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Roberto Alonge

Ronconi/Pirandello

Data di pubblicazione su web 23/10/2012
.

L’innesto è considerato da sempre un testo minore di Pirandello, anzi, un testo decisamente “minimo”, raramente rappresentato, e sempre con nessun riscontro di pubblico e di critica. Per più di vent’anni ho cercato ripetutamente (e sempre invano) di attirare l’attenzione degli studiosi e dei registi, non foss’altro perché l’operina affronta una tematica ardita (uno stupro che determina una gravidanza, cui segue il dilemma aborto/non aborto) e non nasconde una struttura da giallo (un misterioso buco di ore fra la violenza e il ritorno della vittima)[1]. Mi ha dunque piacevolmente sorpreso che Luca Ronconi abbia messo L’innesto al centro di un suo laboratorio al Centro Teatrale di Santa Cristina, che dirige felicemente da anni insieme a Roberta Carlotto.

Naturalmente lo sguardo che il Maestro riserva ai suoi copioni non è mai pedissequamente “illustrativo”, ma è sempre un corpo a corpo antagonistico, una lettura “a contropelo”, che ha il coraggio – nel nostro caso – di rinunciare alle cadenze più datate della scrittura pirandelliana, ma valorizzando appieno il nucleo profondo del testo. Ed è questa la lezione che il Maestro consegna a Luca Bargagna, il giovane regista responsabile diretto del laboratorio pirandelliano. Comincio esemplificando con la scena quinta del secondo atto, che ho visto – insieme a poche altre sequenze – nel corso di una tre giorni ai primi di settembre 2012 a Santa Cristina, nel cuore dell’Umbria.

Il dialogo – qua e là oggettivamente un po’ melodrammatico – risulta snellito; vengono eliminati accenti di candore e malizia, e qualche segreta carezza di Giorgio che Laura suscita e mostra al tempo stesso di reprimere.  Bargagna utilizza la nuda elementarità del salone laboratoriale, innestato intorno a un pilastro centrale, cui si appoggia il giovane Gabriele Falsetta.

L’attore e il regista scavano nel testo, scoprono che i verbi privilegiati dal personaggio sono «piegarsi», «cadere», «cedere», «chiudere gli occhi», «accettare», «vincersi». C’è una sorta di subalternità, di sottomissione di Giorgio alla moglie, al di là dell’apparenza delle sue dichiarazioni altisonanti, e Falsetta traduce optando per una posizione spesso flessa, strisciante, o addirittura carponi. Pirandello nasconde a fatica l’essenza profonda del dramma, che è scontro archetipico fra il femminile e il maschile, fra il destino alla maternità della donna e il piccolo egoistico edonismo dell’uomo. Giorgio vorrebbe che la moglie abortisse perché il figlio è frutto dello stupro, ma Laura insegue la maternità senza se e senza ma. È un combattimento crudele, spietato, mortale, ma anche “indicibile”, che dunque emerge dal silenzio. In Ibsen i personaggi maschili sono sempre contrassegnati da una professione (managers, banchieri, medici, industriali, professori, costruttori, artisti), sono agiti e mossi da pulsioni professionali. In Pirandello i protagonisti si presentano tendenzialmente come nullafacenti, cioè benestanti. Ciò che li ossessiona è una condizione esistenziale, un rovello mitico o metafisico, chiamiamolo come vogliamo. «The rest is silence», è l’ultima battuta di Amleto, e il silenzio è propriamente  il preludio del recitativo pirandelliano. Nei suoi dialoghi le parole arrivano a fatica a rompere il silenzio. Giorgio stenta a parlare («Ma come? Tu parlavi con… Che forse è venuta a dirti qualche cosa?») perché stenta a capire cosa succede, non comprende perché Laura si sia incontrata con Zena, la sua antica amante contadina. Falsetta parla sibilando, appoggiato con una mano al pilastro collocato al centro del salone, tutto sghembo, insicuro, e comincia a muoversi disegnando un semicerchio, rasente ai muri, per arrivare a Laura, la quale sin dall’inizio della scena è seduta per terra, la schiena appoggiata alla parete, a gambe aperte, anzi spalancate, in  un positura da “travaglio”, in attesa del parto. Il lavoro laboratoriale individua e fissa in un’immagine sintetica il  nucleo segreto del testo pirandelliano. Lucrezia Guidone è una Laura intensa, che alle domande affannate del marito risponde («Per un capriccio… per una curiosità…») con un sorriso disteso, con l’attitudine “placidissima” che è della Mita di Liolà, quando entra in scena nel terzo atto, ormai incinta. Incinta a seguito di un solo incontro sessuale, come Laura (e come sarà ancora per la Lucia de La vita che ti diedi). È stupefacente che basti un amplesso unico per mettere in moto la macchina della fertilità. Come le figlie di Lot di cui parla il Genesi: ognuna delle due giace una volta sola con il proprio padre, ma è quanto basta per avere  garantita la gravidanza. Non si  potrebbe dire meglio la verità profonda della scrittura pirandelliana,  che  il sesso è unicamente al servizio della procreazione.

Diciamolo in un altro modo, più spiccio e più poetico al tempo stesso. Le pause lunghe e lunghissime della recitazione tipica del Maestro, le esitazioni, le articolazioni strane della dizione, gli aggettivi così temporalmente distanti dai sostantivi, insomma tutto l’armamentario del ronconismo – tanto decantato e tanto incompreso – discende a ben vedere dal fatto che Ronconi non ci parla mai della Storia, bensì sempre e solo del mistero della Vita e della Morte, che è un groviglio troppo denso e complesso per non affondare propriamente nell’abisso della notte e delle tenebre. Anche per Ronconi, come per Pirandello, le parole rompono il grande silenzio che tutto avvolge, che precede e che segue. Semplicemente, Ronconi ci ha messo del tempo a comprendere che Pirandello era “il suo autore”, e che dunque il suo stile recitativo si accorda benissimo con il nucleo profondo della scrittura pirandelliana.

Gramsci, a proposito dell’Innesto, parla di «fredda metafora da giardinaggio», e osserva che la pianta è una sola, mentre Laura e Giorgio sono due. Si potrebbe pensare che il titolo della commedia sia impreciso, sovrapponendo “l’uno al due”, ma è vero esattamente il contrario. Nel mondo normale degli umani ci vogliono due esseri, un maschio e una femmina, per avere generazione, continuità della specie. Ma nel mondo delirante dell’immaginario pirandelliano – mitico e materno-centrico – c’è una sola e unica potenza generatrice, una Dea Tellus che aspira alla autosufficienza ermafroditica e che, faute de mieux, può assumere le fattezze dell’ape regina. Sicché è del tutto giustificato che la commedia tragga il proprio titolo dall’universo vegetale, perché è a quell’universo che guarda propriamente Laura come al suo modello inconfessato di funzionamento.

Vale la pena, in questa prospettiva, soffermarsi su una piccola variante. Siamo in II.1, il giardiniere  «va a prendere una pianta in un grosso vaso e la porta presso Laura», per cominciare a fare l’innesto: strappa taglia incide. Di fatto replica la scena di violenza che Laura ha subìto a villa Giulia, ma per trarne una conclusione consolante: proprio e soltanto grazie alla brutalità dell’intervento esterno, la pianta può «dare il frutto». Al termine della rusticana “lezione” la  didascalia della princeps segnala:

LAURA (s’accosta alla pianta innestata, confonde quasi i suoi capelli con le fronde di essa e ripete tra sé, lentamente, con angoscia d’intenso e disperato desiderio). – Del suo amore… del suo amore[2].

Laura è in preda a una sorta di epifania. La pianta innestata può dare frutto ma solo se è «in  succhio», come ha detto il giardiniere, cioè se è in amore, «l’amore di farlo suo, questo frutto». Laura si riconosce perfettamente nel destino della pianta, e dunque «confonde quasi i suoi capelli con le fronde di essa», in qualche modo “diventa la pianta”. Pirandello ha l’impressione di aver esagerato, di essere stato troppo didascalico, e nella seconda edizione cancella tutto:

LAURA (resta assorta e ripete tra sé, lentamente, con angoscia d’intenso e disperato desiderio). – Del suo amore… del suo amore…[3]

Poi però Pirandello si pente di essersi pentito, e nella terza edizione Bemporad del 1925 (che è poi sostanzialmente la base dell’edizione    definitiva): 

LAURA (resta assorta; poi si alza, s’appressa alla pianta or ora innestata, e mette il capo tra le sue fronde, ripetendo tra sé, lentamente, con angoscia d’intenso disperato desiderio). – Del suo amore… del suo amore...[4]

Come si vede, Pirandello ripristina parzialmente l’indicazione originaria: non propriamente la “fusione” con la pianta, secondo il dettato della princeps («confonde quasi i suoi capelli con le fronde di essa»), ma un “accostamento” fra  Laura e la pianta.

La ricerca teatrale  non si esaurisce tuttavia nella messa a fuoco della centralità del grande fantasma materno. La scena quinta del secondo atto è anche una sequenza erotica, e  Bargagna la disegna con efficacia e originalità. Scompaiono i tremori e i turbamenti un po’ caramellosi della “lettera” pirandelliana, ma ne resta lo “spirito”, espresso in una gestica semplice e istintiva, in qualche modo animalesca: Giorgio procede strisciando a quattro zampe verso Lucrezia Guidone, che non è solo figura di Dea Tellus, ma è anche concreto oggetto del suo desiderio, ne afferra un braccio e sembra “scorticarlo” anziché accarezzarlo. Il contatto amoroso è anche una sorta di lotta, di pulsione a  sopraffare l’altro. L’immagine amorosa conclusiva è una fotografia che coglie prima Laura sopra Giorgio, e poi  Giorgio sopra Laura, allacciati in una mimesi di coito. S’intende che non è casuale che sia Laura la prima a “sottomettere” il partner. Che è poi un modo di riconfermare il linguaggio pirandelliano che evidenzia – come abbiamo visto – la “subalternità” di Giorgio alla sua donna.

È giusto sottolineare che Laura ha un profilo originale nell’universo femminile pirandelliano. Se le donne del nostro sono sempre tendenzialmente frigide (in modo esplicito la Donata di Trovarsi, in modo velato la Silia Gala de Il giuoco delle parti), Laura è una eccezione memorabile, una delle poche capaci di utilizzare il verbo «godere», sia pure in un contesto attenuato, come mostra II.5, quando parla al marito: «Ecco: te – e non ho nient’altro, che non mi venga da te! – Se godo, se soffro, se muojo – sei tu!».

Ma al di là della scena quinta dell’atto secondo, è tutto il testo a definirsi nel bilanciamento problematico fra vocazione alla maternità e fascinazione sessuale. Ho spesso insistito – nei miei libri pirandelliani – sul fatto che l’immaginario pirandelliano precedente al 1925, cioè all’incontro con Marta Abba, sia diviso un po’ schizofrenicamente fra il profilo della madre santa, da un lato, e quello dell’amante carica di capacità seduttiva, dall’altro lato. Ciò che spesso resta sottinteso è che la funzione materna uccide l’attrazione erotica. Laura è creatura di grande attrattiva muliebre, ma è presentata non a caso come madre mancata. Accanto a lei sono presenti, per l’opposto, due silhouettes  di madri, e sono entrambe di scarso richiamo estetico. Zena è definita dal giardiniere come «brutta e vecchia», e la stessa Laura si sforza invano di «dissimulare la disillusione», e parla crudelmente “al passato”, dicendole «Dovevi esser bella». La rete dialogica ci informa che sono passati «nove anni» da quando Zena è rimasta incinta, ed è precisato altresì che, a quel tempo, Zena «aveva appena sedici anni». Come dire che Zena è una vecchia a solo 25 anni, e c’entra la dura fatica contadina ma soprattutto le troppe maternità. Sentiamo la replica di Zena al giardiniere Filippo: «Ma tu, brutto vecchiaccio, che fai il signore qua in villa e sei tutto storto lì, che vuoi mettere?  le fatiche tue con le mie? […] E cinque figliuoli, signora, chi li ha fatti? Li ha fatti lui?».

Cinque figli in nove anni sono un indice di fertilità di 0.55, superato dall’indice 0.6 esibito dalla signora Nelli, tre volte madre in soli cinque anni di matrimonio. Ascoltiamole, le sue lamentele, rivolte alla signora Francesca, la madre di Laura: «Ah! per carità, signora, non li chiami [i figli che Laura non ha]! Se sapesse quanto invidio Laura, io! Ha sposato due anni prima di me, Laura: sono già sette anni, è vero? E io, in cinque, già tre…». La signora  Nelli è la consorte dell’avvocato  Nelli, di livello sociale infinitamente più elevato, rispetto alla povera villanella, ma Pirandello è impietoso nella sua didascalia introduttiva: «Elegante, ma già sciupata, con qualche velleità di tenersi ancor su, in un mondo che non è più  per lei».

Quanti anni avrà, la povera signora Nelli? Il testo non lo dice, ma lo dice il manoscritto autografo, che registra l’età di tutti i personaggi: Laura 26, Giorgio 28, Francesca 52, Giulietta 19, Arturo Nelli 32, Signora Nelli 27, Romeri 48, Delegato 35, Zena 25, Filippo 66[5]. Una prima conclusione si impone: tre donne sostanzialmente coetanee (25, 26, 27 anni), tre madri, due madri assai feconde (Signora Nelli con 3 figli, Zena con 5), e una madre mancata, almeno fino allo stupro salvifico. Laura, madre mancata, è “stretta” fra le due madri fertili; i suoi 26 anni stanno perfettamente in mezzo fra i 25 di Zena e i 27 della signora Nelli. (Non insisto sulla suggestione dei numeri, che sarebbero piaciuti a Umberto Artioli, indagatore accanito di numerologie e altri esoterismi pirandelliani: 5, 7, 9 gli anni di matrimonio delle tre donne, tutti numeri sacri; 5, 3, 1 i figli delle tre donne, e la somma fa 9, altro bel numero sacro)[6].

Anche i tre mariti sono praticamente coetanei: 32 anni l’avvocato Nelli, 28 Giorgio; non precisati quelli del marito di Zena, ma presumibilmente della stessa età. Se Laura patisce il confronto di status, qualcosa del genere vale anche per Giorgio. Ogni giorno si ritrova per casa l’amico avvocato, padre di  ben tre figli, e non è nemmeno l’unico elemento di frustrazione. La tavola dei personaggi lo dipinge per quello che è, «L’Avvocato Arturo Nelli», con tanto di A maiuscola, mentre lui è semplicemente «Giorgio Banti». Un minimo di dignità e di spessore professionale Pirandello sembra garantirli ai personaggi minori, ma comunque l’avvocato Nelli mostra di conoscere il proprio mestiere; è lui a tener testa al Delegato, a dare le dritte, a metterlo in riga e, a un certo punto, a cacciarlo di casa. Insomma, nel corso del primo atto, Nelli evidenzia il proprio ruolo e fa pesare la propria capacità di gestire la situazione, mentre Giorgio sembra capace solo di scoppiare in singhiozzi e in lacrime (ben cinque volte nel corso del primo atto). Può anche darsi che Giorgio abbia un patrimonio più consistente di quello dell’avvocato Nelli, ma è presumibilmente di natura fondiaria. Il fatto di vivere di rendita lo pone in un rapporto di confronto perdente con il dinamismo sociale dell’amico, che ha dunque un duplice status – di uomo delle professioni e di padre fertile – che sovrasta e umilia Giorgio alla prova del paragone.

Peggio ancora, poi, per quanto riguarda il confronto a distanza fra Giorgio e il rivale contadino che affiora dal passato. In questo caso tutto è più doloroso, perché lui e l’altro hanno condiviso, nove anni prima, l’intimità della Zena. Possiamo facilmente immaginare quanto sanguini l’orgoglio maschile di Giorgio, a fronte del rustico giovinastro che per ben cinque volte (comunque sicuramente quattro, a voler avere qualche dubbio sul primo figlio) ha saputo ingravidare la Zena. E, ovviamente, proprio la sterilità dei sette anni di matrimonio con Laura fanno comprendere a tutti  (e a Giorgio in primis) che anche quel primo figlio “incerto” della Zena è assai presumibilmente da ascrivere alla villanesca potentia generandi.

C’è una domanda, però, forse un po’ impudica, che ci spunta sulle labbra: ma perché Giorgio si mette in casa un amico come  l’avvocato Nelli, padre così fecondo? E perché, in passato, con tutte le contadinelle del mondo che c’erano,  belle e disponibili,  si è  messo con la Zena che aveva già un fidanzato? Non è una nostra provocazione, come potrebbe sembrare. È la stessa Laura a porsi il problema. Ricordiamo il suo dialogo con la Zena:

ZENA (sedendo impacciata). Ma sai che mi pare tu voglia parlarmi di un altro mondo, ormai, signora?

LAURA Sì, perché tu eri tanto ragazza, allora…

ZENA Oh, una ragazzaccia senza testa, sì… E non ero mica così, sai, signora…

LAURA Me l’immagino. Dovevi esser bella…

ZENA Bruttaccia non ero.

LAURA Ed eri già fidanzata, è vero?

ZENA Con questo che ora è mio marito.

LAURA Ah!...

ZENA Eh, signora, che vuoi? ragazzaccia senza testa, te l’ho detto…

LAURA E lui lo sapeva?

ZENA Chi? Il signorino?

LAURA Sì, che eri fidanzata…

ZENA Sissignora, come non lo sapeva? Ma era un ragazzo anche lui, il signorino…[7]

Laura non è stupita che Zena potesse andare a letto contemporaneamente con due uomini; la giustificazione la fornisce la stessa Zena, dicendo che era una «ragazzaccia senza  testa». Potremmo tradurre con l’aggettivo “trasgressiva”, ma la frase allude forse a qualcosa di più banale, al fatto che la villanella non può non essere compiaciuta del corteggiamento del “signorino”, che era poi il proprietario terriero, il padrone (si pensi, per una situazione analoga, alla Giannina del Ventaglio goldoniano, sinceramente legata al fidanzato ciabattino, ma egualmente stuzzicata all’idea di un piccolo legame con il proprio padrone, il borghese Evaristo). Laura è invece scopertamente stupita che Giorgio sapesse, cioè che si fosse messo in una relazione con una ragazza già legata da una precedente relazione. Ce lo fa capire il lavoro di revisione di Pirandello, il quale nella seconda stampa – pubblicata da Treves – procede a modificare proprio questo punto, come qui in appresso risulta:

ZENA (con gli occhi bassi, alza un po’ le spalle e sospira) Eh, signora, che vuoi? [ragazzaccia senza  testa, te l’ho detto…] Breve pausa.

LAURA (quasi con timidezza). E lui lo sapeva?

ZENA (impronta, ma senz’impudicizia). Chi? Il signorino?

LAURA Sì; che eri fidanzata?

ZENA Sissignora, come non lo sapeva? Ma era un ragazzo anche lui, il signorino[8].

Pirandello sopprime – probabilmente per ragioni stilistiche – la ripetizione di una battuta precedente («ragazzaccia senza testa, te l’ho detto…»), qui da noi evidenziata in parentesi quadre, ma arricchisce le poche righe del passo di ben quattro didascalie, tutte assai efficaci a definire la delicatezza dello scambio dialogico: da un lato l’esitazione («Breve pausa») e la «timidezza» che accompagnano la domanda capitale di Laura; e dall’altro lato l’ombra di vergogna di Zena, quando confessa che andava a  letto contemporaneamente con due uomini («con gli occhi bassi, alza un po’ le spalle e sospira»), ma anche la fermezza con cui denuncia implicitamente la “corresponsabilità” del padroncino («impronta, ma senz’impudicizia»). Permane un margine di subalternità sociale, ovviamente, nella ripresa puntuale della stessa immagine: Zena si auto-denuncia quale «ragazzaccia senza testa», ma al padroncino riserba  un accento più morbido: «Ma era un ragazzo anche lui, il signorino». Resta il fatto che se «ragazzaccia senza testa» vale “trasgressiva”, come si è detto, allora “trasgressivo” è pure Giorgio, definito «un ragazzo anche lui». E con questo il cerchio si salda, torniamo al punto da cui siamo partiti, allo “stupore” di Laura, che è visibilmente “sorpresa” nello scoprire che Giorgio sapeva di andare a letto con un ragazza che andava a letto con un altro.

Stiamo girando  intorno a un nodo importante, per quanto torbido, tanto più importante quanto più torbido. Pirandello compone L’innesto nell’ottobre-dicembre del 1917, e nel luglio-settembre del 1918 compone Il giuoco delle parti, dove risulta più  nitido il fantasma del triangolo che colloca una donna al centro della attenzione di una coppia di maschi, anche se ovviamente tutto è assai meno esplicito di quanto non risulti nel Bernstein de Le venin (1927) o di Mélo (1929). In realtà Pirandello è violentemente scandalizzato dal plot de Le venin (un amante – per eccitarsi viepiù – obbliga la sua donna a confessargli di aver avuto rapporti con cinque uomini), ma è solo per proteggere il proprio conscio dalla attrazione fatale che il proprio inconscio subisce nei confronti del maledetto triangolo, come testimonia appunto Il giuoco delle parti, che dice con maggior poesia, esattamente ciò che Bernstein dice in modo assai corrivo[9].

Esemplifico con una battuta del personaggio femminile di Le venin, per chiarire  il nodo. La donna  protesta contro il suo vizioso amico di letto: «jamais, jamais, nous n’y  avions été seuls, toi et moi. Ah! tous les êtres que tu auras fait entrer ici, Gabriel, en les évoquant avec ton puissant cerveau!... L’idée des autres… tu n’es attiré que par cette idée. Je la sens jusque dans tes baisers… Les autres, les autres!... Tu prétends qu’ils te font souffrir… Ils te manqueraient joliment si tu en étais privé!»[10]. L’uomo sembra esprimere gelosia verso gli sconosciuti che si sono accostati alla sua donna, ma in realtà è l’uomo stesso – nel dialogo a due fra gli amanti, nel gioco d’amore – a inserire la menzione di quegli uomini, veri o immaginari. La donna è  costretta paradossalmente a “inventarsi” episodi di tradimento che servono a eccitare l’uomo, che ha visibilmente una dimensione omosessuale segreta,  forse inconscia.

S’intende che è ben curioso che Giorgio Banti, possidente terriero, non abbia sentito bisogno di togliersi dai piedi i fantasmi ingombranti del suo passato. Nelle terre che circondano la sua villa a Monteporzio continuano a lavorare sia la famiglia contadina della sua antica amante sia il suo rivale rusticano. Dopo nove anni nulla è cambiato, e Giorgio non esita un attimo a cercare rifugio dalla tragedia dello stupro proprio nella villa della sua giovinezza. Sin dal finale del primo atto, sul punto di abbandonare la moglie, quando parla al cameriere: «Di’ ad Antonio che tenga pronta la macchina. Andremo in villa». Giorgio fugge da Roma, luogo di un triangolo involontario (primo atto), per andare a infilarsi nella villa di Monteporzio (secondo e terzo atto),  luogo di un vecchio triangolo volontario. La seconda luna di miele – che deve rimuovere e cancellare il trauma dello stupro – si svolge non meno curiosamente proprio nella villa di Monteporzio. Da villa Giulia alla villa di Monteporzio. Dal presente angoscioso Giorgio esce cioè “all’indietro”, inseguendo il suo passato, ripercorrendo gli spazi del suo giovanile ménage à trois. Sembra una maniera inconsapevole – da parte di Giorgio – di confessare che l’aggressione alla moglie lo rigetta in una temperie antica, lo reinserisce dentro le spire di una malia ben conosciuta, quella del torbido triangolo magico.

Ma ritorniamo un attimo al primo atto, quando Giorgio parla all’amico, mentre Laura giace a letto, assistita dalla madre e dal dottore:

GIORGIO No! è la selva, è ancora la selva, è sempre la selva originaria – [la vita!] Ma prima almeno c’era l’orrore sacro di quel mostruoso originario, nella natura, nel bruto… Ora, una villa coi suoi viali e le siepi e i sedili… una signora in cappellino che vi sta a dipingere, seduta… ed ecco il bruto, ma vestito, oh!, decente… [con un paio di calzoni a quadretti bianchi e neri] – mi par di  vederlo – [e il cappelluccio in capo e] i baffetti pettinati… Chi sa se non aveva i guanti! Ma no: l’ha tutta sgraffiata! – Non senti quanto è  più laido? quanto è più vile?[11]

Ho citato ancora dalla prima edizione, ma ponendo in parentesi quadre i passi soppressi nella seconda edizione. Diciamo subito che l’argomentazione – molto letteraria, e di tono freddo, raziocinante  – suona inaspettata e anche un po’ stonata, in  bocca a un marito la cui  moglie è stata da poco violentata. Ma tant’è. Pirandello – attraverso il personaggio – contrappone lo “stato di natura” allo “stato di civiltà”, la violenza originaria del mondo naturale, cioè la brutalità dell’universo ferino (in cui le bestie aggrediscono per accoppiarsi, ma sotto lo stimolo di un impulso istintivo e vitale, per riprodursi) alla violenza umana che si esercita dentro le coordinate della geografia urbana ordinata e razionale. Non la “natura spontanea” della selva selvaggia ma la “natura coltivata” della villa edificata, con i suoi viali disegnati, le siepi e le piante e i fiori sottoposti alla manutenzione dei giardinieri. La violenza sessuale che è “inscritta” nel quadro ambientale della natura, e dunque in qualche modo “comprensibile”,  ma che non è egualmente inscritta nel quadro ambientale della città umana, e che dunque risulta “incomprensibile” in tale diverso contesto. Pirandello insiste sulla “stranezza” di uno stupratore “vestito” perché pensa alla violenza sessuale della belva, che vive nello stato di natura in condizione di nudità, mentre è proprio la pratica dei vestiti a caratterizzare l’uomo che vive nello stato di civiltà. Un po’ come nell’iconografia vascolare dei Greci, che esibisce satiri nudi con grandi falli in erezione, pronti a stuprare le ninfe nella selva originaria, ma che disegna tendenzialmente peni miniaturizzati per gli abitanti della polis.

Fa riflettere comunque il senso del lavorio di riscrittura. Tra  prima e seconda edizione scompaiono proprio i particolari della condizione “vestita” e “curata” dell’uomo di civiltà: sono cassati i «calzoni a quadretti bianchi e neri» e «il cappelluccio in capo». Permangono per il momento  i «baffetti pettinati», che scompaiono però nella redazione definitiva. Di edizione in edizione Pirandello sembra dunque portare avanti un disegno preciso, un intento di “spogliazione” dei caratteri “moderni” dello stupratore di Laura. Da  notare che l’unico che ha visto veramente il bruto, il guardiano di villa Giulia, riferisce di «un villanzone, un giovinastro», secondo le parole riferite dal Delegato. È ben vero che Giorgio non è in scena, quando il Delegato riferisce questa informazione, ma è comunque significativo che gli venga in mente un individuo con «calzoni a quadretti bianchi e neri», «cappelluccio in capo», «baffetti pettinati» e «guanti». Come dire che Giorgio vede un “borghese”, un gentiluomo, cioè un “doppio” di lui, quale stupratore di sua moglie. Un modo troppo trasparente (e pericoloso) di confessare una pulsione inconfessabile.

Sicché non stupisce che Pirandello cancelli via via, e sempre più, procedendo alla seconda e poi alla terza edizione (sopravvive solo il dettaglio dei «guanti», ma perché reso improbabile dal contesto, dal riferimento ai presunti «graffi»). Ma risulta azzerato altresì il sostantivo «vita!», rinforzato per di più dall’enfasi del punto esclamativo. Anche questa era una maniera troppo scoperta di contrapporre la violenza “portatrice di vita” del bruto alla sterilità dell’individuo civilizzato rappresentato da Giorgio.

Per concludere, qualche più rapida osservazione sulle restanti modificazioni che Pirandello introduce passando da un’edizione all’altra. Finale di primo atto, espressa in una lunga didascalia in cui Laura viene a presentarsi alla vista del marito, il quale, come la vede, rinuncia a fuggire. La prima edizione era però – per così dire – troppo “didascalica”, diceva appunto che, nel suo avanzare lento, Laura ha «la certezza che egli non la fuggirà, poiché ella viene così a offrirsi»[12]. A partire dalla Treves, dalla seconda edizione, la didascalia diventa semplicemente: «la certezza che egli non fuggirà»[13]. Per l’inverso Pirandello si preoccupa di definire meglio il senso della “messinscena” (della “sceneggiata”, se vogliamo essere più cattivi) che Laura organizza per sedurre il marito, per legarlo a lei. La princeps fotografava Laura «in una vestaglia violacea, con un velo al collo»[14]; la seconda edizione precisa ulteriormente: «in una vestaglia violacea, con un velo nero al collo»[15]. Non è una omissione casuale, un errore materiale della princeps, che su questo punto coincide perfettamente con la lezione del  manoscritto[16]. La variante mira a garantire un tocco funebre determinato, che esalta la pulsione erotica sado-masochista di Giorgio.

Qualcosa di simile nel secondo atto, a proposito della lunga sequenza fra gli sposi, in cui  per ben tre volte viene sprecato un sostantivo importante come «felicità», che Laura risolve in un nesso molto melodrammatico con «la morte», quando si aggrappa al marito, scossa da un «brivido violento»:

GIORGIO Sei tutta fredda… Siedi, siedi…

LAURA Ma no… non mi dare aiuto… tu non capisci…

GIORGIO Che cosa?

LAURA È la felicità…

GIORGIO Ma che dici?... Siedi qua…

LAURA L’ho toccata col mio amore… col tuo… per un attimo…

GIORGIO La felicità?

LAURA No, la morte… Qua, così, sul tuo petto… come ti dicevo, ecco… Ma sì… la felicità… (ha un  brivido violento che la scuote tutta e di nuovo la costringe ad aggrapparsi a lui). Oh Dio![17]

 

Vediamo come il passo venga largamente rielaborato nell’edizione Treves:

 

GIORGIO Sei tutta fredda! Siedi, siedi!

LAURA Ma no… Non mi dare ajuto… Tu non capisci…

GIORGIO Che cosa?

LAURA Che è così… che è così…

GIORGIO Che cosa è così?

LAURA Che io sono tutta del tuo amore – così!

GIORGIO Ma sì, siedi.. siedi qua…

LAURA L’ho toccata qua sul tuo petto…  per un attimo, congiunta…

GIORGIO Che cosa?

LAURA Sì, col tuo amore e col mio, congiunta, sul tuo petto  per un attimo – la vita.

GIORGIO Ma che dici?

LAURA (ha un  brivido violento che la scuote tutta e di nuovo la costringe ad aggrapparsi a lui). Oh Dio![18]

 

Alessandro D’Amico parla di «un singolare capovolgimento di termini (morte-vita)»[19], ma è troppo poco, l’osservazione va illuminata, interpretata. Personalmente direi che, almeno in prima istanza, Pirandello porta avanti la scelta stilistica di attenuare la coloritura melodrammatica che caratterizza il testo. Cassa infatti l’enfasi della triplice «felicità», nonché l’equazione felicità-morte che canta la masochista dedizione di sé che la donna fa al proprio uomo. Va però anche notato che la riscrittura esalta al tempo stesso la dimensione materno-centrica. Che «la vita» (e non più «la morte») venga infatti auscultata da Laura sul petto di Giorgio prelude al cinguettio che verrà avviato poco avanti da Laura sul doppio battito – del cuore e dell’orologio – egualmente percepibile sul petto di Giorgio, che ovviamente si riferisce in modo segreto al battito del cuore del bimbo che Laura porta in seno.

Nella seconda edizione compare di bel nuovo la scena II.7, fra Laura e la madre, che mancava interamente alla princeps. I recensori della prima dello spettacolo avevano giustamente lamentato  una certa secchezza, una sorta di scheletricità del tessuto dialogico, e Pirandello provvede prontamente alla bisogna, con una sequenza strumentale, che arricchisce di dati informativi l’intreccio. Naturalmente il magistero ronconiano non sopporta queste cadenze bassamente narrative e l’intelligente Bargagna impagina diversamente il segmento. Madre e figlia sono sedute dandosi reciprocamente le spalle. Le sedie sono allineata sull’asse orizzontale, ma collocate agli estremi dello spazio scenico. Laura e Francesca parlano e parlano, ma – parlando  – Francesca si agita e si scuote sulla propria sedia che sotto gli impulsi dell’attrice, Clio Cipolletta –, compie un vero e proprio percorso (procedendo come un gambero, all’indietro), risultando – al termine del camminamento – perfettamente contigua alla sedia di Laura, rimasta immobile all’estremità opposta dello spazio. Non importa la comprensione dello scambio dialogico; ciò che passa nell’orecchio dello spettatore – se posso usare un ossimoro – è l’immagine di madre e figlia che si ritrovano unite,   le due teste affiancate, i corpi abbracciati, alla fine di un processo di avvicinamento in cui la madre – con il suo dimenarsi doloroso sulla sedia “in movimento” – sembra vivere sulla sua pelle il parto che attende la figlia. Bargagna pare voler suggerire una sorta di storia ideale che potremmo chiamare le tre età della donna: Laura che si appresta a diventare madre, Francesca che non può più essere madre, Giulietta che non può ancora essere madre. Forse la suggestione ha un che di intellettualistico, ma comunque funziona dal punto di vista spettacolare, vale a restituire interesse a un dialogo di per sé abbastanza corrivo.

Sono stato solo tre giorni scarsi a Santa Cristina, e ho assistito a un numero limitato di scene, che potranno ovviamente modificarsi, se e quando il laboratorio diventerà spettacolo. D’altra parte un laboratorio è un laboratorio, uno spazio-tempo dove si cerca, si trova, si cambia, si abbandona, si riprende. Ho visto un eccellente Dottor Romeri impersonato da Giovanni Crippa (Ronconi, si sa, ama mettere in contatto generazioni di attori diversi, giovani e giovanissimi, appena usciti dalle migliori scuole di teatro, con professionisti di lungo corso, come è il caso di Crippa) che incorpora dentro lo spettacolo, facendola sua, come fosse una propria battuta, la recensione che Gramsci dedica all’Innesto[20]. Una cronaca non totalmente stroncatoria: riconosceva l’interesse del tema affrontato, ma con molte riserve sul linguaggio. Tocca al Dottore assumerla nel suo recitativo perché il personaggio è uomo di scienza, e dunque gli si confà – metateatralmente – uno sguardo critico sul testo pirandelliano. Ho visto Crippa provare la scena con la madre, III.1 in due modi diversi. In un primo caso seguendo il testo, ma sbalzando fuori dal copione le nervature che riportano al suo passato di ex medico militare. Così, sulla battuta «Nossignori! Il medico ha il dovere di salvare…», Crippa si immobilizza di scatto, battendo i tacchi, sull’“attenti”, gridando la battuta come fosse un ordine di caserma, per una giusta associazione “Nossignori/Sissignore” che appartiene al linguaggio militare. Oppure ancora, inchiodandosi al pilastro della sala, come vittima di fucilazione, a illuminare il punto in cui Pirandello evoca il paradosso dell’omicida salvato dal medico per essere poi condannato a morte («Per farlo uccidere, a freddo, da chi ha imposto a me un dovere che diventa infame»). Storicamente il codice penale militare prevedeva in Italia la condanna alla fucilazione. Ma in una variante era proprio il passato di ex medico militare ad essere espunto dal racconto dialogico.

Nel complesso un lavoro molto stimolante. E una scelta esistenziale stupefacente e ammirevole al tempo stesso. Un Maestro di ottant’anni, che a dispetto degli acciacchi, seguita a lavorare otto ore al giorno, continuando a distillare il suo sapere alle giovani generazioni in una fatica laboratoriale che potrebbe restare fine a sé stessa, senza esito di produzione di spettacolo: beh, si resta francamente sorpresi. Come se ci trovassimo in un piccolo pezzo di Germania, e non già nell’Italia della scarsissima produttività e del micidiale sogno delle baby-pensioni. 

Ho cominciato dalla fine, mentre avrei dovuto iniziare dai Sei personaggi, ma solo perché ho visto i Sei personaggi un mese dopo, nell’ottobre del 2012, in una replica milanese. Poco importa. Forse L’innesto diventerà esso pure una produzione teatrale, così come è successo ai Sei personaggi, lungamente elaborato a Santa Cristina tra 2010 e 2011, e trasformatosi in spettacolo in collaborazione con l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e il Piccolo Teatro di Milano.

L’operazione è la stessa: Ronconi prosciuga il testo, come Bargagna (non a caso assistente alla regia dei Sei personaggi) fa con L’innesto. Viene molto sfoltito il côté metateatrale (la rappresentazione di colore del mestiere attorico, prima che giungano i Sei personaggi; poi il gioco degli attori che ripetono la scena tra Padre e Figliastra; quindi il riassestarsi dei professionisti del teatro, dopo l’uscita finale dei Personaggi). Ronconi rinuncia volentieri anche alla gabbia naturalistica: non c’è il teatro, con il palcoscenico nudo, il sipario, il cupolino del Suggeritore e quant’altro. La scenografia del Piccolo Teatro Studio è poco più dello spazio originario di Santa Cristina, dove i Sei personaggi sono nati: una scatola scenica asettica, entro cui sono dislocate un po’ di sedie e un tavolino. Gli interpreti sono i giovani dell’Accademia, che con le loro facce, senza trucco, si presentano come il Padre e la Madre, oppure – per l’inverso –  nonostante i loro vent’anni, non esitano a impersonare le figure del Giovinetto e della Bambina. Basta un velo sul capo a dare identità alla Madre, a ricordarci il pathos del suo personaggio. Permane qualche frammento del dialogo pirandelliano fra Capocomico e attori («Mi devo mettere proprio il berretto da cuoco in capo? […] Ma è  ridicolo, scusi! […] Ha da rappresentare il guscio delle uova che sbatte! […] Lei è la ragione, e sua moglie l’istinto») ma sono dette a freddo, senza convinzione, come citazioni di “personaggi di attori” sostanzialmente “straniati” dagli interpreti. Il Suggeritore legge le didascalie del Giuoco delle parti biascicandole faticosamente, come se le leggesse per la prima volta, e come se lui stesso fosse semi-analfabeta.

Cosa rimane – al termine di questo procedimento di revisione del testo – del capolavoro pirandelliano? Rimane lo scheletro del tessuto ideologico-estetico dei Personaggi, in polemica con il Capocomico e la gente di teatro («Si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla… o donna. E che si nasce anche personaggi! […] E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della  morte. […] Qui non si narra! qui non si narra! […]»). Ma rimane  soprattutto il nucleo tabù della vicenda, l’incesto che Pirandello ha rifiutato, salvo presentarlo come vicenda rifiutata, rinnegando i Personaggi che vanno a cercare nel Capocomico una figura vicariale dell’Autore che li ha respinti.

Per definire il modo di porsi e di atteggiarsi dei personaggi, la critica ha parlato di rettili, ragni, insetti[21]. In effetti c’è uno zoccolo duro nella scrittura pirandelliana, uno strato veramente “verminoso”, e dunque è normale che i protagonisti – Massimo Odierna (in alternanza con Luca Mascolo) nel ruolo del Padre, e Lucrezia Guidone, di cui ho parlato a proposito dell’Innesto, in quello della Figliastra – striscino spesso per terra come “vermi”. È  una scelta che discende da una lettura sottile dell’opera del nostro. Pulsioni inconfessabili premono nel chiuso recinto dei Sei personaggi. Il tormentone del Padre («non  ancora tanto vecchio da poter fare a meno della donna, e non più tanto giovane da poter facilmente e senza vergogna andarne in cerca») è solo la punta dell’iceberg. Una spinta istintuale che apre uno squarcio sull’«inconfessabile», come lo chiama il Padre, che così continua: «Si cede, si cede alla tentazione; per rialzarcene subito dopo». Ecco, direi  che Ronconi coglie  felicemente in questo interstizio minimale della battuta l’indicazione dell’“alto” e del “basso”, il suggerimento per il diverso posizionarsi degli interpreti. Pirandello è un laico profondamente condizionato dalla tradizione cattolica. E dunque il peso della carne, il trascinamento  verso il  basso, la caduta: sono tutte metafore che si traducono in immagini sceniche  illuminanti e fulminanti, le quali valgono tanto per il Padre quanto per la Figliastra. Il Padre che “si abbassa” a cercare il proprio piacere in una casa di piacere; e la Figliastra che “si abbassa” a vendersi per sopravvivere.

La prima epifania è al momento in cui, uscita Madame Pace, si dispiega finalmente “la scena”, come viene ripetutamente definita dai personaggi e dal Capocomico, l’unica scena realmente compiuta, fra Padre e Figliastra. Con audace gesto avanguardistico Pirandello si accontentava di realizzare la sequenza in un contesto di oggetti di risulta, fondi di magazzino reperiti dal Trovarobe (letto a sedere, tavolino, paravento, attaccapanni, busta cilestrina); Ronconi va più avanti, azzera completamente, mette a fuoco la scena nella sua essenza pura di rapporti interpersonali, limitandosi  a “illuminarla”, in senso metaforico e letterale. A Ronconi basta circondare di una luce bassa, radente, un quadrato immateriale, ritagliato entro la scatola scenica, una sorta di ring circondato in due punti disposti in diagonale da attori e Personaggi: i primi raccolti in gruppo in fondo a destra (degli spettatori); i Personaggi, raccolti in gruppo in proscenio a sinistra. La Figliastra è seduta per terra, chiusa e raggomitolata, con le ginocchia davanti al viso, occhi bassi, capo coperto da un cappellino nero, a lutto come il vestito. Solo l’evidenza delle ginocchia in bella vista vale a  suscitare il palpito di una nota seduttiva. Lucrezia Guidone è una ragazza avvenente, che ha tutto il physique du rôle per offrirci una Figliastra attraente, fascinosamente maliarda, ma si guarda bene (e con lei Ronconi, ovviamente) dal puntare su questo pedale stilistico. In questo primo fermo-immagine ciò che si impone è un blocco nero di solitudine e di sofferenza. Che è poi un modo giusto – da parte del regista e dell’attrice – di cogliere l’indicazione autentica dell’autore. Per Pirandello la Figliastra non ha margine di “piacevolezza”, non punta a compiacere il cliente, per il quale mostra piuttosto ostilità, come svela la didascalia, quando è lei a togliersi per prima il cappellino, in risposta al Padre che vorrebbe cominciare a metterle le mani addosso, per spogliarla, principiando appunto dal copricapo: «subito, per prevenirlo, non contenendo il ribrezzo» (corsivo nostro).

E il Padre si adegua, si abbassa, striscia a terra per porgere il suo tortuoso «Buon giorno, signorina. […] Ma… dico, non sarà la prima volta, è vero? che lei viene qua. […] C’è venuta qualche altra volta? […] Più d’una?». La forma delle parole è decente, decorosa, ma l’impulso profondo è laido, sostanzialmente pedofilo. Non dimentichiamo che questa Figliastra diciottenne (dunque minorenne, per la legge dell’epoca) è la stessa che, «piccina […] con le treccine sulle spalle e le mutandine più lunghe della gonna», deve vedere il Padre presentarsi insinuante «davanti al portone della scuola». Come dice ferocemente la Figliastra: «Veniva a vedermi come crescevo…». Ma leggiamo il seguito: «Lo dissi alla mamma. E lei dovette subito capire ch’era lui. Dapprima non volle mandarmi più a scuola, per parecchi giorni. Quando ci tornai, lo rividi all’uscita – buffo! – con un involtone di carta tra le mani. Mi s’avvicinò, mi carezzò; e trasse da quell’involto una bella, grande paglia di Firenze con una ghirlandina di roselline di maggio – per me!».

Davvero difficile sottrarsi all’impressione di un  perfetto (e tenace) pedofilo in azione. Dico “tenace” perché la bimba evita di andare a scuola «per parecchi giorni», ma come ci ritorna, subito si imbatte nel  Padre con in mano il cappello con la ghirlandina di roselline di maggio. Dobbiamo immaginare dunque che ogni giorno, per tutti i giorni dell’assenza da scuola, si sia fatto trovare lì, implacabile con la sua grande paglia di Firenze.

Voglio dire che c’è una sessualità perversa del Padre che Pirandello lascia intravedere, ma che i registi solitamente non hanno notato. Il naturale bisogno di sesso, sì, ma anche pedofilia e voyeurismo orientato nella direzione di un triangolo torbido (si pensi all’intreccio – curioso e morboso – secondo cui è lui a spingere la propria moglie nelle braccia del suo segretario). Ma tutto questo è opportunamente “ribaltato”, rovesciato da Ronconi direttamente nel quadro aspro della sequenza in esame (anche e Ronconi non insiste, dà per implicito questo groviglio fangoso di desideri e di brame oscene). Certo, non c’è traccia di morbida galanteria più o meno livida cui la tradizione scenica ci ha a torto abituato. La Figliastra e il Padre si muovono sotto lo stimolo di sollecitazioni grevi, bestiali, sembrano animali che si annusano prima di accoppiarsi. La Figliastra si trascina per terra avanzando carponi, e il Padre la segue, dietro le di lei spalle, come volesse possederla more ferarum. Oppure possiamo osservare il Padre disteso per terra, accanto alla Figliastra in piedi, anzi, propriamente con la faccia accanto ai piedi di lei, gli occhi fissi sulle gambe della ragazza, come a soddisfare la sua natura segreta di voyeur, a scrutarla sotto la gonna, dal basso in alto.

Le ultime due immagini lancinanti sono collocate più avanti. La prima dopo che la Madre ha dichiarato di essere «viva e presente, sempre, in ogni momento» del suo strazio: il Padre giace ancora accovacciato in terra, ma è solo un mucchio di carne raccolta, confusa, informe. E la Figliastra va a gettarsi sopra di lui, con la sua testa sopra la testa di lui, mucchio di carne sopra mucchio di carne, senza ombra di un gesto di desiderio o di seduzione. Il sesso come pulsione bruta, cieca, cupa, che non attrae ma che ripugna. Semmai quella coppia saldata in una torva unità indistinta fa pensare a certe immagini dantesche, al Conte Ugolino che affonda i denti nella nuca del suo nemico. La seconda immagine è quella del contatto incestuoso. Pirandello, e con lui  quasi tutta la tradizione scenica, se la giocano in termini molto urbani. Padre e Figliastra sono in piedi, uno di fronte all’altro, le braccia della donna intorno al collo dell’uomo, e la testa appoggiata su petto del  Padre, finché la Figliastra invita la Madre a gridare. Ben diversamente nello spettacolo-studio di Ronconi. La Figliastra è sdraiata per terra, supina, con le gambe aperte, e il Padre sopra di lei. La battuta pirandelliana della Figliastra ci sta tutta («stando così, […] le braccia così al suo collo, mi vedevo pulsare qui, nel braccio qui, una vena») ma con i due distesi in orizzontale anziché eretti in verticale. Non un “incesto sfiorato” bensì un “incesto consumato”. Non arriva il grido della Madre che dovrebbe valere a impedire l’incesto.  O meglio: è solo un sussurro («Bruto, bruto, è mia figlia! Non  vedi che è mia figlia?»), che fuoriesce, roco, nel tacito terrore degli spettatori del Piccolo Teatro Studio, i quali  prendono improvvisamente coscienza che la superficie del testo è stato “perforata”, che Ronconi  ha raggiunto il livello profondo della scrittura pirandelliana. Il Padre, strisciando all’indietro, sempre prono, si allontana dalla Figliastra, per così dire “esce dal corpo di lei”, in un silenzio denso e attonito.

Pirandello ha costruito un testo-labirinto, a cerchi concentrici, per nascondere il fantasma incestuoso. Una figlia che non è una figlia, ma è una figliastra (meccanismo di attenuazione della colpa chiarissimo, messo in luce a suo tempo da Leonardo Sciascia). Un rapporto sessuale incestuoso che non si consuma, bloccato all’ultimo dal grido della Madre. Una  storia che è rifiutata dal suo Autore, e che il Capocomico (figura vicariale dell’Autore) non riesce a portare a conclusione. E infine l’ultimo cerchio concentrico, il meccanismo del metateatro come ulteriore artificio, teso a occultare un plot troppo scandaloso (una osservazione felice di André  Bouissy)[22]. Ronconi comincia scardinando la corteccia esterna, rinuncia – come ho detto all’inizio – proprio alla dimensione metateatrale, e finisce colpendo al cuore la grande scena tabù. Senza nessun compiacimento estetico, senza nessuna concessione alla gradevolezza cui spesso non rinuncia nemmeno il teatro d’arte. Penso a uno spettacolo importante, rimasto sconosciuto in Italia, realizzato nel 2001 dal giovane regista francese Emmanuel Demarcy-Mota: allestimento tanto più considerevole perché collega acutamente incesto e pedofilia[23]. Vediamo l’attrice – la bella Valérie Dashwood – muoversi fascinosamente sul palcoscenico in sottoveste nera, calze nere e reggicalze. E vediamo il regista inventare per lei movenze acute ma intriganti: il Padre allunga le mani dietro la nuca della Figliastra, disfa il suo chignon, e i capelli ricadono sensualmente sulle spalle.

Tutto diverso per Ronconi. Se la Figliastra è doppiamente seduttrice, con l’Autore e con il Capocomico (basti la didascalia «facendosi avanti al Capocomico, sorridente, lusingatrice»), Lucrezia Guidone si butta a terra, e la gonna si solleva, mettendo in vista le gambe; subito dopo si rotola sul pavimento, per andare a porsi proprio esattamente sotto il naso del Capocomico seduto dietro il tavolino. Ma l’attrice indossa un severo collant nero, non certo il reggicalze, antica icona dell’immaginario erotico maschile. Non solo. La Guidone arrochisce la voce (che si fa quasi maschile); si muove spesso inarcando le spalle, camminando in modo sgraziato. Si imbruttisce volutamente, rifuggendo da ogni posa sexy; sembra una ragazzona cresciuta male, con risate talvolta da ebete (qualche critico ha parlato di personaggi sul crinale della follia). Il senso è sempre quello:  il desiderio cieco della carne, la pulsione sorda, istintiva, animalesca, che non necessitano di abbellimenti, di fronzoli. In questa cupa attrazione fatale – fra il  vecchio e la giovane – la donna non ha bisogno di nulla – né di bellezza né di grazia – per calamitare a sé l’uomo. È la carne fresca che attira la carne vecchia; ed è il gusto malsano dell’incesto, il comando sulla vittima che eccitano, e poco importa che si tratti di una bambinona  goffa o anche un poco handicappata.

Qui mi sembra il nucleo prezioso dello “studio” sui Sei personaggi. Che naturalmente è uno “studio”, cioè  sguardo parziale, che sceglie una angolazione particolare, che rinuncia a molte altre cose. Ho già detto che Ronconi  non approfondisce il nesso incesto-pedofilia, Figliastra diciottenne e Figliastra bambina di scuola elementare; non coglie continuità fra il maniaco che regalava la paglia di Firenze alla bambina e l’habitué di Madama Pace che vorrebbe regalare un cappellino alla giovane prostituta. E tuttavia qualche indicazione in questo senso c’è, nello spettacolo ronconiano, e va raccolta. All’inizio dello “studio” il Primo Attore (che dovrebbe impersonare Leone Gala) si rivolge al Secondo Attore (Guido Venanzi, l’amante)  concedendosi un inserto – riferito a Silia Gala – che non appartiene propriamente al testo dei Sei personaggi: «E forse tu non sai tutta la ricchezza che è in lei…». Assai curiosa, e direi anche un po’ inquietante, questa integrazione che il regista introduce all’interno di una scelta drammaturgica che invece punta a “levare”, a tagliare il contesto metateatrale. Che senso ha? Ma c’è di più. I Sei personaggi presentano Leone Gala e Guido Venanzi all’inizio del secondo atto del Giuoco delle parti, ma Ronconi è andato a ritagliare una battuta collocata dentro una conversazione Leone-Venanzi del primo atto, non già del secondo atto. Casuale? O genialmente intenzionale? Provo ad azzardare una risposta.

Nella conversazione Leone-Venanzi del primo atto del Giuoco delle parti (da cui Ronconi ha prelevato quello spicchio di battuta) il marito mostra di conoscere la moglie assai meglio dell’amante, e svela in particolare a Venanzi una dimensione “infantile” di Silia. Da questo punto di vista si giustificherebbe meglio quel collegamento fra Sei personaggi e Giuoco delle parti che è sempre apparso inspiegabile alla critica. Un rapporto fantasmaticamente incestuoso tra un Leone-padre e una Silia-figlia renderebbe cioè ragione di quel curioso incastro che Pirandello ha operato, inserendo il Giuoco delle parti all’interno dei Sei personaggi, così dichiaratamente aperto alla tematica incestuosa[24].

Qualche parola sull’ultima parte dello spettacolo. La critica è stata impressionata dalla prestazione della Guidone, che in effetti si impone su tutti i compagni di lavoro. Non so se Ronconi si sia limitato a secondare la vena creativa della giovane attrice oppure se ci sia dietro una precisa e consapevole linea registica. Certo, la Figliastra prende in mano la situazione, assume in qualche mano la direzione delle operazioni. Che è poi anche una indicazione pirandelliana, ma affidata a una battuta della prima parte della rappresentazione, quando si deve allestire la scena nel retrobottega di Madama Pace. Dice infatti il Capocomico, indispettito, alla Figliastra: «Oh guarda! Ma insomma, dirige lei o  dirigo io?». Nella prospettiva di Ronconi (e della Guidone) il senso diventa un altro: è  la Figliastra a coordinare il finale, perché nel finale si saldano i conti, gli oppressi (le donne, i bambini) puniscono i colpevoli, sia pure con la loro morte o la propria vergogna, finendo al cimitero o finendo sul marciapiede. La Bambina non annega accidentalmente nella vasca del giardino. A Ronconi –  per alludere all’acqua – basta un oggetto del tutto banale, un secchiello. La Figliastra afferra il capo della sorellina e lo infila nel secchiello, tenendolo premuto, finché morte non sopraggiunge. Tremendo e indimenticabile (e semplicissimo) l’attimo in cui la Bambina cade riversa su un fianco. E se al Giovinetto casca per terra la pistola, è ancora la Figliastra a mettergliela in mano, a guidarlo allo sparo suicida. La Figliastra come “regista” ma anche come sorta di Medea, la quale, incrudelendo contro il proprio sangue, grida la sua protesta in faccia al cielo e alla società dei maschi e dei padri.

Si illanguidisce, e quasi scompare, ridotto a una breve evocazione, il dibattito estremo “Finzione/Realtà”. Sono tutti in piedi, a metà palcoscenico, allineati, spalla a spalla, frontalmente davanti al pubblico, attori e personaggi. Invece in  proscenio, per terra, a metà seduto, pensieroso, perplesso, il Capocomico. Ed è l’immagine di chiusura dello spettacolo. Ronconi  ha modificato il titolo dell’opera: non più, in locandina,  Sei personaggi in cerca d’autore, bensì, piuttosto: In cerca d’autore. Studio sui ‘Sei personaggi’ di Luigi Pirandello. Un modo per riconfermare che non gli interessa il discorso metateatrale, che il Capocomico forse non è affatto un Capocomico, cioè un uomo di teatro, ma, semmai, una pura funzione vicariale di un Autore con la A maiuscola. In questa sua ultima stagione – sul margine della malattia e del dolore che fatalmente accompagnano la vecchiaia – Ronconi non può non interrogarsi sul senso della vita, sull’impasto di pulsioni oscenità violenze ipocrisie che stringono da presso il destino dell’uomo.

Conclusione delle conclusioni. Credevo di aver perso Ronconi, e un po’ in generale il senso della grande regia, dopo aver visto Nora alla prova con Mariangela Melato, che mi aveva profondamente amareggiato[25]. E invece no, il Maestro è sempre vivo e vitale. Bene, viva il Maestro!



[1] Roberto Alonge, Per una riproposta dell’‘Innesto’, in «Il castello di Elsinore», 7, 1990, pp. 5-26. Il saggio è stato successivamente riciclato nella Introduzione a Luigi Pirandello, L’innesto, La patente, L’uomo, la bestia e la virtù, a cura di Roberto Alonge, Milano, Mondadori, 1992, pp. VII-XLII, nonché, in forma abbreviata, in Roberto Alonge, Madri, baldracche, amanti. La figura femminile nel teatro di Pirandello, Milano, Costa & Nolan, 1997, pp. 41-44.

[2] Cito dalla prima edizione della commedia, apparsa in due puntate su «Rivista di Milano», 20 febbraio 1919 (primo atto, alle pp. 127-140); 20 marzo 1919 (secondo e terzo atto, pp. 191-207). Il passo riportato è alla p. 192.

[3] Luigi Pirandello, L’innesto – La ragione degli altri, Milano, Treves, 1921,  p. 50.

[4] Luigi Pirandello, L’innesto, Firenze, Bemporad, 1925, p. 58.

[5] Cfr. Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico, Milano, Mondadori, 1993, vol. II, p. 893.

[6] Rinvio ai due bei libri di Umberto Artioli, L’officina segreta di Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1989; e Pirandello allegorico. I fantasmi dell’immaginario cristiano, Roma-Bari, Laterza, 2001.

[7] Luigi Pirandello, L’innesto, in  «Rivista di Milano», cit., p. 194.

[8] Luigi Pirandello, L’innesto – La ragione degli altri, Treves, cit.,  p. 56.

[9] Cfr. Roberto Alonge, ‘Il giuoco delle parti’, atto primo: un atto tabù, in AA.VV., Pirandello fra penombre e porte socchiuse. La tradizione scenica del ‘Giuoco delle parti’, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 7-59; Roberto Alonge,  Relire Bernstein (et ses phantasmes érotiques), in «Il castello di Elsinore», 62, 2010, pp. 9-33.

[10] Henry Bernstein, Le venin, Paris, Fayard, 1928, p. 73.

[11] Luigi Pirandello, L’innesto, in  «Rivista di Milano», cit., p. 137. Corrisponde alla p. 35 dell’edizione Treves sopra citata.

[12] Luigi Pirandello, L’innesto, in  «Rivista di Milano», cit.,  p. 140.

[13] Luigi Pirandello, L’innesto – La ragione degli altri, Treves, cit., p. 46.

[14] Luigi Pirandello, L’innesto, in «Rivista di Milano», cit.,  p. 140.

[15] Luigi Pirandello, L’innesto – La ragione degli altri, Treves, cit., p. 45.

[16] Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico, cit, p. 898.

[17] Luigi Pirandello, L’innesto, in «Rivista di Milano», cit., p. 197.

[18] Luigi Pirandello, L’innesto – La ragione degli altri, Treves, cit., pp. 68-69.

[19] Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico, cit, p. 892.

[20] La vecchia recensione, del 29 marzo 1919, è leggibile in Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1953, pp. 351-352.

[21] Cfr. Rodolfo Di Giammarco, I sei personaggi di Ronconi e dell’Accademia, in «Repubblica.it», 15 luglio 2012.

[22] Cfr. André  Bouissy, Réflexions sur l’histoire et la préhistoire du personnage “alter ego”, in AA.VV., Lectures pirandelliennes, Paris, Paillart, 1978, pp. 134-136.

[23] Cfr.  Roberto Alonge, Demarcy, “Six personnages” de Pirandello, in “Angelo di fuoco”, 5, 2004, pp. 111-127.

[24] Cfr. Roberto Alonge, “Il giuoco delle parti”, atto secondo: la poesia della figlia incestuosa, in AA.VV. Frammenti di un discorso sullo spettacolo. Per Roberto Tessari, Torino, Edizioni del DAMS di Torino, 2003, pp. 135-142, dove si rinvia a due saggi precedenti – di Alonge e Paolo Puppa – in AA.VV., Pirandello fra penombre e porte socchiuse. La tradizione scenica del “Giuoco delle parti”, cit.

[25] Cfr. Roberto Alonge, Lettera a una disciplina mai nata, in Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di Stefano Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 637-647.



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