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Anna Barsotti

La villa senza mura nella Trilogia goldoniana di Toni Servillo

Data di pubblicazione su web 11/12/2012
La villa senza mura nella Trilogia goldoniana di Toni Servillo

Fra teatro e cinema[1]

Toni Servillo è attore e regista di teatro, attore cinematografico e regista di opere liriche. Con apparente modestia si definisce “interprete”, rivendicando con il testo, sia drammatico sia cinematografico (per lui la «sceneggiatura») un rapporto di lettura critica, di penetrazione approfondita e di conseguente rivelazione al pubblico, che è il suo destinatario e interlocutore privilegiato.

Solo che nel teatro, da cui nasce come «efferato dilettante»[2], e in cui si forma attraverso una serie di esperienze e di tappe che ne fondano il percorso, tale rapporto è sostenuto dalla “binarietà”, appunto, attore-regista e quindi dalla “collettività” d’una compagnia di cui si sente responsabile; nel cinema, invece, cui approda dapprima saltuariamente e via via in modo sempre più sistematico e consapevole (senza mai però dimenticare l’altro polo, scenico), egli delega la responsabilità dell’insieme alla figura (e persona) d’un altro regista, dal momento che il rapporto con il pubblico, nell’immagine filmica, è filtrato dall’occhio della macchina da presa. Di conseguenza, nel primo caso, non è il suo personaggio il soggetto da interpretare esclusivamente, ma l’insieme su cui si fonda la messinscena; nel secondo, si rileva un interesse prioritario per la propria parte, pur nella considerazione attenta e viva di quella degli altri, attori che molto spesso gli sono stati e gli sono compagni nell’avventura scenica.

Di conseguenza, ancora, essendo anche, inscindibilmente, regista oltre che attore, sul palco si attribuisce di rado parti da protagonista, allo scopo, così facendo, di conservare meglio la prospettiva (quasi esterna, quasi spettatoriale) sul complesso; nel cinema invece - possiamo dedurlo da molte sue dichiarazioni – emerge progressivamente l’attrazione, e quindi il piacere (non divistico ma creativo) per la parte principale. L’uno e l’altro atteggiamento non collidono, però, anzi è come se si integrassero a vicenda, si scambiassero informazioni reciprocamente, perché teatro e cinema (come lui dice) sono sì «marito» e «moglie»[3] ossia campi differenti ma che possono sposarsi, e si sono sposati nel percorso di un artista dello spettacolo (come il suo).

Enzo Moscato dice di Servillo che è un «attore di teatro prestato al cinema»[4], ma non è del tutto vero; bisognerebbe piuttosto dire che è un attore di teatro che nel cinema ha trovato (da un certo momento in poi) un altro campo fertile per la sperimentazione del processo che gli è divenuto più congeniale: la ricerca nella tradizione[5]; partenopea naturalmente ma anche internazionale, dal momento che, insieme a Eduardo De Filippo, uno dei suoi riferimenti è Louis Jouvet.

Se il rapporto fra tradizione e innovazione è, d’altra parte, un tratto che può accomunarlo allo stesso Eduardo, l’itinerario di Servillo è à l’invers; non figlio d’arte come il primo, di famiglia borghese, casertana, ma frequentatrice di teatri anche musicali (non a caso Toni è fratello di Peppe Servillo), parte dalla cosiddetta “ricerca” negli anni in cui s’animava anche in area partenopea il teatro di figura, fondando insieme ad amici il Teatro Studio di Caserta nel 1977. Ma, paradossalmente, proprio quando s’esaurisce quella prima esperienza, e nel 1987 si unisce a Mario Martone e ad Antonio Neiwiller nel Laboratorio Teatrale Permanente che ancora si chiama Teatri Uniti, riemerge in lui il retroterra della “tradizione”, come bagaglio da cui ripescare oggetti e frammenti, antropologici e culturali.

La prima esperienza (o ricerca) nutre infatti il “sentiero napoletano” di Servillo, già intrapreso nell’86 con lo spettacolo evocativo E… (montaggio di poesie eduardiane sulla natura, e sull’immagine visiva, sonora e coloristica delle parole), e percorso attraverso il collage creativo di Leo de Berardinis, altro suo punto di riferimento, nella parte del suggeritore per la scena delle prove, inserto da Ditegli sempre di sì in Ha da passà ’a nuttata, del 1989, ancora da Eduardo. Sentiero napoletano, dunque, anomalo, che implica la destrutturazione della tradizione e la sua ricreazione alla luce del contemporaneo, come aveva già fatto appunto Leo (nel periodo di Marigliano) e come farà, a suo modo, Servillo stesso, esordendo da regista nei Teatri Uniti con Partitura (’88) di Moscato, poi trasformata in Rasoi (’91) insieme a Martone (da cui quest’ultimo trarrà il film del ’93), dove il nostro interpreta – o crea? – l’indimenticabile figura del Guappo. Seguirà la regia di Zingari (’93) di Raffaele Viviani; e nella proposta metatateatrale di quel testo visionario Toni non interpreta, come ho anticipato, il protagonista, ma la figura dell’inferico antagonista ’O Diavulone.

D’altra parte incomincia (in parallelo) il percorso cinematografico di Servillo, prima nel film d’esordio di Martone, Morte di un matematico napoletano del ’92, con Cecchi (fiorentino napoletanizzato) nella parte di Caccioppoli, poi in Teatro di guerra (’97) dello stesso regista, che radunando sul set il gruppo degli attori dei Teatri Uniti è come se ne filmasse il difficile tentativo d’essere diversi, al tempo stesso idealistico e, per certi versi, velleitario. Autorappresentazione osmotica fra cinema e teatro, in cui la parte di Servillo è dissonante (come già su un altro versante quella di Franco, l’allievo competitivo e attratto dalla normalità, rispetto al «matematico napoletano»). In Teatro di guerra egli è personaggio d’impresario, sfottente e un po’ cialtrone, d’un immaginario Stabile, che alla fine l’avrà vinta, declinando nella lingua (anche teatrale) partenopea certe figure d’estroversi arroganti che appartengono (per sua ammissione) al repertorio filmico di Tognazzi e di Gassman.

L’arrivo ai classici

Ma come si arriva ai classici attraverso il duplice (ormai) percorso cine-teatrale, e il sentiero registico-attoriale napoletano, che si è detto anomalo? E soprattutto come si arriva alla Trilogia della villeggiatura goldoniana, oggetto di questa indagine? Opera che debutta in anteprima al Teatro di Corte di Caserta (1-4 novembre) e in prima nazionale al Teatro Grassi di Milano (7 novembre-9 dicembre) nel 2007, essendo il Piccolo coproduttore dello spettacolo insieme ai Teatri Uniti di Napoli; ma che continua a girare in Italia fino alla stagione 2009-2010[6], e all’estero dal 2008 al 2010, modificandosi (come vedremo) man mano e particolarmente nell’anno (2008) in cui Servillo raggiunge il vertice della popolarità cinematografica con Gomorra di Matteo Garrone e Il divo (La spettacolare vita di Giulio Andreotti) di Paolo Sorrentino.

Si arriva ai classici, in teatro, portando a compimento, per adesso, il sentiero napoletano, con la messinscena del Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo nel 2002[7]; un classico sui generis Eduardo, un padre sentito come scomodo dagli stessi esponenti del teatro di ricerca partenopeo (non Annibale Ruccello, né evidentemente de Berardinis), soprattutto Moscato, il quale però negli ultimi tempi l’ha rivalutato come “attore artaudiano” e gli ha dedicato nel 2012 lo spettacolo Tà-Kài-tà. Ma prima ancora ci si arriva attraverso l’altro sentiero intrapreso dall’attore regista casertano, quello francese (non a caso ho citato Jouvet), con la trilogia di commedie sei-settecentesche, Il misantropo di Molière nel 1995 (antecedente a Teatro di guerra), Le false confidenze di Marivaux nel ’98, e Il Tartufo ancora di Molière (sempre tradotto da Cesare Garboli) nel 2000. Non mi soffermo su questa importante triade, che precede l’inizio della seconda collaborazione di Servillo attore con Sorrentino: L’uomo in più è del 2001, Le conseguenze dell’amore del 2004 (produzioni intercalate da Sabato, domenica e lunedì). Osservo solo in proposito che la prospettiva assunta da Servillo regista su questi testi d’un passato sempre presente è quella ben evidenziata da Taviani, di metterli in scena come per la prima volta, “come nuovi”[8].

Con ciò non si vuol dire certamente che Servillo ignori la tradizione (la quale costituisce per lui, come per Eduardo, un “trampolino di lancio”) ma che sente l’esigenza di toglierne la polvere e di impostare il rapporto dello spettacolo teatrale con il pubblico contemporaneo in modo dialettico sia sul versante storico sia su quello dello spazio scenico e della recitazione degli attori. Attori che appartengono in parte al suo stesso cammino (teatrale e poi anche cinematografico) da Iaia Forte/ Célimène e Roberto De Francesco/Alceste del Misantropo ad Andrea Renzi/Dorante e Anna Bonaiuto/Araminte de Le false confidenze, fino al giovane cast del Tartufo, dove appunto l’inedita giovinezza dell’interprete Peppino Mazzotta concorre a dare spezie speciali alla costitutiva ambiguità del protagonista, e dell’intero testo.

Quanto alle parti che Servillo si attribuisce, come già detto, non sono le principali: slittano dall’Oronte (rivale ridicolo, ma non troppo nella sua interpretazione, dell’acerbo misantropo) al machiavellico sevo Dubois, fino all’Orgone infatuato di Tartufo. Parte quest’ultima già adottata da Carlo Cecchi nella sua proposta del testo (tradotto dallo stesso Garboli). C’è anche forse un elemento di sfida in tale scelta: offrire del cosiddetto personaggio secondario una resa così personale da farsi riconoscere – come attore – nelle sue varie declinazioni. Sfaccettare il suo stile (definito genericamente essenziale ed elegante) con aspetti che matureranno anche nel cinema: specie di antagonista o coprotagonista di un personaggio più giovane, a cui solo in rari momenti ruba la parte, ma in modo sornione, come nell’Oronte e nell’Orgone molieriani (il secondo poi affidato a Francesco Silvestri, per incarnare Alceste “a suo modo”, quando gli viene a mancare De Francesco); ma pure (sotto mentite spoglie) proiezione del regista, secondo una prospettiva che dal Dubois di Marivaux approda a Ferdinando, lo «scrocco» della Trilogia goldoniana.

L’ultima prospettiva meta-teatrale riguarda soprattutto la scena e la sua gestione; mentre la prima – antagonista o coprotagonista – attraversa il cinema dove, si è detto, egli si sente strumento diretto da altri, ma aspira al protagonismo, anche se non dimentica mai l’insieme a partire dalla lettura del testo, che in questo caso è la «sceneggiatura»[9]. Qui ha già declinato l’antagonista (in Teatro di guerra) come farà poi in Gomorra (2008), o il coprotagonista, addirittura contrastivo Doppio in L’uomo in più (2001), ma assume appunto su di sé anche la costruzione del personaggio principale: fin dal sindaco bassoliniano ma pasoliniano de La salita (per la regia di Martone, in I Vesuviani del ’97), poi assolutamente in Le conseguenze dell’amore (forse il capolavoro di Sorrentino) del 2004, la cui lavorazione avviene, non a caso, in contemporanea con la gestione scenica e attoriale di Sabato, domenica e lunedì, unico esempio di quasi protagonismo in teatro, se si escludono gli assoli, ma nella commedia eduardiana più corale; infine nella parte del commissario di La ragazza del lago (per la regia di Malaioli, 2007) e in quella molto singolare di Andreotti in Il divo ancora di Sorrentino.

I due poli espressivi tra cui si tendono questi diversi ruoli sono l’“estroversione” e l’“introversione” (nel teatro come nel cinema) attraverso una gamma che va dalla cattiveria, persino disumana, ma talora esteriormente simpatica, comunque vitale, alla sua cinica variante, ma intimamente, umanamente tormentata (come nello stesso Divo); caratteristica quest’ultima che connota anche i suoi personaggi positivi (il commissario Giovanni Sanzio) o che diventano tali, riscattandosi alla fine (Titta Di Girolamo).

Gli strumenti sono anche quelli del grottesco (implicando talvolta la mascheratura) ma slittano via via, sul versante dell’introversione, verso la resa del silenzio: nodo cruciale il Peppino Priore eduardiano, che farà scuola (per conferma dell’attore) a Titta, mescolandosi alla tragicomica ma agghiacciante, misteriosa maschera andreottiana; la quale d’altronde riceve impulsi, forse insospettati, dal Guappo di Rasoi[10].

La ‘Trilogia’ goldoniana per Servillo

Ma ritorniamo al teatro, in particolare ai classici, e in questo contesto alla Trilogia della villeggiatura goldoniana, che segue al sentiero francese e anche all’approdo, nell’ambito della commedia, di quello napoletano. Va detto, d’altra parte, che sia l’attore-regista scenico sia l’interprete cinematografico mostrano nel poliedrico artefice Servillo una propensione al romanzo triadico (se egli stesso definisce trilogia filmica Le conseguenze dell’amore, Il divo e Il gioiellino).

L’opera di Carlo Goldoni, come è noto, è uno spettacolo “uno e trino”[11]: si articola in tre diverse commedie, Le smanie per la villeggiatura[12], Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura che, come precisa lo stesso creatore (ne L’autore a chi legge), «ciascheduna può figurare da sé, e tutte e tre si uniscono perfettamente». Infatti rappresentano e sviluppano tappe successive di un percorso: le frenesie, anche equivoche, di due famiglie livornesi, né nobili né ricche, in partenza per le vacanze; la «folle condotta»[13] (ancora per l’autore) di componenti e ospiti nella campagna di Montenero e infine, al loro ritorno in città, l’intreccio di delusioni amorose e problemi economici che solo apparentemente si scioglie.

Il contesto contiene la satira goldoniana nei confronti di un ceto medio veneziano (trasferito prudentemente, o emblematicamente nella centrale Toscana, così come già per La locandiera) che non è riuscito a elevarsi né economicamente né moralmente, che si limita a scimmiottare la nobiltà, e che ha profondamente deluso l’autore; non a caso (anche per una delusione che abbraccia il mondo del teatro) l’anno successivo alla stagione della Trilogia, nel 1762, Goldoni abbandonerà Venezia per Parigi.

Non è casuale neppure la scelta della «villeggiatura», come tema cruciale e luogo deputato – per quanto la villa compaia soltanto ma significativamente nella tappa intermedia –, dal momento che la sua pratica, divenuta «fatto di costume fin dagli anni cinquanta» in seguito al tentativo dello Stato veneto di «rilanciare l’agricoltura [per] fare uscire la società dalla crisi economico-sociale»[14], non aveva sortito l’effetto sperato già fra i nobili (nelle cui ville in Brianza Goldoni era stato ospite). E l’autore stesso aveva affrontato il tema in molteplici forme, dalla commedia (come quella dal titolo La villeggiatura, del ’56) al «dramma giocoso» per musica. Quindi la «villa», scriverà nei Mémoires, gli appare, da luogo dove «i nostri antenati non andavano che per raccogliere i loro beni», luogo dove i suoi contemporanei vanno invece «a dissiparli». Testimonia: «In villa si gioca forte, si tien tavola imbandita […]; lì il cicisbeismo italiano prospera senza impacci e progredisce più che altrove»[15]. Figuriamoci quando tale dissipazione (moralisticamente stigmatizzata) si applica a beni precari o inesistenti, come nel caso dei borghesi già sull’orlo della rovina nelle Smanie per la villeggiatura.

In questo contesto iscrive la storia (o l’educazione) sentimentale, con amaro lieto fine, di due coppie d’amanti scombinati: Leonardo ama Giacinta (figlia di Filippo), che s’innamorerà, invece, di Guglielmo (proprio durante l’evasiva villeggiatura), che la contraccambia, ma da lei stessa viene quasi costretto a sposare Vittoria (sorella di Leonardo) che lo ama non riamata; per cui le duplici nozze del finale del Ritorno dalla villeggiatura (Giacinta-Leonardo, Guglielmo-Vittoria), precedute da quelle di straforo fra Rosina e Tognino, sanciscono una situazione di tormentosa infelicità, per i giovani almeno; ché i vecchi, lo svagato Filippo e l’apparentemente saggio Fulgenzio (deus ex machina in borghese), restano soddisfatti di combinazioni matrimoniali vantaggiose dal punto di vista economico. E a ben guardare, in questa Trilogia, oltre e più che d’amore, si parla molto di soldi, sperperati per «esserci» piuttosto che per «essere», salvati anche per salvare le «apparenze»[16]. Così Servillo, con una frase ripetuta in varie dichiarazioni e interviste, sembra riecheggiare quella di Siro Ferrone: «I personaggi aspirano a “rappresentarsi” piuttosto che a “essere”». Con l’eccezione, per lo studioso goldoniano, di «Giacinta e Guglielmo che a questo camuffamento arriveranno lungo il corso di tutta la trilogia adeguandosi alfine alla parte in commedia a loro assegnata»[17].

Per il regista e (vedremo) interprete l’osservazione assume una valenza a noi contemporanea, nella prospettiva assunta anche per gli altri classici rivisitati (Eduardo compreso), dove l’aggiornamento non è mai superficiale, i semplici costumi restando metaforicamente quelli d’epoca (quasi a distanziare epicamente, ma senza brechtismi, la vicenda); l’estensione come riconoscimento dei valori di senso di un testo che «ci offre un’analisi lucida e cruda di questo mondo» storicamente goldoniano, ma «che è anche il nostro», scaturisce dalla lettura approfondita del testo stesso, dalla sua parziale riscrittura drammaturgica, e dalla sua resa registica, attoriale e scenografica che espressivamente, e materialmente (la materialità viva del teatro), lo avvicina al pubblico. Goldonianamente, ma anche dopo Eduardo, il mondo del teatro raggiunge e provoca in modo sornione il teatro del mondo, «un mondo in cui i sentimenti e i destini sono spesso trattati con fredda aridità, alla stregua di una partita doppia»[18].

D’altra parte, la metateatralità implicita nell’opera e riconosciuta da Ferrone si può ravvisare nella scelta di Servillo per sé della parte di Ferdinando, lo «scrocco», il professionista parassita della villeggiatura, un personaggio di lato ma forse proprio per ciò l’unico a inquadrare a ogni momento (partecipa a tutte e tre le tappe) la situazione, e ad avere, come bersaglio chiaro, il denaro (che gli manca). Solo per quest’ultimo aspetto economico, che si è scoperto fondamentale, la sua apparente “passività” (condita dalle spezie del pettegolezzo comico e maligno) si trasforma in “attività”, dal punto di vista di partecipazione all’intreccio. Il suo cicisbeismo (ringiovanito, rispetto al testo, dall’età e dall’elegante destrezza dell’attore) oltrepassa la moda fruttandogli alla fine, attraverso un contratto matrimoniale con la vecchia, infoiata, zia Sabina la «donazione» che gli interessa.

C’è anche un altro aspetto da considerare: Ferdinando è forse il personaggio più negativo della commedia, subdolo e approfittatore, eppure risulta innegabilmente simpatico anche per com’è interpretato dall’attore: recitazione pigramente enfatizzata, nella paralinguistica cantilenante e accattivante e nella gestica un po’ effeminata, svolazzante (specialmente con le mani) come nel modo con cui si muove sul palco, con qualche posa elegante. Non sembri arrischiato pensare, per l’effetto sul pubblico, a un suo personaggio cinematografico diversamente negativo e diversamente risolto: Franco di Gomorra, che si occupa con aplomb manageriale dello smaltimento dei rifiuti (dal nord industriale occultati nei territori agricoli della provincia campana). I due hanno in comune soltanto il versante dell’“estroversione” che non contiene alcun tormento interiore; eppure Garrone si è rivolto a Servillo con queste parole: «Voglio un attore, perché ho bisogno di questa recita, cioè ho bisogno che il personaggio più negativo del film sia il personaggio più simpatico e questo lo può fare solo un attore […]». Quindi doveva «raccontare allegramente un disastro»[19] come, a suo modo, farà per il cicisbeo scroccone.

In qualità di regista (non metateatrale ma effettivo) dello spettacolo Servillo ha scelto la soluzione di “unire perfettamente” le tre commedie in una, di poco più di tre ore, che rispettasse nella prospettiva del «romanzo teatrale» la diversità di ciascuna: se le Smanie per la villeggiatura possono apparire ancora dentro la tradizione del comico, giostrando però nevroticamente eppure quasi geometricamente eventi e personaggi, le Avventure della villeggiatura pur nel clima vacanziero che le connota rendono sempre più problematico il genere commedia, il Ritorno dalla villeggiatura conserva alcuni momenti grotteschi, ma declina verso il dramma, precipitando in un finale tutt’altro che consolatorio. Non a caso Alonge, fin dalla prima commedia, nota come vi «pulsi dentro una sostanza che è già tutta drammatica» per concludere che «Goldoni diventa quasi un autore proto borghese»[20].

La soluzione dell’accorpamento e dello sfoltimento è stata già praticata da Giorgio Strehler, cui si deve il rilancio scenico di quest’opera goldoniana (nel 1954 e nel 1974) e al cui copione si riallaccia Servillo operandovi, come vedremo, significative trasformazioni; un accorpamento del genere fa anche Mario Missiroli (nel 1981), invece Massimo Castri ha scelto nelle tre stagioni dal 1995 al 1996 la singolarizzazione (addirittura l’ampliamento) dei testi.

La messinscena di Servillo si distacca tuttavia sia dagli uni che dall’altro, specialmente per il trattamento della figura-chiave, protagonistica, di Giacinta. Non più l’eroina «romantica» di Strehler, «vittima di una società»[21], ma neppure la figura prevaricante ed economica, antipatica di Castri. Giacinta (la giovane attrice Anna Della Rosa) è una ragazza combattuta fra l’ansia d’indipendenza, che spera di conquistare con il matrimonio con Leonardo (Andrea Renzi), che ama poco, l’insorgere della passione per Guglielmo (Tommaso Ragno), e i cosiddetti doveri, le convenienze d’una buona fama che l’avranno vinta condannandola all’infelicità: come si rileva in quell’abbraccio del finale proiettato sul boccascena, per cui s’aggrappa a Leonardo (col viso stravolto e lo sguardo fisso sul pubblico), quasi sul punto di cadere in avanti. Al tempo stesso lo sovrasta, mentre lui nasconde la faccia nel suo seno. «Giacinta – dice ancora Servillo – è responsabile delle sue scelte, è incapace di ribellarsi alla sua società: i giovani della Trilogia offrono molte occasioni per una riflessione sulla giovinezza d’oggi». Con ciò afferma d’essere più «cinico» di Strehler, «più goldoniano»[22].

Ma l’operazione che più ci interessa è quella della bipartizione cui è sottoposta la Trilogia: due tempi drammaturgici (e spettacolari) che comprendono, il primo, le Smanie per la villeggiatura e parte delle Avventure della villeggiatura, il secondo la seconda parte di esse e Il ritorno dalla villeggiatura. L’azione si interrompe proprio nel passaggio cruciale della scena dalla terrazza (che a partire dal 2008 raffigura metonimicamente la villa) al boschetto, dove s’ambienta l’avvenimento dell’opera, l’incontro amoroso fra Giacinta e Guglielmo, sorpresi da Leonardo, e la decisione della ragazza d’obbligare l’amante a sposare Vittoria, autocondannandosi o conformandosi.

La villa senza mura

La scenografia di Carlo Sala asseconda questo andamento: in un unico contenitore scenico, che inclina sempre più verso la platea (secondo l’uso di Servillo di accostare gli spettatori senza mescolarli agli attori), si susseguono gli ambienti della Trilogia. Una parete-maschera composta da due fondali l’uno dietro l’altro (quello antistante con tre aperture, la centrale più ampia) s’adatta alle due case di Leonardo e Filippo (variando solo qualche arredo, la luce, meno forte in quella del più spiantato giovane), mentre il passaggio fra le due abitazioni è segnalato da un piccolo suono; accompagnate, invece, da una marcetta rubata al Petrushka di Stravinskij[23] s’alzano a vista prima la parete posteriore poi lentamente quella davanti, ma dopo un oscuramento della scena che suggerisce l’effetto d’una dissolvenza cinematografica, per dar luogo alla terrazza della colazione, dove Ferdinando/Servillo prende posto, profilandosi poi come silhouette allungata ed elegantemente stravaccata contro un fondale chiaro che s’illumina (apparentemente per il disco di un sole, simulato da un faro giallo ma sfumato). Ma alla ripresa del secondo tempo la scena si trasforma in un boschetto, le cui fronde invadono significativamente il boccascena, con la luce rossastra del tramonto; per ritornare poi, ancora a vista, nelle case di Filippo e di Leonardo, ormai prive di ogni accessorio, con l’abbassarsi della stessa parete maschera del primo atto che appare, ora, nuda e screpolata. Il finale si svolge nella casa di Costanza (Mariella Lo Sardo), personaggio apparso nelle Avventure della villeggiatura; parete ancora più nuda ma come sfondata dal riquadro centrale d’una camera metonimica: c’è solo il letto degli improbabili sposi Rosina (Giulia Pica) e Tognino (Marco D’Amore).

Se l’alzata delle due pareti concorre a isolare, da un lato, l’ambiente e il clima della villeggiatura, la parentesi vacanziera situata all’esterno d’una villa senza mura (perché anche lo scorcio che se ne intravede nelle prime rappresentazioni scomparirà nelle repliche successive) è a sua volta resa più penetrante e intima dalla scansione o cesura fra l’ampiezza solare della terrazza e l’ombrosa radura (ma già la luce s’era fatta rossastra alla fine del primo tempo) simulata metaforicamente dal fondale e dai due tappeti verdi per il fogliame, che invadono significativamente il boccascena, luogo appartato in cui scorre la linfa vitale, e ci si nasconde (almeno all’inizio) per esprimere la passione. La villa di Servillo diventa via via “senza mura”[24] anche perché rappresenta appunto la vacanza da una quotidianità urbana al tempo stesso smaniosa dell’apparenza (le bizze di Vittoria per il mariage) e perciò nevrotica, ma anche pesantemente routinaria nei ripetuti tentativi di evitare i creditori (da parte del fratello Leonardo). Eppure quel cielo fondale chiaro dietro il quale si intravvede il disco faro del sole, accompagnato da un sonoro di cicale, se consente un po’ d’arroganza al parassita, che reclama dai servi la sua «cioccolata», non lo libera dai calcoli del denaro (impegnandolo in un conto risibilmente accelerato delle sue vincite al gioco). Né lo risparmia dal corteggiamento serrato e persino audace della zia Sabina (una Betti Pedrazzi grottescamente energica, meno anziana della sua parte, all’epoca di Goldoni interpretata en travesti dal comico Giuseppe Lapy); perché, per quanto lei gli ripugni, com’è reso evidente dal prossemico svolazzare di Servillo quando la disinibita vedova tenta di catturarlo, abbrancandolo (fino al casqué in cui i due si bloccano), la «vecchia pazza» è ricca e potrebbe salvarlo, d’un colpo, dall’indigenza che lo costringe a fare il buffone per una corte degradata di borghesi.

Copione e performances

Come sappiamo, il copione di Servillo parte da quello di Strehler, attraversando cinque stesure successive, con l’assistenza di Costanza Boccardi e la verifica con i suoi compagni storici di lavoro che fanno parte dei Teatri Uniti. Taglia gli a parte e certe scene, non le stesse di Strehler (elimina quella dello zio Bernardino, nel Ritorno dalla villeggiatura, e tiene quella di Ferdinando che si prende gioco di Tognino nelle Avventure della villeggiatura). Quanto ai monologhi, Servillo ne conserva alcuni, non solo quelli – come vedremo – che riflettono momenti cruciali dello spettacolo, ma anche quello di Ferdinando che segue la sua prima posa sulla terrazza coi piedi sul tavolinetto da giardino, il corpo abbandonato all’indietro, le braccia penzoloni, così che la marsina rossa (come i calzoni) scenda mollemente dalla spalliera della sedia fino a terra. Icona dell’ozio e della pigrizia, che richiama nelle curvature del corpo la foggia dei pochi arredi. Le sue prime mosse, dopo la chiamata del servo tra l’infastidito e l’arrogante, elastiche ma rilassate – alzarsi dalla sedia e compiere qualche gesto ginnastico al limite della danza – suscitano il riso degli spettatori. L’assolo successivo dell’attore è un numero da varietà: s’avanza di poco in proscenio, quasi rivolgendosi al pubblico, e dopo un breve commento si mette appunto a controllare il suo «bilancio» di gioco su un minuscolo taccuino che estrae da una tasca del panciotto. Da cui, appunto, il nuovo effetto comico per la ripetizione accelerata dei conti (che non gli riescono subito bene) poi di colpo lo stridulo richiamo dei domestici che ancora non l’hanno servito, accompagnato dal gesto deittico del braccio con la mano destra verso la sinistra del palco, dove, nascoste dalla cascata di fogliame, dovrebbero trovarsi le mura della villa.

Da lì invece entra Graziosi/Filippo, già reso ridicolo dal cappottino bigio sopra la lunga camicia bianca e berretto da notte. Immagine goffa, anche se il padrone di casa ribadisce che i servi li paga lui! Segue la gag della cioccolata: un esempio di «fallimento dei propositi» (Propp) del continuamente frustrato personaggio che, alla fine d’una gustosa schermaglia, specie gastronomica di “tiro alla tazza” fra i due contendenti (ormai seduti entrambi ai lati del tavolino, Graziosi di profilo e Servillo di fronte al pubblico), è costretto a lasciare e ad assistere alla compiaciuta libazione dell’ospite, preceduta dal tintinnio prolungato del cucchiaino che mescola lo zucchero. Ogni dettaglio è curato nella gestica e nella phoné di Ferdinando, come quando dopo aver bevuto si sofferma a commentare la bontà del liquore, tra una pausa e l’altra, con voce resa fioca dalla gola ed espressione beata (mal celando una certa soddisfazione ritorsiva nei confronti delle battute dell’altro, che ha tentato prima di umiliarlo). Quindi sulla battuta «la vostra cioccolata è perfetta!» compie un gesto simbolico tagliando l’aria con la mano.

In questo punto Servillo sposta – dopo l’uscita prima di Ferdinando e poi di Filippo – l’unica parte salvata dell’iniziale, lungo, dialogo fra i servi che si trovano la mattina presto a fare colazione insieme, mentre i padroni dormono ancora (tagliato da Strehler, marcato da Castri); quella fra Brigida e Paolino, valorizzata per contrasto con la scena precedente. Scena vuota, poi ingresso di Brigida (Chiara Baffi) dalle fronde, che chiama Paolino (Francesco Paglino) e intesse con lui una trama amorosa, pur parlando dei signori e della sua volontà di trattarlo come loro, servendogli la cioccolata: parola che assume qui il retrogusto erotico della bevanda, pronunciata da entrambi a distanza intima, dopo l’avvicinamento della ragazza all’altro presso il tavolino centrale, quasi come un bacio. Ma proprio quando Brigida esce per prepararla a Paolino e questi si allunga soddisfatto sulla sdraia che la donna (più intraprendente) ha portato in proscenio, entra a passo lento e svagato Giacinta a piedi nudi, capelli sciolti, camicia bianca che le scopre le braccia, per impuntarsi alla vista del servo sdraiato, che sorpreso alle spalle per qualche attimo non s’accorge della sua presenza. Quando l’avverte, scatta in piedi e s’inchina (un po’ vergognoso) allontanandosi sempre nella direzione delle fronde.

Si prepara così la seconda icona (di queste prime scene in villa). Giacinta/Anna Della Rosa, dopo una breve pausa, si sdraia al posto del servo, più mollemente, il corpo abbandonato e proteso, come le braccia che mostrano le mani pendenti, i piedi leggermente sovrapposti uscendo dalla camicia e, ultimo tocco, il grande cappello sulla faccia. Anche su questa icona si ferma l’azione, allo scopo di infondere al pubblico l’effetto non tanto dell’ozio (come quella iniziale di Servillo/Ferdinando) quanto d’abbandono malinconico ma anche, come vedremo subito dopo con l’entrata di Brigida con la cioccolata (lievissimo qui pro quo), infastidito. La padroncina, infatti, non s’accorge subito della serva, anzi quando le sfugge il cappello dal viso se lo rimette ancora mollemente; e quando Brigida (mente fina) finge d’aver preparato la colazione per lei, accucciandosi e chiamandola a voce bassa per destarla, nel ripetere il gesto di ricoprirsi col cappello (che stavolta si è tolta) l’attrice, con mimica discreta, mostra alla parola «cioccolata» un’espressione scocciata (ruotando i grandi occhi verso l’alto) che sembra il massimo del tormento concessole.

Eppure nella scena della confessione d’un innamoramento che l’ha colta di sorpresa Giacinta cambia registro; restando sdraiata accanto alla servetta, che le si accosta sedendosi sullo sgabello per interrogarla, attraverso il movimento del braccio sinistro e della testa imprime un nuovo dinamismo alla sua figura. Dapprima corrucciata, volgendo la faccia dalla parte opposta all’altra, quando parla di Leonardo, e verso di essa quando parla di Guglielmo, s’anima via via che le comunica, con stupore, sgomento ma anche compiacimento (s’apre in un piccolo sorriso) per quest’amore indebito, che d’altronde la possiede. Basta guardare ai gesti, sempre piccoli, indiziali che compie nel suo riconoscimento: oltre al sorrisetto che lampeggia di straforo, quel riportarsi il pollice alle labbra (quasi a mangiarsi le unghie) e il fremito sensuale che le percorre il corpo fin dalla punta dei piedi bene in vista, con una languidezza nella voce inedita e in contrasto con il tono secco, ancora, del resto delle battute, intercalate o scandite dalla posa di voltarsi di profilo, con il dorso della mano sulla bocca.

Fremito sensuale, accompagnato anche da gesti iconografici (quando unisce gli indici per mostrare la propria vicinanza pericolosa, durante quella villeggiatura, con il corpo dell’amato), ma contrastato in se stessa dalla doppia mozione di non poter mancare alla parola data e di non voler macchiare il buon nome. Qui il tono si fa apparentemente più perentorio perché il ritmo è affrettato, i gesti diventano più frequenti e marcati, come quando nel tentativo di convincere la servetta (e ancora più se stessa) dell’impossibilità di mandare a monte le nozze promesse – alzando il braccio con la mano a palmo teso per bloccare fisicamente l’ipotesi e sventolandola per gettare via l’eventualità – esprime la preoccupazione che il mondo possa pensare la tresca antecedente alla vacanza (indica con il braccio destro un altrove, l’ambiente urbano) e che lei abbia premeditato la compagnia dell’amante, qui e ora, alla presenza del fidanzato (così incrocia gli indici e poi li affianca).

Il cappello di paglia assolve inoltre una funzione simbolica, oggetto su cui appoggiare una mano mentre con l’altra gesticola, o a cui aggrapparsi nei momenti di concitazione, dietro a cui nascondersi all’apparire della già insospettita e fomentatrice zia Sabina.

Il resto della scena (dopo i duetti reciprocamente dissonanti fra Sabina e Ferdinando e Giacinta e Guglielmo) si svolge con la progressiva entrata di tutti i personaggi, che si dispongono, infine a coppie, seduti ai tavoli portati dai servi, per una partita a carte in attesa che si serva il pranzo: Guglielmo è abbinato a Vittoria, mentre Filippo – che si sente sempre messo in disparte in casa sua – finisce con Tognino (Marco D’Amore). Con quest’ultimo, giovane figlio un po’ ritardato del dottore del paese, entrano per la prima volta in scena Costanza (Mariella Lo Sardo), moglie di un commerciante, e la nipote Rosina (Giulia Pica); con il loro impaccio e gli abiti non alla moda (il mariage di Vittoria provoca l’invidia e il dispetto di Costanza) rappresentano quella piccola borghesia che anela a frequentazioni di livello più alto, per una promozione sociale da acquistare anche col matrimonio (della stessa nipote con Tognino).

L’uscita di scena dei personaggi per andare a pranzo è a coppie; per ultimi escono Giacinta e Leonardo, che giocherella con le carte in atteggiamento dubbioso e imbronciato e non si decide ad alzarsi finché la fidanzata non lo richiama all’ordine.

Lo scarto rispetto alle Smanie per la villeggiatura, in questa prima parte delle Avventure della villeggiatura – che d’altra parte il regista ha scelto di accorpare fra loro – consiste non solo nella trasformazione scenica degli interni urbani nell’esterno della terrazza della villa di Filippo, ma anche nel ritmo delle azioni che vi si svolgono, allentato di molto (con pause) così come quello della recitazione; e nella coreografia, per cui gli attori si muovono di meno nello spazio scenico, e ancora piuttosto lentamente, d’altro canto nelle scene d’insieme (che qui, da un certo momento in poi, prevalgono) distribuendosi in modo da occuparlo tutto. Per quanto riguarda la prossemica, resta perlopiù limitata a quella personale, tranne che nel duetto fra Giacinta e Guglielmo, dove diventa intima, spostandosi sulla pedana proscenica, là dove il giovane tenta di baciare la ragazza, e in quello, buffo, in cui Sabina tenta di sedurre Ferdinando.

Non è dunque il ritmo a connotare la divaricazione operata da Servillo fra il primo e il secondo tempo (ché è anzi all’interno del primo contrastivo); ma piuttosto l’atmosfera che, a partire dalle scene nel boschetto, incomincia a mettere decisamente in crisi il genere (osservato per tutto il primo tempo, pur venato di inquietanti sottotesti) con una serie di contraccolpi i quali preparano il precipizio in quel lieto fine apparente che contiene il dramma. Lo sfondamento della quarta parete avverrà a metà del secondo tempo, per la passeggiata verso il caffè delle varie coppie, che attraversano la platea andando verso il fondo e ritornando per quella via sul palco. Mentre nella tappa iniziale del primo tempo, geometrico ed equilibrato, in contrasto con la recitazione accelerata al limite del parossismo, non si esce dalla scatola scenica, come inquadrata per gli spettatori; solo a partire dalla crisi che attraversa i rapporti fra i personaggi-attori, questi ultimi, specialmente Giacinta, si protendono verso il boccascena.

Il boschetto e il finale

Dal buio totale emerge, con il secondo tempo, la scena appunto del boschetto: la parete maschera nera posteriore a inquadrare una cascata di foglie verdi, tra le quali traluce il roseo colore d’un tramonto, quella anteriore più ampia contiene il primo e il secondo piano uniti, come già accennato, sul pavimento da due tappeti verde più chiaro che discendono verso la platea oltre la pedana centrale, sfiorando i tre gradini che l’affiancano da ambo i lati. Qui si colloca, all’inizio, il monologo di Giacinta che, entrata da destra, va a sedersi sul limite del proscenio, con i piedi posati sulla pedana aggettante. È rivolta al pubblico, a cui implicitamente confida i suoi tormenti.

Servillo conserva questo monologo significativo della protagonista, appunto rivolto al pubblico: «Vorrei respirare un momento. Vorrei un momento di quiete» (III, 2, centrale delle Avventure della villeggiatura), che è come una ricerca di chiarimento interiore per stabilire il proprio comportamento successivo. Il regista riprende il monologo nella sua interezza, tagliando solo le ripetizioni e modificando i termini più desueti, e ne fa proprio la scena iniziale del secondo tempo della rappresentazione[25]. Nel complesso la scelta di far coincidere l’incipit del secondo tempo con la confessione di Giacinta determina un mutamento di tono, in passionale e drammatico.

Qui Anna Della Rosa usa al solito molto la mimica e una piccola gestica (nel fremito delle dita) per esprimere i sentimenti del personaggio (da ferma), oltre a una vocalità serrata e scandita che s’incrina soltanto quando ammette di non essersi mai immaginata di «innamorarsi a questo punto». Il sorriso che le sfugge è subito nascosto dalla mano e dal gesto di chinare il capo. Sorpresa da Guglielmo, reagisce dapprima con l’apparenza di un fastidio che mal cela la paura; si sente braccata e lo è di fatto, perché Tommaso Ragno simulando rispetto si siede accanto a lei e la tocca, l’accerchia con le braccia, le prende la mano che lei ha alzato per fermarlo.

Il dialogo diventa concitato, nervoso e amoroso allo stesso tempo, le voci si rincorrono, e la serie dei doveri che Giacinta recita al suo un po’ subdolo spasimante è come attraversata da un fremito, finché viso a viso la ragazza risponde per tre volte (con gradazione crescente) «Vi amo», abbracciandolo, dopo che ne ha preso la faccia fra le mani. Anche dopo che s’è svincolata ed è risalita in scena, continuando il suo discorso – già improntato dall’ostinazione a seguire, malgrado tutto, la via del decoro, ovvero quanto gli altri si aspettano da lei – a distanza da Guglielmo, che l’ha seguita ma non osa più avvicinarsi, dal fondo dove s’è rifugiata gli corre quasi incontro sulla battuta «Avete voluto ch’io parlassi…» per prima accarezzandogli disperatamente il capo, ma alla sua ultima battuta le braccia dell’uomo cadono lungo i fianchi; da questo momento in poi l’atteggiamento dell’attore diventerà sempre più inerte.

Proprio in questa scena, che sia Strehler sia Servillo accorpano con quella successiva, in cui mentre Giacinta sta per fuggire sopraggiunge Leonardo, possiamo registrare scelte diverse, lessicali e sintattiche, tra i copioni dei due registi rispetto all’originale goldoniano. Nel complesso Servillo opta per una lingua italiana contemporanea vicina a quella parlata, ma esaltandone la musicalità, colorandola di inflessioni napoletane per alcuni attori, e d’altra parte lasciando ad essa una certa patina poetica, proprio in funzione dell’effetto musicale[26].

Es. scene 3-4, III, Avventure della villeggiatura (boschetto, Giacinta-Gugliemo poi Leonardo)

Scena 3 (Guglielmo e la suddetta):

G) Giacinta. […] Avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Vi premea d’intendere il mio sentimento, l’avete inteso. Mi chiedeste, se dovevate vivere o morire; a ciò vi rispondo, che non so dire quel che sarà di me stessa; ma che l’onore si dee preferire alla vita.

Guglielmo. (Oimé! Non so in che mondo mi sia. Mi ha confuso a tal segno, che non so più che rispondere.)

Giacinta. (Ah! È pur grande lo sforzo che fare mi è convenuto! Grand’affanno, gran tormento mi costa!)

Scena 4 (Leonardo e detti):

Leonardo. Voi qui, signora?

Giacinta. (Oh cieli!)

Leonardo. Quali affari segreti vi obbligano a ritirarvi qui col signor Guglielmo?

Guglielmo (Ah! è inevitabile il precipizio.)

Giacinta. (Si tratta dell’onore. Vi vuol coraggio) (da sé). Gli affari ch’io tratto, con esso lui, dovrebbero interessar voi più di me. […]

ST) Giacinta. Ecco, avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Volevate conoscere il mio sentimento, lo conoscete. Mi avete chiesto se dovevate vivere, o morire … ebbene… questo posso solo rispondervi: che non so dire quel che sarà di me stessa, da oggi in poi, ma che l’onore si deve preferire alla vita.

Entra Leonardo

Leonardo. Siete qui, signora? (un tempo). Quali affari segreti vi obbligano a ritirarvi qui col signor Guglielmo?

Giacinta. Gli affari che io tratto con lui dovrebbero interessar voi più di me.

SE) Giacinta. … Ecco, avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Volevate conoscere il mio sentimento, lo conoscete. Mi avete chiesto se dovevate vivere o morire … ebbene sol questo posso rispondervi che non so dire quel che sarà di me stessa da oggi in poi; ma che l’onore si deve preferire alla vita.

Leonardo. Siete qui, signora? Quali affari segreti vi obbligano ad incontrarvi qui col signor Guglielmo?

Giacinta. Gli affari che io tratto con lui dovrebbero interessar voi più di me.

Servillo tiene alcune modifiche lessicali di Strehler, ma normalizza «ritirarvi» in «incontrarvi». Eppure l’andamento più colloquiale non esclude certe coloriture settecentesche in entrambi, come l’appellativo «Signora» per una ventenne, ma implica persino aggiunte come il «sol questo» (Giacinta) da parte di Servillo.

Ricordiamo inoltre, dal punto di vista scenico, la prossemica diversa da Strehler in questo spettacolo: laddove Giacinta (Valentina Fortunato) e Guglielmo (Sergio Fantoni) si tenevano a distanza, qui si abbracciano e si baciano.

Ma con l’ingresso di Leonardo il triangolo amoroso assomiglia piuttosto a una diagonale: in cima il fidanzato che pretende spiegazioni, poi Giacinta di tre quarti perché parla a lui e (implicitamente) a Guglielmo, il quale si colloca alla fine, nel punto più vicino al pubblico e quasi frontale ad esso (volgendo le spalle agli altri due). La postazione e la prossemica di Guglielmo/Tommaso Ragno gli permettono d’essere notato quando esprime, con una smorfia che fa ridere (anche se non troppo accentuata), un contrastante commento mimico alla notizia, data all’altro da Giacinta, che lui gli chiede in moglie la sorella Vittoria. Così come si vede bene l’espressione cupa, almeno atona come la voce con cui conferma la richiesta di matrimonio. Dopo che la coppia regolare s’allontana (per volontà di Giacinta che esibisce decisione e affetto per Leonardo) Ragno, prima di uscire dalla parte opposta, in una pausa ripete variandola la smorfia, con una specie d’ammiccamento al pubblico.

Dunque, nel crepuscolare e quasi opprimente spazio del boschetto, si penetra da subito nel privato, con l’assolo di Giacinta (rivolto al pubblico), raggiunta e messa alle strette, anche fisicamente, da Guglielmo, eppure, nonostante appaia coinvolta dalla «passione» (parola che ricorre quando si riferisce al giovane) e se ne lasci travolgere in abbracci e baci, determinata a preferire l’«onore» alla «vita» prima ancora che sopraggiunga Leonardo, e anche per salvarsi dal giustificato sospetto del fidanzato decide per sé e per l’amante l’infelice soluzione matrimoniale di lui con Vittoria.

D’altra parte, nel boschetto un po’ shakespeariano la linfa vitale ed erotica scorre, ancora e soprattutto grazie alle fughe per riacchiapparsi di Brigida e Paolino che si scatenano durante la vacanza scenica dei padroni, andati a rinfrescarsi golosamente alla bottega del caffè. Ma in quello stesso luogo Servillo collocherà anche dispetti, invidie, gelosie meschine, recuperando una scena di scherzi crudeli – del suo personaggio ai danni di Tognino – che nel testo goldoniano è precedente; e da lì parte, appunto, la passeggiata a coppie attraverso la platea che concorre a rompere la quarta parete, già incrinata dalla postazione iniziale di Giacinta. Passeggiata volutamente disordinata perché le coppie paiono formarsi casualmente, scendendo da or l’una or l’altra scaletta che affianca quella postazione («c’è un senso di disordine in questa ‘fuga’, di tempo speso vanamente»[27], ci ha detto il regista). Essa sembra interrompere le scene nel boschetto, provocando disorientamento negli spettatori – per gli abiti settecenteschi indossati dagli attori, diretti verso il caffè, o il foyer del teatro – che si sentono per un attimo abbandonati; ma invece incornicia, col ritorno in scena dei personaggi per la stessa strada, i giochi d’amore silvestre fra i due servi, l’unica pantomima gioiosa (il sonoro delle voci è appena accennato) dell’intera pièce, più buffamente replicata dalla coppia dei giovanissimi Rosina e Tognino, evasi ridenti e ansimanti dal gruppo. Il minus habens e la ragazzina sacrificata sull’altare dell’escalation sociale traggono piacere infantile dal connubio calcolato, così come i servi (qui giovani anch’essi) dalla vacanza (in senso proprio) dei padroni, anche se, nella parte finale da chi calcola e detiene il potere, sia pure un po’ ammaccato, dovrà dipendere il loro destino.

Ma soprattutto la cesura temporanea servirà a mostrare le conseguenze di calcoli e di mancanza degli stessi, a partire dal ritorno di Giacinta prima del resto del gruppo, che lentamente sale la scaletta, da sola. Seguiranno certi fatti relativi agli affari economici (e non solo sentimentali) delle famiglie coinvolte, che si sono preparati avanti la passeggiata: il recapito della finta lettera indirizzata a se stesso da Leonardo, come se fosse stata scritta da Fulgenzio («il nostro amicone», dirà Filippo), in cui si annuncia la grave malattia dello zio Bernardino, dal quale il giovane dovrebbe ereditare, e che provoca il suo rientro anticipato dalla campagna; ma prima ancora la sua rivelazione a Vittoria, davanti a tutti, della domanda di matrimonio da parte di Guglielmo (che Tommaso Ragno subisce con un secco e basso «Benissimo»), per cui lui partirà con loro, pur riuscendo a rimandare il contratto nuziale che il solerte Ferdinando è svelto a preparare, per poi rigirarlo ironicamente ma insistentemente a Sabina («Un contratto di matrimonio senza donazione»).

Dopo i saluti per la partenza (anche Costanza con Rosina e Tognino prende commiato), incomincia a trasformarsi la scenografia con i servi che smontano il boschetto; ma mentre nel debutto, come poi a Pisa e a Ferrara (2008), Giacinta esce per ultima, dopo essersi soffermata un momento e solo allora avviene il cambio di scena, nella replica del 2009 al Teatro del Giglio di Lucca, Anna Della Rosa raggiunge la pedana, con indosso il suo mariage illuminato da un occhio di bue, e compie alcuni giri su se stessa, limitata nello spazio (come ormai nelle scelte di vita) al modo delle bambole da carillon, con lo sguardo perso, triste. Una soluzione più teatrale e simbolica, rispetto alla dissolvenza quasi cinematografica del precedente cambio di scena, perché la figura in primo piano della ragazza cattura gli sguardi degli spettatori, distraendoli da quanto avviene alle sue spalle.

«Io avrei voluto fare Giacinta», ci ha detto Servillo nell’incontro al Teatro Verdi di Pisa, il 27 febbraio 2008: «Come raramente succede nella drammaturgia italiana, lei si stacca dagli altri e parla con la vita, confessando la propria indeterminatezza e indecisione», nella scena d’attacco del secondo tempo; perciò l’ha così evidenziata tagliando il dialogo precedente fra i servi. Le ha invece tolto proprio il monologo finale delle Avventure della villeggiatura, il famoso “discorso agli spettatori”, in cui Giacinta interrompe il suo lamento amoroso, rassicurando il pubblico che gli risparmierà l’ascolto di «una lunga disperazione», rimandandolo alla commedia che seguirà: non ce n’è bisogno per Servillo, dal momento che i tre testi sono condensati in due tempi, ma non ce n’era bisogno neanche per Strehler, il quale però ne conserva la prima parte, sostituendo la seconda (dopo aver tenuto la battuta «La commedia non pare finita ma è finita») con una didascalia in cui Giacinta scoppia in lacrime, poi al richiamo di Filippo risponde «Sono qui! » ed esce quasi di corsa mentre cala lentamente il sipario. Il regista milanese mantiene così il carattere patetico della protagonista, che invece quello partenopeo vuole evitare, oltretutto condensando nell’ultima trovata che ne meccanizza il corpo il senso di un’autodeterminazione solo apparente.

Con lo stesso criterio Servillo le toglie anche l’ultimo monologo del Ritorno dalla villeggiatura, in cui Giacinta saluta il pubblico: la scena si conclude ancora con un’azione corporea, con quell’abbraccio disperato e muto di Giacinta a Leonardo, dopo che ha annunciato la loro partenza per Genova. Troncando così la Trilogia, il regista marca la drammaticità del finale, facendo precipitare il ritmo serrato delle scene precedenti in una immobilità inattesa, che obbliga il pubblico a focalizzarsi sull’epilogo della vicenda. Ritornata in scena, seria, rigida nell’abbigliamento, nei movimenti e nelle espressioni, nell’abbraccio si trova più in alto rispetto agli spettatori – con i quali nei precedenti monologhi si era messa quasi al pari sedendosi – cui lancia un ultimo sguardo quasi tragico, e soprattutto più in alto dello sposo che, si capisce, non la possiederà mai.

Quanto alla parte di Ferdinando, ancora Servillo ci ha detto: «Ognuno presta qualcosa di sé al personaggio, ma è un accumulo energetico: quello che succede è un mistero come quando si spenge la luce. Facendo Andreotti al cinema mi sono sentito in imbarazzo perché dovevo trovare un involucro che non mi si confaceva»; d’altra parte «Ferdinando è ideale per il regista, poi serve a contrastare lo stereotipo cinematografico che mi vuole malinconico»[28].



[1] I primi due paragrafi del presente saggio, rielaborati e ampliati, si trovano in Estroversione e introversione in Toni Servillo fra teatro e cinema contenuto nel volume collettaneo Teatro e media, a cura di A. Barsotti e C. Titomanlio, Ghezzano (PI), Felici Editori, 2012, pp. 201-224:201-209.

[2] Cfr. Un efferato dilettante. Una conversazione con Toni Servillo (17 aprile 1996), a cura di O. Ponte di Pino, disponibile sul web (sito consultato il 12 aprile 2011).

[3] T. Servillo, Il talento e la disciplina. Conversazione con Toni Servillo, in Toni Servillo. L’attore in più, a cura di E. Magrelli, Nardò (LE), Salento Books, 2011, p. 25.

[4] A. Barsotti, Sistole e diastole nel teatro di Enzo Moscato: conversazione con l’attore-autore, in Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 662.

[5] Cfr. A. Barsotti, “La ricerca nella tradizione”. Conversazione con Toni Servillo (28 marzo 2004), in Id., Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 247-319, in particolare p. 302.

[6] Adattamento e regia di Toni Servillo; aiuto regista: Costanza Boccardo; scene: Carlo Sala, costumi: Ortensia De Francesco; luci: Pasquale Mari; personaggi e interpreti: Leonardo (Andrea Renzi), Paolino (Francesco Paglino), Cecco (Rocco Giordano), Vittoria (Eva Cambiale), Ferdinando (Toni Servillo), Filippo (Paolo Graziosi), Guglielmo (Tommaso Ragno), Giacinta (Anna Della Rosa), Brigida (Chiara Baffi), Fulgenzio (Gigio Morra), Sabina (Betti Pedrazzi), Costanza (Mariella Lo Sardo), Rosina (Giulia Pica), Tognino (Marco D’Amore). Come si vedrà, non sono troppo d’accordo con la recensione di Gherardo Vitali Rosati, Contratti d’amore in vacanza, pubblicata sulla rivista on line Drammaturgia (sito consultato l’11 dicembre 2012).

[7] Per l’analisi della messinscena rinvio a Strategie del silenzio e senso delle parole. Sabato, domenica e lunedì 2002, nel mio Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, cit., pp. 279-295.

[8] In proposito rimando al mio saggio Grandi vecchi e giovani attori nei Molière del nostro tempo (da Stoppa a Servillo), in «Ariel», a. XVIII, n. 55, 2004, pp. 69-84; ma prima a quello di F. Taviani, Un “Tartufo” odierno, in «Il Manifesto», 12 novembre 2006.

[9] Cfr. T. Servillo, Il talento e la disciplina, cit., pp. 24-26.

[10] «[…] quando stavamo girando il monologo di Andreotti», Paolo Sorrentino, «per sollecitarmi […] a osare di più, mi ha invitato a pensare al mio monologo di guapperia in Rasoi, che doveva aver visto in teatro quando era un ragazzo. Quel monologo è quindi tornato come punto di riferimento in uno dei miei ultimi film» (T. Servillo, Il talento e la disciplina, cit., pp. 16-17).

[11] Cfr. F. Mazzocchi, ‘La Trilogia della villeggiatura’ di Massimo Castri, in «Il castello di Elsinore», a. XIV, n. 40, 2001, pp. 107-138.

[12] Le smanie per la villeggiatura (3 atti in prosa), Le avventure della villeggiatura (3 atti in prosa), Il ritorno dalla villeggiatura (3 atti in prosa), rappresentate le prime due nell’ottobre, la terza nel novembre 1961 al Teatro San Luca di Venezia; pubblicate a Venezia nel 1773.

[13]C. Goldoni, Trilogia della villeggiatura, con un saggio di Giorgio Strehler, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 68-69 (L’edizione Rizzoli si basa su C. Goldoni, Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori, 1946, vol. VII).

[14] S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, Venezia, Marsilio, 2011, p. 114.

[15] Cfr. ivi, p. 115. Ferrone cita, e traduce, dall’edizione completa delle Opere, curata da G. Ortolani, con la sigla MN, I, parte seconda, cap. XXIII.

[16] T. Servillo, cfr. il sito internet del Liceo Bodoni di Saluzzo (CN) (sito consultato il 13 maggio 2011).

[17] S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, cit., p. 116.

[18] Incontro con Toni Servillo, 19 gennaio 2010, in occasione delle rappresentazioni della Trilogia della villeggiatura  al Théâtre des Célestins di Lione, a cura di M. Morini, disponibile sul web (sito consultato il 12 aprile 2011).

[19] T. Servillo, Il talento e la disciplina […], cit., pp. 28-29.

[20] R. Alonge, Il teatro di Massimo Castri, Roma, Bulzoni, 2003, vol. II, p. 94. Cfr. ora anche Id., ‘Le Retour de la villégiature’, III, 2 dans le triangle Strehler-Missiroli-Castri, in «Il castello di Elsinore», a. XXV, n. 66, 2012, pp. 105-113.

[21] T. Servillo, cfr. il sito internet del Liceo Bodoni di Saluzzo (CN), cit.

[22] Ibid.

[23] Lo stesso brano utilizzato da Eduardo De Filippo nella sigla di alcune sue commedie televisive.

[24] Come già accennato prima nel testo, a partire dal 2008 la scena della terrazza (o cortile) della villa diventa sempre più essenziale: nella ‘prima’ e nelle foto pubblicate nel programma di sala (foto di Gianni Esposito presenti anche sul sito di Teatri Uniti) è delimitata a sinistra da un basso muretto grigio, e da una scala praticabile, con vasi di varie piante, che porta a un balconcino; nelle riprese al Teatro Comunale di Ferrara (8 febbraio 2008), ma anche in precedenza, questa costruzione scompare, e restano solo dei rampicanti che, in seguito, nel 2009 (per esempio al Teatro del Giglio di Lucca) spariranno anch’essi. Un processo di astrazione – del resto scompaiono anche i riferimenti alla città di Livorno e alla località di Montenero – che non è nuovo nelle regie di Servillo, ma in questo caso è stato suggerito anche dall’esperimento coatto della rappresentazione al Mercadante di Napoli senza costumi e senza scene a causa dello sciopero dei camionisti (12 dicembre 2007). Il mondo del teatro, quando è vivo, è fatto così: la costrizione può indurre alla sperimentazione, e alla riflessione per soluzioni diverse.

[25] Conserverà anche quello dell’atto II, 11, del Ritorno dalla villeggiatura: in cui Giacinta legge la lettera di Guglielmo e indugia nel dubbio se seguire il cuore o la ragione (ovvero le convenzioni sociali), imprimendo poi decisamente un cambiamento di rotta ai personaggi principali, che si adegueranno tutti alla fine alle regole di classe.

[26] Come esempio riporto le scene 3-4 dell’atto III di Le avventure della villeggiatura , pp. 215-216 dell’edizione goldoniana citata. Con la sigla G indico il testo di Goldoni, con ST (Strehler) il copione dattiloscritto inedito conservato nell’Archivio Storico del Piccolo Teatro di Milano, datato 1954, p. 27, con SE (Servillo) il copione dattiloscritto inedito, 2007, pp. 48-49, che ho potuto consultare per gentile concessione del regista. Uso il grassetto per le varianti rispetto al testo goldoniano, il grassetto corsivo per quelle del copione di Servillo rispetto al copione di Strehler.

[27] Dall’incontro con Toni Servillo al Teatro Verdi di Pisa, 27 febbraio 2008, con gli studenti dello stage “Scenari di regia contemporanea” dell’Università di Pisa. Incontro e trascrizione a mia cura.

[28] Ibid.


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