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Pasquale Iaccio

Totò autore e sperimentatore nel cinema italiano del dopoguerra

Data di pubblicazione su web 09/02/2013
Totò autore e sperimentatore nel cinema italiano del dopoguerra

1. Il mistero dell’arte di Totò

«[…] Totò, come Charlot, non può essere circoscritto da alcuna definizione: Totò è la natura che si disarticola, è un punto esclamativo che apre e chiude il discorso nella grafia spagnola, è un fuoco d’artificio, una fanfara, un “movimento” che solca lo spazio come una lingua di fuoco. Totò trattò la parola come l’avevano trattata i dadaisti, Marinetti, Majakovskij: solo che non se ne rese conto e non se ne rese conto perché non aveva bisogno di capire. Gli bastava di essere, di realizzarsi, come una castagnola lanciata contro un muro, che rimbalza sulla pietra vesuviana del selciato, scoppietta, rotola, frigge, si spegne, tra le risate degli scugnizzi e gli strilli di falsa paura delle commarelle. Totò è così napoletano che in fondo alle sue smorfie non s’indovina neppure l’ombra delle lagrime che sottolineano la fine di Calvero e lo stupido declino di Buster Keaton. La vita, per lui, fu puro teatro, come lo è per tanti di noi. I suoi compagni di lavoro, sul set cinematografico, dovevano compiere sforzi crudeli per non ridere di fronte alla sua favolosa, inverosimile capacità di improvvisazione, in un’arte che atomizza e falsifica perfino una scena d’amore. I lazzi e i fescennini dei nostri antichissimi padri osci convivevano in lui con l’eredità dei saltimbanchi medievali, delle maschere cinquecentesche, dei Cammarano, dei Petito, di Scarpetta. La sua recitazione si adattava a qualunque scenario: dal San Carlino al Madison Square Garden, dal Pallonetto al progetto Apollo»[1]. Tra le tante definizioni che tutti hanno dato di Antonio De Curtis, in arte Totò, quella di Antonio Ghirelli, uomo di cultura e di rara raffinatezza, ma soprattutto un intellettuale napoletano come Totò, ci sembra la più adatta a rappresentare le caratteristiche di un personaggio unico nel mondo dello spettacolo e della stessa storia contemporanea. Totò non è “solo” un attore immenso ma è anche la figura forse più conosciuta e, per certi versi, insostituibile dell’Italia contemporanea e, con ogni probabilità, vivrà finché sarà viva la tradizione culturale e sociale che l’ha generata. Totò è stato attore e personaggio, maschera e uomo comune, principe (nella vita e nella scena) e miserabile (nella vita e nella scena). Totò ha accompagnato l’Italia provinciale e contadina sulla strada di una difficile e accidentata modernizzazione. Totò è il personaggio che tutti conoscono ma, allo stesso tempo, qualcosa di misterioso e indefinibile, una categoria dello spirito o, come scrisse Michele Galdieri, dotato di «una forma di comicità tutta speciale, assolutamente unica nel suo genere e perciò irripetibile»[2], un bene comune a molte generazioni di italiani che, non solo lo hanno visto e continuano a “vederlo” nella ripetizione quasi ossessiva dei suoi film, ma che, spesso senza rendersene conto, parlano, ridono, dialogano con le sue parole, con i suoi gesti, con le sue inimitabili, eppure imitatissime, battute. Totò è riuscito nell’impresa incredibile di diventare una maschera identitaria di una comunità nazionale, di entrare, per un verso, per un tratto, per un misterioso processo di immedesimazione, dentro ogni italiano. Per questo è un “fenomeno” che va ben al di là del mondo dello spettacolo e investe la storia della società italiana (non solo napoletana) dell’Italia che affronta il tormentato tuffo nella modernità. Per questo Totò non appartiene solo agli anni in cui operò nel teatro e nel cinema ma, categoria dello spirito e mistero irrisolto, attraversa le epoche, si adatta ai diversi strumenti dello spettacolo e della comunicazione, si perpetua all’infinito e approda al nuovo millennio nelle molteplici diramazioni dei media più aggiornati.

Siccome Totò è unico, gli è toccata la sorte opposta a quella dei grandi interpreti, di solito osannati in vita e declinanti nel ricordo dopo la loro uscita di scena. Totò invece è stato, di solito, vituperato, dalla critica, dai perbenisti, dagli snob, (mai dal pubblico) in una vita di grandi successi tra teatro e cinema e “rivalutato” solo dopo la morte quando tutti hanno riconosciuto il suo genio. Una storia a parte sarebbe da fare sul dopo, sull’incredibile fenomeno di un attore lodato da tutti, citato da tutti e preso come metro di paragone quando ormai era sparito dalle scene, ma non dalla frequentazione e dalla visione del grande pubblico. Fenomeno mediatico e culturale insieme, quello della continua riproposizione in dosi massicce di un personaggio che nella sua ossessiva ripetizione mediatica contraddice qualsiasi legge dello spettacolo e del mercato culturale. Ma non il bisogno dello spettatore comune di veder rappresentata la (sua) vita sullo schermo e, per interposta persona, la rivendicazione di una dignità che spesso non ha il coraggio di rivendicare di fronte al potente di turno.

Totò non ebbe la ventura di morire sulla scena, come il grande Petito (uno dei suoi modelli) e come tutti gli attori della sua epoca segretamente si auguravano, ma ebbe una sorte più crudele e prosaica: quella di perdere la vista davanti al suo pubblico e di rimanere quasi cieco per l’ultima parte della sua vita e della sua esperienza lavorativa. Sorte più crudele e beffarda non avrebbe potuto capitare a lui che fondava il modo di recitare sul contatto con gli spettatori e sulle loro reazioni. Dovette rinunciare al teatro, che rappresentava la sua passione, e adattarsi alle possibilità che il cinema consentiva ad un interprete nelle sue precarie condizioni. Avrebbe potuto e dovuto accedere alla televisione, se si fosse imbattuto in una dirigenza più accorta e lungimirante. Eppure, anche dopo la sua menomazione, continuò a lavorare, alla sua maniera, come se nulla fosse accaduto. Il pubblico non si accorse della limitazione perché Totò, per lui, era quello di prima; quello di sempre. O semplicemente perché Totò, come Pulcinella, come Arlecchino, era ed è una maschera senza tempo, l’ultimo e forse più grande rappresentante della commedia dell’arte e insieme qualcosa di inspiegabile, una «misteriosa apparizione» o un «animale fantastico», secondo la definizione di Fellini.

Di Totò e su Totò è stato detto è scritto di tutto. Fin dalle sue prime esibizioni in teatro ad oggi. Da intellettuali e gente comune. Non c’è trattato di recitazione che non lo collochi tra i più grandi del Novecento. Non c’è italiano, di ogni generazione, che non abbia visto i suoi film o almeno non abbia a mente alcune scene, alcune espressioni che sono diventate patrimonio comune di una nazione. A Napoli Totò è diventato un’icona, un oggetto di culto, come San Gennaro. Eppure, scorrendo il fiume di giudizi su di lui, non è facile ricavare una sintesi, una definizione che sia riassuntiva di quello che è stato ed è il suo personaggio. Totò rimane un mistero[3]. Se ne può fare la storia, delineare, con ricca messe di fonti, la carriera artistica e anche il percorso umano che presentano singolari intrecci e sovrapposizioni (quanto dell’ossessiva ricerca di riscatto sociale e dei “nobili natali” deriva dalla fame vera patita in gioventù?). E come non vedere nel personaggio di Totò, umile sottoproletario di tanti film, rappresentate del binomio “miseria e dignità”, solo l’altra faccia dell’austero principe che vive ritirato nel suo appartamento dei Parioli? Un dualismo che Totò-Principe mise in scena nella celebre intervista-sceneggiata a Lello Bersani facendosi riprendere nelle vesti del nobile signore che parla male del suo sottoposto (a cui però deve la sua fortuna economica), e poi nelle vesti misere di Totò, segregato in cucina mentre parla male del suo “esoso” datore di lavoro: una messa in scena, in chiave moderna, del Felice Sciosciammocca-Principe di Casador di scarpettiana memoria ripreso, in chiave drammatica, nei versi de ’A livella. Un dualismo, quello della vita e dell’arte, che spiega molto della psicologia e del comportamento di Antonio De Curtis dei principi Griffo-Fucas-Gagliardi, in arte Totò.

2. Totò apripista

Il grado di applicazione di Totò quando recitava nel cinema non mutava in misura del livello della produzione a cui aveva aderito, né faceva distinzioni tra regista e regista. In fondo, anche in questa circostanza, non si comportava diversamente da quanto aveva fatto in tanti anni di palcoscenico, dividendosi tra baracconi di provincia e grandi sale metropolitane, tra l’avanspettacolo e la rivista sfarzosa. Un ingaggio era un ingaggio, sia nel teatro che nel cinema. «La fatica teatrale – recitare cioè ogni sera per diverse ore – ha sempre costituito per me, un equo scotto da pagare per la mia discendenza da Adamo, e cioè da uomo condannato al lavoro»[4]. Una volta accettato un impegno contrattuale, lo portava a termine nel migliore dei modi, sia che partecipasse ad un film d’autore, sia che partecipasse ad un carosello TV. In questo si differenziava dalla maggior parte dei suoi colleghi che provenivano dallo stesso suo ambiente e avevano percorso la sua trafila artistica. Eduardo, Peppino De Filippo, lo stesso Nino Taranto facevano cinema, ma per soddisfare le loro (vere) aspirazioni che erano quelle di affermarsi nel teatro, nel teatro in lingua, nel teatro “primario”. Per loro il cinema era un modo di raccogliere fondi per fare altro. Totò non coltivò mai aspirazioni di questo tipo. Per la sua formazione e la sua psicologia, l’unica aspirazione era di affermare le proprie qualità di attore. Il comportamento di un’intera carriera nel campo dello spettacolo era quello di chi aspira unicamente ad affinare le proprie qualità interpretative e ad ottenere il giusto riconoscimento del pubblico e della critica. Da quando adolescente, come ricorda Eduardo, si ritirava tutto sudato dopo lo spettacolo in camerino di un infimo teatro napoletano, a quando, ormai vecchio e cieco, seguiva fedelmente le istruzioni di Pasolini di prima mattina in una squallida spianata della periferia romana. Non coltivò velleità di autore teatrale, come Eduardo e Peppino, né tanto meno quello di diventare regista cinematografico, come fecero lo stesso Eduardo o altri attori comici della sua generazione, come Aldo Fabrizi e perfino Renato Rascel. Fu autore di copioni teatrali e di molti di questi fece anche la trasposizione cinematografica (lo stesso Steno riconosce che intere parti di Totò a colori furono lasciate interamente alla cura di Totò)[5]. E così in tante altre occasioni. Innumerevoli pagine sono state scritte sulle trasposizioni dal teatro al cinema di lavori suoi o scritti in collaborazione con altri autori. E una pratica corrente nella scrittura delle sceneggiatura dei film del dopoguerra, era quella di “aggiungere” all’elenco degli sceneggiatori il nome di un regista che aveva partecipato, anche in misura limitata, alla stesura di un film. A maggior ragione Totò avrebbe potuto pretendere di vedere il suo nome come co-autore di tanti film che pescavano a piene mani nella sua antica produzione teatrale e che si giovavano del suo apporto in fase realizzativa; anzi si basavano sulla sua innata creatività. Anche qui una lunga lista di aneddoti, bel lungi dall’essere esaurita, testimonia di interventi radicali e di vere e proprie riscritture o stravolgimenti di una scena tra la fase del trucco e il momento del ciak. A volte, come ricorda Sergio Corbucci, che lo diresse in alcuni film, si divertiva a cambiare, seduta stante, le sceneggiature[6], seguendo un vezzo che hanno alcuni attori di teatro, soprattutto leggero, per creare un po’ di suspense sulla scena o semplicemente per mettere in difficoltà qualche collega.

Quel che si vuol dire è che Totò non si sentiva e non si considerava “autore” dei testi che recitava, anche se erano frutto di una sua totale o parziale invenzione. L’unico film che sentiva suo da questo punto di vista fu Siamo uomini o caporali?. E come sarebbe stato possibile negarglielo, dato che perfino il titolo derivava dal suo vecchio spettacolo allestito quando era arruolato nell’esercito? Totò non proveniva da una “famiglia” di attori e di autori della vecchia scuola del teatro napoletano. Non aveva necessità di misurarsi col mito di un padre, naturale e artistico, come Eduardo Scarpetta per i De Filippo, né di competere con le ambizioni autoriali di un fratello, come fecero per tutta la vita Eduardo e Peppino (e forse anche Titina). La sua massima aspirazione, fu quella di “entrare” da attore nel mondo del teatro e di essere considerato come attore per tutta la vita («artista comico» si definiva nei documenti ufficiali fin dal 1917)[7]. E in questo giocava anche il suo sostanziale “disinteresse” per il cinema, considerato “solo” un ripiego rispetto al teatro e un modo facile e sbrigativo per far soldi. Firmato un contratto con un produttore, ciò che rimaneva da fare era onorarlo come una normale prestazione professionale, un lavoro a cottimo da portare a termine bene, ma in fretta. Il suo desiderio, anche durante la fortunatissima stagione cinematografica dell’immediato dopoguerra, era di ritornare al suo amato teatro e all’insostituibile rapporto fisico con il pubblico. Solo negli ultimi anni di vita, non apprezzato dalla critica, che lo considerava un attore superato e destinato ad essere dimenticato, o nell’ipotesi migliore, sprecato in tanti “brutti” film, prese in considerazione la proposta di Pasolini e accettò di sottostare agli obblighi della realizzazione cinematografica, pur di veder riconosciuta la sua arte di interprete.

Ciò non toglie che noi oggi lo possiamo e lo dobbiamo considerare “anche” alla stregua di autore di quasi tutti i testi che si trovò a recitare (tranne forse, ma è da discutere, nel caso dei film di un Rossellini, di un Lattuada o di un Pasolini). «Il suo cinema – ha scritto Gian Piero Brunetta – è un esempio chiarissimo di produzione del senso per cui l’attore, come nell’Ottocento, diventa l’autore materiale del testo. Come per il famoso personaggio di Calvino, e diversamente dai comici che lo hanno seguito, Totò nelle mani del regista (penso a Rossellini o anche soltanto a Carlo Ludovico Bragaglia) è stato un principe dimezzato, un sovrano della scena realizzato al cinquanta per cento delle sue possibilità. Quando i registi si chiamano Mattoli, Mastrocinque, Paolella, e si adattano con umiltà al ruolo di spettatori, Totò riesce a dare il meglio di sé»[8]. A noi resta da quantificare, per un puro calcolo ragionieristico, il grado di partecipazione autoriale di questo grande interprete alle sue realizzazioni. O – se vogliamo – stabilire quanto e quale sia il suo personale apporto e quanto derivi dal precipitato di una lunga tradizione teatrale e “culturale” che risale addirittura alla commedia dell’arte. Un compito arduo e di difficile discernimento che verosimilmente terrà occupato più di un ricercatore delle prossime generazioni. D’altra parte, una nutrita schiera di studiosi che si sono occupati dell’arte di Totò sostiene la tesi di considerare l’intero blocco della sua produzione come un “testo” unico da sottoporre ad analisi.

Ma c’era qualcosa di più che finiva per conferire freschezza e creatività alla sua produzione cinematografica. Un fattore che spesso sfuggiva ai contemporanei ma che si è via via chiarito col tempo. L’Enciclopedia dello Spettacolo, alla voce Totò[9], così commentava: «Da allora il personaggio Totò divenne protagonista di un’interminabile serie di farse, spesso sciocche, volgari e raffazzonate, concepite come pretesti per lo sfoggio, da parte dell’interprete, dei suoi tipici lazzi». Giudizio ampiamente negativo in linea con la critica del tempo (emblematico il caso del critico del «Corriere della Sera», Arturo Lanocita che «più volte non mancò di esternare tutto il suo disprezzo per l’attore napoletano»[10]. Contrario “a prescindere”, avrebbe detto Totò). In realtà, attraverso queste volgari farse basate su pretesti occasionali, Totò era artefice, a volte consapevole a volte istintivo, di un’operazione più complessa. Da una parte ri-utilizzava i sedimenti di una lunga tradizione della storia dello spettacolo che risaliva fino alla gloriosa commedia dell’arte, dall’altra si confrontava con i cambiamenti e i fenomeni emergenti della società di massa del dopoguerra. E lo faceva prendendo a pretesto un genere spettacolare (teatrale, cinematografico, comunicativo) e utilizzandolo per parodiare, satireggiare, confrontarsi col presente: il romanzo d’appendice (I due orfanelli), alcuni caratteri del cinema internazionale (Totò le Mokò, Tototarzan, Totò sceicco, Il più comico spettacolo del mondo, Le sei mogli di Barbablù, Totò terzo uomo, un film, questo, che solo per il titolo si rifà al film con Orson Welles), la canzone, la rivista e il varietà (I pompieri di Viggiù), l’opera lirica o – meglio – una rivisitazione del modo di utilizzare questo tipo di spettacoli quando erano in auge sia nei teatri sia nelle trasposizioni cinematografiche (Figaro qua … Figaro là), lo sport (Totò al giro d’Italia), il giro che era la manifestazione sportiva più popolare di allora e furono ingaggiati, nelle parti di se stessi, i campioni del pedale. In questo modo si assorbiva una delle caratteristiche del neorealismo (gli attori che interpretano se stessi) assieme allo sfruttamento, in chiave spettacolare, di fenomeni della società di massa. Una caratteristica, questa, che sarà quasi sempre presente nei film di Totò, dalla TV già trattata, poco dopo il suo avvento, con Totò lascia o raddoppia? del 1956 o con Gambe d’oro (1958) in cui è presidente di una squadra di calcio. Un film che rimane uno delle pochissime opere italiane dedicate a questo sport[11].

Le componenti sopra elencate sono riutilizzate con grande libertà e sono compresenti, in misura diversa, in ognuno di questi film. Vengono miscelate, aggiornate e reinterpretate da Totò sotto la forma di un nuovo genere cinematografico: il film di Totò. E non era infrequente il caso in cui la comicità di Totò incontrava tematiche di carattere sociale. Un’opera come Totò cerca casa di Steno e Monicelli (1949) metteva assieme la penuria degli alloggi, un argomento tipicamente neorealista, con un linguaggio cinematografico in cui era presente una componente surreale e perfino una riflessione sul cinema nel cinema. Ma di esempi di commistioni e ibridazioni se ne potrebbero trovare in quantità in uno stesso film o in film diversi. La caratteristica di opere come queste era di essere in comunicazione col presente, di raccontare l’Italia di quegli anni, di riflettere una realtà che il pubblico popolare poteva capire al volo e divertirsi a vederla rappresentata e parodiata. In questo modo i film di Totò non erano una semplice riproposta di un genere tradizionale ma si trovavano a interpretare fenomeni della contemporaneità, a sperimentare la fusione di vecchie e nuove forme dello spettacolo, ad aprire, spesso inconsapevolmente, varchi di novità per il cinema degli anni futuri. Al fondo, il rapporto che Totò aveva con la realtà nei film girati nel dopoguerra, non era troppo distante da quello che aveva avuto nei suoi spettacoli teatrali di prima e anche dopo il conflitto. Uno sguardo vigile e smagato sul presente, un andare oltre le apparenze, una continua parodia di fenomeni emergenti che spesso sconfinava nella satira di costume, una malcelata insofferenza per mode passeggere, vecchi e nuovi privilegi, atteggiamenti mentali e comportamentali e tanto altro ancora. Un atteggiamento che più di uno ha definito “anarchico”, altri “qualunquista”, ma che era dettato essenzialmente da una visione critica e non convenzionale nei riguardi della realtà e delle trasformazioni che avvenivano in superficie e nel profondo. È questo atteggiamento che differenzia Totò dalla gran parte degli attori comici di quegli anni, più legati a vecchie formule e rimasti sostanzialmente passivi di fronte agli avvenimenti del presente[12]. Totò non li subisce, ma si pone in modo problematico di fronte ad essi, non cerca alleanze, né comode scappatoie, non ha timore di “far sentire la sua presenza a un mondo ostile”. «D’altro canto, sbaglierebbe chi pensasse che l’unica preoccupazione di un personaggio del genere consista nel salvaguardare l’integrità della sua persona fisica. No, egli obbedisce a un altro più importante principio: non tollerare alcun attentato, alcuna umiliazione alla sua condotta indipendente. Totò può adattarsi a tutto, ma nessuno deve pensare di dettargli legge, né di servirsi di lui ai propri fini: gli risponderà con ogni mezzo e se non potrà rifiutare apertamente obbedienza ricorrerà alle insidie sotterranee o almeno si rifugerà nello sberleffo, nella parodia: ma non si rassegnerà mai»[13]. In questa dialettica continua con il presente, in questo confronto problematico con la morale tradizionale e le convenzioni della società, impersonate, di volta in volta dal caporale di turno, Totò tende a mettere a nudo il suo antagonista e a disvelare ciò che è dietro le varie forme dell’autorità. Questo aspetto dell’arte e della maschera di Totò rappresenta - non è un’eresia dirlo - un punto di convergenza con quella che era la ricerca del cinema neorealista. Se il neorealismo non è la mera rappresentazione del reale, ma il disvelamento di ciò che c’è dietro le manifestazioni della società italiana di quel tempo, possiamo trovare una singolare similitudine tra questi due opposti. Cambia il punto di vista e i modi del racconto, ma non la sostanza di ciò che si vuol rivelare allo spettatore. Il disprezzato cinema comico del “guitto” Totò, tra le altre cose, non è secondo, per quanto riguarda la denuncia dell’autoritarismo e delle distorsioni del potere, di quanto non lo siano le opere dei maestri del cinema neorealista suoi contemporanei. Solo che le opere di Totò arrivano, a differenza di questi ultimi, ad un pubblico di massa e raggiungono le sterminate platee della periferia e del Mezzogiorno d’Italia.

Ed il successo straordinario che incontra la comicità di Totò determina un fattore collaterale che si riversa sul piano dell’industria cinematografica di casa nostra. Tra l’altro, e non è un fattore da poco, questo genere di film consentì ai produttori italiani di opporsi, sul piano dell’industria, alle grandi case americane che si erano riversate nel nostro paese dalla fine della guerra e che non temevano concorrenza sul versante della spettacolarità, del divismo degli interpreti, delle innovazioni tecniche. «È grazie a due grossi colpi messi a segno nel 1949 (De Laurentiis con I pompieri di Viggiù, Ponti con L’imperatore di Capri e Totò cerca casa) che i due giovani produttori possono lasciare la Lux, associandosi fra loro per fondare, nel 1950, la Ponti-De Laurentiis. Presto affidano la produzione dei film di Totò a una società appositamente creata, la Rosa Film, quindi rilevano nel 1951 la Humanitas Film, titolare di un vantaggioso contratto con l’attore, assicurandosi per alcuni anni il monopolio quasi completo della sua attività. All’inizio degli anni ’50, dunque, i proventi dei film con Totò contribuiscono allo sviluppo del sistema produttivo e imprimono indirettamente una spinta a produzioni di carattere e livello anche del tutto difformi»[14]. Totò in questo periodo è la gallina dalle uova d’oro per tutto il cinema italiano. Le sue storie non necessitano di indagini di mercato preventive, come avveniva nel cinema americano, perché erano state ampiamente collaudate nel teatro di rivista e, particolare da non trascurare, richiedevano in basso impiego di capitali rispetto a qualsiasi altra produzione spettacolare, dai film in costume ai film d’opera.

I due aspetti sopra ricordati: la novità comunicativa e spettacolare dei film di Totò e l’eccezionale fortuna al botteghino, sono due fattori che vanno riconsiderati e messi in relazione tra di loro. È forse il risvolto della carriera di Totò che più necessita di una revisione storico-critica approfondita. Che i suoi film facessero la fortuna di produttori intraprendenti, non è un mistero. Ma quel che è ancora da analizzare compiutamente, è la portata delle innovazioni che investirono tutto il movimento del cinema italiano. La semplice rivalutazione di questa produzione “occasionale”, avvenuta a distanza di anni dalla scomparsa di Totò, non ha messo in luce a sufficienza i tanti elementi di novità che ha introdotto nel cinema italiano tra la fine degli anni quaranta e il decennio successivo, aprendo la strada a nuove forme di linguaggio cinematografico che si affermeranno nella commedia all’italiana. Sono anni di passaggio tra la grande e sfortunata, dal punto di vista del pubblico, stagione neorealista e la ricerca, da parte del nostro cinema, di nuove strade e nuovi fronti da aggredire. Sono anni di incubazione che daranno i loro frutti alla fine degli anni cinquanta con il boom economico e con l’avvento di un genere cinematografico tipicamente italiano che conquisterà il mondo. Se andiamo a rivedere la produzione del principe sotto questa luce, ci accorgeremo che tutto o quasi è stato anticipato, sperimentato, messo in forma nei suoi film prima che il genere esplodesse compiutamente.

Prendiamo, ad esempio, un’opera come Guardie e ladri del 1951. Allora fu registrata con soddisfazione l’umanizzazione del personaggio di Totò gratificato con un Nastro d’argento. I critici salutarono quest’opera come il necessario e definitivo approdo del grande attore napoletano al cinema di serie A. I contenuti e l’apparato scenografico sono nettamente neorealisti, con la lotta per la sopravvivenza del ladruncolo Esposito, alla ricerca di truffe agli americani e di copertoni d’automobile. L’ambientazione non è da meno, con le povere abitazioni, sia del ladro sia dello stesso poliziotto, con la vecchia cucina a carbonella sormontata dal fornello della bombola del gas, strade squallide e sterrate di periferia, dove i bambini, per giocare, sono costretti ad andare nel prato, la periferia povera che sconfina nella campagna, così bene descritta nel lungo inseguimento della prima parte del film in cui si attraversano baracche sperdute nel niente, casali con le galline, le povere osterie in cui la parola toilette è sconosciuta: «ah la ritirata!».È un’Italia che ancora si affida alla pasta regalata dagli americani per mettere insieme un pasto decente e dove un lavoro, degno di questo nome, è un miraggio. C’è perfino un accenno al matrimonio civile, stranamente sfuggito alle maglie della censura, fatto dalla moglie del ladruncolo Esposito. Totò, in questo film, oltre ad essere un ladro e un truffatore, è perfino fuori dai canoni della morale del tempo. Sembra un film di Rossellini o di De Sica o di un altro autore neorealista, di quelli che il pubblico popolare diserta regolarmente quando pure riescono ad arrivare nelle sale. Ma ciò che questo film introduce, restandone impregnato dall’inizio alla fine, è la recitazione dei protagonisti (e dei comprimari), sono i caratteri che impersonano (la guardia, il ladro, il “compare”, la moglie, il figlio, la figlia, il nonno, ecc.), il grado di (moderata) improvvisazione che i due registi lasciano a Totò e a Fabrizi quando danno vita ai loro duetti. In questo sembra una commedia degli anni sessanta, una “commedia all’italiana”. Prima de I soliti ignoti, girato sei anni dopo, non a caso diretto dallo stesso Monicelli e considerato il termine d’inizio di questo genere cinematografico, Guardie e ladri contiene già tutti i caratteri di quello che sarà il genere forte del periodo del boom e anche degli anni successivi.

Un solo altro esempio: La banda degli onesti, 1956, un film che vede Totò affiancato da quel mostro di bravura che era Peppino De Filippo, uno dei pochi a sapergli tener testa. Come sottolinea lo stesso sceneggiatore Age, non è altro che un’anticipazione, in chiave più farsesca e meno “neorealistica”, sempre de I soliti ignoti[15]. E dopo il riferimento al regista Monicelli, la citazione di uno dei giovani sceneggiatori che parteciparono alla scrittura dei primi film di Totò, non è casuale. Age, Scarpelli, Maccari, Scola e altri si trovarono a provare formule e caratteri già dalle “farse sciocche e volgari” dei film del primo Totò del dopoguerra. La fortuna economica di quelle pellicole consentì loro di continuare a sperimentare modi e forme di questo filone fino a che non fu possibile approdare ad un genere forte, di largo respiro, gradito al pubblico (e forse meno indigesto alla critica dei film volgari di Totò). E, a ben guardare, questo gruppo di sceneggiatori può presentare i nobili natali di una discendenza diretta da Sergio Amidei, l’autore, insieme a Rossellini, di Roma città aperta. «Dalla sua scuola, dal suo modello di lavoro di bottega, che lui stesso paragonava a quello dei pittori rinascimentali, discendono direttamente Ruggero Maccari, Age, Scarpelli ed Ettore Scola. Autori che si fanno le ossa e lavorano per anni mettendo tutte le proprie capacità di invenzione in una sorta di fast-script per i film di Totò o per altri film comici i cui copioni andavano realizzati nel giro di pochissimi giorni. È naturale che questi autori, che lavorano perfettamente in gruppo, la cui creatività è valorizzata grazie alle sinergie linguistiche e culturali, e che per oltre un decennio operano ai piani bassi della produzione, facciano fatica a giungere ad una piena individuazione delle proprie capacità. Ma uno studio analitico del loro lavoro è ormai in grado di definirne le peculiarità e le dinamiche fin dall’inizio»[16]. Dalle parole di Gian Piero Brunetta, si evince chiaramente che, senza quel decennio di incubazione e di lavoro ai “piani bassi” con i film di Totò, difficilmente avrebbe potuto realizzarsi la maturazione di questa schiera di sceneggiatori e la consuetudine, da parte del pubblico, a familiarizzare con temi e caratteri di quella che sarà la commedia all’italiana.

Lo stesso si può dire dei registi, a cominciare da Monicelli, uno dei padri del genere, che con I soliti ignoti ebbe il coraggio di allargare il varco e di presentare, in chiave di commedia, attori del calibro di Mastroianni e soprattutto Vittorio Gassman. L’operazione era rischiosa e poteva non essere gradita al grande pubblico. Per questo motivo, in veste di “traghettatore” (da un genere all’altro e di vera e propria “garanzia” per il produttore), fu chiamato Totò impiegato in una breve “partecipazione”. Il vecchio attore si mise al servizio del film e diede vita ad un cammeo tratto da quel campionario di personaggi “marginali”, ma dignitosamente “professionali”, che erano la sua specialità: il maestro degli scassinatori. L’operazione di Monicelli andò bene e si aprì il sipario sul genere più fecondo di tutto il cinema italiano. Ma ciò che ci interessa mettere in luce, è che fu ancora Totò a tenere a battesimo il passaggio di un’epoca, a fare, come gli era capitato in passato in teatro e poi nel cinema, da vero e proprio apripista. Su questo aspetto sarà necessario approfondire la riflessione e dare a Totò i meriti che gli sono dovuti.

Parlando di sperimentazione e di apertura di nuovi orizzonti per il cinema italiano, c’è da alzare un velo su un aspetto che nemmeno le ricerche più aggiornate hanno messo nel dovuto rilievo.

Le storie del cinema registrano l’avvento del colore in Italia con Totò a colori (1952) e successivamente il primo film in 3-D con Il più comico spettacolo del mondo (1953), due opere sostenute da un poderoso battage pubblicitario dei produttori Ponti e De Laurentiis che metteva in risalto l’eccezionale innovazione tecnica. Sono due primati che spettano ancora a Totò (o – per meglio dire - la sua partecipazione risulta fondamentale), ma non vengono messe in chiaro le modalità con cui avvenne la lavorazione dei primo dei due film e il prezzo che l’attore, ligio alla sua professionalità, fu costretto a pagare. In realtà in Italia circolavano già molti film a colori, ma erano di produzione americana. Attraverso il colore, la Ferrania, una ditta italiana che produceva pellicola e che aveva promosso la produzione di molti documentari e perfino di qualche film di animazione e di finzione, voleva sfondare sul mercato di casa nostra[17]. Ma per far fronte alla concorrenza americana, molto evoluta in questo settore tecnico e largamente gradita ai direttori della fotografia di casa nostra, si pensò di produrre un film di grande richiamo che potesse segnare l’inizio del nuovo corso. Naturalmente, la scelta cadde su Totò, anzi, più precisamente su una riproposta della sua vecchia produzione teatrale in questa nuova veste. La Ferrania era così interessata alla realizzazione del progetto, che mise a disposizione della produzione la quantità necessaria di pellicola gratis. Il problema era che non si conosceva nulla del modo di adoperare questa innovazione e soprattutto di come usare l’illuminazione per impressionare la pellicola a colori. I direttori della fotografia italiani, spaventati dall’impresa, si defilarono e il solo Tonino Delli Colli, pur riluttante, finì per essere coinvolto dalla produzione. Ma di fatto la “fotografia” di quel film fu affidata a non meglio precisati “tecnici” messi a disposizione dalla Ferrania, che si preoccuparono unicamente di far illuminare le scene da girare. Qualche fonte parla di un “ingegnere” della ditta impegnato sul set. Per ragioni tecniche, il quantitativo di voltaggio necessario era tale da accecare letteralmente gli attori coinvolti. Abbiamo a disposizione la testimonianza e il rimorso di Tonino Delli Colli: «Però con i sistemi di illuminazione che erano quelli del bianco e nero tutto diventava difficile perché, al posto di una lampada mettiamo di dieci candele, ce ne voleva una da diecimila. E quindi eravamo costretti a mettere tante lampade una vicina all’altra per avere l’enorme luce necessaria. Le luci furono bestiali, a Totò spesse volte gli fumava la parrucca. […] Appena finita una scena, Totò cercava di scapparsene dal teatro, mi sembrava una farfalla acciecata e sbruciacchiata dalla lampada -Tra le tante definizioni date dell’attore napoletano, quella della “farfalla acciecata e bruciacchiata” è forse la più tenera e poetica- Una sera si sentì male, aveva la parrucca arroventata perché, oltre ai riflettori, attorno alla macchina da presa si accendeva, al ciak, una corona di lampade che era stata ribattezzata “il mostro”. Così gli si dovette mettere una borsa di ghiaccio in testa, perché gli era venuto una specie di colpo di calore. Quando poi anni dopo si ammalò agli occhi, io ripensai tante volte a quelle luci, pensai che, chissà, potevano avergli provocato un primo danno alla vista»[18].

Totò non solo faceva da apripista, sul piano del linguaggio cinematografico, e da testimonial per qualsiasi tipo di innovazione tecnica che si introduceva in Italia, ma in questo caso veniva usato come una cavia… Bisogna ricordare che Totò, a quel tempo, era già menomato nella vista, un quanto aveva subito in passato il distacco della retina in un occhio. Nel 1957, in occasione del suo ritorno al teatro, durante uno spettacolo a Palermo, subì la crisi definitiva che lo portò alla quasi totale cecità.

Minori notizie abbiamo dell’altra novità, il 3-D, che del resto fu di brevissima durata. «Quanto al 3-D, che furoreggiò tra il 1952 e il 1954, si contano in Italia solo due tentativi, entrambi col marchio Podelvision, che sta per Ponti-De Laurentiis, solo il primo dei quali, a quanto pare, effettivamente proiettato (anche) con tale sistema: Il più comico spettacolo del mondo di Mario Mattoli, con Totò, e Cavalleria rusticana di Carmine Gallone, entrambi del 1953»[19].

Per completare il quadro bisogna fare un accenno alla visione in Scope, che riguardava le dimensioni dello schermo, anche questa introdotta dai produttori italiani per far fronte alla concorrenza americana. «Girare a colori o in Scope è, negli anni ’50, ancora un fatto relativamente eccezionale. La scelta del colore e dello Scope sembra quasi sempre dettata da esigenze molto più commerciali che artistiche. In pratica vengono realizzati film a colori, per ragioni facilmente intuibili, alcuni film comici di Totò, i film rivista (compresi quelli canzonettistici), i film operistici, i documentari (all’epoca con tendenze spettacolari), i film in costume e avventurosi e alcune commedie turistico-vacanziere»[20].

A fronte della grande disponibilità dimostrata da Totò nell’andare incontro alle richieste dei produttori, si deve registrare il rifiuto di questi ultimi di accontentare l’attore quando avanzò lui una proposta originale: quella di realizzare un film completamente muto. L’idea gli venne quando anche la critica più arcigna cominciò a guardare con un certo favore i film diretti da Bolognini, Monicelli, Rossellini. E dopo I soliti ignoti il momento sembrava propizio all’attore napoletano per proporsi con un’opera che avrebbe potuto essere apprezzata anche all’estero dove il suo cinema era stato frenato dall’uso della lingua. «[…] Trovò la forza – ricorda Franca Faldini - di proporre ai produttori un’idea che accarezzava da tempo: girare un film muto, ricco di gag e di situazioni come le vecchie comiche, internazionalmente comprensibile poiché, come sosteneva, “io non ho il dono della parola e nel mio caso il dialogo smonta e immeschinisce tutto. Sono un comico muto, né antico né moderno perché non esiste la comicità antica o moderna, esiste la comicità punto e basta. E meglio che con i dialoghi so esprimermi con la mimica”»[21].

Totò era fin troppo modesto nei riguardi di una delle caratteristiche della sua recitazione, la parola e l’uso della lingua o delle lingue, che hanno poi profondamente interessato le analisi di stuoli di linguisti che hanno sottolineato l’originalità e l’innovazione che i suoi dialoghi introducevano sia nel cinema sia nel costume italiano. Ma l’idea di usare solo la mimica e il linguaggio del corpo, che aveva delle indubbie assonanze con il Chaplin di una lunga stagione, era senza dubbio interessante e avrebbe meritato una maggiore attenzione di quella che in effetti ebbe. Il fallimento della proposta di Totò induce a qualche considerazione sullo scarso potere contrattuale che aveva il più grande attore dell’epoca nei riguardi dei produttori che su di lui fondavano la loro fortuna economica. «La proposta cadde nel nulla. Neppure Carlo Ponti e Dino De Laurentiis, che a ogni incontro lo definivano lo stendardo del loro stabilimento di via della Vasca Navale perché “se non fosse stato per lei e per i suoi primi film della serie Totò cerca, chissà se avremmo potuto costruirlo e magari saremmo invecchiati alla Lux”, vollero prenderla in considerazione. Troppo costosa, troppo rischiosa, non ne valeva la pena quando una comune pellicola di Totò mantenuta in un preventivo arciridotto portava a casa tranquilla diverse centinaia di milioni, e senza cardiopalma»[22]. Totò non ebbe appoggio neanche da altre categorie della filiera dell’industria cinematografica. Oltre ai produttori, lo scartarono i noleggiatori e i distributori, come ricorda Age, che lo affiancava nella richiesta. La risposta concorde fu: «Ma come, un passo indietro!». E conclude: «Non capirono che una cosa vecchia sarebbe potuta diventare estremamente nuova»[23].


[1] A. Ghirelli, Una certa idea di Napoli. Storia e carattere di una città (e dei suoi abitanti), Milano, Mondadori, 2010, p. 122.

[2] La citazione è tratta dal necrologio apparso su «Gente» (1967) e riproposto in F. Faldini-G. Fofi, Totò (1987), Napoli, Pironti, 19932, p. 250.

[3] Nel necrologio apparso su «L’Espresso» (1967) e ripubblicato in F. Faldini-G. Fofi, Totò, cit., p. 244, si legge: «Ma quando tutto sarà stato detto, rimarrà sempre qualcosa di incomparabile o irriducibile a una formula o metafora critica, e sarà proprio quel residuo di assurdo, di incongruo a fare così flagrante la modernità di questo attore».

[4] Totò, Siamo uomini o caporali?, a cura di Alessandro Ferraù e Eduardo Passarelli, Roma, Capriotti, 1952. Il brano è tratto dalla prefazione che Totò scrisse per questa sua autobiografia. Il volume fu realizzato con la collaborazione di Alessandro Ferraù e di una delle spalle abituali dell'attore, Eduardo Passarelli. La prefazione è stata riproposta anche in F. Faldini-G. Fofi, Totò, cit., p. 129.

[5] «In Totò a colori, che è considerato un po’ una antologia di Totò, molte cose le girò lui così come voleva, io non mi ritenevo autorizzato a farlo, dato che era quasi tutta roba del suo repertorio teatrale. Come ad esempio lo sketch del vagone letto, che nessuno meglio di Totò e Castellani poteva conoscere da fuori o da dentro». La testimonianza di Steno è contenuta in F. Faldini-G. Fofi, Totò, cit., p. 273.

[6] Corbucci, tra gli altri, cita un esempio di uno dei film più famosi e riusciti, Totò, Peppino e la dolce vita, in cui era stato chiamato all’ultimo momento a sostituire Camillo Mastrocinque: «Gli dissi: “Io sono piombato qua, ma questo è quanto mi sono trovato tra le mani, però sono all’oscuro di tutto, e adesso che facciamo in questa scena al bar?” E Totò, calmo calmo, mi disse di lasciarlo fare. Così, di sana pianta, mentre lo seguivo con la macchina, e Peppino ordinava dello champagne al cameriere che gli suggeriva il Moët Chandon, Totò inventò uno sketch straordinario svisando Moët Chandon in “Mo’esce Anto’” e andando avanti sull’equivoco per diversi minuti. Tutti della troupe schiattavano dal ridere, in quei casi spesso i macchinisti e gli elettricisti finivano con l’applaudirlo perché si divertivano come pazzi, inaspettatamente» (Ivi, p. 292).

[7] E’ questa la qualifica che il giovanissimo Totò, non ancora riconosciuto dal padre De Curtis, dette della sua professione quando fu richiamato dall’esercito, dopo che si era arruolato volontario una prima volta nel 1915 (Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Sezione Militare, Registro degli Esiti di Leva, anno 1917).

[8] G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1993, vol. III, p. 550.

[9] V. Viviani-G.C. Castello, Totò, in Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le Maschere, 1962, vol. IX, coll. 1029-1031.

[10] S. Bernardi, Gli anni del centrismo e del cinema popolare, in Storia del cinema italiano, 1954-1959, a cura di S. Bernardi, Venezia, Marsilio, 2004, vol. IX, p. 22.

[11] Sullo straordinario successo di questa produzione si veda: V. Ruffin, Totò al massimo, in Storia del cinema italiano 1949-1953, a cura di L. De Giusti, Venezia, Marsilio, 2003, vol. VIII.

[12] Vittorio Spinazzola, molto in anticipo sulla rivalutazione di Totò avvenuta nel corso degli anni dalla storiografia non solo cinematografica, ha messo in luce le differenze nel rapporto con la realtà tra la visione dell’attore napoletano rispetto a tutti gli altri interpreti comici suoi contemporanei. Tra la meteora Macario, il buonista Fabrizi e il fiato corto di tutta quella schiera di interpreti, provenienti dal mondo del varietà e della rivista che tentano l’avventura di adattare il loro personaggio al cinema del secondo dopoguerra. Si veda V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1963 (1974), Roma, Bulzoni,19852, pp. 83-100.

[13] Ivi, p. 90.

[14] V. Ruffin, Totò al massimo, cit., pp. 268-269.

[15] La testimonianza è riportata, assieme a molte altre sulla vita e l’arte di Totò, in F. Faldini-G. Fofi, Totò, cit., p. 266.

[16] G. P. Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Storia economica, politica e culturale, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 266.

[17] «Per quanto riguarda il colore, va ricordato che, a parte alcuni esperimenti anteguerra, i primi lungometraggi italiani sono due film di animazione del 1949 in Technicolor/ACME: La rosa di Bagdad di Anton Gino Domeneghini e I fratelli Dinamite di Nino Pagot (girati con un procedimento particolare, per cui ogni fotogramma è ripetuto sul negativo tre volte, per ottenere così le tre matrici di stampa), ai quali seguono nel 1951 Mater Dei, un film religioso di don Emilio Cordero, realizzato a quanto pare con pellicola Anscocolor invertibile, presumibilmente in 16mm, e Una lettera dall’Africa, un documentario di Leonardo Bonzi e Maner Lualdi in Ferraniacolor. L’esordio ufficiale è tuttavia nel 1952 con Totò a colori di Steno, in Ferraniacolor, un negativo monopack di tipo sottrattivo (al contrario del Technicolor che lavora con tre negativi in bianco e nero secondo il metodo additivo)» (A. Aprà, Lo stato della tecnica: dalla pellicola al film, dal film alla sala, in Storia del cinema italiano 1954-1959, cit., p. 489).

[18] La testimonianza di Tonino Delli Colli è contenuta in F. Faldini-G. Fofi, Totò, cit., p. 282. Incredibilmente, pur in queste condizioni, Antonio De Curtis raggiunge, secondo alcuni, il vertice delle sue qualità espressive: «Siamo in un clima di funambolismo astratto che ha la modernità della pittura o narrativa metafisiche, con i loro manichini stagliati su un orizzonte senza tempo» (V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, cit., p. 95).

[19] A. Aprà, Lo stato della tecnica: dalla pellicola al film, dal film alla sala, cit., p. 496.

[20] Ivi, p. 509.

[21] F. Faldini-G. Fofi, Totò, cit.,p. 69.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, p. 267.

                                
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