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Italo Moscati

Il televisore “vive” fra Dracula, Stanley Kubrick e Francesco Orlando

Data di pubblicazione su web 07/12/2011
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Nel n. 3 della rivista «Nuova civiltà delle macchine» (edizione Eri, di prossima uscita) verrà pubblicato un saggio di Italo Moscati sui televisori, dalle loro prime forme a quelle attuali. Fra gli anni Venti del Novecento e i primi del nuovo secolo si è verificato un cambiamento notevole su cui hanno influito le continue novità tecniche (oggi si diffondono i televisori in 3D), il gusto dei progettisti, il design e le esigenze degli spettatori. I televisori costituiscono una grande e interessante storia, che va di pari passo e si integra con quella dei programmi diffusi ormai da centinaia e centinaia di canali; sono una “spia” di come ci è piaciuto vivere l'esperienza televisiva attraverso apparecchi che hanno accompagnato la vita, le abitudini, il costume. Pubblichiamo di seguito un’anticipazione dell'articolo.

 

La chiamavano la scatola magica. E così la descrivono: “Abbandonato in qualche generosa pagina di quel wish shop che sono gli atlanti del design, ammassato nei negozi di elettrodomestici, confuso in una candida e smaltata indiscriminazione tra frigoriferi e lavatrici, l’apparecchio televisivo non ha mai goduto di attenzioni specifiche” (Enciclopedia della televisione, Garzanti, 1996).

La chiamavano ancora focolare; o, con maggiore sarcasmo, focolaio (di germi), o magnete selvaggio, o addirittura vampiro dalle antenne dentate (un Dracula tentacolare) rivolte verso la grande platea di ignari spettatori sempre più vittime del più etereo e subdolo Dracula della storia della comunicazione.

Poi arrivò, nel 1962, Eduardo De Filippo che, nel presentare una rassegna televisiva delle sue celebri commedie, raccontò di una telefonata ricevuta da parte di una gentile e solerte impiegata della Rai. La gentile impiegata per presentarsi esordì dicendo: “Buongiorno, qui è la televisione che parla”. Eduardo non potè resistere, e rispose: “Un attimo che le passo il frigo”.

Sono definizioni o battute spiritose che non si dimenticano. Appartengono alla fase in cui il televisore cominciava a imporsi con il suo schermo grigio, lattiginoso, la lucetta che si spegneva lentamente come una stella cadente. Venivano coniati appellativi curiosi per le serie dei televisori. Ad esempio, la Philips, olandese, multinazionale, che diventò presto una potenza mondiale, ebbe l’idea di chiamare un suo modello con il vezzeggiativo “Mammuth”.

All’alba delle onde nell’etere , ognuno ha avuto il suo primo televisore così come si ha, o si sospira, il primo amore. Il mio primo televisore mi guardò senza vedermi a Bologna, nel 1953 (un anno in anticipo sull’inizio ufficiale delle trasmissioni Rai), dalla vetrina di un negozio di elettrodomestici situato sotto i portici in un giorno piovoso. Ricordo questo particolare perché i miei genitori ripararono lì davanti per non bagnarsi. Non ero ancora adolescente. I miei sogni li vivevo al cinema o negli occhi delle bambine. Da allora in poi i televisori nella mia vita si sono accumulati in una larga soffitta immaginata che ha ancora tanto spazio da riempire. Fra i molti che ho frequentato o posseduto, due televisori li ricordo bene, al di là di quella vetrina del negozio di elettrodomestici. Erano stati acquistati, poco dopo l’imprinting mio personale sotto i portici, dal parroco della chiesa del quartiere Mazzini e dal giovane segretario della sezione partito comunista dello stesso quartiere. Due luoghi, due punti di riferimento, due  occasioni di intrattenimento e di conoscenza per i giovani nella periferia bolognese, in un vuoto culturale impressionante: nessun teatro, un paio di cinema scassati. (Per inciso, Giuseppe Mazzini è l’eroe risorgimentale il cui nome è stato usato per battezzare televisivamente me e tantissimi altri, che lavorano in e per la TV: a tutti è noto che da decenni la sede principale della Rai è a Viale Mazzini, con il cavallo morente ingabbiato in una statua che continua a lanciare il suo nitrito, di voglia di vivere).

Bologna e i suoi portici. I due televisori, della parrocchia e del partito, simili nella forma spartana e nel pallore del bianco e nero, erano le macchine-simbolo-umanizzate che proponevano curiosamente la gran saga del tempo: quella di Peppone e don Camillo, scritta nel 1948 da Giovannino Guareschi e immortalata a cominciare dal 1952 nei film di Julian Duvivier con Gino Cervi e Fernandel. Film che sono ancora in vita, e vengono regolarmente trasmessi dai canali Mediaset. L’uso del televisore in parrocchia o in sezione però non faceva politica o rissa (ironica) ideologica. Era semplicemente, laicamente, un segnale di richiamo per adulti e giovani, sempre quasi in occasioni di avvenimenti sportivi, soprattutto del ciclismo (Coppi o Bartali) che era amato quanto e forse più del calcio.

Erano gli anni della ricostruzione postbellica che stavano per carburare e generare il cosiddetto miracolo economico che cominciò a portare nei negozi e nelle case i primi segni del benessere. Una stagione intensa di ottimismo, veloci mutamenti di costume, produzione alle stelle, auto utilitarie e la Autostrada del Sole Milano-Napoli, lotte operaie per rivendicare maggiori diritti e una più equa distribuzione dei profitti verso i lavoratori, campagne e terre morsicate dalla espanzione dei capannoni industriali, moltiplicazione delle celentanesche Via Gluck che seminavano cemento. Mentre si affacciava la Roma della dolce vita felliniana. Il tutto al ritmo del rock che piegava la canzone italiana del Festival di Sanremo. La radio dovette cedere spazio ed egemonia alle cronache dirette condotte da Nunzio Filogamo, il fine dicitore caro agli “amici vicini e lontani”.

Il televisore entrava di prepotenza ogni giorno di più nelle case. Gli italiani a poco a poco disertavano i televisori esposti dietro le vetrine, quelli delle parrocchie e di altri luoghi (partiti e non), cominciarono ad affollare per qualche anno i cinema che il giovedì sera sospendevano la proiezione di film per farsi travolgere dallo tsunami di Mike Bongiorno e dei telequiz (“Lascia o raddoppia?”). Fu un’ondata incontenibile. Durò il giusto. Intanto, Alberto Manzi cercava di ricondurre a casa le pecorelle smarrite con le trasmissioni benevolmente pedagogiche di “Non è mai troppo tardi”.

Era scoccato il 1960 e le dolci, flautate parole del maestro Manzi poco poterono contro i confronti severi ma non sempre esenti da risse verbali clamorose di “Tribuna politica”, in cui erano protagonisti i segretari dei grandi partiti interrogati da scelte squadre di giornalisti oscillanti tra sottomissione e alto voltaggio polemico. Furono dal 1954 al 1960 sei anni indimenticabili, appassionanti, per chi sgranava gli occhi davanti al mondo che s’insinuava e si insediava una volta per tutte nelle case e nella baracche, nei cascinali, nei bar e sotto ogni tetto.

All’inizio erano poche migliaia gli abbonati (ottantamila nel 1954) poi cominciarono a crescere con rapidità. Gli italiani imparavano a sedersi, c’è chi scrisse a inginocchiarsi davanti al tabernacolo audiovisivo, occhi e voci da piovra del Grande Fratello orwelliano, facoltà dilatate capaci di rendersi gradevole o gradevolissimo per milioni di fedeli. Per fare spazio al televisore, le case cominciarono a  cambiare e si trasformarono, in un’invenzione tra molte altre (come l’auto, il telefono, il cinematografo), un’invenzione dalle pareti mobili, un teatro casalingo. Nacque la casalinghitudine dello spettatore. Ma la casa diventò anche un fondale per viaggi di telecamere nelle diverse camere di un appartamento. Nacque la sedentarietà da esportazione (viaggi) ma anche da importazione in poltrone, divani, lettone, chaiese longue.

Il televisore diventò, con un’ennesima definizione, un totem e tale è rimasto, anzi rimane con varie crisi di futuro, ricordandoci la società dei consumi e l’assunzione delle svariate droghe in cui si distinguono le piantagioni televisive.

Le crisi di futuro per il totem domestico e addomesticato si chiamano oggi in vari modi. Non solo il televisore sta assumendo cambiamenti tali da trasformarlo in una maniera impensabile. Arriverà un momento, secondo cronisti avveniristici,  in cui il televisore da monumento della casalinghitudine si potrà comodamente fare un rotolo da grande a piccolissimo, così piccolo da poterlo portare in tasca come un fazzoletto.

In questo processo di mutazioni e speciali nanotecnologie nulla verrà buttato, la munnezza più munnezza ricavata dai televisori andati in pensione con lo scivolo o il licenziamento potrà essere usata, come già accade, per fare mattonelle: cammineremo sopra le spoglie della vecchia scatola magica, e calpesteremo senza saperlo le star e i conduttori che abbiamo amato o odiato. In questo senso, sarà raggiunta una forma di eguaglianza nella storia della tv, in attesa dell’arrivo della libertà e magari della fraternità (ideali della rivoluzione francesi e del risorgimentale Mazzini, ben lontani da essere praticati dalle TV).

Detto questo, delineati lo spazio per un confronto tra passato e futuro, è giusto tornare in modo diretto alle vicende, anzi alla storia del televisore non come feticcio ma come prodotto industriale, tecnologico, come sintesi di design e di abitalità, oggetto di incantamento e di dannazione per le sue forme ben fatte o per quelle goffe collocate in vetrina negli ottanta anni di vita di questa macchina, scatola, cappello a cilindro da prestigiatore.

Fu il cinema a mostrare, anzi ad alludere, al primo televisore italiano. Era il 1939 e il nostro Paese, ancora sotto il regime fascista, aveva gli occhi puntati verso la Germania dove Hitler preparava l’inizio della seconda guerra mondiale, guerra che venne aperta dall’invasione tedesca della Polonia nel settembre dello stesso anno. L’Italia si accodò il 10 giugno del 1940.

Fu girato il film Mille lire al mese, diretto da Max Neufeld, un regista di origine ebrea che aveva trovato rifugio e lavoro nella Cinecittà inaugurata due anni prima, non si sa come visto che Mussolini nel ’38 si era allineato con Hitler promulgando le leggi razziali; forse una protezione dall’alto, silenziosa, riservata, in uno stile che verrà contraddetto dal via libera alla persecuzione vasta e mirata degli ebrei in Italia culminata nel 1961 raccontata nel film di Carlo Lizzani, L’oro di Roma.

Mille lire al mese è rimasto famoso non tanto per la sua qualità di commedia ben fatta quanto come ritratto di costume, a partire dalla canzone con il titolo simile a quello del film. La canzone descriveva il sogno italiano di un guadagno sufficiente per garantire benessere. Benessere identificato negli apparecchi radio entrati ormai nell’uso comune (le trasmissioni erano cominciate nel 1924): più che apparecchi erano, soprattutto nelle famiglie abbienti, veri e propri colossi, mobili potenti capaci di accogliere onde tali da collegarsi con il mondo, onde filtrate spesso invano dalla censura. Mobili dotati di giradischi a 68 giri, scansie per i dischi, talvolta persino di uno stipetto per i liquori, molto rosolio e Strega.

Una di queste prestigiose radio è presente, in bella vista, nel film di Neufeld con Alida Valli e Osvaldo Valenti. È un inconsapevole canto del cigno poiché in silenzio, ancora cieca per i milioni di spettatori che verranno, la televisione  incalza in America, Inghilterra e Germania (ma anche in Italia) con gli esperimenti dei poteri magici delle immagini, nuovo capitolo del sogno italiano poi rimandato per più di dieci anni a causa della guerra.

Il dramma del tramonto della radio a favore della televisione si materializza in una coincidenza inventata dal film. Una radio possente compare in un salotto elegante. Da essa esce l’orecchiabile canzone del titolo che poi sfuma e muore. La Valli ha interrotto la trasmissione e dice che con “mille lire al mese” il futuro di lei e Valenti sarebbe al sicuro. Valenti risponde che lui è un grande ingegnere della TV e che potrebbe guadagnare cifre ben più alte, se solo lo facessero lavorare in Italia; per fortuna, dice, mi hanno chiamato a Budapest dove gli esperimenti TV sono più avanzati. E infatti, nel corso del film, lo vediamo nei nuovissimi studi della capitale Magiara.

Ma lasciamo la Valli e soprattutto Valenti al loro destino. Valenti pochi anni dopo, dopo il 25 luglio del ’43, sceglierà la Repubblica di Mussolini nel Nord, indosserà la divisa della X Mas, si farà chiamare Sandokan e verrà fucilato dai partigiani in una strada di Milano nei giorni successivi alla Liberazione del 25 aprile. Ne darà notizia la Radio Milano Libera, annunciando che con Valenti era stata fucilata anche la nota attrice, sua compagna, Luisa Ferida.

Fatti che hanno fatto e fanno discutere ancora a lungo sul merito della esecuzione, pare autorizzato da un capo della Resistenza, Sandro Pertini, presidente della Repubblica dal 1976  al 1985. Quella radio possente nel salotto elegante, colma di lusinghe con la canzone delle “mille lire”, era un segno delle contraddizioni di allora, il segno di un apparecchio che invecchiò meno velocemente di quel che si potrebbe pensare.

La radio di ogni forma e dimensione, fino alla povera radio a galena che si poteva far funzionare artigianalmente, resistette a lungo fuori e dentro le case degli italiani. Divenne a Milano uno strumento di propaganda nella stessa Repubblica di Mussolini dopo esserlo stato attraverso l’Eiar sul territorio nazionale; diffuse, sfidando i comunicatori del fascismo, i celebri messaggi di Radio Londra, preceduto da quattro ritmati suoni acustici, suoni che solo a sentirli rievocano le atmosfere drammatiche della seconda guerra mondiale e la lotta partigiana.  

 

La televisione lavorava dietro le quinte della comunicazione. Poco prima degli anni della guerra, se la televisione preparava con gradualità il suo avvento nel mondo in maniera visibile (le trasmissioni in America e Inghilterra cominciarono nel ’30), in Italia subì più che altrove una sospensione durante il conflitto. Le prove continuarono fino al ’40 e a poco a poco si esaurirono. Il pubblico, in quei momenti, non avrebbe potuto rendersi conto di quanto stava per accadere. Intanto, non c’erano televisori in commercio. La produzione era cauta, attesa. I pochi televisori che circolavano, a carattere sperimentale, erano di provenienza tedesca: ad esempio, Fernshen, Telefunken, Loewe.

Il primo televisore italiano venne prodotto dalla Safar nel 1936 che fu pubblicizzato con il motto “Sinonimo di 10 anni di esperienza autarchica”. La parola “autarchica” era molto caro al fascismo e al suo principio della necessità di fare tutto in Italia. Alla Safar si affiancarono la Marelli (già produttrice di radio) e la Allocchio Bacchini. Apparecchi Safar e Fernshen furono impiegati per qualche rara dimostrazione: come accadde nel 1937 per un collegamento da Monte Mario, dove era stato alzato un trasmettitore al Villaggio Balneare (Tevere) vicino al Circo Massimo.

Era il frutto del lavoro di tecnici che venivano dall’esercito e dalla marina, uno di questi si chiamava Mario Bonini e il suo contributo confermava quel che alcuni storici hanno giustamente sostenuto: gli esperimenti pubblici nei media erano lo sviluppo delle applicazioni militari, prima del telegrafo, poi del telefono, e quindi della radio e della televisione (immagini che venivano dopo segnali convenzionali e parole). Se la Safar costruiva soprattutto apparati trasmittenti, Radio Marelli e Allocchio Bacchini misero in produzione nello stesso periodo apparati riceventi, passando dalla radio alla TV.

Furono anni di prove ma anche di stop and go, fermate e riprese, che gli addetti al settore subirono sullo slancio determinato a dotare il paese di una televisione in grado di stare al passo con quelle straniere, compresa quella tedesca molto attiva e interessata a occupare l’Europa con i suoi prodotti.

Era in corso una gara com’era accaduto per il cinema, allorchè la Germania si alleò con l’Italia per controbattere i film americani, producendo in doppia versione e organizzando non sempre riuscite coproduzioni. Tutto doveva passare al controllo di Joseph Paul Goebbels e di Alessandro Pavolini, entrambi ministri della cultura e della propaganda.

La politica e la volontà hitleriana di scatenare la guerra per imporsi come guida del Vecchio Continente, trascinando l’Italia, ebbero l’effetto per il nostro Paese di far bloccare ogni progetto televisivo per ordine del governo il 31 maggio 1940. Passarono tre anni di guerra e, dal 25 luglio e dall’8 settembre ’43 (armistizio), la situazione cambiò drasticamente: la Germania liberò sul Gran Sasso l’arrestato e deposto Mussolini, e decise di occupare l’Italia. Insieme ai fedeli del dittatore, fu fondata nel Nord la Repubblica mussoliniana, a cui si è fatto cenno.

L’esercito nazista si occupò di televisione come aveva fatto con il cinema di Roma, quello di Cinecittà, con il sequestro di macchinari, trasferiti in parte in Austria e in parte a Venezia dove fu creato il Cinevillaggio, ovvero studi , produttori, attori che riuscirono a portare a termine un paio di film sui dieci progettati. I tedeschi fecero smantellare e portare in Germania anche tutti gli apparati dell’Eiar di Roma, incluso il trasmettitore televisivo che in seguito verrà recuperato dagli Alleati dopo la guerra e restituito alla Rai (nuova denominazione dell’Eiar dal 1944 nella Roma liberata). Nel 1949 la Rai lo istallò a Torino in località Eremo, sulla collina intorno alla città, e lo collegò alle nuove antenne installate sul tetto della sede Rai di Via Verdi. Da lì cominciò la strada di esperienze anche promozionali che porterà all’esordio ufficiale del  3 gennaio ’54. Un’iniziativa decisiva in questo cammino avvenne alla Triennale di Milano con una trasmissione speciale condotta l’11 settembre del ’49 da Corrado Mantoni, che diventerà uno dei più bravi e amati presentatori italiani.

L’etere si cominciava a muovere, solcato dalle onde sonore e dalle onde TV, mentre riprendevano ricerche e diffondevano proposte gli industriali dei televisori, tra cui la Magneti Marelli che aveva creato e dislocato trasmettitori fra Veneto, Liguria e Lombardia. La gloriosa Marelli della radio tentava il grande salto dopo il blocco del 1940.

Com’erano i primi televisori tra anni Quaranta e Cinquanta? Erano ispirati nella generalità dei casi ai modelli che venivano dagli Stati Uniti d’America e dall’Inghilterra, ma anche dall’Urss e della Germania che cercava un suo futuro sotto le macerie del nazismo. Ed erano ancora in gran parte di legno, anche se stava avanzando l’uso della plastica e in particolare della bachelite. La forma era massiccia, robusta, invadente. Grandi strutture in cui compariva ancora minuscolo il teleschermo, così minuscolo e timido da immaginare che gli fosse concesso e avesse chiesto il permesso di penetrare nella vecchia, solida, forte struttura della caro radio.

Le marche americane erano la DuMont, la GE, la Rca che avevano radici risalenti al ’38-’39 sapientemente aggiornate. Più sobri i televisori inglesi: Baird, Cossor, Ekco, Murphy, Marconi con una provenienza temporalmente simile, meno spaziosi e autorevoli avevano una maggiore delicatezze di linee. Le marche tedesche inseguivano e recuperavano modelli precedenti la seconda guerra mondiale, persino sfarzosi, dalle spalle larghe e da sportelli sulla parte superiore che si aprivano come ali: Telefunken, Loewe e gli aggiornati Fernseh DE o AG. Muscoli di legno e lembi di stoffe trapuntate. Aria da vincitori. La Model Tk era la marca sovietica, squadrata, impettita, solenne.

I colori di tutti questi televisori erano ripetitivi, cupi: nero, marrone, grigi scuri. Erano coloro che stavano per cedere. Incalzavano le materie plastiche e la bachelite che preparavano a colori più vivaci. La bachelite era uno dei materiali più impiegati. Era un composto di farina di legno, grafite, mica, che veniva ridipinto a piacimento ma non si assisteva ancora alla esplosione della vivacità coloristica.

L’aspetto dei televisori fu stabile. Parevano misterioso monoliti capaci di tutto. Uno scrittore italiano, Luigi Bartolini, anche pittore, si fece interprete dei timori circolanti in un articolo pubblicato nel ’53 dal “Giornale d’Italia”. Bartolini si diceva addirittura soggiogato dal minaccioso apparecchio TV che definì “teleimmobilizzatore”, ossia uno strumento di perfide censure o paralisi. Può capitare, scrisse, che “io venga fermato a distanza mentre lavoro; non si sa da chi: ma da un tizio qualsiasi; uno stupido qualsiasi: che, con il suo elettrico apparecchio ‘teleimmobilizzatore’ fermerà la mia penna…non potrò più scrivere e dovrò per forza fare karakiri e fermarmi”.

Il simbolo del monolito tornò come una leggenda nei racconti di fantascienza che si sbizzarrirono intorno alle forme e alla compattezza dei televisori. Come mostra in 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, dal racconto di Athur C. Clarke intitolato La sentinella. Il televisore divenne in vent’anni il “monolito” negli appartamenti degli italiani (gli architetti dovettero creare spazi appositi, secondo una ricerca di Franco Purini) e nello stesso tempo la “sentinella”, nel senso che unendo la mobilità delle immagini alla immobilità degli apparecchi sorvegliava, e indicava, i cambiamenti dei consumi e dei gusti (imposti, recipiti, di nuovo imposti).

L’analogia con il monolito in pietra di Kubrick-Clarke può svelare anologia di una profondità inaspettata, secondo le interpretazioni fatte dai critici per capirne la ratio. Nel film è un segnale di passaggio da un’era dei nostri progenitori in uno stato bestiale all’uomo e alla Luna colonizzata. Così come il televisore-monolito è un segnale di passaggio da un’era della parola e delle immagini fisse al pubblico che è entrato nel Novecento, prima con il cinema e poi con la televisione, in un’era dominata da immagini che non si arrestano e cumulano sempre più potere.

 

Interpretazioni suggestive che hanno spinto i critici a citare il filosofo Friedrich Nietzsche e il suo superuomo, sostenendo che stiamo vivendo un passaggio dall’ “uomo tecnologico” allo stato attuale di Uomo Nuovo, anzi OltreUomo. Ricordate la parte della colonna sonora del celebre film tratta dal poema sinfonico di Richard Strauss Così parlo Zarathustra ispirato all’omonimo capolavoro di Nietzsche? Non sappiamo bene dove siamo nel cammino verso l’OltreUomo, ma sappiamo per ora che i televisori hanno ceduto presto come monolito. Ci hanno pensato la plastica e la bachelite (con lo strano odore di liquirizia che rilasciava nell’aria) ad abbattere almeno nelle forme assunte il monolito di casa o a ridimensionarlo, facendoci scoprire le influenze dei programmi TV, influenze poco visibili e in ogni caso formidabili nel creare mentalità, abitudini, stili di vita, mode e modelli.

I vecchi televisori, troni dei regno dei media, sono stati sostituiti rapidamente dalla fine degli anni Cinquanta. E hanno fatto storia. Anche e soprattutto per il cinema che ha trovato col tempo nella televisione e anche nei televisori utile materia di spettacolo e di riflessione. Di recente, una dozzina di anni fa, tre film confermano, e ricordano, nel caso che lo avessimo dimenticato, il ruolo e l’efficacia spesso più sottile di quanto sembri che la televisione anche apparecchio ha avuto e continua ad avere. Lo hanno fatto in modi diversi, molto interessanti.

Nel 1998 il regista Peter Weir girò Truman Show, protagonista Jim Carrey. Nello stesso anno Gary Ross realizzò Pleasantville. Un anno dopo fu proposto EdTv di Ron Howard. Attenzione al nome di questo regista: Ron Howard, professionista molto bravo, comparve come attore della serie Happy Days che fu trasmessa in Italia nel 1978. Protagonisti: i ragazzi americani degli anni Cinquanta che avevano voltato le spalle alla radio e l’avevano tradita con il televisore e, per un tempo rapido, il juke-box.

Sia Truman Show, ambientato in un’epoca in bilico fra ieri e oggi (più oggi), che EdTv, anch’esso in bilico, mostrano una realtà da soap opera, ovvero la soap opera come filiazione diretta, e implacabile, del televisore e degli apparati alle sue spalle. Una filiazione che produce, e impone, appunto la realtà da soap opera, una perfetta città dell’uomo con antenne sui tetti.  Se il Truman di Jim Carrey vuole sfuggirla, e non potrà farlo, Ed (l’attore Mathew McConaughey) è una vittima consenziente di questa realtà, sta al gioco anche se alla fine sarà capace di liberarsi del giogo, happy end. Il terzo film Pleasantville  propone – nel mazzetto di ritorni dal futuro al passato e dal passato al futuro ispirato alle pellicole di Robert Zemeckis della serie Ritorno al futuro (1985) – è ancor più significativo.

Il televisore è insieme monolito e anche generoso generatore di tante storie nella storia comune delle platee TV. In Pleasantville siamo all’oggi, senza dubbi, con gusto paradossale e analitico, chiamandoci in causa. Una trama coraggiosa e illuminante. Al suo centro un giovane consumatore di TV abbarbicato al televisore per pura passione. Competente e appassionato frequentare di una sit-com seriale degli anni Cinquanta su una rete rigorosamente dedicata a programmi in bianco e nero, un adolescente (Tobey Maguire) degli anni Novanta è risucchiato con la recalcitrante sorella nel piccolo schermo, costretto a vivere tra i personaggi dell’idillico e asettico “nella città piacevole” della TV, dove anche qui tutto è perfetto. A poco a poco i due ragazzi sconvolgono l’ordine delle cose e delle puntate con il desiderio, la trasgressione, il caos, cioè la vita. Gradualmente, mentre la loro azione involontariamente sovversiva procede si passa dal bianconero (il grigio-grigio tv) al colore.

 Il film presenta, testimonia un passaggio al presente. Il televisore è un altro tipo di monolito che segna un movimento temporale, una nuova era, giocando, tornando indietro e andando avanti come una moviola. Pleasantville mette in scena un televisore anni Novanta, in cui vengono rimandate in onda vecchie trasmissioni in bianconero-grigio-grigio, e ci porta a fare un balzo all’indietro a un televisore anni Cinquanta.

Facendo un confronto fra le epoche si capisce, anzi si vede, in diretta differita, nella ricostruzione della fiction cinematografica, che il balzo mostra un cammino in corso per gli apparecchi che ormai hanno preso un  potere stabile nelle case, seminandole di video nelle varie stanze. Moltiplicazione dei pani e dei pesci della comunicazione fra genitori e figli, fra salone e stanzette dei ragazzi, fra cucina e persino nei bagni. Dal punto di vista delle dimensioni, il televisore stava rimpicciolendosi perché le conquiste tecnologiche e le tecniche di marketing lo spingevano a farlo nella old America, fulcro dei nuovi media e dei vettori-diffusori da domicilio, ma anche nella old Italia. Gli anni Cinquanta rappresentarono, in questo senso, il giro di boa.

Da noi l’attivissima Marelli, come illustrano depliant anch’essi old, metteva in vendita televisori più piccoli, apparecchi che si modificavano, allontanandosi dai totem invadenti simili alle radio, ormai da collezione. Apparecchi che proponevano la città perfetta. Se le ideologie totalitarie o dittatoriali del Novecento avevano proposto con la radio le città di un consenso da praticare nei propri confini, e da esportare con la forza o le blandizie dell’intrattenimento, il dopoguerra globalizzava con e nella TV la città perfetta per dimenticare il più possibile le guerre e invitare le masse a godere del benessere.

Tra le 45 industrie italiane si distinse la Brionvega, fondata a Milano nel 1945, e in gara con le altre per conquistare un primato che conquistò, soprattutto per le innovazioni formali e tecnologiche. Capì che bisognava mandare in pensione le vecchie macchine e che occorreva il concorso di chi sapeva e poteva sedurre gli occhi dei compratori e quindi degli abbonati della Rai. Cominciò l’avanzata dei designer di fama mondiale. Il mercato si ampliava e ci si doveva essere. Brionvega lo fece.

Scritturò – uso non a caso un verbo in uso nello spettacolo – i migliori designer e altri li creò o seppe incoraggiare: Hannes Wettstein, Sergio Asti, Mario Bellini, Richard Sapper, Marco Zanuso, i fratelli Castiglioni, Rodolfo Bonetto e soprattutto Ettore Sottsass, il genio del design le cui opere sono esposte nei maggiori musei d’arte contemporanea del mondo. I modelli Brionvega erano distinguibili a colpo di sguardo. Mai enormi, ben proporzionati, non pretendevano spazio nello spazio degli ambienti ma spazio nell’attenzione di chi li aveva comprati e li voleva usare. Il materiale era definitivamente la plastica, una plastica dalle forme sinuose e seduttive, ultramoderne, che modellata mandava nelle case una presenza discreta ma ben definita, ben modellata, non eludibile. Come per un quadro di Picasso, con le sue invenzioni informali contro la tradizione figurativa.

Nel 1962 comparve il televisore Brionvega Doney reclamizzato come “mitico”. I depliant esaltavano la sua forma “a dado arrotondato”, maneggevole e pratica, la lente salvavista, il maniglione in metallo cromato e l’uso di una scocca in materiale lavabile. Il televisore vinse il premio Compasso d’oro per le soluzioni innovative.

Due anni dopo venne lanciano un altro modello storico: Algol-Brionvega, disegnato da Zanuto- Sapper, con il musetto-schermo inclinato all’insù e le forme rotonde, dalle curve ardite (ovvero ammiccanti, offerte agli occhi e agli orecchi dei consumatori; la maniglia estraibile posta in alto; e i colori conturbanti: arancione sole, nero notte e grigio luna. Il giorno il sole, da Carosello in poi la vestaglia da camera da letto.

Un’altra importante industria del settore fu fondata da Lucio Zanussi e il marchio era Sèleco, 1965. Modelli vincenti in plastica preferibilmente nelle gradazioni del grigo, forme rettangolari, altezza e larghezza, ampie, rotonde, più grandi di quelle offerte dalla Brionvega, forme da “maggiorata”. Nel cinema erano sulla cresta dell’onda le cosiddette maggiorate, le dive Sophia Loren, Silvana Mangano, Gina Lollobrigida e una schiera di concorrenti Miss Italia. La televisione non voleva essere da meno e la Sèleco abbondò. Il marchio, parte della divisione Zanussi Elettronica Spa, resse a lungo ma già nel 1984 venne ceduta alla Electrolux e in seguito gli affari sul mercao ebbero alti e bassi,  nonostante l’attivismo nella produzione di televisori a colori.

Ci fu nel 1988 l’acquisizione della Brionvega, la forte concorrente, e vennero aperte fabbriche in Spagna e a Malta, ma il ritorno degli investimenti non si rivelò all’altezza delle aspettative. Fra il 1997 e il 2000 si tentò ancora. Invano. Ci furono grossi licenziamenti, un ridimensionamento inevitabile. Nel 2008 il marchio trovò una nuova proprietà e nell’inverno 2008 tornò sul mercato con il televisore LCD. Nel 2009, l’ultimo fallimento e la cessione alla Selek Technology, che acquisì la Sèleco, l’Imperial  e Phonola, tutti nomi di un passato entusiasmante e generoso, e di un presente faticoso. Il televisore italiano era ormai una stellina nelle infinite galassie della elettronica e dell’informatica.

Nei negozi e nei supermercati oggi i televisori sono pareti  che trasmettono immagini, riconoscibili al volo o curiosamente imbottite di canali retrò, canali minori che guardano dall’alto in basso i televisori quasi sempre di nero lucido. Un nero lucido, talmente lucido da far sembrare che si voglia far dimenticare quello pallido e funereo delle bare. Ma lì dentro vivranno o bruceranno le idee. Visive e non. Le bare diventano tombe da cui di continuo escono zombie (personaggi, giornalisti, divi, soubrette e subrettine) vestiti di nuovo nei canali che resuscitano gli eroi dei  televisori.

Intanto, nella luce abbaglianti degli studi e nelle dirette colorate, si preparano altri: nuove forme, nuovi interpreti. Sempre più immobilizzati nei format dei Tg, dei talk show, del show. Cambiano i televisori, cambiano meno le trasmissioni che diffondono.

In questa ennesima svolta, i marchi dominanti sono intraprendenti e, in nome della concorrenza spietata che in Italia (e in molti paesi) ha nuociuto al televisore nazionale,  si spalleggiano, imitando e copiando fra loro le proposte di novità. Un forte, diversificato presidio dei mercati. I nomi delle marche dominanti li conosciamo: Sony, Panasonic, Samsung, Philips…

Le marche sono pronte a sviluppare assalti distinti, ma nei fatti alleati e comuni, ai consumatori. Ad esempio, pronte nell’incarnare i loro piani negli schermi al plasma. Plasma, parte liquida del sangue, con proteine e sali minerali, e altro. Ma gli schermi sono sottili terminali in cui il sangue che circola, quello dei programmi, sembra sempre più povero di proteine creative. Ad esempio, pronte nell’inseguire il vecchio e leggendario mito del 3D (gli occhialini tridimensionali), araba fenice che ha cominciato la sua discontinua storia dagli anni Cinquanta al recente Avatar.

La febbrile tensione al nuovo o alle leggende ridipinte di novità è obbligatorio. Le marche tremano. Gli schermi dei computer, con internet, e derivati sono la grande minaccia. Su questi schermi le televisioni, senza televisori, si sono inserite, certe di avere un domani irresistibile. Assistiamo a uno spettacolo che va avanti, in cui noi siamo – sempre – le platee da affascinare, da ipnotizzare, con le macchine delle emozioni; e lascia tracce nell’etere, nelle reti nervose dei cavi e dei satelliti, tracce che cercano di aggrapparsi alla nostra memoria.

I ricordi aumentano. Cresce il crepuscolarismo mediatico. La vecchia scatola magica, il focolare, il magnete selvaggio,il vecchio vampiro con le antenne dentate sono dimenticati o ci appaiono come le Buone cose di pessimo gusto di Guido Gozzano e dei versi di L’amica di nonna Speranza, 1850.

In questi versi di Gozzano il “caminetto un pò tetro” è il focolare, una “scatola senza confetti” è  la scatola magica,  il “frutto di marmo protetti dalle campane di vetro” sono il vampiro con i suoi denti antennati.

Il televisore è ricco di storia e di storie. Stimola, alimenta ricordi speciali. Tali da incrociare, a mio avviso, la originalissima ricerca di Francesco Orlando, un grande studioso, che ha scritto un voluminoso libro dal titolo Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura-Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati, tesori nascosti. Orlando ha collezionato, e immesso nel libro appassionante come un romanzo, un itinerario composto di stoffe sbiadite, strumenti rotti, edifici diroccati, dimore abbandonate, cibi ammuffiti… Un itinerario che passa attraverso la letteratura fra Settecento e Ottocento: un raffinatissimo e rigoroso gioco alla Marcel Proust, una vera ricerca del tempo perduto.

Il televisore, uno degli oggetti più significativi del Novecento, marcia verso un solaio che si dilata da ieri e oggi per accogliere i nostri ricordi, i nostri pensieri. Nonostante tutto, malgrado diffidenze e fanatismi, il mezzo-che-è-anche-messaggio resiste: era fatto di legno, poi di bachelite, ora di sofisticata plastica-plasma. La vera storia del televisore – materiali che hanno bisogno del plasma(sangue) delle proteine creative – sta nel cercarvi  forme e contenuti, che diventano desueti  dal giorno in cui sono collocati in uno spazio e i suoi contenuti sono andati in onda. E come tali, preziosi, se li si  analizza senza pregiudizi, con fantasia, comprendendo il loro valore del tempo che fu e in cui siamo.

 


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