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Anna Barsotti

Modena e Alfieri: un corpo a corpo modernizz-attore (con un approfondimento nel Saul)

Data di pubblicazione su web 23/03/2012
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Pubblichiamo di seguito la versione integrale del contributo di Anna Barsotti al Convegno a cura di Armando Petrini, "Ripensare Gustavo Modena, attore e capocomico, riformatore del teatro fra arte e politica" (23-25 novembre 2011, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione - Dams), di prossima pubblicazione negli Atti in una versione meno estesa.

 

I. Epistolario e ambivalente attraversamento d'Alfieri

La prima sezione di questo studio introduce il rapporto di attrazione e distacco da parte di Modena nei confronti di Alfieri; attrazione anche obbligata, dal momento che le tragedie dell’Astigiano fanno parte del repertorio dei teatri pubblici e privati dall’ultimo scorcio del Settecento alla prima metà (almeno) dell’Ottocento. Di fatto Gustavo fin dall’apprendistato e dagli esordi si confronta con le tragedie di Alfieri, prima nelle parti di attor giovane, poi in quelle di protagonista (oltre a Saul, Oreste, Polinice, Filippo e la “tragedia della libertà” Virginia). Alle sue interpretazioni è legata la fama di Alfieri come padre della patria e come autore libertario; e dai contemporanei il teatro di Modena è percepito perfino sulla scorta di quello alfieriano[1]. D’altra parte, egli sottoponeva gli aspiranti attori, all’epoca della sua “compagnia dei putei”, alla prova del «racconto di Egisto a Polifonte» nella Merope di Alfieri, per monitorarne l’«attitudine alla Tragedia»[2]. E nel Primo discorso all’assemblea costituente toscana aveva pur riconosciuto la preparazione della «vera resurrezione dell’Italia. Non solo l’effettuazione dell’idea dei nostri sommi genii, di Dante, di Alfieri», ma «la rivendicazione di quell’Italia una»[3].

Eppure il distacco, come nei confronti di una tradizione tragica italiana che gli sembra uniformata e bloccata (e sul piano drammaturgico e su quello recitativo) proprio dall’Astigiano, si può riscontrare nell’Epistolario a partire dagli anni Trenta, in un crescendo di disaffezione che culmina nella lettera a Ippolito d’Aste del 1852, dove però salva Saul paragonato a un «miracolo»[4]. Elenchiamo queste lettere in ordine cronologico, con qualche cenno di commento.

Fin da una lettera del ’33 che risale ancora agli anni dell’esilio, proponendo una sua traduzione della scena d’una tragedia di Delavigne (l’autore del Luigi XI), espone la sua “profana” concezione d’uno «stile della Mandragora portato […] nei sacri sublimi concetti di Melpomene», in distonia con «un italiano avvezzo a tener Alfieri per unico tipo di tragedia» e con «il nostro linguaggio convenzionale sui trampoli»[5]. Espressione che ritorna nella lettera a Zonobi Bicchierai del giugno 1841, riferita ancora ad Alfieri, il quale avrebbe «inchiodata e ribadita» nelle teste italiane [la] falsa massima del tipo unico di recitazione tragica», ma dove già salva Saul, per cui l’autore «tradì sé, ed io paio tradir lui, che [appunto] voleva che i recitanti fossero fantasime sui trampoli». Con Saul salva Polinice, condannando per la prima volta il «carattere freddo» del Filippo[6]. D’altra parte, in una lettera ufficiale di poco precedente, a S. E. Presidente del Buon Consiglio di Firenze, intesa a sdoganare la Virginia, la definisce «un bel dramma», affermando anzi: «Alfieri ha tirato gloria dall’ira, come Dante»; l’epistola, ambigua perché sottilmente ironica nei confronti del destinatario, a cui chiede di restituirgli il «giocherello», contiene la nota definizione: «quelle grandi bubbole che si chiaman tragedie: le quali sono poi farse gonfiate, messe sui trampoli; celie vestite di paroloni, ma sempre celie… come la vita; che le si dà tanta importanza, ed è una commedia», interpretata come una dichiarazione di poetica ma che va contestualizzata[7]. Segue la già citata lettera a Ippolito D’Aste (del ’52) sulla quale torneremo; e la serie di condanna del Filippo, e ancor più dei suoi contraffattori, come quella al Sabatini del ’55 per cui il Silani, nel suo Borgia, «ha messo l’uomo sui trampoli e ne ha fatto uno stoccafisso, caricatura del Filippo di Alfieri»[8]      

A conclusione di questo elenco, possiamo anche ipotizzare che proprio in tali critiche crescenti si nasconda la pulsione di un corpo a corpo continuo che ha dato luogo a una nuova interpretazione della tragedia moderna, e di quella alfieriana in particolare. Bisogna d’altronde osservare che quando Modena ha potuto ritornare in patria, dopo il settennio di esilio anche (parzialmente) dalle scene, è un uomo e un attore maturo, e diverso dal precedente[9], capace di affrontare lo stesso cimento alfieriano con una maggiore inquietudine e penetrazione. A fronte del tragediografo italiano per eccellenza (troppo per lui), di quell’«erma marmorea»[10] apparentemente non scalfibile, con i suoi personaggi recitati sui trampoli e i versi improbi in cui dichiarerà di sentirsi, da attore, come «imprigionato» (e non solo in quelli dell’Astigiano)[11], egli di fatto continuerà a cercare la crepa attraverso la quale penetrare, appunto, nel «monumento»[12], conquistandone il cuore caldo di verità umana.

Non a caso, nella lettera a Ippolito d’Aste del ’52, fra le più tarde e acri, definisce Saul un «miracolo», affermando che l’autore l’ha fatto senza accorgersene. Eppure Alfieri se ne accorse isolando nel Parere questa tragedia, l’ultima che interpretò da attore (nel 1793 a Firenze e nel 1795 a Pisa), col pensiero che dovesse essere giudicata «assai più su la impressione che se ne riceverà, che non su la ragione che ciascheduno potrà chiedere a se stesso dell’impressione ricevuta». Scegliendo un soggetto che implica il sovrannaturale, ma considerando l’impoeticità del suo  secolo, dichiara: se ammettiamo «la fatal punizione di Dio» perché Saul ha «disobbedito ai sacerdoti», il protagonista si mostra «qual esser dovea», ma anche per chi «non ammettesse questa mano di Dio vendicatrice» basterà «osservare, che Saul credendo d’essersi meritata l’ira di Dio» poteva «benissimo cadere in questo stato di turbazione, che lo rende non meno degno di pietà e di maraviglia»[13]. Nella turbazione dell’eroe biblico, o meglio nell’oscillazione tra follia e resipiscenza di quel personaggio “michelangiolesco” (tale è definito egli stesso attore[14]), Modena ha trovato la crepa nel marmo, e ha forse intuito (pur supponendo l’inconsapevolezza dell’autore) l’«umana offerta di se stesso» che, per Debenedetti, avvicina Alfieri e «ci consola»[15].

Di qui anche la «sfasatura» individuata da Meldolesi nella riforma – il cui nucleo essenziale coincide con il triennio (’43-’46) dell’avventurosa “compagnia dei giovani”[16] – e nella  recitazione, non solo alfieriana, di Modena; quella sua «poesia» d’attore creatore o ricreatore, secondo Taviani[17], capace di sostituire i sospensivi alfieriani con un’azione o un gesto. Sebbene proprio i ricorrenti puntini, talvolta lineette, rappresentino alcuni di quei «vuoti testuali»[18] da riempire, anche per Alfieri, con un’espressione mimica o gestica. Più che di “sostituzione” bisognerebbe forse parlare di transcodificazione, opportunità offerta dalla varia punteggiatura alfieriana ai diversi stili attorici, insieme ai frequenti deittici, didascalie implicite da trasformare nella materialità poetica del teatro.

Ed esempi di tale fenomeno si rintracciano, forse, anche prima della maturazione che segue all’esilio, se quando faceva il Pilade dell’Oreste – nei ricordi di Leone Fortis – al famoso verso «mura di reggia son; sommesso parla» (II, 1, v. 38), Modena «pronunciava il primo emistichio a voce bassa, soffocata, ansiosa, quasi all’orecchio di Oreste – ma il secondo» – sommesso parla – «lo pronunciava con uno scoppio irrefrenato di voce che faceva scattare il pubblico in piedi». Questa «temerarietà – che sfiorava l’assurdo»[19], s’appoggiava anche su quel punto e virgola che divide le due mozioni, della ragione e del cuore. E ancora, nel 1828, quando l’attore s’appropria della parte di Oreste, la critica, pur ammirandone l’irruente talento nell’atto II, nota «un non so quale languore […] nei tre atti seguenti», frutto di «falso giudizio»[20]. Invece, forse Modena penetra nella «psicologia spezzata e contorta» del giovinetto eroe cogliendovi tratti di «onirismo grottesco che risulteranno evidenti in Saul»[21]; dunque una «seconda creazione»[22], ma a partire dalla doppia natura della prima, più amletica che classica, gradualmente, negli atti successivi al secondo, culminando nell’«abbandono sofferto»[23] dell’ultimo. Sembra dunque che l’ancor giovane Modena fosse penetrato nel marmo del personaggio, cogliendovi quell’abbandono di sé che vi sta celato (come nel suo Autore), con un tratto anche di grottesco se appare come «un lupo pasciuto»[24] prima dell’alienazione finale.

Infatti l’esempio appena portato mostra un aspetto della tragedia alfieriana che, al di là delle critiche da lui espresse, risulta capace di stimolare Modena. Si potrebbe definire il rischio del grottesco che corrono molti dei drammi dell’Astigiano – e di cui egli mostrava consapevole timore – proprio nella tensione estrema alla brevitas, al tutto in azione, alle scorciature dialogiche e metriche, al di fuori dei modelli (ormai) tradizionali francesi e dei loro imitatori nostrani.

Quei personaggi esteriormente marmorei contenevano, talvolta a stento, un fuoco covato fino all’incandescenza, un calor bianco, di per sé (nel testo scritto) rischioso, eppure alimentato fino all’estremo dall’Autore. Non a caso il personaggio alfieriano che più spiace a Modena è l’unico «tiranno intero»[25], Filippo, il cui «carattere freddo» lo fa vacillare[26]. Se dunque la «sfasatura» modeniana significa «un’assunzione di responsabilità drammaturgiche da parte dell’attore»[27], ciò è reso possibile pure dalla particolare e inedita tessitura delle tragedie d’Alfieri: nella loro apparente monumentalità piene di vuoti testuali; secche ma mai aride, intimamente infuocate. E anche il rischio del grottesco, insito nella stessa tessitura, poteva trasformarsi (o rovesciarsi) in opportunità, come la non arida secchezza, per estrarre dai personaggi e dall’Autore quell’umana offerta di se stesso.

Modena fu il primo, se non l’unico nel suo secolo, a cogliere l’opportunità, come osservava già Bonazzi ed evidenzia Livio[28], e io stessa tracciando per Saul una linea Modena-Benassi-Randone di matrice grottesca. D’altra parte, non solo in Saul ma anche in altre tragedie alfieriane Gustavo trovò la crepa e il varco per rinnovare il vecchio «coturno», a rischio di cangiarlo con il «socco» del caratterista; eppure riuscendo, grazie al suo «genio» attorico, a conservare l’equilibrio mescolando «verità» e «forza» [LB p.80].

Faccio riferimento alla super citata formula di Bonazzi, ma il tema del difficile equilibrio, da «acrobata del cuore» direbbe Artaud, ritorna nella lettera del 1841 a Zonobi Bicchierai, in generale e riferito ad Alfieri, nel dire che in Saul l’autore ha tradito se stesso, ed egli, Modena, pare tradir lui, che invece vi ha creato un personaggio tale da poter essere ricreato dall’attore penetrandone in profondità la complessa natura fra il «men che uomo» e il «più che uomo»[29]. Dunque, il recitante può in questo caso rovinare a terra dai trampoli e magari risalirvi (o anche di più).

Ancora Modena scrive: «la verità passa sovente al triviale […]: ma il sublime anch’esso non trascende facilmente nel tronfio?». Di qui la ricerca rischiosa dell’equilibrio fra verità e forza, ma anche fra falso e vero: «chi non sa che in tutte le arti un filo divide il vero dal falso? L’abile artista cammina su quel filo»[30]. Su quella corda tesa «corre» soprattutto l’artista di teatro, specialmente italiano, faticando a «non squilibrare» anche per gli strattoni, da una parte e dall’altra, delle così diverse piazze. Torna dunque la metafora del coturno nella parte di poetica della lettera, là dove è implicitamente contrapposto al piedistallo, ma terreno.

Come già detto, nel settennio di esilio (1832-39) all’estero Modena è maturato; nonostante le preoccupazioni e le occupazioni politiche, le difficoltà economiche e logistiche (ma vi ha incontrato la compagna della sua vita e della sua arte), anche grazie ad esse ha potuto vedere altri teatri e altri attori, ed esperire diverse proposte di verità:

[…] l’uomo vivo, composto di carne e d’ossa [l’attore-personaggio], vuol parlare ed atteggiarsi da uomo: gli eventi sieno pur […] sovrumani, e lo trascinino anch’esso a sublimarsi, non lo leveranno però mai dal piedistallo terreno[31].  

Occorre un nuovo coturno all’attore per non squilibrare; e ricreare quasi come Dio. Infatti quel filo che divide il vero dal falso va inteso scenicamente. Proprio nella lettera più acrimoniosa nei confronti di Alfieri, soprattutto nei confronti dell’endecasillabo, entra in campo e in gioco la creatività drammaturgica dell’«attore artista»[32], il quale può sfogarsi meglio nella prosa, dove non è rattenuto dai «lacci del ritmo»[33]; e che si tratti anche per lui di vera e propria drammaturgia è confermato dal verbo scrivere: quel che «mi viene in fantasia recitando […] se ha buon successo lo scrivo nella parte e resta lì per un’altra volta».

D’altronde in riferimento a Saul - che è in versi - implicitamente Modena opera un confronto fra l’Autore e l’Attore, Alfieri che con quella tragedia compie un miracolo sì, ma senza esserne cosciente, e lui stesso che, quasi come Dio, crea e dopo la creazione si accorge che è «cosa buona» – non a caso dalle Scritture trae la metafora della luce.

II. Saul: acrobatico equilibrio fra il “meno che uomo” e il “più che uomo”

Per Meldolesi «nella rappresentazione del Saul alfieriano Modena faceva del re biblico una vittima del sistema di potere feudale, della regalità [ma] l’interpretazione era centrata nella compenetrazione delle due “psiche” [del personaggio] e nei bruschi trapassi sentimentali»[34]. Anche in questo caso non parlerei in senso stretto di sfasatura dal testo, quanto della sua penetrazione profonda da parte di Modena, che dalla recitazione fa emergere la schizofrenia del protagonista. Saul è l’unica tragedia alfieriana in cui tiranno e antitiranno si fondono e collidono nella complessa psiche del personaggio, come forse in quella stessa del suo autore. Ricordiamo inoltre che per Alfieri lo spettatore deve restare – di fronte ai sogni deliranti del protagonista – nell’incertezza se siano fenomeni provocati dal sovrannaturale oppure fenomeni psichici. Egli sviluppa nel Saul «assai più oltre che nell’altre sue» tragedie proprio «quella perplessità del cuore umano, così magica per l’effetto; per cui un uomo appassionato di due passioni fra loro contrarie, a vicenda vuole e disvuole una cosa stessa. Questa perplessità» – afferma – «è uno dei maggiori segreti per generar commozione e sospensione in teatro»[35].

Se per Meldolesi e Ferrone[36] il Saul modeniano è vittima della stessa regalità, per il primo biografo dell’artista (che attribuisce l’idea ad Alfieri) è «vittima dei sacerdoti». Nella Bibbia cui si rivolgono prima l’Autore e poi l’Attore per costruire e ricostruire il personaggio, Bonazzi rintraccia le prove a sostegno di questa tesi, che potrebbe in parte confermare lo «zelo» mostrato da Modena nella conduzione del personaggio «pei suoi fini politici» [LB p. 80].

Eppure, quando un attore ideologizzato come Modena sembra ricostruire un personaggio sulla propria personalità (antimonarchica e anticlericale) ne scopre e ne rivela il lato umano. Quindi, interpretando con moderna umanità[37] il protagonista alfieriano, anche con quell’inedito «impasto di colori tragici e comici» [LB p. 80] risponde, a suo modo, alla perplessità del cuore voluta dall’autore. Nella schizofrenia di Saul si manifestano le oscillazioni, la perplessità del personaggio (e dello stesso spettatore) di fronte al mistero; che è poi, per la creatura alfieriana come per il suo ricreatore attorico, la parte inspiegabile della nostra dolente umanità.

Intrecciando la preziosa testimonianza di Bonazzi con l’analisi di Vincenzo Andrei[38], è possibile cogliere la forza e la verità umana - talvolta «più» talvolta «meno» che umana[39] - di cui si dota l’interpretazione di Modena, d’una originalità assoluta, al tempo.

Alla base del dramma non c’è tanto il conflitto per la successione al potere che adombra l’arcaica «paura del genero»[40], né soltanto quello fra il guerriero e la casta sacerdotale, ma soprattutto la collisione tragica nel profondo del protagonista. In questo senso non si tratta, come vorrebbe Geraci, di una «commedia impazzita»[41], ma di una tragedia moderna (come sarà poi Mirra). Già Andrei osservava che la «psicologia dei personaggi le danno tutti gli attributi del dramma umano» tanto da meravigliare che non ne sia resa prima la «modernità artistica» [VA pp. 52-53].

Dunque gli atti di Saul sono attraversati da avvenimenti interni, o psichici, che offrono a un attore come Modena, più attratto di altri dalla resa della psicologia del personaggio[42], opportunità di sfasature, in senso lato, e rischi calcolati di grottesco.

Sfasatura nei confronti anzitutto dei precedenti recitativi: non a caso Bonazzi sottolinea nell’entrata del II atto la profonda mestizia, «ma calm[a]» di Modena/Saul, per due volte osservando che «senza smanie» dipinge ad Abner «l’orrore del suo stato». Sfasatura stavolta anche nei confronti del testo, perché nella seconda creazione modeniana la presenza dell’infido consigliere diventa necessaria. Infatti il Saul del nostro attore pronuncia sommessamente all’orecchio di Abner le parole, intrise di vergogna, «spavento/m’è la tromba di guerra;» (II, 1, vv. 46-47), per poi appoggiare il brusco trapasso sul punto e virgola che le chiude, e fare esplodere la rabbia (contro se stesso, si badi) gridando l’emistichio successivo e quello del verso seguente, dove parla di sé in terza persona: «alto spavento/è la tromba a Saùl» (ivi, vv. 47-48). Finché il consigliere non entra nella visione catastrofica di Saul/Modena, «come se vile e traditore» lo credesse, con un realismo forse grottesco (ma veritiero) che «sgomentava Abner e produceva grande effetto nell’uditorio» [LB p. 73].

D’altra parte Andrei privilegia nell’uscita di Modena/Saul dalla tenda la prospettiva della psiche del personaggio. Egli spezzava il primo famoso verso attraverso la mimica e la gestica, pronunciando l’emistichio «Bell’alba è questa» (II, 1, v. 1) dopo aver fatto «pochi passi» all’aria aperta di cui sembra improvvisamente godere, quindi muta espressione «preoccupata», andamento «accasciato», fermandosi, alzando la testa e girando lo sguardo con «visibile compiacenza». Dopo questa esclamazione la pronuncia del secondo emistichio («In sanguinoso ammanto […]») con quel che segue esprime invece mediante «l’azione fisica» di un «breve brivido come di febbre» la «manifestazione psichica» [VA pp. 54-55] d’un terrore ancestrale per i segni cosmici premonitori.

Ma passiamo al cosiddetto “sogno di Saul”: forse la scena visionaria più difficile, per il continuo trapasso di sentimenti che la connota già nel testo; e l’attore metteva a frutto la propria capacità di variatio (di un genere più duro e disarmonico di quella poi salviniana[43]), trascorrendo dai toni di tenera gratitudine verso David che rifiuta la corona al furore contro Samuele (ma quel «oh rabbia!» che segue i sospensivi dopo l’«amico…» rivolto al genero/figlio mi è sempre parso ambiguo, anche perché chiude il verso); con l’aggiunta d’uno scambio di persona che va al di là del testo o lo concretizza: il «Chi sei?... chi n’ebbe anche il pensiero, pera…» (ivi, v. 118) è uno di quei vuoti testuali che Modena riempie con l’aggressione ad Abner, incarnando, nell’hic et nunc dello spettacolo, l’ombra del nemico.

Altra oscillazione (contenuta nel testo) che cimenta l’interprete è quella in cui Saul si lascia trasportare dalla nostalgia espressa con «mesta gioia»: «Oh scorsa etade!...» (II, 2, v. 188). Anche qui Modena doveva concretizzare con lo sguardo «di sbieco» il «sudor sanguigno» da cui era ricoperto di ritorno dal campo di battaglia, con la trasformazione di esso nei «cadaveri dei nemici» [LB p. 71]. E mentre dice «infra l’estinto orgoglio, ecco, passeggio» (ivi, v. 193) passeggia davvero, e «pareva veder ritto e muoversi il Mosè di Michelangelo» [LB p. 72]. Uno di quei momenti in cui è il re a parlare e a incedere, ma – si badi – un re delirante che (a contrasto con le glorie dai figli celebrate del giovane David) esalta le proprie, estinte.

Quindi, per manifestare i sentimenti contrastanti del personaggio nei confronti della divinità, Modena usava in modo speciale le mani. Dapprima alzate devotamente al cielo, poi strette fieramente in pugni (a enfatizzare il grido), infine, dopo quel grido, la destra premuta sulla «bocca chiusa» e volta «dispettosamente», con la faccia, verso l’alto, a commentare con «rabbia concentrata» l’emistichio successivo: «muto è il mio labro» (ivi, p. 196)[44].

E non a caso uso il termine commentare, attingendolo da due cronache (di diversa epoca) del Saul: fin dal 1840, compare a proposito d’una recita al Teatro Re di Milano («[Modena] ogni cosa sminuzza e commenta senza mai trascendere di troppo i confini di un dignitoso contegno»[45]), per rispuntare in una cronaca del ’59 alla rappresentazione al Carignano: «non solamente recita il verso, ma colla voce, coi gesti, colla persona lo illustra ancora e il commenta»[46].

Con l’ingresso di David monta ancor più l’ira di questo protagonista dimidiato fra il Mosè michelangiolesco e il ladro dantesco[47], e con la stessa destra (con cui si era tappato la bocca) Modena afferra la spada, sguainandola a metà; non una posa «pittoresca» ma un atteggiamento di viva tensione, a causa dei figli che lo bloccano. D’altra parte, mentre David gli parla, il suo viso è mobile, lentamente vi sparisce l’odio e subentra l’amore, così che «il brando ricadea lentamente nella vagina» [LB p. 73]. Ma proprio qui Modena doveva cominciare a mescolare le tinte del tragico e del comico (come nota anche Alonge[48]) sviluppando il versante dell’esaltazione senile («Mio figlio, hai vinto [;!] … hai vinto» (II, 3, v. 330).

La chiusura dell’atto non è da meno, dimostrando il «genio originale» dell’attore capace di conciliare appunto «con la dignità del re, del patriarca, del vecchio [si noti il decrescendo] modi fino allora inusitati in tragedia»; ovvero abbandonandosi a quella specie di «gioia ingenua» e quasi «esaltata» che si riconosce in «chi è leso alcun poco di mente» [LB p. 74]. Ma pare ingenuo lo stesso testimone; perché l’azione che commenta le ultime parole appena pronunciate da Saul (vv. 342-348) non risponde a criteri di semplicità consona a «chi stava su pei clivi di Gelboè». Si sta tanto più in teatro pur indossando un nuovo coturno: a dare prova dell’oscillazione estrema d’uno sventurato re/padre verso una parte (bontà o demenza senile) che non potrà sostenere a lungo. Difatti nell’atto III Saul non è «già quel di prima» [LB p. 75].

Ma eccoci all’atto IV, in cui, per il suo biografo, l’attore si mostrava «diversissimo da tutti». Nella prima parte Modena assumeva «il fare di re e non di padre», anche coi figli, seppure «sciagurato re» in cui la «follia di Saul cangia forma» [LB p. 75]. Pensiamo a quell’interrogazione su se stesso che anziché connotata dall’incertezza appare agita dalla rabbia con l’altro suo io e dalla stupefazione. Di fatto l’attore «popolarizza i robusti concetti dell’Astigiano; ecco il pregio eminente», secondo un recensore del 1840, «del suo metodo veramente originale»[49].

«Inesplicabil cosa/questo David per me» (IV, 3, vv. 42-43) è colorito «come se si desse un pugno in testa pel dispetto di non capire»; «[…] ch’io divento/al suo cospetto un nulla» (ivi, vv. 50-51) è detto appunto come non sapesse «capacitarsi di una grande stravaganza» [LB p. 79].

Lo «scabroso terreno» su cui consciamente Modena/Saul incede non «più appoggiato alla sua lancia, ma con la lancia in spalla, affettando» anche nel passo «una baldanza che non si sente in cuore» [LB p. 77], è metaforicamente proprio quello del tragicomico. Andrei sottolinea invece come Modena uscisse «abbattuto e sfiduciato sulle sue forze di Re e Guerriero» [VA p. 58]. L’attore, divenuto professore di recitazione, tace di ogni colore comico o grottesco; la ragione si può vedere, oltre che nei tempi forse diversi della recita e della testimonianza, nella prospettiva in cui pone l’interpretazione modeniana che, secondo lui, «sarebbe stata approvata dall’Alfieri»[50]. Ne scorge soprattutto l’aspetto di «Apostolato Politico» che con l’incarnazione di Saul sarebbe addirittura incominciato («soleva dire egli»); nella «lotta» di quel Re assieme al suo  popolo, «dai Sacerdoti baloccato», Modena avrebbe espresso artisticamente «il dolore della catena, che come Italiano gli piagava il piede» [VA p. 56-57].

Eppure quel lato tragicomico si rivela registro necessario non solo ad «aprire sentieri nuovi alla tragedia» [LB p. 77] (in ciò la genialità precorritrice di Modena) ma a quella stessa di Alfieri, qui più che altrove, seppure anche altrove, crepata di varchi, o disseminata di rischi, per il grottesco. Si tratta di tragedie moderne, nel senso definito da Lukàcs; non vi agiscono potenze universali, ma «conflitti puramente psicologici che non si nutrono di quelle o le toccano solo tangenzialmente»[51]. Passioni individuali (Binni definisce Alfieri «poeta degli individui»[52]), sentite dai personaggi come tragiche, eppure psicologicamente motivate e indagabili secondo la nuova (fin dal Settecento) scienza dell’uomo.

Se Alfieri, qui sì genio incosciente, temeva il rischio del grottesco (e perciò teneva a distanza, a differenza di Modena, le mesalliances shakespeariane), di fatto alimentava nei suoi proiettivi personaggi un fuoco passionale che ad ogni momento rischiava di scioglierne le maschere di cera. In Oreste, in Saul che ne matura gli incubi (e diversamente in Mirra), tragedie imperniate su creature borderline, si scopre l’umanizzazione che, proprio per il linguaggio franto, può aprire sentieri nuovi, specialmente per chi «avesse voluto proseguire a mostrarsi non timido amico della verità» [LB p. 77].

Ed è nel IV atto del Saul che Modena sperimenta di più in questo senso, buttando giù il suo personaggio dai trampoli, ed estendendo ad ogni tratto della sua parte la «leggera tinta comica» capace però di esaltare anziché deprimere l’intima tragicità del protagonista. Resta una differenza sostanziale fra personaggio e attore nella consapevolezza di quest’ultimo, e nella fiducia in una vittoria nel campo del teatro (anziché su quello di battaglia) almeno all’epoca in cui sembra ritrarlo Bonazzi; poi la fiducia verrà meno ma rimarrà la costruzione potente di Saul. Difatti -  ripeto -  nel porre il piede sullo scabroso terreno Gustavo non sostituisce il vecchio coturno con il socco del caratterista, ma si allaccia un «nuovo coturno» pur correndo il rischio che sia scambiato con l’altro calzare. Dall’equilibrio instabile scaturisce l’innovazione modeniana in quest’atto.

Non vi mancano accenti di tragico lirismo (l’unico registro alto che Modena sembrerà apprezzare[53]) quando Saul rimprovera l’ingenuità del figlio, e riprendendo il leit-motiv della quercia capovolta («Spenta mia casa, e da radice svelta/fia da colui che usurperà il mio scettro», ivi, vv. 91-92) espone una rassegna dei casi orribili cui conduce la sete di regno, tale da ripercorrere i soggetti delle tragedie familiari e dinastiche di Alfieri:

SAUL   O ria di regno insazïabil sete,

Che non fai tu? Per aver regno, uccide

Il fratello il fratel; la madre i figli;

La consorte il marito; il figlio il padre…

Seggio è di sangue, e d’empietade, il trono.

(ibid., vv. 95-99)

Qui per Bonazzi, quasi preoccupato di mostrare il polo alto, appunto, della recitazione modeniana, che compensasse il basso, l’attore rapiva l’accento «alla stessa Melpomene» [LB p. 79].

Ma, con l’ingresso dell’odiato Achimelech, Modena/Saul rompe ogni ritegno: non simula l’ira, la prova e la declina dapprima in toni «beffardi» (Bonazzi) o di «mordace disprezzo» [VA p. 59], poi la fa esplodere in crescendo ma senza rinunciare alla variatio. Nell’invettiva ai Sacerdoti - «[…] Stirpe malnata, e cruda,/ che dei perigli nostri all’ombra ride;/[…] /[…] Codardi, or voi, men che ozïose donne,/con verga vil, con studïati carmi,/ frenar vorreste e i brandi nostri, e noi?» (ivi, vv. 196-205) – pare che Modena ricorresse ancora a innesti fonici e gestuali di un sarcasmo quasi cabarettistico, accennando nelle parole «studïati carmi»  alle «voci nasali della sinagoga e al modo di leggere degli Ebrei da destra a sinistra» [LB p. 79]. Anche a questo punto ci sovviene Andrei, rilevando il «viso proteiforme» prestato ai «vari aspetti dell’ira» propria del «carnivori»: dall’alterezza del leone allo sguardo felino della tigre. Ma aggiunge: «si agitava [il personaggio] con moti indipendenti dalla sua volontà». Secondo questo analista la demenza si manifesta appieno (spaventando l’uditorio) con l’«ordine della strage» [VA p. 60], che scoppia «come un fulmine» per Bonazzi, e le parole «ingigantite dalla potentissima voce» paiono tuonanti «al modo d’Isaia» [LB p. 80]. D’altra parte la notazione di quel «crescendo» quasi incredibile («per voce umana») ci fa supporre come la climax paralinguistica non trascurasse l’osservanza del metro alfieriano; perché quell’ultima parola «disperda», in quanto acme, era sì «con sottile artifizio» staccata «alcun poco dalle altre a cui era strettamente legata» ma, fin dal verso, da un enjambement.

A proposito della condanna di Achimelech («Or via, si tragga/a morte tosto; a cruda morte, e lunga»; ivi, vv. 270-271), parve ad Andrei che, dopo l’emanazione del comando, a Modena/Saul «si allargasse il petto, come se si fosse sbarazzato da un grande incubo»; con la sua solita attenzione alla mimica nota come «la faccia comunque stravolta, era irradiata dalla gioia della soddisfatta vendetta» [VA p. 61]. Ma a questo punto le due testimonianze divergono sostanzialmente, facendo capo senza dubbio a spettacoli differenti nel tempo e nella modalità. Secondo Bonazzi, Modena/Saul trasforma (implicitamente) la virgola dopo la parola «morte» in sospensivi addetti a una pausa recitativa (come generata da «una idea nuova»), per poi correre «dietro ad Abner gridando acutamente» l’ultimo aggettivo: «e lunga» [LB p. 79]. Invece Andrei pone l’accento su un’uscita e un rientro imprevisti e inusitati che agiscono appunto l’idea nuova da cui sembra colpito il personaggio: «ad un tratto, trascinato via da Abner il Sacerdote, [l’attore] usciva di scena, per rientrarvi tosto, ringiovanito di vent’anni», per ululare lo stesso aggettivo. Così si ricollega alla metafora dei carnivori: quel «e lunga» ululato «ricordava più il ruggito delle fiere che la voce dell’uomo» [VA p. 61].

Dunque il registro meno che umano, che per Bonazzi si riferisce alle declinazioni comiche (o grottesche) del carattere del personaggio, per Andrei si attaglia al suo atteggiamento ferino, ancora nella prospettiva di non raccogliere le sfasature del coturno verso il socco, che avrebbero forse sminuito – per lui – l’alone di Apostolato Politico conferito da Modena al suo Saul.

Per quanto riguarda la fine d’atto dobbiamo affidarci ancora alla sua testimonianza, ché Bonazzi si limita a osservare come l’attore richiami sul suo personaggio il «consueto senso di pietà», quando, «cacciati tutti», gli riluce «un lampo di ragione nel breve monologo finale» [LB p. 78]: «Sol, con me stesso, io sto. – Di me soltanto, / (misero re!) di me solo io non tremo» (IV, 7, vv. 303-304). Andrei invece non segue tanto, al solito, le oscillazioni brusche della figura principale quanto le ragioni psicologiche e fisiologiche di esse, osservando come «a misura che l’accelerazione cardiaca cessava, tutta la sua persona ricadeva su sé stessa, si tramutava […], il viso poc’anzi tanto spaventoso diveniva calmo, e non esprimeva che l’immagine della desolazione»[54].

Dalla mimica alla phonè: «a fior di labbro diceva di sentirsi contento di quella solitudine», ma con un’attenzione quasi maniacale, eppur giustificata dalla riconosciuta (da tutti) inclinazione di Modena a dare rilievo a ogni «più piccolo atto e parola» di «questo personaggio affatto eccezionale»[55], ne scorge un «nuovo bagliore d’allucinazione» che s’incomincia ad accendere «nell’occhio» [VA p. 66] proprio mentre pronunzia l’ultimo emistichio: « […] di me solo io non tremo» (IV, 7, v. 304). Non dunque il «lampo di ragione» (come per Bonazzi) ma anzi «d’allucinazione».

Le fonti paiono anche su questo punto divaricarsi, ma ciò può essere dovuto alla penetrazione profonda, da parte di Modena, di questa tragedia «fantastica», che sembra mettere in scena un – per se stesso incongruente – incubo del protagonista. Nel quarto atto se ne colgono le conseguenze estreme, e in quanto tali da essere interpretate con mesalliances sperimentali di cui risulta difficile per i testimoni coevi scorgere le sfumature. Non a caso lo stesso Bonazzi confessa la propria incapacità a seguire il filo delle oscillazioni, dandone frammentari ma illuminanti esempi.

III. Postille

Due osservazioni mie, ancora a proposito dell’atto quarto, l’una riguardante i contenuti, l’altra la questione del verso (che pare tanto spiacere a Modena nell’epistolario). Quanto ai contenuti e al fatto che i personaggi di Modena «eran uomini» [LB p. 81], non si può tralasciare la lettera dell’attore al Maieroni, forse del ’57 da Genova, dove l’artista da vecchio nel criticare una tragedia che l’altro gli aveva mandato (La figlia di Jefte) esprime nei confronti della Bibbia e dei suoi personaggi giudizi così aspri da coincidere con quelli di Saul nella sua invettiva ai Sacerdoti. Vi afferma di averla letta e riletta, «frugata», concludendo che è un «libro di sangue e di ruberie in nome di Dio»; e nella polemica con quanti ne esaltano la bellezza poetica ritrova lo spirito dei bei tempi in cui era convinto di poter rivoluzionare il teatro del mondo e il mondo del teatro:

Il teatro deve educare cuore e mente dei popoli, dunque […] distruggere superstizioni e pregiudizi di false virtù e di falso onore; […] schiarire e commentare la legge della natura che è la sola e la vera legge di Dio; quindi Bibbia, Mosè, Giosuè, san Paolo e ciarlatani compagni più o meno sanguinari impostori e ladri, deve presentare quali furono […], non vestire la menzogna con le seduzioni […][56].  

Il non sopito radicalismo modeniano ci fa immaginare quanto egli partecipasse ai sarcasmi e ai furori di quel “miracoloso” Saul, che non dovette sembrargli poi troppo “malato” quando si scaglia contro l’ipocrisia dei Sacerdoti. Con ciò non voglio dire che la proiezione fosse spontanea, ma anzi come sempre costruita, se il suo primo biografo, facendogli eco, osserva che passione e intelletto sono, per l’attore, un binomio inscindibile, perché il secondo deve guidare la prima, che serve al calore e al colore della recitazione, ma dev’essere costruita appunto sulla scena e non esprimere direttamente quella dell’uomo che recita, a rischio di non scaldare l’uditorio[57]. E addirittura afferma, a proposito della necessaria libertà dell’intelletto, che nei periodi dell’impegno politico Modena «non recitava con la testa a segno: il soffio della rivoluzione gli dava come una febbre […]; talché può dirsi che non abbia mai sentito l’attore Modena chi lo ha sentito in tempi di trambusti politici» [LB p. 112]. Intendo solamente mettere in evidenza l’ipotesi che l’attore fosse al fondo convinto d’un Saul vittima della casta sacerdotale, pur commentando con l’arte sua una tale convinzione; e questa prospettiva conferma l’attribuzione del titolo di «attore artista», da parte di Meldolesi, a Modena come a Eduardo De Filippo, il quale dirà: «le vere lacrime, negli occhi di un attore che stia interpretando una scena drammatica, disincantano il pubblico dalla finzione scenica: non è la propria commozione che un attore deve trasmettere al pubblico»[58]; per concludere che «a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione»[59].    

E d’altra parte nello stesso atto l’originale impasto tragi-comico, che si rivela come uno degli effetti della «sfasatura» recitativa modeniana, non era avvertito – secondo Bonazzi – dal pubblico come una «stonazione» perché si trattava di «raro accoppiamento di verità e di forza»; il quale ricadeva sul modo di affrontare il verso, “scolpendolo” (come in fondo voleva Alfieri), anche crescendo «prestigio ai colori della più splendida poesia» ma mai declamandolo, come gli attori sui trampoli, bensì sempre come il personaggio «che parla» [LB p. 80]. Forse perciò alcuni critici coevi giudicano che Modena, specialmente in altre tragedie alfieriane, scolpisse il verso in modo «eccessivamente franto e meccanico»[60]. A proposito d’una recita al Teatro Re di Milano, nel 1842, dell’odiato Filippo, se ne critica «quello spezzare di sovente il verso, elider sillabe facendolo apparire di dieci, anziché di undici o dodici piedi»[61]; là dove la scultura a colpo a colpo corre il rischio di destabilizzare lo stesso endecasillabo alfieriano.

Eppure, così facendo, Modena tentava forse di evadere dalla declamazione, rendendo parlato (fino ai latrati di Filippo) ma non prosastico quello stesso verso. Angelo Brofferio conferma esemplarmente, a proposito d’un altro cavallo di battaglia dell’attore, il Luigi XI di Delavigne, il fine cui tendevano sfasature o transcodificazioni, anche sul piano dello scarto originale dalla declamazione:

Modena portava sulla scena l’uomo, fosse pure re o spazzino, nella verità del suo costume, nella semplicità del suo linguaggio, nella efficacia del viver suo, l’uomo nell’intimità dei colloqui coll’amico, col nemico, coll’amante, col padre e con sé medesimo.

E che il ricordo non si riferisca soltanto a quella recita è indotto sia dal cenno ai colloqui con sé medesimo (caratteristici di Saul) sia dalla conclusione: l’uomo «come lo fece Alfieri, come lo fece Corneille, come lo fece Shakespeare, o, per dir meglio, come lo fece Iddio»[62]. Dio creatore, come per Modena, l’attore.



[1] T. Grandi, Gustavo Modena attore patriota (1803-1861), Pisa, Nistri Lischi, 1968: «E sì che egli ben avrebbe desiderato che gli autori italiani gli dessero opere degne e forti, da sostituire ai drammoni tradotti dal francese che pur facevano presa sul pubblico; meglio, da continuare l’insegnamento iniziato da Vittorio Alfieri» (p. 98); quindi nella nota relativa alla direzione dell’Ospedale di Santo Spirito nel breve periodo di «Roma repubblicana» (1849), Grandi cita Giuseppe Leti che fra «le generose infermiere» ricorda appunto «Giulia Modena moglie di Gustavo, quest’ultimo rivoluzionario anche nel teatro, ove andava realizzando il sogno d’Alfieri» (p. 132; da G. Leti, La rivoluzione e la repubblica romana 1848-49, Milano, Vallardi, 1948, p. 190).  

[2] T. Salvini, Ricordi, aneddoti ed impressioni dell’artista, Milano, Fratelli Dumolard Editori, 1895, p. 49.

[3] G. Modena, Primo discorso all’assemblea costituente (Seduta del 30 marzo 1849), in Scritti e discorsi di Gustavo Modena, (1831-1860), a cura di T. Grandi, Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, Biblioteca Scientifica, serie II: Fonti, vol. XXXIX, Roma Vittoriano,  1957, p. 157.

[4] Lettera a Ippolito D’Aste, 22 gennaio 1852, in Epistolario di Gustavo Modena (1827-1861), a cura di Terenzio Grandi, ivi, vol. XXVIII, Roma, Vittoriano,  1855, pp. 154-155.

[5] Lettera a ***, da Montpellier, 15 août 1833, ivi, p. 5.

[6] Lettera a Zanobi Bicchierai, da Ripafratta, 6 giugno 1842, ivi, p. 35.

[7] Lettera a S. E. Presidente del Buon Consiglio di Firenze, da Livorno, 29 aprile 1841, ivi, p. 87.

[8] Lettera a Giovanni Sabatini, da Torre Luserna, 29 maggio 1855, ivi, p. 188. Cfr. anche la lettera ad Agostino Bertani, 7 novembre 1855, ivi, p. 208 (gli faranno pagare il vino di Asti più di quanto gli paghino «i latrati del grande Astigiano»); finché non scrive che sta abbaiando al Doria «Baccalà Filippo di Alfieri» (lettera ad Achille Maieroni, da Genova, novembre 1857 (?), ivi, p. 269).

[9] Cfr. C. Meldolesi, Modena rivisto, «Quaderni di teatro», nn. 21-22, agosto-novembre 1983.

[10] Cfr. G. Debenedetti, Dal romanzo familiare al romanzo civile, in  Id., Vocazione di Vittorio Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977.

[11] Modena scrive d’essere «nemico dei versi» per un motivo che chiamerebbe «egoistico», ovvero perché in quanto attore creatore se ne sente appunto «imprigionato» (lettera a Ippolito D’Aste, 22 gennaio 1852, in Epistolario, cit., p. 155).

[12] Cfr. R. Alonge, Mirra l’incestuosa, Roma, Carocci, 2005, pp. 43-50.

[13] V. Alfieri, Parere sulle tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Casa d’Alfieri, Asti 1978, p. 123.

[14] L. Fortis, Ricordi d’arte, «Nuova Antologia», vol. XLV, 1893, p. 497: «Vi era del barocco nella sua recitazione – ma quel tanto che c’è nel Mosè di Michelangelo».

[15] Cfr. G. Debenedetti, Dal romanzo familiare al romanzo civile, cit.

[16] C. Meldolesi, Profilo di Gustavo Modena. Teatro e rivoluzione democratica, Roma, Bulzoni, 1971, pp. 60-61.

[17] F. Taviani, Alcuni suggerimenti per lo studio della poesia degli attori nell’Ottocento, «Quaderni di Teatro», n. 21/22, agosto-settembre 1983, pp. 69-95; poi parzialmente ripubblicato in C. Meldolesi, F. Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Bari-Roma, Laterza, 1991, pp. 256-276.

[18] Cfr. A. Ubersfeld, Theatrikón. Leggere il teatro, Roma, Editrice Universitaria La Goliardica, 1984.

[19] L. Fortis, Ricordi d’arte, cit., p. 496.

[20] T. L. [Tommaso Locatelli], Appendice, «Gazzetta privilegiata di Venezia», 27 settembre 1828.

[21] A. Barsotti, Alfieri e la scena da fantasmi di personaggi a fantasmi di spettatori, Roma, Bulzoni, 2001, p. 113.

[22] L. Bonazzi, Gustavo Modena e l’arte sua, Città di Castello, S. Lapi Editore, 1884, pp. 14 e 95. Da questa edizione continuo a citare inserendo nel testo la sigla LB tra quadre, con la pagina in numeri arabi.

[23] Cfr. A. Petrini, Modena e Salvini: poetiche d’attore a confronto, in Tommaso Salvini. Un attore patriota nel teatro italiano dell’Ottocento, a cura di E. Buonaccorsi, Bari, Edizioni di Pagina, 2011, pp. 123-125.

[24] T. L. [Tommaso Locatelli], Appendice, cit.

[25] Rimando al mio Alfieri e la scena, cit.

[26] Lettera a Zanobi Bicchierai del 6 giugno 1841, in Epistolario cit., p. 35.

[27] C. Meldolesi, in C. Meldolesi, F. Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, cit., p. 249.

[28] Cfr. G. Livio, Gustavo Modena e la sua riforma, in Id., La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento, Milano, Mursia, 1989.

[29] Lettera a Zanobi Bicchierai, cit., p. 35.

[30] Ibid.

[31] Ibid.

[32] Per il senso di questa definizione cfr. C. Meldolesi, Questo strano teatro creato dagli attori artisti nel tempo della regia, che ha rigenerato l’avanguardia storica insieme al popolare, «Teatro e Storia», XI, n. 18, 1996, pp. 9-24; poi Id., Intorno alla “Grandezza” e al teatro della persona. Perché conviene tenere distinte le linee ottocentesche dell’“Attore romantico” e del “Grande attore”, per poi assimilare al Novecento teatrale quella dell’“Attore artista”, in AA.VV., Il grande attore nell’Otto e nel Novecento, «I Quaderni del castello di Elsinore», supplemento al n. 41, Torino, 2001.

[33] Lettera a Ippolito D’Aste, 22 gennaio 1852, in Epistolario, cit., pp. 154-56 (anche per le citazioni seguenti).

[34] C. Meldolesi, Profilo di Gustavo Modena, cit., p. 61.

[35] V. Alfieri, Parere sulle tragedie cit., pp. 123-124.

[36] «La diffidenza e l’ansia di dominio provocavano in lui alterazioni psichiche e fisiche che si alternavano a momenti repentini di equilibrio e di serenità. Modena dava al registro sereno il timbro dei caratteri originali di Saul, magnanimo ed eroico, mentre alle turbe tiranniche assegnava i caratteri di una malattia contratta nel proprio tempo. Saul di Modena lottava contro gli influssi iniqui del secolo»; S. Ferrone, Fortuna di Alfieri nell’Ottocento. Dall’autobiografia al repertorio, «Annali Alfieriani», IV, 1985, p. 196.

[37] C’è in Modena, secondo Livio, «la coscienza critica di ciò che fa, un metalinguaggio assolutamente moderno: e in questo impasto di tragico e comico possiamo leggere una straordinaria anticipazione del grottesco» (G. Livio, Gustavo Modena e la sua riforma cit., p. 35).

[38] V. Andrei, Gli attori italiani da Gustavo Modena a Ermete Novelli, Firenze, Tipografia Elzeveriana, 1899. Da questa edizione continuo a citare inserendo nel testo la sigla VA tra quadre, con la pagina in numeri arabi.

[39] Lettera a Zanobi Bicchierai, cit. : «Non conosco che una legge: - il mio personaggio -. Quando è contegnoso, quando è altiero devo esserlo anch’io; quando è umile ed io umile; quando vaneggia, ed io matto; se l’ira lo vince, ed io servo dell’ira, della passione, meno che uomo: se l’uomo doma la passione, ed io più che uomo: se finge, fingo… e via così» (p. 34).

[40] Cfr. V. Propp, Edipo alla luce del folclore, trad. it., Torino, Einaudi, 1975.

[41] Cfr. S. Geraci, Destini e retrobotteghe. Teatro Italiano nel primo Ottocento, Roma, Bulzoni, 2010; un po’ frettoloso, quanto ad Alfieri, anche se ricco di suggestioni.

[42] Cfr. G. Livio, Gustavo Modena e la sua riforma, cit., pp. 31-32; e D. Orecchia, Poetica d’attore e creazione del tipo, «Prima fila», n. 57-58, luglio-agosto 1999, p. 10.

[43] In proposito cfr. il mio Salvini e Alfieri, in Tommaso Salvini. Un attore patriota nel teatro italiano dell’Ottocento, cit., pp. 49-87.

[44] Da notare come qui e altrove alcuni versi citati da Bonazzi mutino rispetto al testo pubblicato nell’interpunzione: il punto interrogativo dopo «Iddio» (v. 195), il punto fermo al posto dei sospensivi dopo quest’ultima battuta. Vi si può riscontrare, forse, l’eco dell’effettiva recitazione di Modena, nel periodo in cui Bonazzi è stato da attore nella sua compagnia.

[45] G. I., Teatro Re – Drammatica Compagnia Lancetti, «La moda», 2 settembre 1840, p. 288.

[46] G. S., Appendice Teatri, «Gazzetta piemontese», 25 agosto 1852.

[47] Cfr. L. Bonazzi,  Gustavo Modena e l’arte sua, cit., p. 72: «Con che ne rammentava quella terzina dantesca: “Al fine delle sue parole il ladro/Le mani alzò con ambeduo le fiche, /Gridando: Togli, Dio, che a te le squadro”».

[48] Cfr. R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Bari-Roma, Laterza, 204, p. 25.

[49] G. I., Teatro Re – Drammatica Compagnia Lancetti, «La moda», cit., p. 288.

[50] Ivi, p. 52.

[51] C. Cases, Introduzione a P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, trad. it., Torino, Einaudi, 1962, p. XXV; cfr. G. Lukács, La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen, Milano, Sugar, 1977.

[52] W. Binni, Il finale della tirannide e le tragedie della libertà, in Id., Saggi alfieriani, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 39.

[53] Lettera a Ippolito D’Aste, cit., p. 155: «Io ammetterei i versi quando i personaggi s’alzano in volo lirico coi pensieri e col discorso […]».

[54] Ivi, p. 66.

[55] G. I., Teatro Re – Drammatica Compagnia Lancetti, «La moda», 2 settembre 1840, p. 288.

[56] Lettera ad Achille Maieroni, cit., p. 284.

[57] Cfr. L. Bonazzi, Gustavo Modena e l’arte sua, cit., pp. 136-137.

[58] E. De Filippo, in Eduardo, Polemiche, pensieri, pagine inedite, a cura di I. Q. De Filippo, Milano, Bompiani, 1985, p. 148.

[59] E. De Filippo, Lezioni di teatro,  a cura di P. Quarenghi, prefazione di F. Marotti, Torino Einaudi, 1986, p. 179.

[60] M. Cambiaghi, “Rapida… semplice… tetra e feroce”. La tragedia alfieriana in scena tra otto e novecento, Roma, Bulzoni, 2004, p. 113.

[61] Teatro Re, «Il Bazar», n. 74, 14 settembre 1842.

[62] A. Brofferio, I miei tempi, vol. XVII, Torino, Tipografia Nazionale di G. Biancardi, 1844; citato da T. Grandi, Gustavo Modena attore patriota (1803-1861), Pisa, Nistri Lischi, 1968, p. 191.



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