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Sara Mamone

Storia di Iudith da Betulia a Firenze

Data di pubblicazione su web 04/03/2013
Storia di Iudith da Betulia a Firenze

«Holopherne souffre sa passion. Iudith souffre la Passion». In un saggio lontano dedicato alla Iudith di Federico Della Valle e al maestro che più di ogni altro ne aveva intuito il valore al di là del corrente disprezzo per la drammaturgia italiana del Seicento e cioè Giovanni Getto, Roberto Alonge va ben oltre il fecondo raffronto critico individuando quella che è forse la vera ragione del felicissimo cammino del mito di Giuditta, dal fondante episodio biblico alla trionfale presenza sulla scena barocca, sia essa teatrale, melodrammatica o pittorica: quella Passione, con la P maiuscola che innalza la vedova di Betulia fino alle soglie dell’identificazione cristologica, senza però sottrarle nessuna delle valenze semantiche di più terrene passioni (provate o suscitate). Le ambizioni della riflessione di Alonge sono certamente più modeste di quanto non sia in realtà il tema soggiacente che mira diritto a uno dei problemi fondamentali della cultura umanistica e rinascimentale  e, in maniera ancor più esplicita, barocca (cioè controriformista): il problema della compatibilità di figure e fantasie vetero-testamentarie o pagane con i dettami della religione cristiana (e la liceità delle sue fantasie).

Nell’imponente cesura culturale determinatasi con l’avvento del cristianesimo e la fondazione dei suoi valori alcuni miti del passato paiono passare da un cultura all’altra, se non indenni, certo in scioltezza, protagonisti naturali di quella migrazione dei  simboli che porterà poi al macrofenomeno del recupero dell’intero patrimonio pagano e vetero-testamentario nella pienezza rinascimentale e, soprattutto, nella complicità di una classe dominante che dalle più o meno credibili personificazioni mitologiche trarrà sostegno alla propria identità e al proprio potere. Se infatti la più parte delle identificazioni olimpiche risponde a un preciso disegno culturale che coinvolge società omogenee, la cui credibilità è esclusivamente legata all’accettazione di una convenzione restitutiva, alcuni miti serpeggiano attraverso la conservazione medievale, diventando alfieri e corifei della nuova religione pur mantenendo ben riconoscibili i loro tratti pertinenti. Si amalgamano senza traumi con i nuovi protagonisti dell’agiografia religiosa di cui diventano anzi prodromi e modelli. Per alcuni di questi l’esemplarità, mantenuta più o meno sottotraccia, si colora di funzionali valenze politiche:  Ercole, attraverso un’opportuna lettura stoica, percorre tutto il medioevo perdendo ogni connotazione pagana e acquistando sempre più i tratti di una premonizione cristologica fino a che, con il nascere delle istituzioni signorili, diverrà campione dell’aggiornamento evemeristico, in questo modo consentendo, grazie all’autorità degli antichi, ogni promozione di governo non legata alla nobiltà di nascita. Non più patiens bensì triumphans diverrà l’emblema dei nuovi signori nobilitando prese del potere a volte dubbie ma proprio per questo bisognose di autorevoli personificazioni.

Altro mito indenne quello di David che diverrà agevolmente simbolo della libertà repubblicana, trovando nella Firenze comunale le forme anche artistiche della sua  inclusione.  Ed è proprio a Firenze che l’eroina biblica, dopo una presenza comunque significativa nel corso del Medioevo[1], spicca il volo per le sue innumeri incarnazioni letterarie, figurative, teatrali. È da Firenze che, con procedimento analogo a quello operato su David, l’eroina uscirà dal cerchio della parenesi religiosa per assumere appieno le sfaccettature delle sue potenzialità politiche. Fino ad allora la sua duttilità si era esercitata nel campo dell’allegoresi, che la vedeva volta a volta assumere sembianze mariane, o personificare virtù quali l’Umiltà (trionfante sull’orgoglio del condottiero) e la Castità (trionfante sulla lussuria)[2]. Con il grande rinnovamento rinascimentale Giuditta entrerà, proprio a partire da Firenze, nel campo della celebrazione artistica con una valenza di comunicazione che la imparenterà immediatamente (e stabilmente) con la pratica rappresentativa[3]. La sua duttilità rende infatti il soggetto funzionale sia alla rappresentatività pubblica del progetto di Cosimo il Vecchio sia a più private e  riflessive funzioni didattiche.

Per la valenza politica, oltre alla presenza  protagonistica dell’eroina nella porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti[4], basti pensare al parallelismo tra l’incarico di Cosimo che, appena rientrato dall’esilio, commissiona a Donatello il bronzo del David destinato a diventare l’incarnazione del nuovo eroe[5], e la tarda quasi liminale (sia per l’artista che per il committente), Giuditta del giardino di via Larga, realizzata a vent’anni di distanza e a progetto politico ampiamente consolidato.

David trionfa su Golia e Giuditta su Oloferne ma all’evidente parallelismo delle due vittorie bisogna affiancare qualche riflessione sulle motivazioni di questa seconda commissione che, forse meglio della prima, corrisponde a un più insidioso clima politico che spinge Cosimo a quella “grandissima arte” di governo – fatta di modestia, di temperata prudenza, di “mansuetudine” – che, ponendolo in apparente secondo piano, gli permette di tirare le fila di tutta la vita cittadina. La figura di Giuditta allora corrisponde forse meglio di quella di David (comunque divenuto re, e non dei più virtuosi, dopo l’impresa santa) alle esigenze sottili di una politica “di basso profilo”: esempio di quella umiltà che era necessaria al principe per  mantenere il ruolo di primus, sì, ma inter pares. Nel tràdito séguito del suo gesto infatti la vedovetta di Betulia saprà  ritirarsi senza inorgoglirsi del suo gesto e senza nulla chiedere per sé, anzi, una volta ritornata nella patria salvata, vivrà umilmente, liberando la schiava compagna dell’impresa e, giunta a morte, dividerà i suoi beni tra i parenti suoi e quelli dello sposo al quale (benché concupita da molti) resterà sempre fedele.

Nell’opera di Donatello la Giuditta segna un passo avanti verso la drammatizzazione, cioè la narrazione (il teatro è altra cosa e verrà dopo), rispetto al David: in quest’opera infatti la testa del nemico sconfitto non interferisce con il trionfo del giovinetto, al quale fa semplicemente da piedistallo, supporto appunto del suo successo, mentre nella Giuditta lo sconfitto Oloferne è personaggio ineliminabile, partner paritario della narrazione. E prendono il cammino della narrazione dell’azione (non ignare delle teorizzazioni albertiane) le rappresentazioni pittoriche che si affollano a Firenze nel trentennio laurenziano[6]: dalla prova anonima datata 1465 alla Giuditta col capo di Oloferne attribuita a Domenico Ghirlandaio (ca. 1489, oggi a Berlino) e soprattutto al dittico di Sandro Botticelli. Questo, dedicando due tavole separate ai due protagonisti dell’evento, e attribuendo quindi la stessa importanza ai due personaggi, fa dell’uno l’integrazione narrativa dell’altro. Identico è il momento scelto, perfetta la sincronia che apre sui due scenari opposti: da una parte la serena coscienza della vedova che, in forma di fanciulla con passo leggero e quasi danzante, si avvia con l’ancella altrettanto leggiadra e aggraziata verso Betulia mentre lo sfondo anticipa la preparazione della battaglia vittoriosa, dall’altra la scoperta del cadavere di Oloferne, vistosamente apparentata agli studi sull’antico, più legata alla pittura d’historia e indicatrice di una direzione restitutiva della classicità della quale qui possiamo fare solo cenno. La contemporaneità delle due azioni coincidenti nel tempo ma non nello spazio ed esposta da due differenti punti di vista, accresce enormemente le possibili risonanze narrative dell’episodio pittorico.

Ma quel che più importa qui rilevare è la perfetta adattabilità dell’episodio al nuovo clima laurenziano, che consente al racconto vetero-testamentario lo sviluppo delle sue potenzialità dopo la prova donatelliana che ne aveva per sempre messo in luce le valenze politiche. Giuditta, separata accortamente dalla brutalità drammatica dell’assassinio (il cui orrore è pienamente esaltato nel secondo pannello) è libera di esprimere, incarnandolo con il travestimento dell’exemplum moraleggiante, il gusto del tempo, la passione per l’antico non nella sua versione monumentale bensì in quella sensuale e seduttiva: il passo di danza, il voluminoso panneggio dell’abito, i piedi scalzi, appena velati dai lacci di classici calzari e, soprattutto, la complessa acconciatura intrecciata in mille nodi la apparentano senza forzatura alcuna a tutte le ondeggianti sorelle della stagione laurenziana, ninfe estratte da una classicità che conferma il potere atemporale della seduzione:

«La Ninfa fu una di quelle attraenti creazioni in cui il Quattrocento italiano seppe fondere in modo felice e tutto suo proprio il genio dell’arte col sentimento dell’antichità... La troviamo sotto forma di svelta fanciulla, che cammina leggiadramente coi capelli sciolti, con abito succinto all’antica e svolazzante, nelle opere delle arti rappresentative ed anche, come  figura vivente, nei festeggiamenti»[7].

Quasi nessun artista fiorentino del tempo (da Paolo Uccello, a Benozzo Gozzoli, a Filippino Lippi, a Pollaiolo, a Ghirlandaio) è immune dal fascino di queste fanciulle leggere e artificiosamente acconciate anche se è proprio Botticelli il più fedele e variato celebrante rappresentazioni pittoriche che si affollano a Firenze nel trentennio laurenziano[8]. Quando però il vento savonaroliano spazzerà via le muliebri tentatrici e la più lasciva di queste, Salomè si troverà in serie difficoltà, sarà sufficiente a Giuditta irrigidire un poco gli abiti, coprire i  capelli e riprendere posture più gravi ed eccola pronta ad adempiere, con la perentorietà scultorea del tratto michelangiolesco, ai compiti di un clima nuovo. In uno dei quattro pennacchi con le storie del Vecchio testamento nella volta della cappella Sistina, Giuditta sarà posta dal grande fiorentino in pendant non casuale con Davide e Golia. Ed è forse la prima volta che la narrazione si fa azione e l’episodio complesso e lineare trova una sintesi compendiaria di carattere esplicitamente rappresentativo: a dieci anni dalla pubblicazione della traduzione latina di Giorgio Valla La Poetica di Aristotele è moneta corrente e la tripartizione degli spazi nel trattamento michelangiolesco dell’episodio pare il risultato di uno sforzo di “drammaturgia” che miri a dare unità di luogo a un’azione complessa.

Michelangelo individua una collocazione spaziale unitaria che rende verisimile per lo spettatore lo sviluppo dell’azione inventando una parete a spigolo che consente la visione del cadavere di Oloferne (appena ucciso, abbandonato in una dolcezza che non è ancora toccata dalla rigidità cadaverica) mentre allo spigolo opposto una guardia dorme. Al centro della scena  (e  questa volta il termine ha un suo corretto uso teatrale) Giuditta e la vecchia Abra si apprestano alla fuga: la geniale teatralizzazione è espressa dalla torsione di Giuditta all’indietro per un ultimo sguardo al cadavere di Oloferne mentre le braccia si alzano in opposta direzione a coprire con un panno il capo mozzato posto su un bacile portato in testa dalla schiava e il corpo e i piedi danzanti hanno già preso la direzione della fuga.

Se la compatibilità di Giuditta con le esigenze politiche dell’ascesa medicea trova nelle arti figurative la sua più immediata applicazione non meno fertile il percorso drammaturgico che si delinea parallelamente a quello figurativo prima di assumere caratteristiche puramente teatrali. Proprio all’entourage cosimiano e precisamente a Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero di Cosimo e madre di Lorenzo, si deve il poemetto sacro in ottava rima Ystoria di Iudith, costituito da 151 stanze. Sebbene di non diretta destinazione rappresentativa, è composto in quella ottava rima che si inserisce nel genere del cantare (quindi con forte valenza orale e performativa) e in quello del contrasto[9] (che si situa alla base di ogni teatralità fondata, come ben si sa, sulla struttura dialogica).

La data di composizione (intorno agli anni ’70) mette in luce un altro elemento che l’iconografia non può rendere esplicito ma che è invece ricco di risonanze in un ambito testuale intriso di progettualità didattica e destinato ad essere alla base della sua persistenza anche in età controriformista e nell’ambito della società di corte: Giuditta è vedova e questo la rende imbattibile nel campo dell’autorizzazione femminile. Vedova è infatti anche la sua autrice che proprio da questa vicinanza anche di condizione pare trarre la forza per il tentativo di riscrittura dell’exemplum:

«l’ho trovata così scripta in prosa / et tanto m’è piaciuto il suo ardire / essendo vedovetta et temorosa / hebbe il tuo aiuto e seppe fare et dire, tu la facesti, Signor, baldanzosa»[10].

L’opera mette dunque in luce uno stato anagrafico non necessario per il compimento dell’impresa santa, ma assai opportuno per la messa in valore del ruolo dell’autrice. Quale miglior garante della metamorfosi che avviene “con l’aiuto di Dio” in una «vedovetta temorosa» che, fatta  all’improvviso «baldanzosa», può così adempiere ai più alti compiti? Se l’Altissimo ha permesso alla vedovetta di salvare il popolo di Betulia trovando le giuste parole e la capacità di trasformare il pensiero in azione non negherà certo alla neovedova fiorentina il sostegno nei giusti ammaestramenti da impartire al proprio figlio, destinato a un ruolo protagonistico nella società fiorentina.

La condizione di vedova è d’altronde tra le privilegiate in una società nella quale i margini di azione propositivi della donna sono limitati e, sostanzialmente, legati a dimensioni eroiche (vergine e martire) o peccaminose (Salomè, Maddalena): è praticamente l’unica nella quale la donna possa assumere un protagonismo personale, sia pure per delega.

Sarà proprio nell’esaltazione del suo ruolo vedovile che Giuditta vedrà la sua più prestigiosa ascesa spettacolare prima di diventare la protagonista di quella che possiamo considerare l’opera teatrale più famosa del Seicento italiano e cioè la Judith di Della Valle dalla quale siamo partiti per questo breve cenno di omaggio a Roberto Alonge. Sarà infatti nel pieno della Reggenza di Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria, entrambe incaricate degli affari del governo mediceo dal granduca defunto Cosimo II durante la minorità del futuro Ferdinando II, che Iudith salirà agli onori del teatro mediceo degli Uffizi, luogo ormai simbolo della grande avventura spettacolare della civiltà granducale.

Nel frattempo Giuditta ha avuto modo di uscire dalle stanze dell’edificazione privata per estendere l’influenza della sua esemplarità nella platea più ampia della rappresentazione pubblica[11] con le armi della sacra rappresentazione: la Devota rappresentazione di Iudith ebrea consegna il soggetto alla teatralità civile del devoto che, pur cadendo a un certo momento in disuso nella pratica performativa, mantiene invece nel corso di tutto il secolo una vitalità confermata dalla perdurante fortuna editoriale[12]. Se la prima testimonianza a noi pervenuta è del 1519, la terminale senese del 1610 è veramente tarda e pare da attribuirsi a un uso esclusivamente di formazione scolastica. Le immagini che accompagnano i singoli frontespizi rispondono appieno alla pratica medievale di un’illustrazione che riproduce (non senza qualche abilità prospettica) le fasi dell’azione: uccisione nella tenda, fuga con la testa di Oloferne, sua esposizione dagli spalti della riguadagnata Betulia sullo sfondo di una città murata nella quale non pare arduo riconoscere Firenze (attraverso gli elementi distintivi del campanile, della cupola del Duomo, del palazzo della Signoria)[13]. E comunque, nonostante le molte indicazioni sceniche che paiono confermare una pregressa (rispetto alla stampa) pratica allestitoria, l’opera resta pienamente nell’ambito dimostrativo e simbolico.

Alle esigenze contro-riformistiche si piega docilmente, pur mantenendo ancora lo stile mescidato della sacra rappresentazione, La gloriosa e trionfante vittoria donata dal Grande Iddio al popolo Hebreo per mezzo di Giudith sua fedelissima serva Ridotta in comedia di Cesare Sacchetti, pubblicato nel 1575[14] a Firenze e di chiara destinazione locale. Oltre a una polemica allusiva a questioni interne al gruppo di riferimento esplicitato nella dedica L’autore ai finti amici, la matrice fiorentina è evidente nel linguaggio dei personaggi caricaturali oltre che nelle esplicite allusioni al Morgante del Pulci. Alcuni elementi paiono inoltre collegare l’opera all’ambiente scolastico e quindi a una microsocietà legata a rapporti di confraternita[15]. La storia principale è contornata da scene e personaggi marginali che consentono al testo una carica eversiva e di critica sociale difficilmente affidabile al tema biblico e certo più vicina all’ambiente fiorentino contemporaneo. Come consueto, nel particolare trattamento post-riformistico (si vedano i precetti della spettacolarità gesuitica romana) numerosi sono gli inserti musicali. L’attenzione alle psicologie (in particolare quella dei due protagonisti ma non meno quella di molti dei personaggi di contorno, primo tra tutti Vagao, l’eunuco di Oloferne che mette in guardia il giovane soldato dalle trappole d’amore[16]) pare rispondere, insieme, alla nuova sensibilità degli “affetti” e a uno scopo didattico che potrebbe anche apparentare l’opera alla diffusa pratica conventuale.

A quest’ultima appartiene invece senza alcun dubbio la manoscritta e anonima Commedia di Judith[17]. Anche in questo caso il tema biblico si presta in modo eccellente alle esigenze di una comunità, qual è quella conventuale contro-riformistica, nella quale le funzioni di protezione (sia fisica che morale) sono determinanti. Quale personaggio meglio di Giuditta può rappresentare, insieme, le aspirazioni e le realizzazioni  della vita nel chiostro?[18] E quale miglior soggetto per le giovani affidate al chiostro e inserite in un progetto educativo in cui il docere si serve armoniosamente anche del delectare stimolando l’identificazione positiva? Il manoscritto conferma in modo inequivocabile la sua appartenenza al genere della produzione conventuale di esclusiva destinazione interna e performativa. Il manoscritto non è datato, non contiene  il nome dell’autore, è privo di frontespizio e di qualunque indizio che faccia ipotizzare una destinazione editoriale mentre sono ben marcate le intenzionalità allestitorie: dal tempestivo elenco dei personaggi alle didascalie sceniche (scritte in rosso e poste lateralmente alla colonna del testo, con indicazioni dettagliate di movimenti, luoghi e attrezzeria di scena). Significativo il dettaglio della scena madre: «[Giuditta] entra dentro e piglia il capo e lo involge in una parte del cortinaggio et portilo fuori coperto» (atto V, 5, cc. 55v-56r).  Accurati gli apparati di paratesto, posti alla fine del manoscritto. La “licenza”, cioè il congedo dalla finzione della rappresentazione, parrebbe affidata all’autrice stessa. Nel documento sono conservati anche i bandi con cui si invitano le consorelle alla prima e anche alla seconda parte della rappresentazione (che parrebbe quindi svolgersi in giornate diverse). Questi bandi (che saranno probabilmente stati affissi in luoghi deputati delle stanze conventuali) scandiscono le categorie su cui si regge l’organizzazione interna: «madri professe e giovani», «novitiato», «stanza ove le converse sono». Di particolare interesse le Rubriche, esplicative dell’allestimento che pare ancora ben radicato nella pratica obsoleta dei luoghi deputati («il parato ha bisogno di molti usci»); l’indicazione di «uno foro via comune» posto al centro delle mansiones potrebbe tuttavia indurre a ipotizzare una scena, almeno parzialmente, prospettica. Come in tutte le rappresentazioni scenograficamente essenziali riveste grande importanza la cura dell’attrezzeria:

«sia in ordine un capo con la cappelliera insanguinata, ed uno sparviere dalleto di sete, cioè il conopeodi di Holoferne nel quale Judetta involge il capo e il pugnale di Holoferne. Habra abbia in ordine una sporta grande et una tascha grande, o una federa grande con vino, del pane et simil cose, et una fiascha di vino»[19].

Non sono certo sottaciuti i dettagli laidi di deformità e squallore[20] volti ad accentuare il fulgore dell’apparizione dell’eroina nella quale il bello fisico coincide con quello morale: «bisogna che la persona non sia solo bella per natura, ma acconcia et adornata con arte perché tutto il pondo di questa storia consiste nella bellezza di Giudetta». Come a dire che, non certo digiuna di teoria aristotelica, l’autrice fonda l’esito dell’impresa, oltre che sul non negabile intervento del dio di Israele, anche su una più realistica base di verosimiglianza. Ed ecco l’apparizione dell’eroina che rivela una certa conoscenza delle arti della seduzione. Pur rispondendo sempre al principio di decorum e gravitas («ritiene non di meno la honestà del gesto e del parlare»), «sia nel principio adornata sotto i vestiti d’una ricchissima veste con quanti adornamenti si può, et tutto quello splendore sia coperto con una veste nera et con sciugatoi da vedova perché non sarebbe tanto tempo che si potessi spogliare i viduili et vestirsi et adornarsi mentre che si recita... Habbia una bella acconciatura, in capo con ricci e treccie e con bellissimi sandali in piedi»[21]. Mirabile duttilità dell’eroina! Anche in convento dunque la moralità dell’exemplum «il pondo» della storia si nutre di più mondane valenze confermando l’ampiezza delle potenzialità del soggetto.

Pur con qualche forzatura la vicenda di Giuditta, inequivocabilmente monolitica nella distinzione tra male e bene, riesce successivamente a essere inserita nel filone filoaristotelico d’accademia, e quindi, rivolgendosi a un pubblico di “intendenti” non da ammaestrare ma facenti parte a pieno titolo della cultura dell’autore, può abbandonarsi a sottigliezze dialettiche e psicologiche destinate a una sensibilità raffinata che si compiaccia di condividere le medesime sfumature degli affetti. Con

l’Oloferne, opera del senese Accademico Intronato Giovan Francesco Alberti[22] pubblicata nel 1594, la vicenda dell’eroina, sia pure con una vistosa inversione protagonistica, conferma la sua plasmabilità all’aria del tempo: interlocuzione ‘alta’, rigorosa conoscenza, quando non rigorosa applicazione, delle unità di tempo attribuite all’autore della Poetica, e, quindi, prosciugamento delle parti accessorie, ridondanti, narrative[23] a tutto vantaggio dell’innalzamento di statura dei protagonisti e, soprattutto, uscita dai dettami della tradizione interpretativa in modo da concedere ai personaggi uno spessore psicologico del tutto nuovo.

Non indugeremo qui sulle sottigliezze che rivestono l’eroina di Betulia di risonanze ambigue e di abili fraintendimenti (fino alla rhesis della serva Abra che chiarisce in una ben dettagliata informazione voyeuristica la migrazione dei gesti da un sospetto di lascivia a una lodevole efferatezza)[24]:

«O, figlia mia, che fai, che di te sia? / Qual animo sia il tuo? Come pensosa? / Ahi figlia penserai nell’empio letto / giognerti a questo barbaro crudele? [...] Ohimé, che veggio? / Perché toglie alle braccia i bei legami? / Perché si scinge? Ahi, chi ti forza, o figlia? / Se non il proprio tuo lascivo affetto. / O scellerata figlia, o empia figlia. / Perché, dimmi ti spogli? E chi ti forza / donna impudica?»[25].

Con sollievo poi Abra rettifica per gli spettatori:

«Oh quanto ben con tacita accortezza, / togliendo i panni gli ha scoverto il seno. Non tardar più quel generoso colpo! / Oh colpo illustre! Oh illustre figlia, spicca, / la testa omai del morto e vinto busto, / che d’atro sangue il proprio letto allaga. / Riedi figlia felice. Oh atto eccelso, / degno di eterna e d’immortal memoria»[26].

    

Più rilevante notare come l’investitura di Oloferne nel ruolo del titolo inserisca l’opera nelle tematiche frequentate dalla riflessione controriformista, in particolare quelle riferentesi al tormentoso dissidio tra passione e ragion di stato, precocemente inaugurate dalla Canace di Sperone Speroni e proseguite senza soluzione di continuità dal Tasso con il Torrismondo e, suggestione più vicina, non solo nel tempo, dalla Merope di Pomponio Torelli. Nella confessione amorosa che il guerriero fa al servo Vagao il dissidio parrebbe quasi condurre a una resa:

«La bella Ebbrea, che di Betulia venne / al nostro campo... / potè sì ch’entro al mio petto / impetraron pietà quei mesti affetti / ond’io allora le giurai che mai / dell’ira mia veduto non havrebbe / la sua città la sanguinosa destra»[27].

Senza addentrarci qui in indagini sull’eventuale presenza di parti cantate nell’opera come non rilevare però la non eludibile presenza nel contesto culturale toscano dei pressoché contemporanei dibattiti della camerata di Giovanni de’ Bardi, di Giulio Caccini, Ottavio Rinuccini,Vincenzo Galilei, Giulio Strozzi, di Emilio de’ Cavalieri, proprio sulla poetica degli “affetti”?

Alle riflessioni sull’efficacia della parola poetica pare essere debitrice l’opera di Giovannangelo Lottini, Giudetta Sacra Rappresentazione del Reverendo padre fra. Giovanni Agnolo Lottini, dell’ordine de’ Servi, pubblicata a Firenze nel 1602 per i tipi Sermartelli[28]. Scultore, oratore e poeta, autore di almeno quattordici opere teatrali di argomento educativo e di ispirazione biblica o agiografica (salvo un’incursione mitologica con la Niobe) il Lottini risponde a una concezione drammaturgica elevata e classicheggiante anche nell’opera in questione, divisa nei regolamentari cinque atti, preceduti da prologo e conclusi dal commento del coro, composta di endecasillabi e settenari, nel pieno rispetto delle unità aristoteliche[29]. La tematica di fondo si incentra sulla lotta di forze contrastanti, in questo caso il conflitto tra l’onnipotenza del potere divino e la sostanziale impotenza di quello umano. Non ci interessa qui esaminare dettagliatamente l’opera né stabilire una sua plausibile rappresentazione nella sede spettacolare della basilica dell’Annunziata[30], quanto notare l’infiltrazione del tema in un ambito di diretta osservanza medicea e quindi di fiancheggiamento del potere che porta, sia pur con discrezione, a una riemersione delle potenzialità politiche dell’eroina, opportunamente sottaciute nel corso del Cinquecento, dopo l’intensivo accaparramento dell’allegoresi cosimiana e laurenziana.

La basilica dell’Annunziata è da tempo il luogo religioso di riferimento della famiglia granducale, e ogni attività che vi si esplica ne è considerata diretta emanazione. La fedele dipendenza medicea del padre Lottini è d’altra parte vistosa nel resto della sua produzione. La conferma di una sorta di indicazione drammaturgica di attualizzazione in chiave politica dell’esempio biblico è data dall’esistenza di una seconda opera dedicata all’eroina di Betulia sempre posseduta, se non uscita, dall’officina ervita: l’opera, rimasta manoscritta, si intitola Il trionfo di Judith, commedia dilettevole e appartiene al «padre fra Bastiano frate della Santissima Annunziata»[31]. Non abbiamo prove dirette dell’avvenuta rappresentazione di quest’ultima, anche se l’indicazione puntuale, e non consueta, dell’età dei personaggi potrebbe fornire un suggerimento in questo senso e, soprattutto, alla fine del II atto «l’aria di Scapino in disprezzo dell’amor mondano e in desiderio dell’amor divino» potrebbe sembrare la traccia di una contingenza esecutiva[32].

Gli anni ’10 del Seicento vedono il trionfo del soggetto in area granducale dove la vicenda diventa oggetto di alcune delle più straordinarie prove pittoriche di questo scorcio di tempo, soprattutto attraverso le reiterate prove di Cristofano Allori e di Artemisia Gentileschi, allora strettamente legati alla committenza granducale[33]. La drammaticità del soggetto ben si presta al gusto morbido e all’espansione degli affetti che sono al centro della riflessione fiorentina e delle sue pratiche performative. Ma rispetto alle altre eroine bibliche e neotestamentarie che in questi anni affollano tele e scene (Maddalena lasciva o penitente, Giaele e Sisara, Dalila, Salomè ecc.) Giuditta sfodera la sua duttilità pertinente. Vedova, protetta dal Dio dei giusti in una missione salvifica, la nobiltà dello scopo la assolve da qualunque accusa di ferocia o trasgressione. Il fine giustifica i mezzi. Gli anni brevi dell’incerta salute del granduca Cosimo II (1610-1620) hanno bisogno di lei, corifea e in certo modo protettrice dei non imprevedibili affanni di quelli incerti e insidiosi della Reggenza (1620-1628). E infatti proprio all’ombra delle Reggenti (la declinante ma sempre attivissima Cristina di Lorena e la sempre più autorevole Maria Maddalena d’Austria) Giuditta avrà il suo trionfo teatrale salendo sul palcoscenico più prestigioso del tempo: quel mediceo teatro degli Uffizi che aveva dettato al mondo le regole del nuovo teatro e (dopo i trionfi macchinistici e allestitori di un quarantennio) si era inserito tra i luoghi simbolo della supremazia culturale e artistica granducale.

Dopo le eccelse prove buontalentiane del 1585, del 1589 e del 1600, il teatro aveva decretato il trionfo di Giulio Parigi come architetto granducale: Il giudizio di Paride, proprio per le nozze di Maria Maddalena, aveva dato inizio alla lunga stagione dei suoi successi allestitori, proseguiti con la teatralizzazione del Torneo alla Sbarra del 1613, con La veglia della liberazione di Tirreno e Arnea di Andrea Salvadori[34] per le nozze di Caterina sorella di Cosimo col cugino Ferdinando Gonzaga nel 1617 e La fiera di Michelangelo Buonarroti, con musiche di Marco da Gagliano e l’interpretazione della grande Francesca Caccini nel 1619. In piena Reggenza, nel 1624, quelle stanze e quelle macchine che avevano visto volteggiare gli dei di un Pantheon autoidentificatorio, ormai in collisione con i consolidati dettami post-tridentini, vedono un realistico, intelligente e ancora una volta precoce, adeguamento ideologico. Se le esigenze del tempo richiedevano, prima al fragile granduca e poi alle sue non meno fragili rappresentanti, un atto di modestia pur nell’esibizione spettacolare, i poeti di corte non ebbero alcuna difficoltà a suggerire temi più consoni. Per i festeggiamenti delle nozze di Claudia de’ Medici con il duca d’Urbino il solerte Salvadori aveva proposto un brusco cambiamento tematico (non più dei ma storie vicine al sentimento religioso) e aveva composto La regina sant’Orsola, anch’essa con musiche di Marco da Galliano. La morte del granduca, bloccando ogni festeggiamento, aveva inevitabilmente frenato anche gli ardori allestitorii.

L’occasione si ripresentò, appunto, nel 1624 per la visita del fratello della reggente, l’arciduca Carlo che vide un allestimento sontuosissimo, segnato dall’inequivocabile marchio di Giulio Parigi il quale che non rinunciò certo alla maestria scenotecnica delle precedenti realizzazioni. Il successo dell’allestimento fu tale che, a pochi mesi di distanza, se ne segnala una ripresa per la visita del principe Ladislao di Polonia.

Il teatro mediceo è dunque in pieno splendore quando nel 1626, e precisamente il 22 settembre, su libretto del collaudatissimo Andrea Salvadori e su musiche dell’altrettanto fidato Marco da Gagliano Judith sale in scena. Non certo come ripetizione di stanchi moduli usurati ma con la coscienza di rappresentare qualcosa di nuovo. Nella prova immediatamente precedente, appena un anno prima, il suo autore aveva infatti rivendicato puntutamente la novità: «Né forse è poca gloria del nome Toscano , che si come sotto gli auspici de’ Serenissimi Gran Duchi prima in questo Teatro fu rinnovato de’ gl’antichi Drammi di Grecia in musica, così oggi in questo medesimo, sia stato aperto un nuovo campo, di trattare con più utile, e diletto, lasciate le vane favole de’ gentili, le vere e sacre azioni Cristiane»[35]. L’occasione è fornita dalla visita ufficiale dei cardinali Francesco Barberini, nipote e legato del papa Urbano VIII, e Giulio Sacchetti i quali, secondo la testimonianza del diarista di corte

«Alle ventitrè e mezza andorno insieme alle stanze terrene del Serenissimo Gran Duca, il quale gl'incontrò alla porta che esce nella loggia e li condusse per il corridore al salone delle Comedie, dove era già preparata la rappresentazione dell'Istoria di Iudit, composizione del signor Andrea Salvadori messa in musica dal signor Marco da Gagliano. Quivi arrivò anche la Serenissima Arciduchessa con le due Principesse, e si messero a sedere: al primo luogo la Serenissima Arciduchessa, al secondo luogo il Cardinale Legato, al terzo luogo il Cardinale Sacchetti, al quarto Sua Altezza, al quinto il Principe Giovan Carlo, ed al sesto il Signor Principe Mattias. Dinanzi all'Altezze e Signori Cardinali, seder[o]no in sedil basso le due Principesse, e li Signori Principi Francesco e Leopoldo. Il Cardinale de’ Medici, che si era affaticato tutto il giorno per questo servizio, fu preso la sera dalla febbre, in maniera che fu forzato andarsene a Palazzo. Vi furono diversi intermedi di macchine apparenti bellissime e nel fine un balletto di dodici gentiluomini»[36].

 

Le due opere (Sant’Orsola e Giuditta) sono molto nella concezione che come nella realizzazione (sono entrambi melodrammi sacri nei quali si sottolinea l’innesto di tematiche religiose nella linea tracciata dai grandi esperimenti fiorentini dell’Euridice, de Il rapimento di Cefalo, dello stesso Medoro salvadoriano rappresentato nel 1619)  a tal punto che pare di poter ipotizzare che le scene del primo spettacolo siano state adattate anche per il secondo. Per la Giuditta, in mancanza di riscontri iconografici, e seguendone lo svolgimento drammaturgico, pare di poter ipotizzare una scena doppia, ospitante a vista sia l’accampamento assìro che la città assediata di Betulia, scena quest’ultima non dissimile da quella dell’assedio di Colonia da parte degli Unni negli atti centrali della Sant’Orsola. Il secondo intermedio della Giuditta pare essere acquisito senza troppe varianti dal quarto intermedio dell’allestimento del ’26 con una scena su due piani nei quali, senza troppo curarsi della appena esposta supremazia delle «vere e sacre azioni cristiane» prendono posto «le vane favole de’ gentili»: nel piano alto campeggia la sperimentata nuvola col consesso degli dei mentre in basso, a livello di palcoscenico, Iride appena inviata dal cielo reca l’arcobaleno di pace e un trofeo con l’immagine delle api, emblema della famiglia papale. Le api, invocate dagli dei vengono assunte in cielo come stelle mentre Europa chiede alle sue province di danzare in onore delle nuove stelle, trasferendo in una sorta di apoteosi scenica l’ecumenismo della chiesa retta da Maffeo Barberini.

 Incontestabile nelle due opere, commissionate dalle Reggenti al Salvadori, in eccellenti rapporti con il circuito barberiniano, il bisogno di una fervida dichiarazione di adesione alla politica pontificia con un avvicinamento alla spettacolarità gesuitica e in particolare alle realizzazioni del Collegio Romano. Se La regina Sant’Orsola era stata utile per consentire alle reggenti di mostrare al sospettoso Urbano VIII la propria devozione con una dichiarazione di fronte ai grandi della terra, ancora più diretta è la funzione della Giuditta e ancora più chiaro il messaggio. Giuditta diviene il veicolo di una inequivoca captatio benevolentiae analogica: Giuditta è una donna forte, ma ha bisogno dell’aiuto di Dio; le Reggenti, ferme e ardimentose nella conduzione della missione loro assegnata dal destino, ben sanno che nulla può avvenire senza l’aiuto dell’Onnipotente. O del suo vicario in terra. Ancora una volta all’altezza del compito, la vedovetta temorosa è un ottimo tramite per questa dichiarazione.


[1] Bibbie, salteri, breviari, libri d’ore, registrano la sua presenza, Dante la colloca nella “candida rosa”, tra le donne ebree soggette alla Vergine, Petrarca la cita nei Trionfi mentre la Francia le dedica precocemente sacre rappresentazioni. Non è certo qui il caso di elencare le infinite presenze di Giuditta nella trasmissione medievale. Mi limiterò a segnalare S. Stallini, Giuditta sulla scena fiorentina del Quattrocento. Donatello, Lucrezia Tornabuoni e l’anonimo della ”Devota rappresentazione di Iudith ebrea”, in Giuditta e altre eroine bibliche tra Rinascimento e Barocco. Orizzonti di senso e di genere, variazioni, riscritture. Atti del seminario di Studio (Padova, 10-11 dicembre 2007), a cura di Luciana Borsetto, Padova, Padova University press, 2011, pp. 11-23 e a rinviare alla precisa aggiornatissima bibliografia in esso contenuta. Tutto il volume  è degno di  nota ma in particolare, per le tematiche qui affrontate, si veda V. Gallo, Giuditta sulla scena italiana fra Cinque e Seicento, in Giuditta, cit. pp. 99-122.   

[2] N. Stone, Judith and Holofernes. Some Observations on Development of the Scene in Art, in No One Spoke Ill of Her. Essays on Judith, a cura di J.C. Vander Kamm, Atlanta, Scholar Press, 1992, pp. 73-93.

[3] Per l’insieme dei valori allegorici di Giuditta e per il passaggio dall’allegorizzazione mariana a quella direttamente politica a Firenze si veda F. Calioti, Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta, Firenze, Olschki, 2000.

[4] Per la prima volta Giuditta si stacca dalla composizione complessiva che la pone nell’insieme del quadro dell’azione (in forma spesso narrativa, con la serva, il decapitato Oloferne e lo sfondo dei campi di battaglia) per stagliarsi in rilievo, sola con in mano la testa del decapitato nemico. Per la novità di questa svolta cfr. S. Stallini, Giuditta, cit.  p. 13.

[5] La commissione del David è del 1540. Si veda la rappresentazione biblica del perdono di Giuseppe ai fratelli che lo avevano venduto come discreta ma non troppo implicita figurazione del ritorno di Cosimo, benevolmente magnanimo nei confronti di chi lo aveva esiliato, e pronto al bene della patria con il suo fattivo dinamismo.

[6] Non intendiamo qui farne un excursus limitandoci a segnalare, oltre a questa anonima (conservata a Bologna, Fondazione Zeri) le Giuditte del Mantegna, che tralasciamo nella trattazione non essendo possibile accertare quanto i soggiorni fiorentini abbiano influito sul reiterato trattamento del soggetto (almeno tre sono le opere mantegnesche sulla Giuditta, ora a Washington, National Gallery; Dublino, National Gallery; Montreal, Museum of Fine Arts) né soprattutto quanto possano aver influito sul dittico botticelliano.

[7] A.Warburg, I costumi per gli intermezzi della Pellegrina del 1589, in «Atti dell’Istituto Musicale di Firenze», 1895, p. 94.

[8] Non è qui il caso di catalogare le opere botticelliane con presenza di questa tipologia anche se è d’obbligo almeno il riferimento alla Primavera e alle Grazie che la festeggiano.

[9] L’opera vede affrontarsi prima i pagani Nabuccodonosor e Arsafat, indi lo stesso Nabuccodonosor e gli ebrei, quindi Giuditta e Oloferne. Per un’analisi testuale articolata si veda sempre S. Stallini, Giuditta, cit., alle pp. 24-33.    

[10] L. Tornabuoni, Ystoria di Iudith, in I poemetti sacri di Lucrezia Tornabuoni a cura di F. Pezzarossa, Firenze, Olschki, 1978, pp. 201-248.

[11] Una dettagliata disamina della produzione drammatica fiorentina sul tema della Giuditta è stata compiuta da C. Polese Remaggi in Il personaggio biblico di Giuditta nella produzione teatrale di area fiorentina tra XVI e XVII secolo, tesi di Laurea in Storia dello Spettacolo, Università degli Studi di Firenze (rel. Sara Mamone), a.a. 2002-2003. Vogliamo qui ringraziarla per i preziosi spunti.

[12] Per la consistente diffusione editoriale del testo si veda il catalogo a cura di A.M. Testaverde- A.M. Evangelista, Sacre rappresentazioni manoscritte e a stampa conservate nella Biblioteca Nazionale centrale di Firenze, Firenze, Giunta regionale Toscana Editrice Bibliografica, 1988, che registrano ben quattordici esemplari, tutti stampati a Firenze e distribuiti (quelli datati) negli anni 1518,1554, 1568, 1575 (composta da Cesare Sacchetti bolognese e stampata a Firenze), 1589 a testimonianza del  perdurante interesse del soggetto.

[13] Sui dodici esemplari rintracciati solo due si staccano da questa iconografia: l’esemplare alla BNCF, Palatino E.6.7.56V.12, c. 6v. (che, di tutta evidenza, mutua un cortese di incontro regale) e il curioso esemplare senese (pubblicato presso le logge del Papa, e parimenti alla BNCF, Palatino, E.6.7.56.V.14, c. 1r) che colloca incontestabilmente la funzione della stampa in ambito scolastico con la rappresentazione di uno studio con maestro e allievi in un plausibile esercizio di retorica o di pura lettura.

[14] L’esemplare, senza indicazione dell’editore, è collocato in BNCF, Palatino E.6.7.56.IV.21.

[15] La descrizione che dell’eroina fa la serva Abra pare tratta da un libro di istruzioni: «gli è pure devota la giovine / di beltà poi, eguale a gli angiol di Paradiso, di costumi non è / un’altra al mondo simile a lei, piacevole, / domestica, savia, e sempre fuori del orare, / legge e studia i libri di Mosè, discorrendo / tutti i profeti, investigando, e considerando / ad una ad una tutte le parole scritte, e / dette dai sapienti», atto V, scena II, 6, c. C2v, cit. in C. Polese Remaggi, Il personaggio, cit. p.133.

[16] Atto IV, 8, c. F3r, cit. in C. Polese Remaggi, Il personaggio, cit. p.128-129.

[17] Conservata presso la biblioteca Riccardiana, 2976/4; per la descrizione bibliografica del testo cfr.  S. Castelli, Manoscritti teatrali della Biblioteca Riccardiana di Firenze, Firenze, Polistampa, 1998, p. 83, mentre una convincente analisi completa che situa l’opera nel complesso e articolato sistema della pratica conventuale femminile si trova in E. Weaver, Convent Theatre in early modern Italy. Spiritual fun and learning for women, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, in particolare alle pp. 141-148 e 244-253.

[18] Ancora Weaver, Convent theater, cit, p. 144, mostra in che modo la vicenda venga assunta come exemplum di virtù nelle disposizioni che suor Angela Merici, fondatrice dell’ordine delle Orsoline, impartisce alle consorelle.

[19] C. 86v. Le citazioni da quest’opera sono tratte da C. Polese Remaggi, Il personaggio, cit. pp. 141-187.

[20] Ivi, con riferimento alla c. 87.

[21] Ibidem.

[22] G.F. Alberti, Oloferne, tragedia, Ferrara, Mammarelli, 1594. L’opera, pubblicata a Ferrara nel 1594 da un libraio senese (e di cui un esemplare è conservato presso la biblioteca nazionale centrale di Firenze, Magliabechiano 3.2.86) è comunque da ascriversi, come dimostra in maniera assai convincente C. Polese Remaggi, Il personaggio, cit,  pp. 188-230, all’ambiente colto e avvertito, anche da un punto di vista teorico, dell’aristotelismo elaborato in area granducale.

[23] Si riscontra quindi il definitivo ridimensionamento della varietà di personaggi minori che affollavano le sacre rappresentazioni o quelle didattiche.  

[24] All’acuminata esperienza della nutrice non sono sfuggite le esitazioni di Giuditta né un contrastato piacere nel sentire la sua bellezza ammirata dal comandante e dall’intero suo esercito e neppure un leggero autocompiacimento, tanto da temere che la vanità possa in qualche misura insinuarsi nell’animo della coraggiosa e schiva vedova. «Abra: [...] Grave dubbio per voi m’assale... E così chiara scorgo tal mutazion  in voi... deh qual pensier, figlia, giunse a macchiarvi il conservato onore?» Aveva già chiesto all’inizio del dramma (scena IV, pp. 3-4). Sulla sperimentata intenzionalità seduttiva della giovane vedova si vedano le osservazioni a proposito della relazione che l’eunuco Vagao fa al suo signore nell’opera di Della Valle che, pubblicata soltanto nel 1627 è però da attribuirsi ai primi anni del secolo; cfr. R. Tessari, La “Iudith” di Della Valle. Pitture di sperati diletti, in Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali nella drammaturgia europea tra Cinque e Seicento, a cura di S. Carandini, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 111-124.   

[25] G.F. Alberti, L’Oloferne, cit, p. 116.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, p. 76.

[28] Un esemplare è custodito presso la BNCF, Palatino 12.5.1.50.

[29] Sulla figura e l’opera del frate servita si veda: P. Belli, Tra dialogo spirituale e rappresentazione sacra: l’opera di Giovannagnolo Lottini (1549-1629), tesi di Laurea in Letteratura italiana, Università degli Studi di Firenze (rel. Riccardo Bruscagli), a.a. 1998-1999.

[30] Di questa sede restano a tutt’oggi gli affreschi del proscenio. Notizie sulla sede sono in Archivio di Stato di Firenze, Ricordanze dei Servi di Maria, f. 119; cfr. C. Polese Remaggi, Il personaggio, cit, p. 240n.

[31] L’opera, conservata presso la biblioteca Riccardiana (Ricc. 2850/3) è segnalata e descritta da S. Castelli, Manoscritti teatrali, cit. p. 60.

[32] Tralasciamo ogni riflessione su un esemplare mutilo e di improbabile attribuzione a Giacinto Andrea Cicognini de La tragedia di Giuditta conservata presso la biblioteca Riccardiana di Firenze (Ricc. 3165, cc. 204r-249v) di cui è notizia in S. Castelli, Manoscritti teatrali, cit. p. 98.

[33] Nella ricchissima  bibliografia sul tema si vedano i sempre validissimi  C. Pizzorusso, Ricerche su Crstofano Allori, Firenze, Olschki, 1982; M.D. Garrard, Artemisia Gentileschi and the Image of Female Hero in Italian Baroque Art, Princeton, Princeton University Press, 1989 e il recente catalogo della mostra Artemisia Gentileschi, Storia di una passione, a cura di R. Contini e F. Solinas, Pero (Milano), 24ORE cultura, 2011.

[34] Sulla figura e l’opera di Andrea Salvadori si veda D. Sarà, Andrea Salvadori e lo spettacolo fiorentino all’epoca della Reggenza (1621-1628), tesi di laurea in Storia dello Spettacolo, Università degli studi di Firenze (rel. Sara Mamone), a.a. 1999-2000, in particolare alle pp. 243-254.

[35] A. Salvadori, La Regina Sant’orsola,d’Andrea Salvadori, recitata in musica nel teatro del Serenissimo Gran Duca di Toscana. Dedicata al Serenissimo principe Ladislao Sigismondo, Principe di Polonia e di Svezia, Firenze, Pietro Cecconcelli, 1625. Alle stelle medicee.

[36] Archivio di Stato di Firenze, Miscellanea Medicea 11, c. 181v.



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