottoscritto con la proprietà del San Luca nel novembre 1762 risultava solo specificato che «perché parimenti in d.o tempo può accadere che la Sig.a Cattina Bresciani, che di pñte occupa il posto, et esercita il Caratere di p.ma Donna nel teatro di d.to N. H. tralasciasse per qualche motivo, ò accidente ñ preveduto di recitare in d.o Posto, ò s’allontanasse dal teatro, si obbliga d.o N. H. di esibire il sud.to caratere o sia posto di p.ma donna alla sud.ta Sig.a Giustina»  (Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere, cit., c. 44r). D’altro canto, nel rinnovo della stipula che tanto la Bresciani quanto la Campioni sottoscrissero nel 1766 non viene fatto alcun riferimento al rispettivo grado comico (cfr. ivi, cc. 83 e 86; entrambi i contratti sono datati 22 dicembre 1766). Che la Campioni abbandonasse la compagnia nel 1767, alla morte del padre, è testimoniato da Bartoli (Notizie istoriche, cit., t. I, pp. 150 e 167), ed è indirettamente comprovato dall’arruolamento al San Luca di Caterina Manzoni come prima donna a partire dal 1768.

[76] La Manzoni militò come prima donna nella compagnia Lapy dal 1768 al 1774; la Gavardina dal 1770 al 1776 (e poi vi tornò occasionalmente nel 1779-1780, prima di confluire nella compagnia Perelli: dati desunti dal citato Indice de’ teatrali spettacoli).

[77] Per il primo contratto del Lapy al San Luca, stipulato un anno dopo quello della Bresciani, cfr. A. Scannapieco, «…e per dir la verità sinora la mia Compagnia trionfa», cit., pp. 297-98; quanto al Martelli, subentrò al Brighella Angeleri a partire dall’anno comico 1754-1755 (cfr. C. Goldoni, Introduzioni, Prologhi, Ringraziamenti, cit., pp. 111-13; la prima testimonianza di un ingaggio stabile è rimasta consegnata ad una lettera scritta dall’attore al Vendramin l’11 novembre 1755: cfr. Venezia, Biblioteca di Casa Goldoni, Archivio Vendramin, 42.f.8/1, Scritture e Lettere, cit., c. 62).

[78] Dallo spoglio del citato Indice risulta che la compagnia, di stanza al Sant’Angelo fino al 1776, è attiva per l’anno comico 1777-78 a Trieste (primavera), Gorizia e Vicenza (estate), Padova (carnevale); in quello 1778-79 a Udine (primavera), Rovigo (estate), Brescia (autunno), Venezia San Cassiano (carnevale); in quello 1799-80 a Torino (primavera), Milano (estate), Brescia (autunno), Padova (carnevale); in quello 1780-81 a Brescia (primavera), Cremona (estate), Lignano (autunno), Vicenza (carnevale). La testimonianza citata a testo sul degrado del San Cassiano è tratta da una riferta di Giacomo Casanova agli Inquisitori di Stato (1° dicembre 1776), edita in Agenti segreti di Venezia 1705-1797, a cura di G. Comisso, Vicenza, Neri Pozza, 1994, pp. 201-202.

[79] La voce che Bartoli dedica all’attrice, tutta tramata dall’esigenza di rispondere all’oltraggiosa caricatura di Antonio Piazza (cfr. supra, n. 50), accorda il proprio incipit su una sapiente climax: «Rinomatissima comica, piena d’abilità per ogni genere di carattere, ch’ella prendesse a rappresentar sulle Scene. Viderla i Teatri di Venezia la prima volta non giovinetta, e salì all’auge d’una Sorte fortunatissima; l’applaudirono fatta Donna più grave, e la sostennero divenuta Vecchia, e tremante. Il suo vero merito le servì di scudo contro le ingiurie del tempo, e poté solo con esso agli Spettatori piacere» (F. Bartoli, Notizie istoriche, cit., t. I, p. 132; il corsivo è mio).

[80] G. Baffo, Poesie, a cura di P. Del Negro, Milano, Mondadori, 1991, p. 347.

 


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