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Cristina Jandelli

Lucia Cardone, Perdute e ritrovate. Uno sguardo d’insieme

Data di pubblicazione su web 03/02/2012
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Pubblichiamo qui l’introduzione al fascicolo monografico di «Bianco & Nero» n. 570 dal titolo Gesti silenziosi. Presenze femminili nel cinema muto italiano curato da Cristina Jandelli e Lucia Cardone. Si ringrazia il Centro Sperimentale di Cinematografia e, in particolare, la Divisione Editoria della Fondazione detentrice dei diritti, per la cortese concessione rilasciata. 

 

Nel suo mirabile e imponente diario, Carla Lonzi, figura misconosciuta e profetica del femminismo italiano, vagheggia di realizzare dei piccoli film sul fare invisibile, o meglio non veduto e non riconosciuto, delle donne, su quelle azioni «che non diventano un prodotto, ma solo un accudire. Gesti nell’aria come quelli degli equilibristi, gesti fatti di aria»[1]. Su quei gesti senza seguito e senza storia si sono sovente consumate e perdute, fuori e dentro il cinema, le esistenze femminili. E proprio pensando a Lonzi, all’acrobazia di quel fare sfuggente e inenarrabile, seguendo il movimento nomade di un’intuizione, e lasciandoci guidare in traiettorie spiazzanti e impensate, abbiamo scelto Gesti silenziosi come titolo per il lavoro dedicato alle presenze femminili nel cinema muto italiano.

Le parole si offrono spesso come sponde, aprono passaggi, illuminano varchi e creano ponti sottili, ma saldi, capaci di condurci da un tempo a un altro, unendo in un tratto preciso di pensiero epoche e contesti diversissimi, apparentemente incongrui, ma che pure svelano, se attraversati da un certo sguardo, rime nascoste, assonanze sorde e persistenti. Così, i gesti nell’aria di cui si scrive in Taci anzi parla sono diventati per noi metafora paradossalmente concreta delle attività di numerose donne, ancora in larga parte sconosciute, che si misurarono con il primo cinema, che cercarono nel tessuto confuso e accogliente della pellicola, complice la spiazzante modernità della «dinamite dei decimi di secondo», un loro posto nel mondo. Sono gesti vistosi e magniloquenti come quelli delle attrici che campeggiano sullo schermo, corpi di luce, scintillanti e fatalmente tacitati dalla loro stessa immagine divistica; e, all’opposto, sono gesti oscuri e destinati fin da subito alla sparizione, come quelli delle operaie, delle donne attive nei comparti tecnici della primitiva industria cinematografica, così simili e vicine alle cucitrici, sarte provette, fautrici di mirabili ricami di celluloide; sono gesti sapienti che strutturano la narrazione, l’artificio meraviglioso del racconto, come quelli delle registe e delle sceneggiatrici, autentiche costruttrici di mondi immaginari occultate dalle loro stesse creature, anch’esse, sovente, perdute; e sono gesti che sanno tradursi in pensiero, come quelli delle prime osservatrici, sorta di pioniere della critica e della teoria del cinema, capaci di sguardi attenti e penetranti, che sorprendono per acume e lungimiranza, eppure dimenticate, rimosse.

Ritrovare questi gesti, dissolti nel buio e davvero fatti d’aria, significa cominciare a costruire una nuova storiografia in grado di misurarsi con le zone d’ombra, con le mancanze delle narrazioni tradizionali, comprendendo e valorizzando gli apporti della creatività e del lavoro femminile sulla scena del cinema nascente. All’assenza delle donne dal quadro della storia – ed è appena il caso di sottolineare, qui, il discrimine fra assenza ed esclusione[2] – si aggiunge, nel contesto specifico del cinema delle origini, la difficoltà oggettiva di ritrovare nell’oscurità feconda degli inizi le tracce delle donne (e degli uomini) che diedero vita, spesso improvvisando e improvvisandosi, all’affascinante spettacolo delle immagini in movimento. Luogo incerto e ancora non regolamentato, aperto ai tentativi più disparati e fantasiosi, il cinema, al suo apparire, si offre come ideale terreno di coltura per l’iniziativa femminile. Così, ben lontana da una supposta egemonia maschile, l’immagine dei primi decenni del cinematografo che gli studi più recenti restituiscono è popolata da numerose figure di donne che, seppure ancora da approfondire e indagare, testimoniano di una presenza attiva e tutt’altro che ininfluente rispetto agli esiti della produzione filmica[3]. Portarne alla luce le vite e le esperienze è un compito arduo e necessario, che convoca saperi differenti, che chiama in causa e a confronto discipline vicine – eppure separate e spesso non comunicanti – quali la storia sociale e gli studi letterari, segnatamente in una prospettiva di genere. Il tentativo di costruire un nuovo paradigma storiografico sembra dunque incoraggiare continui e fruttuosi scavalcamenti, sia dal punto di vista delle specificità disciplinari, sia per quanto concerne i confini nazionali, proiettando la ricerca sulle cineaste delle origini in un contesto fortemente internazionale. E se da oltre un decennio, a livello globale ma soprattutto in ambito americano e nord europeo, si segnala un crescente interesse per le pioniere del cinema – intese come donne attive nell’intera filiera della produzione e della fruizione del film – anche in Italia, recentemente, si sta affermando un analogo desiderio di indagine, che comincia a germogliare e dare frutti[4]. I saggi qui pubblicati testimoniano la vitalità di questo approccio, e sembrano promettere e auspicare una nuova storia del cinema muto italiano. La riscoperta del lavoro delle numerose donne che furono attive nell’industria nazionale tra l’inizio del Novecento e i primi anni Trenta in ruoli creativi, tecnici e manageriali (registe e sceneggiatrici ma anche attrici, produttrici, teoriche e operaie) contribuisce a delineare un periodo del tutto peculiare, in cui l’apporto femminile appare assai più consistente e rilevante rispetto a quello dei decenni successivi, che pure meritano e chiedono indagini analoghe[5]. La realizzazione di questo lavoro monografico – il primo che «Bianco e Nero», nella sua parabola pluridecennale, dedica completamente alle donne nel cinema – si colloca nel quadro storico e teorico appena tratteggiato, nella convinzione che approcci scientifici e metodologie d’indagine che affrontano e valorizzano le differenze di genere, ormai pienamente acquisiti, siano maturi per contribuire a inaugurare, nella sua complessità, una nuova storiografia cinematografica a forte vocazione transnazionale e interdisciplinare. Grazie alla pluralità degli sguardi e allo studio di fonti e materiali finora lasciati ai margini o non adeguatamente interrogati – ci riferiamo ai frammenti di film perduti e ritrovati, alle sceneggiature e ai soggetti, alla miriade di testi presenti sulle riviste d’epoca, ai documenti conservati nelle anagrafi e nelle camere di commercio, ma anche alle memorie testimoniali degli eredi – i gesti fatti d’aria delle prime cineaste potranno finalmente essere riconosciuti e raccontati, contribuendo alla trasformazione della storia del cinema in una storia di uomini e di donne.

La maggior parte dei nomi presenti in questo numero – da Armanda Giunchi a Maria Gasparini, da Renée Deliot ad Angelina Buracci, da Bianca Virginia Camagni alle cantanti d’opera prestate al cinema – sono pressoché sconosciuti, o misconosciuti, o mal conosciuti. Ma anche la ricezione italiana di Sarah Bernhardt cantante o lo stile registico di Elvira Notari restano ambiti solo parzialmente investigati, per non parlare del lavoro delle oscure coloriste della Cines o dei miti partenopei incarnati da giovani attricette di provincia. Non si può però inscrivere questo lavoro collettivo nell’ambito della scoperta o riscoperta di figure o temi originali, cioè rubricarlo come studio applicato a zone inesplorate della storia del cinema. Il senso della ricerca è costituito da una particolare cura nei confronti dell’oggetto di studio, un’attitudine comune a studiose e studiosi chiamati a interrogare archivi e cineteche, a esplorare cioè, come si è accennato poco sopra, nuove fonti dirette e primarie. La finalità consiste nel restituire a tanti gesti silenziosi di donne del passato una nuova vita, un posto e un ruolo nella storia del cinema attraverso la precisa individuazione del lavoro creativo da loro condotto all’interno dell’industria cinematografica del primo periodo. Non si tratta più di riconoscere l’autorialità o la soggettività femminile, come è accaduto a partire dagli anni Settanta grazie al lavoro della Feminist Film Theory sulla regia e sullo sguardo, ma di ricostruire l’autorevolezza di queste presenze e delle loro variegate mansioni, a lungo fraintese, non vedute ed etichettate come assenze. Sbrigativamente archiviate come marginali e irrilevanti per la storia del cinema – soprattutto in ragione di un’interpretazione attenta alle emergenze estetiche e formali e piuttosto disinteressata a prendere in considerazione il quadro concreto, dettagliato e vivido dei processi produttivi e fruitivi che innervavano il contesto del primo cinema – i contributi e le esistenze di queste donne tendono a scomparire da repertori e manuali, ad essere irrimediabilmente dissolti, non nominati e dunque cancellati.

Eppure, con uno spostamento di sguardo che ribalta la prospettiva, scardinando il paradigma tradizionale, teso a misurarsi con i grandi autori e i capolavori, e cercando di comprendere e restituire le pratiche materiali del lavoro nella nascente industria cinematografica, affiorano scampoli di vite dimenticate, di gesti silenziosi, appunto, che divengono preziosi tasselli per costruire un’altra narrazione della storia del cinema, un racconto capace di comprendere e di dire il cinema come spazio sociale abitato anche dalle donne. È da questo mutamento, e dalla sua necessità, che ha preso le mosse il progetto Women Film Pioneers di cui scrive Monica Dall’Asta nel suo saggio.

Le vite delle donne che compaiono in questo lavoro, e che con entusiasmo e concrete speranze parteciparono dell’avventurosa nascita e affermazione del cinema, disegnano una parabola comune: all’attività indefessa degli anni Dieci, quando l’industria filmica sembra consentire alla creatività femminile effettive possibilità di successo, segue il lento inabissarsi della loro dinamica presenza e, con l’istituzionalizzazione e il mutamento del tessuto economico e produttivo connessi all’introduzione del sonoro, le donne escono di scena, in una riduzione al silenzio che, negli anni in cui il cinema impara a parlare, assume tratti ferocemente ironici. Il ritorno delle pioniere alla vita privata e l’abbandono della scena pubblica prosegue e si inserisce nel più generale ritorno al privato che, soprattutto nel primo dopoguerra, numerose donne esperiscono. Sono le stesse che negli anni del conflitto erano state chiamate a sostituire gli uomini nelle fabbriche, che avevano sperimentato la responsabilità e l’ebbrezza di misurarsi con contesti e situazioni fino ad allora riservati esclusivamente agli uomini, compreso lo spazio politico, dove aveva cominciato a manifestarsi il primo femminismo, percorso dalle rivendicazioni della piena cittadinanza e del suffragio femminile. L’avvento del regime, poi, con la camaleontica ambivalenza delle sue politiche rispetto alle donne – educate come moderne e sportive ginnaste, esposte in energiche e vigorose parate a passo cadenzato accanto ai loro coetanei, e poi forzosamente ricondotte al ruolo più tradizionale, quello di mogli e fattrici, cui spetta il compito di dare figli all’impero[6] – rafforza e conferma il ritorno all’ordine familiare. D’altronde, come nel resto del mondo, l’istituzione cinematografica, articolandosi in strutture industriali sempre più regolate, forgiate sul monopolio e sulla divisione del lavoro, provvede gradualmente a espellere dalla produzione nazionale le iniziative libere, indipendenti, e ancora legate a pratiche e consuetudini artigianali. E con esse vengono estromesse le donne: attrici, sceneggiatrici, acclamate cantanti e promettenti registe abbandonano il lavoro cinematografico. La figura della sconfitta, del fallimento, abita assiduamente le biografie delle pioniere[7], che paiono d’un tratto davvero mute, tacitate da un contesto lavorativo profondamente cambiato e irrigidito, nel quale non trovano più spazio. I gesti di queste donne diventano dunque irreparabilmente silenziosi, soprattutto quando le opere cui hanno dato vita, o alle quali hanno a vario titolo partecipato, cioè i film, sono scomparsi. È il caso delle regie di Bianca Virginia Camagni, attrice e produttrice milanese, bella donna pragmatica ed energica dall’educazione raffinata, musicista e poliglotta, che rivendica fieramente una concezione autoriale del film: «Faccio tutto da me: io tesso le trame, io scrivo i lavori, io li rappresento[8]. Figura ancora misteriosa, avvolta in ombre fitte, che lei medesima, nella lettura che ne offre Emiliana Losma, sembra aver intessuto, Camagni pare sottrarsi al nostro sguardo e interrogarci sul tema cogente dell’identità di genere, sulle pericolose sicurezze che ne derivano, sulla gabbia normativa che si rivela incapace e castrante rispetto alla pluralità delle esistenze femminili possibili. La sua scomparsa dalla scena cinematografica pone ingombranti e insoluti interrogativi: si allontanò dalla produzione, come afferma un osservatore[9], per non volersi sottomettere alla meschinità di tanti ignoranti? E ancora, mandò davvero in fiamme la sua casa di produzione, in un gesto di sfida e insieme di resa, ma comunque di libertà, o è solo una leggenda familiare? La parabola biografica di Camagni, per colpa e per merito delle lacune e delle incertezze che ancora la caratterizzano, invita a riflettere sull’essenza nomade che molte donne affermano con forza quando scelgono di far perdere le proprie tracce, sfuggendo a ogni identità o ruolo predefinito e predeterminato. Tornare a occuparsi di loro, di donne cancellate dalla storia, significa dunque operare tentativi di recupero in molteplici direzioni, dall’elaborazione teorica alla ricostruzione delle biografie sepolte nei faldoni delle anagrafi fino allo studio di piccoli, ma non trascurabili, frammenti di pellicola.

In direzione ancora diversa va la scoperta di Angelina Buracci, pedagoga e femminista moderata, che dedica al cinema un volume teorico denso di acute riflessioni dove lo spettacolo cinematografico, declassato al rango di innocuo divertimento per donne e bambini, viene riconsiderato proprio grazie alla presenza di questo pubblico scarsamente qualificato. La figura umana e intellettuale che Luca Mazzei ha rinvenuto e tratteggiato con cura, incrociando storia del cinema e storia delle donne, si colloca in una posizione eccentrica e peculiare rispetto alla variegata fioritura del pacifismo femminile nato dalla tragedia della Grande guerra. La trincea su cui si misura questa pedagoga cineappassionata è, come sottolinea acutamente l’autore, quella della cultura cinefila maschile, che esclude e sovente deride le donne; ed è lì, come ci insegnano Le tre ghinee di Virginia Woolf, che si giocano le sorti della pace e del mondo ben oltre la crudele emergenza del conflitto. È dunque nella sua sapiente e rigorosa passione cinematografica che Angelina Buracci mostra il suo volto più autentico e sorprendentemente moderno. E, per quanto riguarda la storiografia del cinema, il pensiero di Buracci impone una differente lettura e cronologia di quel fenomeno, narrato finora come prettamente maschile e collocato in un periodo successivo, che prende il nome di cinefilia. In questo caso non un film perduto ma un volume conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze ha permesso a Mazzei di cominciare a riscrivere un’altra storia della cinefilia, e di aggiungere un notevole tassello a quell’asistematica galassia di microteorie di cui, in parte grazie anche a lui, «Bianco e Nero» ha recentemente scoperto e valorizzato l’esistenza[10].

I primi decenni del cinema si confermano anni convulsi, vivaci, caratterizzati da una inesausta vocazione alla commistione, all’innesto di forme nuove su ceppi spettacolari antichi, in un inesausto e rischioso sperimentalismo artigianale. Così, osservando le rappresentazioni femminili del periodo, emergono nel loro splendore fenomeni culturali connessi a tradizioni locali assai specifiche e peculiari, fortemente identitarie, tanto da restare, soprattutto attraverso i film, in costante comunicazione con le comunità migranti sparse per il mondo. Da qui nasce il cinema regionale, potente veicolo di socializzazione e di riconoscimento fuori e dentro i confini nazionali, anch’esso destinato a scomparire sotto il fascismo ed esemplarmente rappresentato dall’opera di Notari. Autentici ponti di celluloide, i film napoletani sembrano propriamente girare attorno al mondo, e costruiscono una rete fortissima di memorie e di affetti, con maglie luminose e fantasmatiche capaci di rendere viva, accogliente e vicina, pur nei luoghi remoti e stranieri delle Americhe, la città madre[11]. Ciò accade grazie anche alla riproposizione, in chiave nuova e al contempo persistente, di fenomeni e stilemi di lunga durata, come il mito della sirena Partenope indagato nel contributo di Lucia Di Girolamo. Creature mutanti e di confine, incantatrici incantate dal loro stesso mortifero canto, queste antichissime sirene mostrano la loro natura tenacemente ambivalente, avvolgendo i loro corpi in spire di pellicola, per immergersi nelle acque del racconto filmico. Il nuovo medium chiama la tradizione a sostegno delle sue invenzioni, così le sirene del cinema napoletano sono giovani attrici dalla fisiognomica inconfondibile e dalla radiosa fama locale. Proprio come Rosé Angione, la bellissima e sfortunata Nanninella di ’A Santanotte (Elvira Notari, 1922), oggetto dell’accurata analisi testuale di Kimberly V. Tomadjoglou. La fragile e risoluta protagonista, proprio come nel mito antico, è carnefice e vittima del suo stesso destino, che persegue fino al tragico epilogo, facendosi attrice e strumento della sua giustizia vendicativa. Infatti, masochisticamente, sceglie di sacrificare se stessa pur di vedere punito il bieco Carluccio, responsabile della morte di suo padre, e soprattutto della carcerazione di Tore, l’uomo che ama. Come osserva opportunamente Tomadjoglou, la trama del film e il protagonismo lirico delle canzoni, che prendono corpo e immagine nei momenti nodali ed emotivamente più coinvolgenti dell’intreccio, mostrano come Notari riesca nei suoi film-sceneggiata a rivisitare e rinvigorire gli schemi, le trovate e gli stilemi dello spettacolo tradizionale. È certamente degno di attenzione il vistoso protagonismo del personaggio femminile: Nanninella, moderna sirena dello schermo, è al centro di una rete di esplosive tensioni sensuali e sociali che, riconoscendo la sua forza primigenia, ne richiedono il sacrificio, ritualizzato e ossessivamente ripetuto perfino nella forma filmica. Sottolineata dall’uso sapiente di mascherini e figure di montaggio e tradotta nel canto muto dello schermo, la maledizione della sirena campeggia, attraverso lo sguardo sapiente di Notari, nelle inquadrature di ’A Santanotte nutrendo l’immaginario nuovo dell’antica e proteiforme sostanza del mito.

Va forse ricercato in questa inclusione, nel sovrapporsi di due diverse prospettive – l’una culturale e l’altra più strettamente analitica –, che si incontrano pur muovendo da approcci e metodologie differenti, il cuore della ricerca qui presentata, che si vuole porre all’incrocio fra storia e teoria del cinema. Un incrocio felice, come mostra il saggio di Valeria Festinese, che ricorre a paradigmi teorici femministi e classici e propone una originale lettura del filone più florido del muto italiano. Così, a partire dal riconoscimento dell’esistenza di un macrogenere femminile per antonomasia come il diva film (non molti decenni fa ancora mascolinizzato e travisato al punto da denominarlo «cinema in frac»), giunge a evidenziare, a livello sistematico, l’esistenza e la persistenza di un’estetica masochista. Confrontandosi con gli studi di Studlar sui film di Sternberg-Dietrich[12], Festinese rinviene nelle figure femminili del diva film, nel loro essere immerse in una cornice eccedente e artificiosa, che assume i tratti del sontuoso décor, la misura del loro potere autodistruttivo, della loro forza dolorosamente mortifera. È una forma pienamente esperita, come si è detto e come mostrano i contributi dedicati al cinema napoletano, nei film di Notari. Ma essa, nella produzione italiana degli anni Dieci e Venti, è anche il cuore stesso della drammaturgia delle dive, e si estende a raggiera fino a lambire le rappresentazioni femminili del cinema partenopeo, proponendo insistentemente – nel diva film come nelle molteplici varianti melodrammatiche di marca regionale – figure di donne malversate, eterne vittime sacrificali, incapaci di divenire artefici del proprio destino se non in punto di morte, o, per meglio dire, attraverso la morte stessa. Ma è la loro quantità, oltre che la singolare originalità di ogni immagine, a incrinare il senso di questa inquietante rappresentazione seriale dell’annientamento femminile. Per una donna che cade vittima del coltello un’altra, su uno schermo parallelo, riprende a patire e morire, per ricominciare infinite volte a raccontare un’esistenza che aspira a riscattare la propria sofferenza e a farsi arte.

Eccoci dunque al paradosso delle attrici, o meglio delle dive che informano di sé l’intera cultura di un’epoca, anche se soltanto per pochi anni. Sono donne ingombranti, di difficile collocazione perfino per il tradizionale quadro teorico femminista[13]: dominano il contesto produttivo, ne condizionano le scelte e perfino affossano, secondo la vulgata storica, il mercato cinematografico nazionale con le loro esose richieste economiche. Ciò nonostante non diventano mai, forse proprio perché la loro modernità è trattenuta e imbrigliata dalle tradizioni culturali e spettacolari precedenti, modelli compiuti di emancipazione né per le spettatrici né per le generazioni successive di attrici, che si riveleranno incapaci di proporre uno stile parimenti originale di recitazione e di gestione della propria immagine, almeno fino agli anni Cinquanta. Se si dimentica che la loro storia (come i loro capricci, le intemperanze e la solida imprenditorialità) viene da lontano, non si può comprendere come il cinema italiano possa aver fatto di loro i simboli stessi del periodo muto. Per questo occorre tornare all’opera, alle cantanti e allo spettacolo lirico. È arduo altrimenti comprende perché, nonostante l’assenza del suono, le primedonne della lirica cerchino nuova dimora nella pellicola, pur dovendosi spogliare della loro fascinosa vocalità e farsi personaggi muti; è un’intera tradizione che negli anni Dieci e Venti sta migrando verso una nuova forma di spettacolo in grado di garantire alle interpreti di maggiore fama facili guadagni e vasta popolarità. Solo riconsiderando la cultura dell’opera e la posizione femminile preminente al suo interno, alla luce della modernità rappresentata dal cinema, si può comprendere come giunga in Italia, nitida, l’eco delle performance canore di Sarah Bernhardt consegnate agli schermi silenziosi del cinematografo, come mostra il saggio di Victoria Duckett. Applaudita come divina alla Comédie-Française, Sarah cantava a Parigi arie e romanze in locali votati all’intrattenimento e in questa veste scelse di consegnarsi al cinema, prevedibilmente senza fortuna, in effige. Elena Mosconi dimostra d’altronde in modo assai netto come il rapporto fra cinema muto italiano e opera lirica non si fondi sulla tecnologia di riproduzione di immagine e suono, né tantomeno su una prospettiva autoriale, dal momento che il ruolo dei compositori appare ancillare. A saldare i due mondi sono i corpi delle dive, che si protendono con illusoria elasticità dal proscenio allo schermo. Portatrici di una cultura artistica marcatamente femminile, le attrici, che si erano formate nella tradizione operistica italiana e parallelamente in quella di prosa, divengono visibili traits d’union tra vecchio e nuovo, tra teatro e cinema. Sugli schermi si affacciano cantanti che nascondono, certo per pudore, la loro carriera lirica, e primedonne che si mostrano valorose imprenditrici, come Gemma Bellincioni che produsse dodici titoli con la Biancagemma Film. Cantanti e attrici teatrali trascinano la tradizione divistica femminile dalle solide assi dei palcoscenici al quadro illusorio e fluttuante della pellicola, portando l’ombra attutita e mutila di un’arte gloriosa e passata direttamente dentro il cinema degli anni Dieci.

Ai gradini più bassi del mestiere, quando ancora bisognava dichiararsi «attrici teatrali» per vedere la professione di interprete cinematografica riconosciuta nei registri anagrafici, un eccentrico astro comico come Armanda Giunchi, in arte Lea, assume un ruolo di guida dell’intero percorso. Una volta ritrovati e restaurati i film e riconosciuta l’originalità performativa della sua macchina comica – macchina in genere priva di connotazioni sessuali e invece qui compiutamente declinata al femminile – mancava solo di comprendere chi fosse nella realtà questa straordinaria acrobata del metraggio corto. Il saggio di Marzia Ruta rivela la biografia documentata di una circense non moglie (di Natale Guillaume), né cognata (di Ferdinando Guillaume in arte Polidor e Tontolini), come la storia del cinema raccontava, ma madre di un bambino diventato insieme a lei personaggio cinematografico con il nome di Cinessino. La paziente e accurata ricerca di Ruta, muovendosi fra matrimoni presunti e figli concreti, fra certificati dispersi e ritrovati nei faldoni degli archivi comunali, ricostruisce una parabola esistenziale del tutto fuori dal comune, che si chiude con un impensabile, e dunque a suo modo funambolico, ritorno all’ordine, segnato dalla scelta piuttosto tardiva e definitiva di sposare un medico maturo e rispettabile (e come non pensare, maliziosamente, a Charles Bovary?). La complicata vicenda di Giunchi testimonia l’insospettabile fragilità dei legami parentali in un’epoca che pure, apparentemente, subordinava ad essi l’esistenza delle donne. Ma da secoli in Italia le attrici appartengono a una comunità separata dove vigono leggi e consuetudini che ne fanno un vero e proprio microcosmo sociale[14], al cui interno anche i rapporti coniugali si misurano attraverso le doti artistiche. È questo il tema di La ribalta in cui il regista Mario Caserini, l’iniziatore del diva film, celebra il talento creativo della moglie, Maria Gasparini, in un’opera apertamente metarappresentativa. Nel breve frammento del film ritrovato e restaurato, analizzato da Stella Dagna, il personaggio femminile, un’attrice di grande temperamento, si immola dopo aver dimostrato al regista pigmalione la propria superiorità artistica e morale. Ancora un sacrificio, ancora una donna che muore sulla scena, ma con una nuova sfumatura di significato, che mette a tema, sul crinale fra vita e finzione, il non sopito conflitto fra legame coniugale e ruolo attoriale. Da un lato il decano dei registi, Caserini, che riconosce e rende omaggio alle doti interpretative della moglie; dall’altro lato dello spettro, occultata anziché celebrata dall’arte del marito, si colloca la scrittura cinematografica di Renée Deliot, sceneggiatrice e sposa devota del muscolare interprete di Ausonia. Artefice delle sue «trame spezzate», delle rocambolesche avventure del beniamino delle matinée, Deliot resta una figura dimenticata nelle pieghe della storia. Una figura che oggi rivive grazie alla ricerca compiuta da Micaela Veronesi sulle sue sceneggiature e sulle tracce della sua esistenza, vissuta all’ombra del coniuge, inseguita e ritrovata negli archivi italiani e francesi.

Non è possibile invece, come documenta il saggio di Federico Pierotti, far riemergere dai locali malsani in cui coloravano le pellicole i profili delle operaie della Cines. Donne impegnate in compiti delicati e non semplici, che richiedevano mani sicure e precise, restano per sempre consegnate ai dati scarni e laconici sugli infimi livelli salariali, menzionate in ordini impartiti dal barone Fassini, ricollocate nell’impiego in base alla riconversione delle tecnologie industriali in galoppante sviluppo. Grazie ai documenti ritrovati adesso sappiamo che, dopo l’introduzione delle tecniche di imbibizione e viraggio, le operaie addette alla colorazione vengono spostate ai banchi del montaggio dove le loro attitudini, educate all’accuratezza del lavoro manuale fin dall’infanzia, si reimpiegano in settori dove l’occhio e la mano possono ancora sovrintendere i processi di postproduzione. Ma di loro non resta neanche una fotografia. Rimangono ombre – nude immagini mentali – di donne chine al banco del lavoro, concentrate sui loro gesti muti, ripetitivi e sempre uguali, imbrigliate nell’ingranaggio della fabbrica fordista che le aliena a loro stesse come racconterà, molti anni dopo, Simone Weil, e mirabilmente un film di Rossellini[15].

Eppure, complessivamente, i gesti silenziosi di tutte queste donne – dive, registe, produttrici, scienziate, operaie, comiche, sceneggiatrici, attrici – e delle loro rappresentazioni cinematografiche oggi paiono meno imperscrutabili e incompiuti, meno evanescenti e residuali. Continuano a parlarci di noi[16] e dei nostri modelli sociali.

 



[1] Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978, p. 767.

[2] L’assenza delle donne dalla storia è «l’assenza dell’escluso, al quale è stato impedito di venire all’appuntamento della dimostrazione della sua esistenza» (Luisa Muraro, La maestra di Socrate e mia, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli 2002, p. 29).

[3] Ci riferiamo in particolare alle pubblicazioni legate all’attività dell’associazione Women and Film History International, di cui scrive Monica Dall’Asta nel suo saggio (infra pp. 15ss.).

[4] Per un quadro nazionale, cfr. Monica Dall’Asta (a cura di), Non solo dive. Pioniere del cinema italiano, Cineteca di Bologna, Bologna 2008. Per comprendere la fecondità, la vocazione interdisciplinare e internazionale delle ricerche fiorite in Italia, desideriamo segnalare la presenza di un panel dedicato alle donne nel muto al convegno della Società Italiana delle Storiche (Napoli, gennaio 2010), nonché citare il convegno internazionale Women and the Silent Screen VI, (Bologna, giugno 2010), entrambi a cura di Monica Dall’Asta e Cristina Jandelli. E proprio nelle giornate bolognesi sono stati presentati i nuclei delle ricerche che qui pubblichiamo.

[5] Per una panoramica sui più recenti studi di genere nel cinema italiano muto e sonoro, e per alcune riflessioni sulle potenzialità di questo approccio che, nel nostro Paese, risulta tuttora marginale e frammentario, cfr. Lucia Cardone, Mariagrazia Fanchi, Che genere di schermo? Incroci fra storia del cinema e gender studies in Italia, in «The Italianist», XXXI, 2, 2011, pp. 293-303.

[6] Sulla politica del regime rispetto alle donne, cfr. Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 2001 (ed. or. How Fascism Ruled Women. Italy 1922-1945, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1992).

[7] Per un’interpretazione delle serie di fallimenti femminili che caratterizzarono il contesto produttivo cinematografico italiano cfr. Monica Dall’Asta, What It Means to Be a Woman: Theorizing Feminist Film History Beyond the Essentialism/Constructionism Divide, in Sofia Bull, Astrid Söderbergh Widding (a cura di), Not so Silent: Women in Cinema Before Sound, Acta Universitatis Stockholmiensis, Stockholm 2010, p. 47.

[8] Cfr. Arx, Bianca Virginia Camagni, in «Il cinema illustrato», I, 7, 28 luglio 1917, p. 3.

[9] Tito A. Spagnol, «Facciamo un film?» Ricordi di produzione 1921, in «Cinema», IV, 81, 10 novembre 1939, p. 285.

[10] Ci riferiamo al numero monografico a cura di Luca Mazzei e Leonardo Quaresima, Microteorie: cinema muto italiano. Voci minori?, in «Bianco e Nero», LXVI, 550-551, settembre 2004-aprile 2005. Ricordiamo anche un analogo fascicolo dedicato alla Germania, curato da Massimo Locatelli e Leonardo Quaresima, Microteorie: cinema muto tedesco, in «Bianco e Nero», LXVII, 556, settembre-dicembre 2006.

[11] Su Notari rimandiamo all’imprescindibile Giuliana Bruno, Rovine con vista: alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari, La Tartaruga, Milano 2005 (ed. or. Streetwalking on a Ruined Map: Cultural Theory and the City Films of Elvira Notari, Princeton University Press, Princeton 1993).

[12] Cfr. Gaylyn Studlar, In the Realm of Pleasure. Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic Aesthetic, Columbia University Press, New York 1988.

[13] Si pensi ad esempio alla natura problematica della figura della «divina» Bertini analizzata da Monica Dall’Asta, Il singolare multiplo. Francesca Bertini, attrice e regista, in Id. (a cura di), Non solo dive, cit., pp. 61-79.

[14] Cfr. Claudio Meldolesi, La microsocietà degli attori. Una storia di tre secoli e più, in «Inchiesta», XIV, 63-64, 1984, e Laura Mariani, Il tempo delle attrici. Emancipazione e teatro in Italia fra Ottocento e Novecento, Mongolfiera, Bologna 1991.

[15] Il riferimento è a Europa 51 (Roberto Rossellini, 1954). Il legame fra Simone Weil e il personaggio di Irene, interpretato da Ingrid Bergman, viene approfondito in Elena Dagrada, Le varianti trasparenti. I film con Ingrid Bergman di Roberto Rossellini, Led, Milano 2005.

[16] Cfr. Jane Gaines, Esse sono noi? Il nostro lavoro sulle donne al lavoro nell’industria cinematografica muta, in M. Dall’Asta (a cura di), Non solo dive, cit., pp. 19-30.

 


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