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Cesare Molinari

Storie di Arturo Ui

Data di pubblicazione su web 25/01/2012
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La resistibile ascesa di Arturo Ui viene spesso considerata opera ‘minore’ di Bertolt Brecht, o comunque non paragonabile a testi più impegnativi come Madre Coraggio o Galileo Galilei oppure a quelli più conosciuti come L’opera da tre soldi. Tuttavia la sua ‘fortuna scenica’ – quella che i tedeschi definiscono con il termine molto pregnante di Wirkungsgeschichte, che si potrebbe tradurre come “storia dell’efficacia” – è stata tutt’altro che povera o irrilevante: dalla prima assoluta andata in scena a Stoccarda per la regia di Peter Palitsch nel 1958, fino a quella recentissima diretta da Claudio Longhi per il Teatro di Roma e Emilia-Romagna Teatro, ho potuto contare non meno di quaranta riprese realizzate un po’ in tutto il mondo, dalla Germania agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna al Brasile.

Le ragioni di questo diffuso interesse saranno da indagare, ma fin da subito si può sottolineare il fatto che La resistibile ascesa di Arturo Ui è comunque un dramma insolito, fin dal titolo, che potremmo definire straniante in quanto l’aggettivo “resistibile”, in questa sua forma positiva, non si trova neppure nei vocabolari, mentre sia in italiano che in tedesco esso è invece comunemente usato con il prefisso privativo in- o un- , per cui ci si aspetterebbe un titolo come La irresistibile ascesa di Arturo Ui o Der unaufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui. Per questo mi è parsa impropria, anche se letteralmente corretta, la scelta adottata da Diego Carpitella[1] che ha tradotto aufhaltsame con “contenibile”.

Il dramma fu steso nel 1941, in meno di tre settimane, in Finlandia durante la lunga fuga che porterà Brecht in California, ma sembra che egli stesse valutando la possibilità di comporre un dramma sull’instaurarsi della dittatura in Germania (e forse anche in Italia) fin dal 1934[2], nell’anno cioè del definitivo consolidarsi del potere nazista con l’ascesa di Hitler prima al cancellierato, su nomina del presidente maresciallo Von Hindemburg, e poi anche, alla morte di questo, alla presidenza del Reich. Brecht traspone la storia di questa trionfale conquista del potere politico in quella dell’affermarsi nella Chicago proibizionista di una banda di gangster, che impone il pizzo mafioso ai negozianti di verdura grazie al sostegno dei capitalisti del trust dei cavolfiori con una serie di violenze di prevaricazioni e di assassini. Nel capo di questa banda, Arturo Ui appunto, viene identificato Hitler, mentre nei suoi scherani, chiamati Giri, Givola e Roma, sono facilmente riconoscibili Goering, Göbbels e Ernst Röhm, mentre non c’è un omologo di Himmler, il capo delle SS (Schutzstaffeln) che subentrarono alle SA (Sturmabteilungen) di Röhm quando costui fu liquidato. Ancora, il personaggio di Dogsborough, un taverniere diventato importante uomo politico, già integerrimo, ma che ora si lascia corrompere, raffigura il presidente Hindemburg, mentre i grossisti del trust rimandano agli Junker e ai grandi industriali come i Thyssen e i Krupp che, direttamente o indirettamente, appoggiarono il nazismo. Nel finale poi compare anche – sotto il nome di Ignatius Dullfeet – il presidente austriaco Engelbert Dolfuss, assassinato per favorire l’annessione dell’Austria al Reich tedesco.

Brecht definì La resistibile ascesa un Parabelstück[3], ossia una “parabola drammatica” – definizione evidentemente riduttiva come tutte le definizioni, ma nella sua intenzione il testo avrebbe dovuto essere didascalico in quanto pretendeva di illustrare al pubblico (americano!) l’organica connessione fra capitalismo e malavita – rapinare una banca, soleva dire, è minor delitto che fondarla. Ma d’altra parte l’opera avrebbe dovuto anche demistificare l’immagine dei grandi delinquenti politici, che sono in verità soltanto miserabili autori di grandi delitti, causa di grandi sofferenze. Presunti eroi la cui bassezza umana, intellettuale e morale, politica e personale, va denunciata nella sua vera dimensione e francamente messa in ridicolo (Lächerlichkeit), senza per questo cadere nella semplice parodia (Travestie)[4]. Per questo – conclude Brecht – l’opera adotta lo stile grandioso e la versificazione classica, cioè la pentapodia giambica delle tragedie di Schiller, che corrisponde più o meno al nostro endecasillabo sciolto, o anche al blank verse di molte tragedie di Shakespeare. Come in Shakespeare del resto alcune scene dell’Arturo Ui, anche cruciali come quella del processo-farsa, sono prevalentemente in prosa.  E tuttavia questa ‘tragedia’, memore delle histories shakespeariane è anche commedia, «non solo perché la tragedia, molto più spesso della commedia, prende alla leggera le sofferenze dell’umanità», ma anche perché vi si parla di cavolfiori e di soldi piuttosto che della sorte dei regni e degli imperi, e perché il lessico e le espressioni sono spesso quotidiani e a volte francamente volgari del tipo «Dogsborough ci ha la merda al culo» (hat Dreck am Stecken), con un piuttosto frequente ritornare, soprattutto nelle prime sei scene (dove effettivamente si tratta della corruzione di un importante uomo politico), di termini riferibili alla corruzione, come «marcio» (faul) o «puzzolente» (fischig), che peraltro potrebbero ricordare l’ossessione per le immagini tratte dal disfacimento fisico in Amleto. Anche le metafore e i paragoni più elaborati sono tratti prevalentemente da ambiti semantici bassi: così l’armatore Sheet, che i truster vogliono indurre a vendere la sua azienda, risponde «Voi volete avere il pranzo dando solo la mancia e poi volete essere ringraziati per la mancia». E Ui, nel cercare di convincere il vecchio Dogborough, gli ricorda di avere con sé «ragazzi squattrinati, ma decisi, come me, a tagliarsi una bistecca da ogni vacca creata dal Signore».

D’altra parte, il riferimento alla tragedia classica è confermato da una serie di ben quattro esplicite ed estese citazioni: la prima è letterale e consiste nel discorso di Antonio sul cadavere di Cesare nella centrale scena settima, mentre le altre, raggruppate subito prima di quella finale nelle scene 13-15, hanno piuttosto carattere tematico o addirittura coreografico: il girotondo a quattro fra Ui con Betty Dullfeet da una parte e Givola con Ignatius Dullfeet dall’altra, che riporta a quello celeberrimo di Faust con Gretchen e di Mephisto con Marta nel Faust goethiano; il corteggiamento di Ui alla vedova di Dullfeet durante il funerale di Dullfeet-Dolfuss, tratto dalla scena in cui Riccardo III seduce Anna nella tragedia di Shakespeare; e l’apparizione dello spettro di Roma che sviluppa in un lungo monologo le brevi battute con cui lo spettro di Cesare invita Bruto a Filippi ancora in Giulio Cesare. Le chiamerò “grandi citazioni” anche per distinguerle da quelle più minute e nascoste nel testo, che Giorgy Tabori rese più evidenti nella sua traduzione-adattamento inglese, utilizzata per la prima volta da Tony Richardson nel 1963[5].

Che non vanno considerate come semplici divagazioni ornamentali e letterarie, atte magari a rendere più complessa la struttura architettonica dell’opera. Esse complicano, ma soprattutto arricchiscono il gioco di rinvii, i parallelismi storici, ma al tempo stesso assoluti di un eterno ritorno che suona, alla fine, come un’ineluttabile necessità, in contrasto con i principi brechtiani che vedono nell’uomo colui che è (o deve essere) capace di costruire il proprio destino e di cambiare il mondo. Perché se Ui rimanda a Hitler, non è meno vero che egli, e quindi entrambi, possono essere assimilati a Faust (o a Mephisto), assassino in quanto seduttore, e a Riccardo III, seduttore in quanto assassino, non meno che a Bruto, vindice della libertà, ma anche ambizioso traditore, qui schiacciato non dal rimorso ma dalla viltà.

In fin dei conti, il dramma recupera quell’originario significato della tragedia, in quegli stessi anni riproposto da Antonin Artaud, come totale subordinazione dell’uomo alla necessità (l’ananke degli antichi greci). Per questo Brecht non fu in grado di rimettere le mani sul suo testo, scritto in un momento in cui non sembrava aprirsi alcuno spiraglio di speranza, se non per aggiungervi pochi versi di un breve, ma ancora minaccioso epilogo: «non cantiamo vittoria troppo presto, il grembo da cui il mostro nacque è ancor fecondo». Un epilogo dunque che in qualche modo sembra invitare a estendere il fitto gioco di rinvii e di parallelismi che costituiscono la struttura portante del testo a situazioni e ad eventi diversi, e magari attuali – dalla mitizzazione di figure ritenute carismatiche al rincorrersi delle crisi economiche, dalla presenza quasi organica della corruzione nell’illegalità fino alla subordinazione della politica agli ‘affari’ (Geschäft è una parola magica che ritorna spesso nel testo, così come, ad esempio, in Un uomo è un uomo).

Tale densa ambiguità del testo brechtiano ha dunque sollecitato l’interesse e l’immaginazione di registi e operatori. Essa nasce in primo luogo da quella compresenza di motivi tragici e comici, intrinseca alla struttura dialettica dell’opera, esplicitamente sottolineata nelle annotazioni di Brecht, il quale, ricorrendo al concetto di ‘grottesco’ (che contiene l’idea di scontro fra la deformazione caricaturale e la minaccia dell’orrore), lascia aperta la possibilità di affidarlo anche a effetti musicali da circo o da fiera (organetti, trombe e tamburi), ma anche, nella scena del processo-farsa, alla marcia funebre di Chopin suonata però a ritmo di ballo. Il testo prevede l’inserimento di uno solo di quei song che gli erano tanto cari fin dai tempi della collaborazione con Kurt Weill e largamente utilizzati soprattutto nelle due Opern giovanili: Dreigroschenoper e Mahagonny.

Comunque sia di ciò, l’alternativa tra accentuare la dimensione tragica oppure quella comico-grottesca del testo si presenta fin dalle sue primissime interpretazioni, che andarono in scena, come è ben noto, soltanto due anni dopo la scomparsa dell’autore. In verità Brecht era decisamente restio all’idea di rappresentare il dramma in Germania: in ogni caso avrebbe voluto che esso fosse preceduto da Terrore e miseria del terzo Reich.

Sappiamo poco sulla prima assoluta, che ebbe luogo a Stoccarda (e dunque nella Repubblica Federale Tedesca) nel novembre del 1958 per la regia di Peter Palitsch, con attori locali, eccettuato l’interpete di Ui, Wolfgang Kieling, che invece aveva frequentato il Berliner Ensemble. Sappiamo però che già Palitsch aveva adottato le musiche di Hans Dieter Hosalla, ispirate appunto al circo e alle fiere, rumorose e spesso cacofoniche, ma con citazioni da Liszt e Chopin e composte su commissione dello stesso Brecht, che però, forse, non ebbe il tempo di approvarle definitivamente.

L’anno successivo Arturo Ui venne finalmente realizzato dal Berliner Ensemble con la regia di Manfred Wekwerth, che si avvalse della collaborazione di Palitsch, introducendo però rilevanti modifiche, come la soppressione dell’apparizione dello spettro di Roma (15), sulla quale Brecht aveva espresso qualche dubbio, e quella della donna uccisa nelle strade di Cicero (17), l’eliminazione di alcuni personaggi minori, come il truster Caruther e l’introduzione di cori parlati, in particolare là dove, dopo l’incontro fra Ui e Dogsborough, i dettaglianti esigono che venga aperta un’inchiesta sul prestito concesso dal Municipio al trust dei cavolfiori e dopo il primo discorso di Ui agli stessi dettaglianti. Inoltre Wekwerth inserì alcuni song non previsti dal testo – il primo cantato dal giornalista Ragg, che viene a provocare Ui per la sua ignavia nella scena della sala corse, mentre il secondo, cantato da Givola, costituiva una sorta di intermezzo. Questo song (il song delle lavandaie) era stato commissionato per la versione cinematografica dell’Opera da tre soldi – chiaramente perché anche nell’Opera da tre soldi il protagonista è un bandito.

Ma il punto centrale dell’interpretazione di Wekwerth sta in questo, che essa rinviava esplicitamente allo spettacolo del Circo, indicato da una grande tenda che copriva la scena, dando spazio a gag e a giochi acrobatici che coinvolgevano direttamente il personaggio di Ui, interpretato da un attore particolarmente dotato sul piano atletico come Ekkehard Schall. Le singole scene tuttavia si svolgevano prevalentemente su piccole piattaforme che si succedevano grazie al palco girevole e contenevano, indicati con pochi tratti, gli ambienti in cui l’azione doveva aver luogo (l’ufficio del trust, la villa di Dogsborough, l’albergo di Ui). Una soluzione che torna spesso nelle regie brechtiane, ad esempio nell’Anima buona del Se-zuan.

Nel 1960 lo spettacolo di Wekwerth era in tournée a Parigi, dove Jean Vilar e George Wilson allestirono la loro messa in scena di La résistible ascension d’Arturo Ui al Palais de Chaillot per il Théâtre National Populaire. Il pubblico parigino fu così in grado di confrontare due diverse interpretazioni che in qualche misura costituivano due poli oppositivi[6]. Nello spettacolo francese, secondo la tradizione invalsa al TNP in particolare per gli spettacoli classici, la scena era vuota con la sola eccezione di pochi e irrilevanti accessori poggianti su quattro basse piattaforme, disposte in modo da formare, grosso modo, l’immagine della svastica, ciascuna delle quali veniva via via illuminata nel passare da una scena all’altra. Lo sfondo era chiuso da un grande pannello, ricoperto di cartelloni e di fogli di giornale.

Vilar aveva chiesto ad Armand Jacob di tradurre i versi tedeschi in alessandrini. Ora, mentre la pentapodia giambica, come il nostro endecasillabo sciolto, può essere facilmente recitata senza accentuare il ritmo del verso, che viene così quasi ridotto a prosa, l’alessandrino è un verso dalla struttura molto complessa: doppio senario intercalato da una forte cesura e a rima baciata – al ritmo dell’alessandrino è difficile sfuggire. Inoltre l’alessandrino è il verso per eccellenza della tragedia classica di Racine e di Corneille.

Però, nella sua traduzione, Jacob non mantenne la struttura classica dell’alessandrino in modo costante e rigoroso: da una parte la rima baciata vi appare solo occasionalmente e in particolare laddove essa viene usata anche nel testo brechtiano, cioè nella ‘grande citazione’ della scena goethiana del giardino di Marta; dall’altra ricorre spessissimo all’enjambement. Ciò che può invitare a una dizione che tenda alla prosa (e vale la pena di ricordare come, a partire dal Settecento, ci sia stata in Francia una diuturna polemica fra quanti sostenevano che il ritmo del verso dovesse far premio sulla logica del significato e coloro che invece pretendevano che questa dovesse prevalere sul senso letterale – polemica brillantemente risolta da Talma, secondo il quale il ritmo avrebbe dovuto essere percepito pur senza essere accentuato). Inoltre, Jacob, pur senza rinunciare del tutto all’uso di termini gergali o anche volgari, si attenne a una certa medietas stilistica vicina a quella del dramma borghese.

 

Tuttavia, il grande spazio vuoto, illuminato per settori da drammatici fasci di luce, nel quale comunque risuonava l’artificio dell’alessandrino, indicava piuttosto l’intenzione di conferire al dramma il valore e il peso della tragedia, la quale, per definizione, ha a che fare con l’assoluto. I costumi moderni a mala pena  riuscivano a connotare la Chicago degli anni Trenta. La musica era ancora quella di Hosalla, ma si può sospettare che il maggior rilievo fosse dato alla marcia funebre di Chopin o alla musica da organo che accompagnava il funerale di Dullfeet.

Le indicazioni di Brecht e, a maggior ragione, la struttura stessa del dramma aprono dunque agli interpreti un ampio ventaglio di scelte che trascendono, pur contenendola, l’alternativa fra una coloritura tragica e quella comico-grottesca. La tendenza a concedere ampi spazi alla musica, al canto e a danze che possono coinvolgere anche i personaggi principali, già in qualche misura presente negli spettacoli di Paltisch e Wekwerth, diventa sempre più evidente nelle edizioni più moderne: quella di Jerome Savary, del 1993[7], prevedeva la costante presenza in scena di un band jazzistico, così come succederà in un recentissimo spettacolo sloveno[8], o in quello realizzato in ambito scolastico a Einsiedeln[9].

Abbiamo visto come Manfred Wekwerth avesse inserito dopo la scena ottava (quella della prima arringa di Ui ai dettaglianti) un coro parlato. In spettacoli più recenti è frequente la presenza di gruppi di comparse, intesi a rappresentare gli esclusi, le vittime passive dei soprusi storici, cioè quel proletariato la cui presenza era stata esplicitamente esclusa da Brecht[10] e che, nella messa in scena brasiliana di Antonio Abujamra[11], assume in certo modo il ruolo di spettatore anche delle scene che si svolgono in interni, schierandosi sul fondo del palco; oppure, al contrario, sostengono il ruolo dei complici, gli scherani di Ui, i gangster, come succede in uno spettacolo americano[12] dove un coro compatto di uomini stretti in impermeabili di pelle nera, entra in scena ritmando il passo con violenza minacciosa.

Ma a volte, come accennato, l’intera compagnia si muove su ritmi più o meno esplicitamente danzanti, con maggiore o minore continuità e lo spettacolo assume il sapore di un balletto o addirittura di un musical, anche in momenti in cui si sviluppa l’azione drammatica: di uno spettacolo andato in scena a Liverpool nel 2011[13] un cronista ha scritto che, muovendosi sullo sfondo di un insistente musica jazz, «the cuff-shooting, shoulder-twitching cast are a Guys and Dolls chorus» – il cast di attori che esibiscono i polsini e si stringono nelle spalle sembra un coro di bulli e pupe. Come accade in maniera ancora più accentuata nello spettacolo di una piccola compagnia francese[14], dove il protagonista Arturo Ui, interpretato da una giovane attrice, assume in certi momenti il ruolo di ballerina solista. Ma è soprattutto nella citata regia di Claudio Longhi (e siamo di nuovo nel 2011) che l’azione drammatica scivola di continuo, in particolare nelle scene che comportano la presenza di molti personaggi, in una danza complessa, dove emerge soprattutto il personaggio di Givola (lo zoppo Goebbels), l’attore usando la menomazione del personaggio più che per richiamarne il modello o per costruirne un’immagine grottesca per esibirsi in movenze acrobatiche che sostanziano la malvagità di allegra noncuranza.

Similmente, nel citato spettacolo sloveno diretto da Eduard Miler, non solo un jazz-band accompagna diversi song eseguiti da un cantante in marsina e cilindro, ma le movenze di balletto si rincorrono in diversi episodi, a partire dalla prima conversazione dei truster (un uomo e una donna con cappello di paglia verde e un fiore verde all’occhiello); addirittura il primo discorso ai negozianti si conclude con sventagliate di mitra che danno il ritmo a una danza sur place dei terrorizzati ascoltatori, mentre l’ultima scena si risolve in una specie di allegro coro cantato da tutti, compreso il morto Dullfeet che era entrato in scena disteso su un carretto a motore coperto di fiori (ovviamente i fiori di Givola).

In spettacoli di questo tipo la rappresentazione di un ambiente precisamente definito (la Chicago degli anni 1930) tende ad assumere piuttosto connotati di ordine simbolico, talvolta trasferendo l’azione in ambito contemporaneo, oppure a velare qualsiasi riferimento cronologico, o ancora collocando sullo sfondo la bandiera nazista, ma anche quella degli Stati Uniti, oppure – come succede nella messinscena di Liverpool – l’aquila nazista che poi si trasforma in un set di video. Del resto, già nelle prime messe in scena, anche per rispettare le idee di Brecht, il quale privilegiava scenografie di accessori o fatte di minuscoli edifici, la determinazione del tempo storico dell’azione non era certamente affidata a una più o meno precisa ricostruzione scenografica, anche se non mancano interpretazioni specifiche: Gianfranco De Bosio collocò la scena quarta, che nella didascalia del testo si svolge in una sala corse, in un piccolo edificio di stile brechtiano che indicava un negozio di barbiere, dove spesso, almeno nei film, avevano luogo riunioni e delitti della mafia italiana.

Al contrario, lo spettacolo di Claudio Longhi opera una sorta di sintesi fra la rappresentazione dell’ambiente e il riferimento simbolico: la scena è fatta di cassette di plastica atte a contenere la verdura, con le quali gli attori stessi costruiscono e modificano l’immagine di Chicago e i vari luoghi tra i quali l’azione si svolge.

Una ricostruzione realistica si ritrova semmai nelle edizioni cinematografiche o televisive quali quella realizzata dalla BBC nel 1972[15], dove anzi gli ambienti venivano moltiplicati – le iniziali conversazioni degli uomini d’affari hanno luogo prima in un bagno turco, poi nella strada e poi in un ristorante, con l’apparizione di un poveraccio che contempla il pranzo dei ricchi. Altrimenti il riferimento all’epoca in cui l’azione dovrebbe svolgersi viene prevalentemente affidato all’adozione di costumi secondo la moda di quegli anni, recuperata prevalentemente attraverso il cinema: l’impermeabile stretto in vita di Humphrey Bogart, le ghette e il borsalino nero di George Raft, il doppiopetto gessato di Edward G. Robinson. Ma anche all’impiego di certi accessori, come le automobili d’epoca, usate per esempio da Savary, e che Miler burlescamente riduce a dei go-kart.

Peraltro un riferimento univoco all’ambiente dei gangster americani avrebbe in qualche modo oscurato il principio stesso dell’allegoria brechtiana che costantemente riconduce quell’ambiente agli eventi tedeschi che portarono Hitler al potere. È vero che già nelle indicazioni del testo tale intreccio è reso esplicito dall’uso dei cartelli, che in moltissimi casi furono sviluppati o sostituiti con brevi filmati d’epoca (la grande adunata di Norimberga, il trionfale ingresso di Hitler a Vienna). Addirittura, nella sua grande ripresa al Berliner Ensemble[16], Heiner Müller eliminò la scena del processo-farsa contro il disoccupato accusato di aver dato fuoco a un magazzino, sostituendola con una registrazione del vero processo intentato dai nazisti contro Marinus van der Lubbe, accusato dell’incendio del Reichstag. Come se in questo caso la realtà fosse talmente vergognosa da non permettere di essere rappresentata in termini teatrali, visivamente ridotti ad uno sfondo violentemente rosso, quasi un incendio totale o metafisico.

Ma è vero che l’impiego di cartelli, fotografie, filmati o quant’altro costituisce soltanto un’illustrazione didascalica del parallelismo gangster-nazisti, ragion per cui diversi interpreti hanno preferito integrare i costumi dei gangster con le divise naziste, come ha fatto Claudio Longhi, nel cui spettacolo i frac di ordinanza dei truster compaiono fin dall’inizio assieme alle divise naziste che alla fine predominano, mentre Savary si è limitato a far indossare ai gangster-gerarchi bracciali rossi con la svastica e a far piovere volantini simili durante l’ultimo discorso di Ui. Ma spesso, e soprattutto nelle interpretazioni più recenti, i costumi perdono ogni qualificazione cronologica oppure si riferiscono a mode giovanili contemporanee: nella regia polacca di Victor Kleman[17] Arturo Ui e i suoi gangster indossano T-shirt con stampato un viso che ricorda quello di Hitler su pantaloni neri, mentre le ragazze portano hot-pants. Naturalmente il costume del protagonista può avere un trattamento tutto particolare.

Per quanto fosse intesa a descrivere, analizzare e denunciare una complessa situazione economica politica e sociale, La resistibile ascesa di Arturo Ui rimane pur sempre, al tempo stesso, racconto di un percorso biografico, tant’è vero che nelle edizioni polacche si intitolava Karriere Artura Ui[18]. Ragion per cui la scelta dell’interprete diventa fondamentale per qualificare il personaggio anche dal punto di vista individuale o, potremmo dire, psicologico: Stanislavskij avrebbe forse cercato di ricostruirne la storia personale. Ma: del disoccupato del Bronx o di Adolf Hitler? Cercando magari di isolare episodi che potrebbero in qualche modo giustificarne i delitti (la storia è sempre giustificatrice, mai giustiziera – diceva Benedetto Croce), come quello immaginato da Giorgy Tabori nel dramma intitolato Mein Kampf, dove un vecchio ebreo cerca di consolare il giovane austriaco, pittore fallito e bocciato all’Accademia (Tabori, ricordiamo, tradusse in inglese il testo brechtiano e lo adattò anche per l’edizione tedesca di Heiner Müller).

Del resto il dramma di Brecht comincia proprio mostrando un Arturo Ui fallito e depresso, respinto dal Trust dei cavolfiori. Infatti, il primo interprete di Arturo Ui, Wolfgang Kieling, sembra fosse un giovane dai tratti sdolcinati, sostanzialmente triste e sognatore: somigliava un poco a Peter Lorre che ricordiamo come il malinconico assassino pedofilo del film di Fritz Lang M (Mörderer). Nessun trucco, neppure i baffetti lo facevano somigliare a Hitler. Quasi sempre sfinito e depresso, scoppiava a tratti in violente esplosioni che lo assimilavano a un cane rabbioso, ma, nel complesso, appariva non un capo, ma una marionetta manovrata dai veri uomini forti che gli suggerivano anche i discorsi.

Al contrario, Ekkehard Schall, rivelava anche nei momenti di abbattimento una straordinaria energia fisica, che lo portava a gesti scattanti, salti e saltelli, in una sorta di allucinante ginnastica. Dagli appunti di Wekwert sappiamo che nelle prime prove Schall aveva realizzato una notevole  somiglianza con Hitler nonostante la sua taglia più massiccia, ma che poi il regista gli aveva suggerito di puntare su una aperta e clownesca comicità, ispirata al chapliniano Grande dittatore[19], cui molti altri interpreti vorranno riferirsi. Si può anzi dire che fu proprio l’interpretazione di Schall a trascinare lo spettacolo in direzione di una travolgente commedia noire: una grande progressione già presente nell’immediato passare da una disperata depressione alla furia e poi all’oratoria nella scena 4. Nella scena a casa di Dogsborough, addirittura rotola fuori e conclude inginocchiandosi e strisciando quando chiede al vecchio di aiutarlo umanamente. Ancora nella scena 7 con la grande difficoltà di imparare portamento e dizione con inciampi, cadute, squilibri non molto chapliniani anche se ispirati da Charlot. Fino alle ridicole manifestazioni di paura all’arrivo di Giri con la signora Dullfeet e Flake che, ancora una volta trapassa in un altrettanto ridicolo eccesso di rabbia che lo porta a mordere il cappello (11). Ma nel discorso conclusivo, che riproponeva anche come esibizione solitaria, Schall recuperava la diretta evocazione di Hitler – e bisogna ricordare che Ui è bensì un pagliaccio, ma con il volto truccato geometricamente in modo da richiamare la morte.

Jean Vilar, invece, sarà ironico e impassibile, dal tratto aristocratico e tuttavia pensoso, ma anche sinuoso e avvolgente come una serpe (la metafora della serpe, ricordiamo, torna nelle prime battute dell’armatore Sheet e poi, nel finale, in quelle di Frau Dullfeet):il personaggio di Vilar era insomma sostanzialmente complesso e contraddittorio, ed evolveva, particolarmente grazie a una grande flessuosità della voce, che si faceva sempre più inumana e roca, verso la definitiva follia del discorso finale.

Il primo interprete italiano di Ui, nello spettacolo diretto da Gianfranco De Bosio per lo Stabile di Torino nel 1966, fu Franco Parenti, un attore sempre riconoscibile, che, in qualche modo, non sembrava mai recitare (un poco come Antonio Gandusio o lo stesso Eduardo che mantenevano i loro atteggiamenti quotidiani in tutti i loro personaggi), dalla struttura fisica piuttosto fragile; non somigliando affatto a Hitler, ne assumeva il ruolo, senza prendere mai toni eccessivi o demoniaci, semplicemente dipingendosi i baffetti, che poi cancellava (come indicato nella didascalia dell’epilogo nella traduzione di Tabori), quasi a mostrare che rimaneva sempre un piccolo gangster, il cui potere e il cui fascino non dipendevano da lui.

Altri attori cercheranno di sintetizzare diversi modelli: il ricorso al Charlie Chaplin di The great dictator è ricorrente, soprattutto nelle edizioni che spingevano nella direzione comico-grottesca. Talvolta sono citazioni episodiche, in altri casi si tratta invece di una scelta organica che induceva a scivolare in movenze danzanti. Oppure l’immagine di Charlot viene contaminata con quella di famosi interpreti di film gangster americani, come James Cagney o Edward G. Robinson, molto amati da Brecht: a detta delle cronache tale fu il caso di Ian Bartholomew nello spettacolo diretto da Walter Meierjohann a Liverpool nel 2011. Al contrario, la grande interpretazione di Al Pacino[20]  escludendo qualsiasi forzatura comica, riportava, con demoniaca violenza, alla figura di Scarface da lui costruita nell’omonimo film.

In molti casi l’ascesa di Arturo Ui, la sua “carriera”restando esplicito il parallelismo con la scalata di Hitler al potere, sia tramite i cartelli previsti nel testo brechtiano, sia attraverso la proiezione di diapositive e/o di filmati d’epoca – è stata rappresentata in primo luogo attraverso cambiamenti di costume. Dapprima vestiti poveramente, gli attori indossano poi toilettes sempre più eleganti e raffinate: nelle prime scene Pacino vestiva un giaccotto di pelle con collo di pelliccia, troppo grande per lui, su una maglietta bianca e calzonacci a quadri ed era, per di più, tutto spettinato – tutto connotava volgarità e miseria. Dalla regia di Heiner Müller al Berliner Ensemble (1996) in cui Martin Wuttke compare addirittura a petto nudo, e poi indossando solo una misera giacchetta, fino a quella di Claudio Longhi (Roma 2011), in cui Umberto Orsini indossa una maglietta intima grigia, molti finiranno con il comparire al funerale di Dullfeet vestiti addirittura in frac, in qualche caso attraverso diversi passaggi. La conquista del potere politico viene assimilata all’essere accolto nell’alta società, dove il potere consiste nella ricchezza esibita appunto prima di tutto nelle toilettes raffinate e costose (Thomas Mann definiva lo smoking come divisa della civiltà[21]). Del resto è lo stesso Ui a rivendicare, nella scena con Betty Dullfeet, il suo diritto a far parte del bel mondo, quando ricorda di non essere più il rozzo disoccupato che «non sa nemmeno scegliere la forchetta giusta per il dessert» – adesso è in grado di «sostenersi nel mondo dei grandi affari».

Tuttavia l’evoluzione del personaggio non consiste soltanto, e neppure in primo luogo, in questi simboli esteriori, che comunque hanno una loro importanza. Consiste essenzialmente nella conquista della capacità di farsi ascoltare, di persuadere, di essere autoritario e autorevole – in definitiva di comandare, con il fascino e il carisma oltre che con la violenza, perché «cumannari è megghiu ca’ futteri» come diceva un vecchio mafioso. Al centro del dramma c’è infatti la famosa scena settima, quella in cui Arturo Ui prende lezioni di recitazione e di portamento da un povero attore di provincia. Non si è mai appurato se l’episodio sia vero: nella leggenda l’attore si chiamava Basil, nel testo brechtiano si presenta come “il vecchio Mahonney”. Comunque, nessuna regia ha sottovalutato l’importanza di questa scena, anche perché, vero o leggendario che sia, l’episodio richiama un fatto storico: Napoleone prese lezioni di dizione dal più grande attore tragico dei suoi tempi, François-Joseph Talma. Anzi, pare che Peter Palitsch la abbia collocata all’inizio dello spettacolo, sottraendole così forse il suo valore di turning point, ma esaltandone al contempo il significato politico e sociale: il potere e la subordinazione, la libertà e la servitù non sono legate soltanto a effettivi rapporti di forza, ma anche alla capacità di persuadere e di sedurre (verführen, che vuol dire anche corrompere) da una parte, e alla disponibilità a lasciarsi affascinare da un Capo (leader, duce o Führer che lo si voglia chiamare) sentito come carismatico, dall’altra.

La scena settima è dunque centrale in quanto sancisce, o almeno inizia, la trasformazione di Arturo Ui in Hitler, ossia del piccolo malavitoso nel Führer, il grande capo politico, trascinatore di folle, al servizio, ma al tempo stesso alla guida, del grande capitale. Di fatto (anche se è difficile sapere se Brecht ne fosse cosciente) essa si riferisce a un episodio che lo stesso Hitler racconta in Mein Kampf: la riunione durante la quale egli si sarebbe reso conto di saper parlare in pubblico[22]. Dunque, trasporre questa scena all’inizio dello spettacolo implica anche che questa trasformazione era già avvenuta prima della definitiva scalata ai vertici del potere politico ed economico.

Ovviamente, le diverse interpretazioni comportano altresì diverse valutazioni su come sia avvenuta tale metamorfosi del malavitoso in uomo politico, ossia del politico in attore – Guy Bedos, principale interprete dell’edizione diretta da Jerome Savary, dichiarò che, a suo modo di vedere, Arturo Ui è lui stesso un attore che si investe del ruolo di malavitoso e poi di dittatore.

La figura dell’attore-maestro non è certo di secondaria importanza. La maggior parte degli interpreti, seguendo più da vicino la lettera del testo, ne fecero un guitto fallito, rimpannucciato e sostanzialmente ridevole, al quale tuttavia andava riconosciuta una certa coerenza nei principi artistici. Heiner Müller però affida il ruolo a un vero grande attore, anzi all’attore più famoso e celebrato della scena tedesca di fine Novecento, quel Bernhard Minetti, il cui nome, da solo, suscitava rispetto e ammirazione. Il personaggio dunque era riferibile piuttosto a Talma che al povero Basil-Mahonney. Minetti rimaneva seduto per tutto il tempo della sua “lezione”, quasi disinteressandosi ai goffi tentativi di Ui di trovare le pose giuste, concentrandosi sull’alta dignità del discorso di Antonio, quasi rifiutandosi di farsi veramente strumento di quella specie di animale che è ancora il malavitoso, il quale tuttavia assorbe proprio il valore del testo shakespeariano che oscuramente gli fa capire il senso della fascinazione. La critica della fascinazione, capace di trascinare come di corrompere, è infatti centrale nell’interpretazione di Müller – torna alla mente una battuta della lessinghiana Emilia Galotti, allorquando ella, nel quinto atto, sostiene davanti al padre che dalla violenza ci si può sempre difendere, ma non dalla seduzione: «Verführung ist die wahre Gewalt», dove Verführung vale (come detto) “seduzione” ma anche “corruzione”. Una prospettiva che in qualche modo ritorna nell’interpretazione di Tony Randall[23], il quale creò l’immagine di un «alcoholic thespian», capace però di un’auto-ironia che era al tempo stesso profondamente satirica nei confronti dell’aspirante attore-dittatore.

In molti casi, una funzione importante quasi quanto quella del vecchio attore è svolta da un accessorio, lo specchio (previsto dal testo) davanti al quale Ui dovrebbe provare le sue movenze. Ma si tratta di uno specchio vuoto – c’è solo la cornice – in cui il personaggio dapprima si contempla, per poi attraversarlo più o meno radicalmente trasformato. Si tratta di una soluzione adottata già nella prima edizione del Berliner, dove il vecchio attore, imponente nella sua elegante marsina, umilia il misero Ui, fino incapace di reggersi in piedi e soccombente anche nella lotta con il grande accessorio. La presenza dello specchio ritorna nelle edizioni immediatamente successive: quella di Jean Vilar, dove Ui vi si aggirava intorno – come per sedurre lo specchio delle sue brame – secondo uno schema coreografico ripetuto anche in altri passaggi, come la discussione con Dogsborough e che fa di Ui una sorta di serpente che avvolge la preda; oppure quella polacca di Erwin Axer, dove invece il piccolo Ui-Lomnicki si ammira tenendo in mano il foglio del suo copione. Ma è presente anche in spettacoli più recenti, come quello brasiliano del 1998, dove l’attore Alvaro Diniz, pesantemente truccato in modo da evocare la morte o il demonio (un poco come Ekkehard Schall, ma senza nessuna implicazione comica), attraversa e riattraversa lo specchio, senza che ciò comporti un reale mutamento nel suo stile aggressivo e violento.

In questo caso dunque, come in altri che non prevedono la presenza dello specchio, la lezione del vecchio attore conferma una violenza espressiva che sembra il modo stesso di essere del personaggio, fissando la gestualità in una misura più ritmata e schematica: nella già citata regia di Eduard Miler, il maestro appare autorevole e anche violento, fino a quando Ui non lo allontana con una spinta – ed è importante ricordare che il vecchio attore qui non è affatto vecchio, ma anzi segaligno atletico e nervoso, assomiglia un poco lui stesso a Hitler, di cui porta i baffetti, certamente di più del grosso interprete di Ui (Jernej Sugman).

In altre interpretazioni l’allievo (Ui che diventa Hitler) si dimostra impacciato e incerto nell’imitare i gesti del maestro, resi via via sempre più schematici angolosi e secchi, fino a diventare quelli tipici dell’oratoria hitleriana, così come la camminata diventa il passo dell’oca. In qualche caso però, come nel film TV diretto per la BBC da Jack Gold nel 1972 e interpretato da Nicol Williamson, l’allievo è concentrato e migliora la sua performance passo dopo passo, talché, quando alla fine recita l’orazione di Antonio con una dizione aspra e tesa, i suoi scherani e lo stesso Givola-Göbbels (che fino ad allora aveva criticato il vecchio attore) lo ascoltano rapiti con la bocca aperta. Addirittura, nella bella realizzazione albanese diretta da Piro Mani[24], mentre la gestica dell’attore si trasforma in quella di Hitler, il discorso di Antonio sfuma in quello del Führer nel film della grande adunata di Norimberga.

La soluzione in questo senso più radicale è forse quella proposta dalla regia di Claudio Longhi per l’interpretazione di Umberto Orsini, dove la figura del vecchio attore viene eliminata o, meglio, identificata con quella di Arturo Ui, il quale, dopo aver eseguito alcuni ridicoli passi, si rivolge al pubblico per recitare il monologo di Antonio senza enfasi, con voce tranquilla e suadente. Si tratta dunque di un bravo attore, moderno e verista, il quale però, come è nell’essenza del teatro, si identifica con il suo personaggio, che in verità ne sintetizza tre – Arturo Ui, Hitler e il shakespeariano Antonio. Da notare che nell’interpretazione di Orsini Ui diventa la figura più moderata e tranquilla, che solo a tratti si lascia andare a qualche azione caricaturale, come quando salta in braccio a Roma nel finale della scena 12, quasi una citazione dalla regia di Heiner Müller. Ma la sua violenza si era concentrata nello stupro con cui si apre lo spettacolo e in cui Ui porta una grottesca maschera da Hitler.

Al contrario, e per tornare a quelle interpretazioni che accentuano la dimensione caricaturale e grottesca, la trasformazione di Arturo Ui avviene con un eccesso di gesticolazione secca e artificiosa; o, ancora, in una serie di movimenti rigidamente controllati in una sorta di balletto grottesco – così Leonard Rossiter nella regia di Michael Blakemore per il Citizens’ Theatre di Glasgow nel 1967.

Vedremo come in alcuni casi Arturo Ui venga interpretato da donne, senza che questo comporti di farne un personaggio debole e fragile, come invece succede nello spettacolo di una scuola inglese[25], dove non Ui, ma il vecchio attore è interpretato da una giovane attrice la quale danza suadente attorno al timido malavitoso, che solo a stento e senza entusiasmo si lascia convincere ad assumere un atteggiamento oratorio ma comunque non energico, come se Hitler fosse stato costretto dalle circostanze, e contro il suo temperamento a farsi capopopolo.

Tutto questo però non esclude che – come chiaramente implica il testo – l’apprendistato attoriale di Ui-Hitler non sia anche un progetto razionale e una presa di coscienza: si veda il citato passo di Mein Kampf. Fatto, questo, tanto più significativo quanto più l’azione è ridicola e/o grottesca. Nella regia di Erwin Axer andata in scena a Varsavia nel 1962, Tadeusz Lomnicki, un atletico brevilineo, dapprima gesticola come un Arlecchino, ma poi si rende conto dell’importanza di ciò che sta imparando, e allora, come abbiamo visto, si ferma a contemplarsi ammirato nello specchio.

La domanda diventa allora ineludibile: come è stato possibile che questo buffone, questo pagliaccio da circo di terz’ordine – poiché tale oggi ci appare Hitler nei filmati delle sue arringhe – abbia potuto affascinare e trascinare tante masse di uomini, suscitare tanti entusiasmi, accendere tante passioni, o addirittura tanto amore, come di se stesso ebbe a dire Göbbels, che non era intellettualmente e culturalmente l’ultimo arrivato? Eppure non solo è stato possibile, ma la storia si è più volte ripetuta – basti pensa da una parte a Mussolini, ma dall’altra a personaggi come Ceausescu o al dittatore coreano Kim Yong Il, e continua a ripetersi ai nostri giorni e in casa nostra: Bossi e Berlusconi non sono intrattenitori meno volgari e assurdi.

In effetti, attori e registi italiani hanno colto fin dal 1994 il possibile parallelismo fra Arturo Ui-Hitler e Berlusconi, parallelismo che Eros Pagni rese esplicito nello spettacolo diretto da Marco Sciaccaluga per lo stabile di Genova nel 1994[26]. E non solo gli italiani: in una recente messa in scena tedesca[27] il riferimento a Berlusconi viene chiarito fin dal programma di sala. Non solo, ma il ruolo di Ui, nel contesto di uno spettacolo accesissimo nei colori e nella foggia dei costumi venne affidato a un’attrice, Xenia Snagowski, che era anche brava ballerina. Né si tratta di un caso isolato, che anzi si direbbe che il personaggio di Arturo Ui, abbia attratto diverse attrici – quasi come Amleto. Si è già fatto cenno al caso dello spettacolo di Jonathan Hostier, dove la piccola Gwendoline Henot faceva di Arturo Ui un personaggio a tratti danzante, con punte francamente comiche, come quando, nella discussione fra Roma Giri e Givola, balla mimando la doccia, ma più spesso grottesche, non foss’altro in quanto indossa una maschera porcina. Ma l’interpretazione femminile forse più conturbante è stata quella di Carine Montbertand all’University of Delaware: pur senza forzare i toni bassi o rauchi di una voce maschile, l’attrice costruisce l’immagine di un uomo tetro e pesante, all’inizio quasi idiota, infagottato nel doppiopetto a righe, che però, alla fine, dopo gli insegnamenti di un attore che richiama esplicitamente la figura del Mefistofele goethiano, diventa snello e brillante, in un lucente vestito bianco;  inoltre, negli intermezzi danzati e cantati che introducevano le singole scene, esibiva la sua femminilità. Sostanzialmente le attrici non mirano a disegnare un’ambiguità ermafroditica del personaggio, quanto piuttosto a rivelare l’inconsistenza di un’individualità pronta a qualsiasi metamorfosi che gli eventi possano suggerire.

C’è ancora da chiedersi fino a che punto Hitler si sia costruito con il solo aiuto del vecchio attore. Abbiamo già visto come nella regia di Peter Palitsch Ui apparisse  come una marionetta manovrata dai suoi compari, ma anche nello spettacolo di Heiner Müller Givola e le due guardie del corpo partecipano attivamente allo costruzione del nuovo personaggio di Ui. E nella regia di Claudio Longhi il personaggio di Givola-Göbbels diventa preponderante non solo perché l’attore Luca Micheletti, che aveva svolto anche la funzione di Dramaturg, interpreta ruoli diversi e canta la maggior parte dei numerosi song, ma anche perché lui stesso e gli altri gerarchi – Giri-Goering e Roma-Röhm – diventano il corpo di ballo del grande show nazional-socialista. Come succede anche nello spettacolo di Kleman: in generale potrebbe dirsi che gli spettacoli tendenti al musical velano alquanto il ruolo assolutamente centrale e preponderante di Ui-Hitler per accentuare quello complessivo della banda, mentre al contrario quanti sottolineano la violenta espressività del capo, in qualche misura esaltano piuttosto la serie dei suoi discorsi come assimilati alle arie del grande tenore, che nell’opera lirica scende al proscenio e si rivolge direttamente al pubblico.

La scena 11 rimanda allo scontro interno alla gerarchia nazista proprio per determinare i rapporti di forza e l’influenza sulle scelte del capo: Givola-Göbbels e Giri-Goering cercano di eliminare lo strapotere di Roma-Röhm, le cui violenze cominciavano a non essere più tollerate dal trust dei cavolfiori, cioè dagli Junker e dagli industriali perché impedivano l’acquisizione del mercato di Cicero (cioè dell’Austria). Nella realtà storica le cose andarono probabilmente  in maniera alquanto diversa: le SA di Röhm furono eliminate soprattutto perché oscuravano la presenza e il prestigio dell’esercito – della Wehrmacht. Ne uscì vincitore Heinrich Himmler che, come abbiamo visto, non compare nel dramma in quanto il precipuo interesse di Brecht era di evidenziare i rapporti tra i potentati economici e l’affermarsi politico di Hitler.

Comunque sia di ciò, in questa scena Arturo Ui cerca di pacificare i suoi accoliti richiamandoli al loro dovere di fidarsi esclusivamente nelle sue scelte: «ciò che vi chiedo – dice – è fiducia e ancora fiducia». Ma già nel verso successivo il concetto di “fiducia” (Vertraun) trapassa in quello di “fede” (Glaube): «Vi manca la fede!» esclama. E la parola “fede” ricorre per più di dieci volte nella parte finale del breve discorso.

Ancora una volta l’immediato parallelismo tra la violenza malavitosa e quella politica – ossia tra i gangster americani e i nazisti tedeschi – si allarga in una visione più ampia e universale: l’idea di fede sostanzia tutte le ideologie autoritarie, tutte le dittature – “Credere, obbedire, combattere” è stato il primo slogan del fascismo mussoliniano. Credere nei principi imposti e proclamati, ma anche e soprattutto credere nel capo. E infatti in questa tirata compare per la prima volta la parola “Führer”. Nella sua traduzione-adattamento utilizzata già nella prima rappresentazione americana dell’Arturo Ui[28] e poi frequentemente ripresa, Giorgy Tabori si rivolge ai tre accoliti inserendo  una nuova citazione del discorso di Antonio: «Friends, countrymen, brooklynites, lend me your faiths» (del resto Tabori si era concesso diverse altre burlesche citazioni shakespeariane, spesso velate come nella battuta dell’inquisitore O’Casey nella scena 6: «But, gentlemen, what’s in a name, I ask», ma talvolta esplicite del tipo, nella scena 4, «There is something rotten in the state of Illinois»), e addirittura un riferimento evangelico: «ye of little faith» – uomini di poca fede.

Piro Mani, nel suo spettacolo del 1971, ha mantenuto l’intera tirata di Ui, enfatizzando proprio le molte ripetizioni della parola “fede” (besim) e quasi trasformandola nel primo dei molti discorsi che punteggiano il testo, anche se, nel pronunciarla, l’attore cammina su e giù nervosamente, ma la violenza della dizione è già quella dei discorsi pubblici.

Invece, nel film di Jack Gold Arturo Ui tiene il suo discorso stringendo i tre compari in un affettuoso abbraccio, come se si trattasse di un problema privato tra vecchi amici, ciò che renderà più infame la successiva strage di San Valentino, rappresentata con il realismo che il cinema può dare più facilmente, ma senza quella dimensione epica che assumerà nella viscontiana Caduta degli dèi.

Nella regia di Claudio Longhi la predica di Ui ai suoi tre compari è ridotta a pochi versi, nei quali la parola “fede” non compare: Longhi e il suo Dramaturg tendono – come, abbiamo visto, in altri casi di spettacoli che si avvicinano alla dimensione del musical, ma già nella regia di Palitsch – a sciogliere la delittuosa responsabilità di Hitler in una responsabilità collettiva, che coinvolge non solo gli altri gerarchi, ma anche i truster, tant’è vero che tutti portano vestiti ugualmente neri, e tutti appariranno nel finale con divise naziste. Al contrario, nella regia di Heiner Müller, in cui è centrale la questione della seduzione-fascinazione, questo appello di Ui ai suoi compari assume un particolare rilievo: Ui, che sta assumendo sembianze più umane (all’inizio appariva come un cane rabbioso) assiste disteso sul letto alle minacce di Roma, fino a quando questi spara verso i rivali facendoli ballare comicamente. A quel punto però salta giù dal letto per pronunciare la tirata con grande enfasi, stando in ginocchio, perché la preghiera è rivolta in qualche modo anche a se stesso, che ha avuto fede nel suo destino di duce (Führer). La parola magica “fede” viene ripetuta con un ritmo sempre più serrato suscitando in lui un’emozione così forte da farlo svenire. Successivamente, allontanati con dolcezza Giri e Givola, Ui si rende conto che l’unico ad aver veramente accolto la sua esortazione è proprio Roma, perciò lo abbraccia, la bacia in bocca e gli salta in braccio come un bambino – una travolgente manifestazione di affetto, immediatamente negata dal successivo assassinio, dove Ui compare quasi in divisa.

Al momento della successiva “grande citazione”, quella goethiana (13), Arturo Ui è già seduto alla tavola dei magnati – come Roma aveva rinfacciato a Giri e Givola, dei quali nota anche le camicie di seta (11). Il tema non è più la conquista del potere a Chicago, ma il progetto di estendere il dominio a Cicero, prima tappa della conquista del mondo intero, retoricamente annunciato nel grande discorso finale, ma già previsto nella conclusione della scena 11, allorché Ui rimane solo con Roma. Piro Mani, nella sua edizione albanese, lo rese esplicito fin da questo momento con una citazione della chapliniana danza del mappamondo.

Questa seconda “grande citazione”, prima delle tre che si susseguono nella parte finale del dramma (13-15), è riferita alla scena del giardino di Marta nel Faust. Quasi tutti i registi la hanno realizzata, seguendo le indicazioni di Goethe, come un girotondo delle due coppie: Marta e Mephisto da una parte, Faust e Margherita dall’altra.

Nella rivisitazione brechtiana, l’idea del successivo apparire e scomparire delle coppie è esplicitamente mantenuta nelle didascalie, se non che l’identificazione delle coppie stesse è investita da un forte vento di ambiguità: a nessuno spettatore (o almeno a nessuno spettatore tedesco) potrebbe sfuggire il riferimento al Faust, ma in Brecht non è chiaro chi sia Mephisto e chi sia Faust e, per conseguenza, chi giochi la parte di Margherita e chi quella di Marta: Arturo Ui fa coppia con Betty Dullfeet, ma nelle sue battute non c’è traccia del romantico corteggiamento di Faust, mentre il grande seduttore è qui Givola-Göbbels, con la conseguenza che la vera vittima, sedotta e destinata a morire, è piuttosto Dullfeet-Dolfuss, identificabile allora con Margherita e quindi, nella lettura di Claudio Longhi, ucciso dagli effluvi dei fiori di Givola, gli intossicanti effetti della propaganda, ma anche, oggi possiamo dire, i veleni delle camere a gas.

Nello spettacolo di Heiner Müller invece, questa ambiguità viene in qualche modo sciolta, ma non nella direzione di un corteggiamento romantico quanto piuttosto nel senso di un’irrefrenabile voglia sessuale: Ui, ormai vestito in frac, e quindi già inserito nel gran mondo degli affari, vorrebbe possedere fisicamente Betty, ma ancora non può e deve quindi nascondere la sua erezione coprendosi l’inguine con il cappello a cilindro. Per converso, con una complessa ma fin troppo esplicita simbologia, Betty non desidera altro che essere violata, tanto da formare l’immagine di un pene arrotolando il suo lungo vestito bianco, quasi da sposa. Questo contraddittorio rapporto di desiderio-repulsione si chiarirà faticosamente nelle due ultime scene.

Con cronologica coerenza al previsto o (in Longhi e nel film di Jack Gold) esplicitamente rappresentato assassinio di Dullfeet (ossia del cancelliere austriaco Dolfuss) segue la scena dei suoi funerali (14), immaginati in molte realizzazioni in mezzo a grandi monumenti funebri come un solenne corteo di uomini in nero che recano grandi corone di fiori bianchi – nella regia di Wekwerth c’erano anche ombrelli aperti, una citazione dei funerali di Ofelia come realizzati nella famosa edizione di Amleto diretta da Tyrone Guthrie nel 1938, con Alec Guiness. La scena ripropone, in maniera altrettanto evidente ma in termini più letterali, quella pure famosissima in cui il duca di Glaucester seduce Lady Ann durante i funerali del marito che le ha appena ucciso: «A chi non torna in mente Riccardo terzo?» aveva detto il prologo. Qui, mentre Jean Vilar aveva accentuato piuttosto la dimensione suadente del raffinato seduttore, avvolgente come una serpe, Al Pacino, in un’interpretazione dove a tratti trasparivano i feroci gangster da lui impersonati nel cinema, in questo passaggio si calò pienamente nella figura del re shakespeariano, assumendone la diabolica maestà.

Nella regia di Ed. Peyrson Call[29] la seduzione di Betty Dullfeet-Frau Dolfuss-Lady Ann si traspone direttamente in uno stupro, che nella regia di Müller, quasi a conclusione degli accenni della scena precedente, Martin Wuttke consuma facendo distendere Betty direttamente sul corpo del marito. Uno stupro compare anche all’inizio dello spettacolo di Longhi, quasi un’anticipata sintesi degli eventi, dove però la donna stuprata non può essere immediatamente vista come personificazione dell’Austria (semmai della Germania o dell’Europa intera); in molte altre rappresentazioni esso viene consumato nelle diverse posizioni, più o meno compiaciute che può assumere: in una realizzazione turca[30] è lady Ann-Betty Dullfeet a cavalcare un misero e giovanissimo Ui: lo fa lanciando un urlo straziato al momento della penetrazione e continuando a gridare fino a quando l’uomo prende il sopravvento, pur senza rovesciarla.

Una soluzione non sostanzialmente diversa, anche se risolta in termini più fortemente simbolici, fu quella adottata dallo spettacolo brasiliano interpretato da Alvaro Diniz. Qui Betty, che era stata per tutta la scena decisa e a tratti veramente aggressiva, quasi impaurendo Ui, alla fine si lascia abbracciare e si abbandona al seduttore spalancando le braccia con il corpo abbandonato all’indietro come un uccello morente, lanciando anche lei un urlo straziante al momento della penetrazione, che però non avrebbe potuto realizzarsi perché, finito lo stupro, Ui esibisce un sesso che non c’è (si tratta di un coup de théâtre che troviamo anche nella regia di Müller). L’Austria è stata violentata o sedotta? Nell’edizione di Eduard Miler a Lubiana è la stessa Betty, vestita a lutto con sulla gonna uno spacco che lascia vedere le belle gambe, a gettarsi fra le braccia di Ui. Si sa, purtroppo, che l’Anschluss fu approvata dal voto del 98% degli austriaci e che Hitler fu accolto a Vienna da un’oceanica manifestazione di popolo – il film del trionfale ingresso di Hitler venne proiettato a conclusione del film di Jack Gold, mentre l’evento viene descritto dalla voce fuori campo del regista a conclusione dello spettacolo di Jonathan Hostier.

L’ultima delle tre “grandi citazioni” che compongono il nucleo compatto delle scene 13-15, in cui la prospettiva drammatica si allarga dall’intreccio gangster-nazismo alla dimensione universale della letteratura classica, ritorna al Julius Cesar shakespeariano cui apparteneva anche la citazione della scena 7: un’insistenza non casuale, ma fortemente ambigua. Si tratta, in questo caso, dell’apparizione a Bruto dello spettro di Cesare, ma la scena è decisamente rivoluzionata rispetto al testo di Shakespeare, non solo perché le brevi, minacciose parole di Cesare si allargano in un lungo e articolato discorso, in cui viene definita la morale del bandito, ma anche perché, mentre in Shakespeare Bruto affronta lo spettro con calma dignità, in Brecht Arturo Ui ne è terrorizzato.

La scena fu spesso espunta dagli spettacoli, su indicazione dello stesso Brecht. Mentre però nella prima assoluta di Stoccarda Peter Palitsch l’aveva mantenuta moltiplicando anzi gli spettri nelle molte vittime già seminate da Ui – l’armatore Sheet e il suo cassiere Bowl, il commerciante Hook e il povero accusato dell’incendio Fisch, in almeno un caso essa viene realizzata in termini magicamente pregnanti. Si tratta dello spettacolo  diretto da Wojtek Klemm per il Teatr Norwida di Jelenia Gora, di cui si è detto che gli attori vestivano secondo la moda giovanile di oggi. La scena della notte di San Valentino vi era rappresentata simbolicamente: Roma veniva spogliato e imbrattato di sangue, ma, al momento dell’apparizione dello spettro si alzava il sipario di ferro, che fino a quel momento aveva tenuto l’azione davanti al palcoscenico e Roma appariva al centro del palcoscenico illuminato dal fondo con una forte luce azzurrognola che lo dematerializzava, conferendogli con ciò una dignità shakespeariana – forse più vicina allo spettro di Banquo che a quello di Cesare – implicita, a ben vedere, nella ritualità sacrificale con cui era stato ucciso. In effetti, nonostante abbia poi suggerito di espungere questa scena, nel testo di Brecht – e più ancora nella traduzione di Tabori – è evidente un certo qual rispetto dell’autore verso questo personaggio, che ha almeno una sua morale, e sia pure quella del bandito – si ricordi Il padrino, dove il personaggio interpretato da Marlon Brando cerca di opporsi all’affare della droga. Lo stesso condizionato rispetto, per cui in qualche modo Roma si distingue dagli altri scherani di Ui, compare nello spettacolo di Müller, dove Roma appare su un fondo rosso non molto diverso da quello che aveva caratterizzato la scena del processo registrato. Ma contemporaneamente sul proscenio viene uccisa la popolana della scena 17, anch’essa espunta in molti altri casi.

Solo nell’intrepretazione di Longhi l’apparizione assumeva un aspetto decisamente grottesco: Roma appariva in alto su un’altalena, estrapolato da uno spot come in uno spettacolo di cabaret, agghindato in guepière e calze nere, vistosamente truccato, in una posa che ricordava la Lola-Lola di Marlene Dietrich. Così, l’omosessualità di Röhm veniva forse ingenerosamente messa in berlina, ma al contempo la sua tirata smentiva quella dimensione morale che aveva turbato Brecht.

Con il grande discorso finale ai negozianti di Chicago e di Cicero (16) si conclude il percorso di identificazione del gangster Arturo Ui con quello che potremmo definire il suo originale – Adolf Hitler. Le ultime parole di questo discorso, cioè l’elenco delle città americane da conquistare, ossia i paesi del mondo, dovevano costituire per Brecht la più terrificante e imminente delle minacce, confermate dall’assassinio della donna dell’ultima scena, peraltro spesso soppressa o trasposta, ma in altri casi trattata con il violento impatto che meritava: così in un’interpretazione di Marissa Skell, dove la donna si aggira terrorizzata in una scena meierholdiana prima di essere abbattuta con una raffica di mitra, mentre nell’edizione turca cadeva fulminata da un sol colpo.

Molti interpreti forzarono l’identificazione Ui-Hitler sul piano mimico, gestuale e vocale. Così già Ekkehard Schall, che, pur avendo sviluppato il personaggio in termini clowneschi e chapliniani, alla fine diceva la sua orazione da un altissimo palco con straordinaria energia, anche se con una gestualità dilatata e anche disordinata, ma ricorrendo ai gesti hitleriani dei pugni chiusi vicini alla faccia e arrochendo la voce (l’attore, come già detto, ne fece anche un cavallo di battaglia da recitare isolatamente). Così farà anche Al Pacino, violento e feroce, con alle spalle una grande immagine, come Orson Wells in Citizen Kane, ciò che trasponeva la minaccia nel potere della propaganda e dei media. Lo stesso Vilar, che fino allora aveva interpretato il personaggio mantenendo un volto impassibile, o a tratti ironico e addirittura pensoso, nel discorso finale saliva fino a una travolgente isteria.

Altri interpreti scelsero una sorta di understatement, come Franco Parenti che mantenne il suo parlare quasi quotidiano e vagamente ritmato; oppure come Tom Vaugham Lawlor nell’edizione di Jimmy Fay (Dublino, Abbey Theatre, 2008), che parlava tranquillo, quasi a bassa voce, riferendosi solo a tratti e per brevi accenni alla mimica hitleriana, più argomentando logicamente che trascinando retoricamente – tutte le argomentazioni possono essere giuste in rapporto ai principi da cui muovono. Comunque però questa interpretazione terminava con il saluto nazista, e il discorso si concludeva nella raffica di mitra che uccideva la donna dell’ultima scena.

In qualche misura separare il discorso finale di Ui dall’isteria hitleriana comportava allargare la minaccia, che non ha bisogno di esprimersi in termini violenti – il mostro può apparire mite, ma non per questo è meno terribile.

Ho già accennato al fatto che molti interpreti – forse la maggior parte – vollero rendere immediatamente evidente l’identificazione di Hitler nella figura del gangster Ui attraverso i tratti della fisionomia. Ma in diversa misura: qualcuno, ricorrendo a un trucco pesante e al gioco mimico, creava una somiglianza che poteva approfondirsi nel corso dello spettacolo, anche perché via via sempre più confermata dalla gestica, come aveva fatto Ekkehard Schall fin dall’edizione berlinese del 1959 e come farà, molti anni dopo, Ian Bartholomew, pur ricorrendo a citazioni chapliniane. Martin Wuttke, che era stato splendido interprete del personaggio del Führer (sia pure in brevi sequenze) nel film di Quentin Tarantino Bastardi senza gloria, nella regia di Heiner Müller non arrivava mai ad una evidente somiglianza quasi soltanto citandola attraverso la pettinatura a frangia. Come tanti altri interpreti, anche Martin Wuttke disegna un preciso percorso, che però non si muove dal piccolo gangster al capo partito, né dal ridicolo al serio, ma dal bestiale all’umano: il cane rabbioso del prologo si trasforma nell’uomo in frac delle ultime scene, con pochi e non sottolineati passaggi, ma questa umanità non si rivela migliore della bestia, è solo più ferocemente cinica, visto che riesce a stuprare la vedova sul cadavere del marito, dal quale poi si fa salutare alzandogli il braccio nel saluto nazista. In alcuni casi si fece ricorso a una maschera fortemente caricaturale quanto immediatamente riconoscibile, maschera che poteva comparire solo nelle scene più violente – nella regia di Longhi, ad esempio, in quella dello stupro iniziale.

Altri però preferirono limitarsi ai pochi tratti tanto caratteristici quanto esteriori, quali i classici baffetti e la pettinatura con frangia, alla quale soltanto fecero ricorso Jean Vilar (che a Hitler non poteva somigliare neanche da lontano) e Martin Wuttke, mentre Franco Parenti i baffetti se li dipingeva platealmente, per poi cancellarli di nuovo. In almeno un caso (a mia conoscenza), quello dello spettacolo di Hostier, tutti gli attori portavano maschere animalesche e Hitler quella di maiale, mentre Alvaro Diniz  ne aveva trasformato l’immagine in quella di un macabro e allucinante fantasma dipingendosi il volto a strisce bianche e nere – il suo Ui del resto non cambiava mai né aspetto né vestito, al contrario di quanto fece Carine Montbertand, la quale peraltro puntava molto, almeno nella prima parte della sua interpretazione, sull’accentuazione della volgarità del personaggio. Alcuni attori intesero identificare Arturo Ui con Hitler trascurando la somiglianza fisionomica per farne una sorta di incarnazione della violenza, sentita come sopraffazione e disumanità: Guy Bedos imposta tutta la sua interpretazione sulla prevalente cifra stilistica dell’urlo arrochito e dei gesti animalescamente feroci, coerentemente del resto con l’idea registica di Savary, il quale, da una parte, illumina lo sfondo della scena in blu e rosso, come in un incendio lontano e, dall’altra, fa entrare in scena Ui da una botola fumante aperta nel pavimento, vale a dire dagli inferi – seguendo in ciò un’indicazione del testo: “viene fuori da un buco profondo”). Un attore massiccio e dal viso tondo come Jernej Sugman, nella più volte citata regia di Eduard Miler, accentua via via la violenza del suo gestire e della sua voce a partire soprattutto dalla lezione dell’attore, che gli insegna proprio la violenza e l’eccesso dell’espressione, che si preciseranno sempre di più integrandosi con la tipologia della gestica di Hitler, raggiungendo il culmine nel finale, quando, abbandonato il  pacchiano gessato a righe per un elegante frac, Ui pronuncia il suo discorso da un alto edificio, che nella regia di Savary era un vero grattacielo, minaccioso esso stesso: l’ascesa di Hitler, il suo Aufstieg va dagli inferi alle vette del potere – un paradiso infernale, come sottolineano le luci sempre più rossastre.

Ma a questo punto può valere la pena di ritornare, magari riprendendo temi già toccati, sulle due più famose interpretazioni del personaggio di Arturo Ui: quella di Martin Wuttke con la regia di Heiner Müller e quella di Al Pacino nello spettacolo diretto da Simon McBurney.

Al Pacino aveva già affrontato il personaggio a Boston nel 1975[31], ma di questa interpretazione so troppo poco. Comunque nel 2002 – nel contesto di uno spettacolo molto complesso che contemplava oltre a molte proiezioni di filmati d’epoca, anche una ricca colonna sonora (da Shostakovich a passaggi rock e a fischi penetranti), pur essendo quasi militarmente regolato sotto il profilo coreografico – Al Pacino intese soprattutto descrivere la trasformazione di Arturo Ui, avvalendosi non solo e non tanto dei diversi abbigliamenti, pure significativi: nella centrale scena settima, Ui indossa ancora pantaloni a quadri e canottiera, faticando molto a recepire gli insegnamenti del vecchio attore, ma finalmente trasformando la sua camminata nel passo dell’oca. Subito dopo però, già nella predica ai tre accoliti, la traduzione di Tabori, prevedeva l’inserimento di un’ulteriore citazione da Julius Cesar: «Friends, countrymen and brooklynites» che riecheggiava il shakespeariano «Friends, roman, countrymen», a definitiva conferma della trasformazione del rozzo, perfino scimmiesco e mezzo drogato piccolo delinquente delle prime scene in una figura shakespeariana, che alla fine si precisa nella diabolica, ma regale figura di Riccardo III – assoluta personificazione del male, tanto più che il re shakespariano viene rievocato senza utilizzare gli accessori della regalità. In sostanza Al Pacino riuscì a fondere in questa le sue interpretazioni di gangster con quelle appunto shakespeariane (aveva interpretato Riccardo III già nel 1972 per poi riprenderlo diverse volte, ma aveva interpretato anche Otello, Amleto e proprio Antonio nel Giulio Cesare), senza per questo escludere diretti riferimenti all’immagine di Hitler, che anzi, prima del discorso conclusivo, Ui si era arrangiato i baffi alle dimensioni di quelli del Führer, la cui figura appariva nel grande schermo alle sue spalle – una citazione del Citizen Kane di Orson Wells che inseriva il tema del potere dei media in quello dell’affermazione di un dittatore. Ma alla fine, come già avevano fatto Franco Parenti e altri attori, Al Pacino si toglie i baffetti hitleriani, uscendo così dal personaggio per rivolgersi al pubblico invitandolo ad «agire anziché parlare» – definitiva esplicitazione del valore politicamente attuale del dramma, su cui dovremo tornare.

Dunque, nell’interpretazione di McBurney-Pacino, Ui è all’inizio solo un piccolo e misero malavitoso nel quale è possibile scorgere qualcosa di animalesco, di “scimmiesco”, mentre in quella di Müller-Wuttke tale ferinità è icasticamente e simbolicamente rappresentata, nel contesto di uno spettacolo fitto di simboli che, proprio per questo, può permettersi (caso unico) di eliminare l’uso di cartelli o proiezioni che chiariscano il parallelismo tra l’ascesa di Ui e quella di Hitler. Fortemente simbolico è già l’impianto scenografico: al centro della scena di quinte nere è collocata una grossa macchina che produce fumo, sopra la quale, nel prologo, appare un asino bianco e alato, ironica citazione di Pegaso sul monte Elicona, la sede delle Muse, ma qui non è il caso di pensare alla poesia. Ma, per contrasto, il tessuto musicale sostituisce i song con romanze da opere di Verdi e di Wagner, la prima delle quali cantata da una elegante soprano che poi trascorre nel personaggio di Dockdaisy, che sarà anche la finta vedova di Bowl, l’artificiosità del cui pianto è tanto forzata ed evidente da non richiedere accentuazioni comiche o grottesche. I truster indossano un inappuntabile completo grigio e sembrano talmente lontani dal mondo sotterraneo di Ui (c’è anche qui una botola, ma che serve da rifugio, mentre a tratti si sente forte il rumore di una metropolitana) da rifiutare di stringergli la mano quando egli entra nella sala dell’inchiesta (8). Ma alla fine sarà Ui a rifiutare la mano tesagli da Flake, costretto, come il morto Dullfeet ad alzarla nel saluto nazista. Ma la colpa non è per questo meno globale e condivisa: il finale vede in scena tutti i personaggi, di cui il prologante richiama il ruolo, facendo ripetere le battute più rilevanti. Davanti a questa folla di personaggi Ui si inginocchia per recitare al pubblico il suo ultimo discorso, tranquillo e quasi religiosamente concentrato.

Per quanto riguarda gli altri principali membri della banda di Arturo Ui (Givola, Giri e Roma) che l’annunciatore presenta ad uno ad uno, chiarendone il referente storico, non c’è praticamente mai alcun tentativo di richiamare l’aspetto fisico dei loro modelli tedeschi (Göbbels, Goering, Röhm). In qualche caso per interpretare il ruolo di Giri venne scelto un attore grande e grosso che indossava una vistosa pelliccia. Givola richiama esplicitamente Göbbels, ma soprattutto in forza del suo vistoso zoppicare di cui Luca Micheletti (tanto handsome and tall  quanto Göbbels era piccolo e brutto) fece un virtuosismo acrobatico e danzante che lo poneva al centro dell’azione – e in fin dei conti è vero che Göbbels, in quanto ministro della propaganda, fu il principale artefice del trionfo di Hitler. Tutto ciò comporta che i tre gerarchi vengono ridotti alla pura dimensione di gangster, di banditi o, piuttosto, di assassini. Soprattutto quando, almeno dal punto di vista costumistico e scenografico, lo spettacolo propone riferimenti “realistici”: in tal caso i tre sono vestiti alla moda americana degli anni Trenta, ossia alla moda dei film di gangster di quel periodo, o ad esso riferiti. E vale la pena di ricordare ancora una volta che nella regia di De Bosio la scena della sala-corse (scena 4, durante la quale Ui riceve la notizia della cessione a Dogsbourough della società amatoriale di Sheet) viene trasferita in un negozio di barbiere (Piro Mani, invece la ambientava in un luna park), proprio perché nei film americani spesso gli incontri dei mafiosi o i loro delitti avvengono dal barbiere – si ricordi la buffonesca citazione di questo fatto nel Johnny Stecchino di Benigni. E tale esplicito riferimento alla mafia italiana (presente nel testo con la citazione di Al Capone, viene accentuato nella traduzione di Tabori dall’inserimento di diverse parole italiane: “Mamma mia”, oppure “basta” – ma su questa splendida traduzione che intreccia in un formidabile organismo citazioni shakespeariane e le volgarità più spinte bisognerebbe dedicare un capitolo a parte).

Il riferimento al cinema è in sé significativo perché una simile realtà, in quanto cinematografica, potrebbe assumere un’aura mitologica o favolosa, insomma paradossalmente non vera. Ma invece vera lo è, anzi è, per così dire, incredibilmente vera e quindi presente. Ma è significativo anche in quanto la moda condivisa, pur nelle ovvie differenze di stile e di eleganza, finisce per identificare i gangster e gli uomini d’affari, tutti ugualmente responsabili – come diventa icasticamente evidente nella scena del grande processo-farsa, da Heiner Müller sentito come talmente offensivo da non essere teatrabile: lo sostituì con una registrazione del vero processo. Nel film di Jack Gold il presidente del tribunale ride a gola spiegata per le battute di Giri.

Ma anche messe in scena che non pretendono a tali riferimenti realistici, hanno spesso identificato truster e gangster, vestendoli dello stesso colore. Così Claudio Longhi, che peraltro si è preoccupato di tenere distinte le figure in qualche modo positive, come l’armatore Sheet, l’inquirente O’ Casey o l’avvocato difensore di Fish. Più articolata la scelta di Heiner Müller che mantenne l’eleganza degli uomini del trust, dipingendo invece la faccia dei negozianti di un color verde-marcio: il colore della verdura, ma andata a male. In più essi siedono fra il pubblico, in prima fila, quando Ui rivolge loro il suo primo discorso – succubi e passivi come tutti sono stati e tutti siamo ancora: spettatori.

Un caso a parte è costituito da Dogsborough-Hindemburg. Nella regia di Longhi egli è riconoscibile per i grandi baffi e i favoriti con cui appare nelle vecchie immagini, cui però si aggiunge l’elmo chiodato da generale della prima guerra mondiale. Ciò non gli impedisce da un lato di venire impietosamente smerdato nella sua villa, e dall’altro di presiedere con ignobile violenza il processo-farsa. In uno spettacolo argentino egli indossa invece un costume tirolese[32].

Ancora. nella messinscena della scuola di Solihull egli è addirittura un vecchietto malato e zoppicante. Mentre in quella polacca di Kleman (ma anche, più episodicamente, in quella di Müller), Dogsborough diventa un invalido in sedia a rotelle che viene sbatacchiato da una parte all’altra senza alcun rispetto: più che un complice un bamboccio nelle mani dei banditi. Infine, in altri casi si tratta di un bel vecchio, nobile e dignitoso: come possono la corruzione e il delitto avere quella faccia? – lo dice lo stesso Ui durante la scena dell’inchiesta. Infatti, solo quando il personaggio assume simili connotati, le regie conservano la scena decima, in cui Dogsborouh, pentito, si appresta a scrivere il suo testamento – il personaggio viene così interpretato piuttosto come una vittima che come complice.

L’ultima edizione inglese di The resistibile rise of Arturo Ui è andata in scena al festival di Chichester, con la regia di Jonathan Church, nel giugno del 2012. Ma in questi ultimissimi anni il dramma è stato sovente rappresentato, in America come in Europa, anche in ambito universitario o addirittura scolastico e perfino da compagnie del teatro per ragazzi. Si tratta anzi certamente del testo brechtiano in assoluto più rappresentato nel nuovo secolo, segnando un certo qual risveglio dell’interesse per la drammaturgia di Brecht che, come è ben noto, era stata quasi messa in disparte a partire dai primi anni Ottanta del Novecento.

Ma perché proprio Arturo Ui? Ci sono certamente dei motivi formali, legati alla struttura complessa ma leggibile dell’opera, alla decisa e pure ambigua caratterizzazione dei personaggi, allo stile che alterna i registri alti a quelli quotidiani e volgari, come ho cercato di segnalare in apertura. Tuttavia c’è da chiedersi perché soltanto adesso ci si sia accorti di questa ricchezza, rivedendo un giudizio critico finora, a dire poco, riduttivo – in un’intervista, Jerome Savary sostenne che La résistible ascénsion è il testo brechtiano più bello e più vicino a Shakespeare. L’interesse storico per il fenomeno nazista non è certamente mai venuto meno, né era possibile data la macroscopica atrocità dell’evento e anche la sua spettacolarità. Ma esso era in gran parte legato alla shoà, all’esigenza di non dimenticare fino a qual punto sia potuta arrivare la disumana follia degli uomini. Ma nell’Arturo Ui non si tratta di questo: per tornare su quel tema si dovrebbe semmai ricorrere a Terrore e miseria del terzo Reich oppure alla a mio giudizio maldestra esegesi del razzismo di Teste tonde e teste a punta.

Quale che sia l’impostazione generale che viene data ai diversi spettacoli – tanto cabarettistica e farsesca tendente al musical o al balletto, quanto cupamente realistica o ferocemente simbolica (uno spettacolo universitario[33] vede ammassare sul palcoscenico tre cadaveri sui quali viene versata benzina, quasi a ricordare il rogo dei cadaveri di Hitler e di Eva Braun in una sorta di anticipato contrappasso) quasi tutti si concludono sviluppando la minaccia contenuta nei brevi versi dell’epilogo, che talvolta si sviluppa in una sorta di chiamata a correo, implicita, come quando viene proiettato il film del trionfale ingresso di Hitler a Vienna, o esplicita, come quando gli attori in divisa nazista si schierano sul proscenio puntando il dito contro il pubblico: le colpe possono essere individuali, ma le responsabilità sono quasi sempre collettive.

Non si può certo trascurare il fatto che molte interpretazioni hanno inteso riportare il testo all’attualità politica, a partire dall’identificazione Ui-Berlusconi operata da Sciaccaluga-Pagni a Genova come da Greb-Snagowski a Bochum. Altre realizzazioni istituiscono riferimenti diversi, più o meno attuali, più o meno definiti: Eduard Miler apre lo spettacolo con un incontro di boxe fra un pugile americano e uno russo, quasi a riportare il pericolo hitleriano a quello della guerra fredda; similmente, in uno spettacolo realizzato dal teatro di una minuscola cittadina anseatica nel 2006[34] viene introdotta una grande testa di Stalin, sulla quale Ui siederà pensoso quasi a trarne ispirazione – è noto che Hitler ammirava Stalin come ammirava Mussolini, non tanto per la loro politica, quanto come incarnazioni del Führerprinzip.

Ma l’esempio più eclatante è certamente offerto dalla messinscena di Simon McBurney, rappresentata in un teatro vicino al ground zero in occasione del primo anniversario dell’attentato alle torri gemelle. Ciò sembrerebbe indicare che il nuovo devastante pericolo per la civiltà occidentale e la democrazia è costituito dall’integralismo islamico.

Per questo spettacolo fu adottata la traduzione di Giorgy Tabori. Questa traduzione, più volte citata, teneva la scena negli Stati Uniti, come in Inghilterra, fin dal 1963 per la regia di Toni Richardson. In verità non fu allora bene accolta dalla critica, soprattutto a causa delle sue numerose e più o meno esplicite citazioni shakespeariane, definite persiflage, impropria canzonatura nei confronti del Bardo. Ma poi fu riconosciuta come una traduzione forte e coraggiosa (bold), soprattutto in quanto mescolava queste ironiche citazioni da testi nobili con un’intensa sottolineatura degli spunti volgari presenti nel testo brechtiano che finivano con il qualificare i personaggi dei gangster, cui Tabori non mancava di attribuire espressioni slang o in italiano. D’altra parte inserisce alcuni song, cui Brecht aveva solo accennato, ma soprattutto attribuisce ai gangster idee e idiosincrasie proprie della destra americana, di quel Grand Old Party di cui Dogsborough-Hindemburg sarebbe il “boss”: degrada le istituzioni trasformando i “city fathers” in “city dads”, definisce disfattisti e sovversivi gli ebrei e, in generale, gli stranieri, mentre l’azione di Ui tende a restaurare “law and order”. Nel 1963 la caccia alle streghe di McCarty era già finita, ma il minaccioso ricordo era ancora ben vivo. In quell’anno fu ucciso Kennedy.

Tuttavia McBurney volle inserire altre e diverse suggestioni, ad esempio proiettando sul proscenio brani della costituzione americana durante la scena del processo della vergogna, osando così istituire un parallelo tra Hitler e la politica del presidente Bush (e a questo proposito mi torna alla mente un bel film di Robert Redford, L’agguato, in cui una madre, ingiustamente accusata di aver complottato nell’assassinio del presidente Lincoln, viene condannata a morte in spregio alle più elementari norme di civiltà giuridica – e siamo alle origini della democrazia americana). Di più, inseriva nei film che mostravano l’ascesa di Hitler al potere sottotitoli che ricordavano le sue promesse di dare alla nazione più sicurezza contro il terrorismo. Alla fine, come detto, Al Pacino rivolgeva al pubblico le parole dell’epilogo, il cui ultimo verso suonava molto più forte e violento che nel testo tedesco: «Der Schoss ist fruchtbar noch, aus dem er krorch» (il grembo da cui è uscito è ancora fecondo) diventa «The bitch that bore him is heat again» (la puttana – la strega – che lo ha partorito è di nuovo in calore). Si tratta di una prospettiva ambigua e contraddittoria? Forse no: i pericoli sono molteplici e la reazione a una violenza può portare a esiti altrettanto e più distruttivi della violenza stessa.

C’è, ai nostri giorni, un diffuso disagio, spesso risolto buttandosi in braccio a una supposta fede o a un uomo della provvidenza, ma che talvolta consiste nell’oscura percezione che il destino degli uomini sia nelle mani di forze veramente incontrollabili: la globalizzazione, l’anonimo potere della finanza e dei mercati, della borsa, che fu quasi protagonista ascosa di Santa Giovanna dei Macelli, delle multinazionali di cui non si conoscono i proprietari, il rincorrersi delle crisi economiche – non per niente chi legga le prime scene dell’Arturo Ui potrebbe credere che vi si parli della crisi del 2008-12 piuttosto che di quella del 1929-36, da tutti gli osservatori ritenute molto simili nelle modalità (mancanza di credito, crollo dei consumi di fronte a spettacolari arricchimenti), se non proprio nelle dimensioni. La paura insomma che l’ascesa di un metafisico Arturo Ui sia oramai veramente irresistibile – unaufhaltsame. Tanto è vero che una recente rappresentazione messicana si intitolava La irresistible ascensión de Arturo Ui[35].



[1] In B. Brecht, Teatro, vol. III, Torino, Einaudi 1974.

[2] W. Benjamin, Versuche über Brecht, Frankfurt/M, Suhrkamp Verlag 1978.

[3] B. Brecht, Notizen (conversazione con Lothar Kusche), in Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui, Berlin, Suhrkap Verlag 1965.

[4] B. Brecht, Bemerkungen, Ivi

[5] Arturo Ui, New York, Lunt-Fontanne Theatre, regia Tony Richardson, con Christophe Plummer.

[6] Si veda: Philippe Invernel, Quatre mises en scène d’ “Arturo Ui”, in Denis Bablet (ed), Les voies de la création théâtrale, III, CNRS, Paris 1980.

[7] Théâtre de Chaillot, 1993.

[8] Ustavljivi Vzpon Artura Uia, Lubiana, 2012, per la regia di Eduard Miler.

[9] Der Aufhaltsame Austieg des Arturo Ui, Theater der Stiftschule Einsiedeln, 2010, regia di Oscar Sales Bingisser.

[10] B. Brecht, Notizen, cit.

[11] A resistìvel ascensado de Arturo Ui, 1998, interprete Alvaro Diniz.

[12] The resistibile rise of Arturo Ui. A gangster spectacle. University of Delaware, Resident Ensemble. 2010.

[13] The resistibile rise of Arturo Ui. Regia Walter Meierjohann, Liverpool Playhouse.

[14] La résistible ascension de Arturo Ui, Compagnie Tout en masques, regia Jonatan Hostier, Rosny-sous-bois, 2011.

[15] The gangster show. The resistible ascent of Arturo Ui, regia di Jack Gold, con Nicol Williamson e Sam Wanamaker.

[16] Der Aufhaltsame Austieg des Arturo Ui, Theater Am Schiffbauerdamm, 1995, regia Heiner Müller, interpreti Martin Wuttke, Bernhard Minetti. Adattamento Giorgy Tabori.

[17] Karriere Artura Ui, Teatr Norwida Jelenia Gore, 2007.

[18]  Così nell’edizione diretta da Erwin Axer a Varsavia nel 1962 e in quella di Victor Kleman per il Teatr Norwida Jelenia Gore, del 2007.

[19] Manfred Wekwerth, Schriften. Arbeit mit Brecht, Berlin, Henschel Verlag 1973.

[20] The resistible rise of Arturo Ui, regia Simon McBurney, Michael Schimmel Center for the arts at Pace University, 2002.

[21] «Der weltgültige Abendzug, eine Uniform der Gesittung», Der Tod in Venedig, Fische Verlag 2007, p. 49.

[22]Verificai così ciò che fin allora avevo presentito nel mio cuore, senza saperlo chiaramente: sapevo parlare”. Mein Kampf, cap. VIII.

[23] The resistable rise of Arturo Ui, National Actors’ Theatre, New York, 2002, regia di Simon Mc Burney. Anche Rendall, fondatore del National Actors’ Theatre, era attore di grande prestigio.

[24] Con la Trupa e teatrit popullor, 1971. Registrata per la TV.

[25] Si tratta del saggio finale, 2010, della scuola di recitazione del Solihull College, nel quale, certamente per motivi pratici, la maggior parte degli interpreti sono ragazze, ad esempio i truster.

[26] Eros Pagni aveva già sostenuto il ruolo nel 1983 per la regia di Giancarlo Sepe, ma non sono in grado di verificare le differenze.

[27] Ui!, Bochum Schauspielhaus, 2011, regia Ulrich Greb.

[28] The resistibile rise of Arturo Ui, New York, Lent Fontanne Theatre, 1963, regia di Tony Richardson.

[29] New York, Billy Rose Theatre, 1968.

[30] Arturo Ui'nin Önlenebilir Yükselisi Bornova City Theatre 2011.

[31] The resistibile rise of Arturo Ui, regia di David Wheeler, Charle Playhouse, Boston.

[32] La Resistible Ascensión de Arturo Ui, Buenos Aires, 2005, drammaturgia e regia di Robert Sturua.

[33] Exeter University Theatre Company, Northcott Theatre, 2012.

[34] Vorpommersche Landesbühne, Anklam, regia Jürgen Kern.

[35] Teatro Universitario Esvón Gamaliel, Universidad Autonoma de Mexico, regia Oscar Alan de la Cruz, 2010.


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