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Anna Barsotti

La trilogia degli occhiali di Emma Dante

Data di pubblicazione su web 11/06/2011
Castello della Zisa (Onofrio Zummo). Foto Carmine Maringola

Della Trilogia degli occhiali ho incominciato a vedere, da solo, l’ultimo capitolo – Ballarini (con Sabino Civilleri ed Elena Borgogni) – il 27 aprile, al Teatrino di Buti; tre giorni dopo, il 30, ho visto il primo e il secondo, Acquasanta (con Carmine Maringola) e Il castello della Zisa (con Onofrio Zummo, Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier), alla Città del Teatro di Cascina (PI). Sebbene i tre atti unici o appunto “capitoli” – come li definisce l’autrice – possano essere fruiti in autonomia, sono certa che la prospettiva globalmente triadica consenta una lettura di più ampio respiro. Come trilogia, non a caso, lo spettacolo ha debuttato nel gennaio 2011 al San Ferdinando di Napoli, è stato riproposto nel febbraio al CRT Teatro dell’Arte di Milano (coproduttori insieme alla Sud Costa Occidentale, con il sostegno del parigino Théâtre du Rond Point); iniziando a girare come di consueto all’estero, a Bruxelles (una delle piazze più affezionate del teatro di Emma). Invece al Teatro dell’Archivolto di Genova, è stato dato in tre serate distinte (13-14-15 aprile).

 

La completezza trinitaria dell’opera è confermata dall’escalation tematica della «marginalità» – povertà, malattia, vecchiaia – dichiarata e scandita ancora dalla Dante nell’Introduzione al libro che la con-tiene[1]. Un’escalation alla rovescia, secondo un suo topic ricorrente, rintracciabile nella decrescita dell’anomalia del male di cui sono portatori i suoi personaggi-persone, e nel clima scenico che essi riescono a creare per il coinvolgimento (non immedesimazione) degli spettatori, al tempo stesso rappresentati e reali. Tra i poli del tragico e del comico (allegro, aspro, grottesco) che continuano ad attrarre questa drammaturgia, l’impatto più forte anche fisicamente (per gli spruzzi acquorei misti a saliva che colpiscono le prime file) è in Acquasanta, il più debole, con qualche oscillazione nel patetico, è in Ballarini; intenzionalmente, credo, e anche perciò ne parlerò all’incontrario, incrociando la mia esperienza di spettatrice (e di lettrice) con l’architettura di questa Trilogia, che ci offre ancora una volta una tra le ultime possibili declinazioni, a frammenti, della tragedia odierna. D’altronde, al di là dei temi enunciati (accanto a quello dell’«amore» folle), attraversa i tre capitoli il nodo semantico che lega l’Abbandono alla Memoria, intendendo bene, come altrove (Medea), il rapporto post-moderno o post-drammatico d’una siciliana con la tradizione e l’antica classicità[2].

 

Alcune notazioni preliminari: i testi, stavolta, sono stati più che tempestivamente pubblicati in libro, consegnati infatti per la stampa, a Rizzoli, prima della fine del 2010, e quindi prima del debutto dello spettacolo. Da questa vicenda editoriale-performativa emerge anzitutto un fatto incontrovertibile: la tendenza della Dante a farsi donna di libro, sempre più parallelamente alla sua essenza di donna di scena. Ciò è confermato non tanto dalla pubblicazione di una romanzo, via Castellana Bandiera (2009), da cui si farà un film, quanto dall’urgenza oggi testimoniata di pubblicare, come detto, i testi scritti contemporaneamente all’uscita di quelli performativi;  fenomeno che non appartiene certo al ciclo iniziale del suo teatro, se si considera che la prima “trilogia” della Sud Costa Occidentale è stata stampata, nella sua interezza, circa sei anni dopo il fulminante esordio spettacolare di mPalermu (del 2001)[3]. E tale fenomeno è accompagnato da un’altra emergenza: il «teatro da campo» dell’autrice-regista e capocomica non corrisponde che in minima parte alla sua trasposizione scritta; ancor più nel caso della Trilogia degli occhiali, a confronto con quello della Trilogia della famiglia siciliana (mPalermu, Carnezzeria, Vita mia), la lingua dei testi differisce nella sostanza da quella degli spettacoli.

 

Nel mio libro La lingua teatrale di Emma Dante[4], in riferimento appunto a quella prima Trilogia, ho sperimentato la potenziale specularità dei due differenti tipi di materiali, analizzando, non solo nella prospettiva della lingua verbale (già miscuglio variato di dialetto palermitano e d’italiano), separatamente i testi scritti e pubblicati (due prima in rivista) e le loro versioni performative; così, nel passare anche attraverso i copioni inediti, ho ipotizzato persino una lettura alla rovescia del fenomeno teatrale – dal testo spettacolare a quello drammatico –, credibile tenendo conto della sua processualità, per concludere (a ogni modo) che è la vita carnale e simbolica della scena a rispondere meglio all’ispirazione della creatrice e dei suoi attori-coautori, in parte diversi da quelli odierni (se si eccettuano Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, originaria interprete di Ballarini).

 

Tanto più l’ultimo discorso vale, a mio avviso, per quest’altra Trilogia: al punto che, se in quel mio libro mi ritenevo fortunata d’aver visto prima gli spettacoli e poi letto i testi, oggi, avendo letto prima i testi e dopo avere visto gli spettacoli, resto a maggiore ragione colpita dalla loro differente sostanza. A partire dal primo cui ho assistito, appunto Ballarini, che nell’edizione a stampa appare (come dal sottotitolo dell’autrice) una «Lunga didascalia dell’articolo il», per la bella sintesi grafica d’una disposizione corporea dei due anonimi personaggi: «Lui è alto e secco. Lei piccola e ricurva. Per abitudine lei di ferma al lato destro di lui» (pp. 72-73). In tondo la descrizione dei movimenti e le rarissime battute, in corsivo i brani delle canzoni d’antan (Mina Tenco Pavone Vianello Morandi Cetra Cinquetti) che costituiscono non la colonna sonora ma l’ossatura musicale e coreografica d’un viaggio a ritroso nel tempo della coppia “il”, come rievocazione visionaria della vecchia rimasta sola, anche se piena d’un amore che non è morto con il suo compagno. Ma questa lunga didascalia se, come scrive Alessandro Paesano, «ha una sua dignità letteraria […] nel diventare spettacolo sul palco cambia»[5], trasformandosi non in un teatro canzone o in un teatro danza, ma certamente in una vitalissima giostra performativa, dove musica e ballo eccedono ogni possibile immaginazione di teatro di parola (sia pure didascalica); grazie allo speciale training cui la Dante avvezza i suoi attori, a partire dalla notevole elasticità posturale e ritmica di Elena Borgogni e del collaudato Civilleri durante il ringiovanimento progressivo che manifestano nel percorso della pièce, e al di là delle maschere grottesche di vecchi indossate all’inizio e alla fine (delle quali quasi nessun recensore, curiosamente, parla, neppure l’autrice nel testo[6]). D’altra parte, come vedremo nei due (precedenti) capitoli, a cambiare strutturalmente è il finale, segno di un’esigenza di semplificazione che oltrepassa, sulla scena, l’urgenza d’una precoce e inedita fissazione scritturale (perché, nonostante questa, la genesi e la processualità degli spettacoli è la stessa di sempre). Al posto dello «scatto felino lungo il perimetro della stanza» (p. 90) – vuota del resto eccetto i due bauli scrigno memoriale – della ritornata vecchia, che nel testo ne zoomorfizza aggressivamente la desolazione, resta invece nello spettacolo, dopo tanto moto, l’immobilità di Lei curvatamente seduta sul suo più piccolo baule mentre scende il buio totale.

 

Il fenomeno del divaricamento fra scrittura e azione riguarda l’intera Trilogia, se in Il castello della Zisa i dialoghi in italo/francese fra le due suore (Claudia Benassi-Giovane, Stéphanie Taillandier-Anziana, non come però il personaggio) che accudiscono l’autistico Nicola (Onofrio Zummo) risultano borbottii variamente intonati sulla scena; e lo stesso monologo del giovane in siciliano che rievoca l’infanzia con la zia, alla finestra da cui guardava proprio il Castello della Zisa, immaginandosi dragonesco custode di principesse insidiate dai diavoli, ha un peso relativo (dal punto di vista verbale) rispetto all’agilità acrobatica, la capacità da giocoliere, con cui si risveglia dalla catatonia quando le sue infermiere (a loro volta giocoliere, e dotate di perfetto sincronismo) fanno cadere, per caso, una delle due bamboline meccaniche, che insieme all’hula hoop, alle palline e ai birilli servono a stimolarlo. Richiamo fiabesco, quello delle bamboline-principesse, non solo a Le Pulle, ma al carillon di Ballarini che si sintonizza, nello spettacolo, con la camminata della vecchia ringiovanita mentre avanza meccanicamente verso lo sposo, il quale poi si trasforma – attivato eroticamente dal tocco di Lei – in strumento musicale.

 

Ringiovanimento da un lato, risveglio dall’altro (come non pensare a Oliver Sacks?), ma graduale per Nicola/Zummo di Il castello della Zisa, dopo l’urlo di dolore: eppure con movimenti ‘discreti’, anche qui da pupo meccanico che via via, però, si scioglie in corse pazze d’entusiasmo e di gioia, e che non può non ricordare il risveglio (dalla morte) di Chicco in Vita mia. Così come, d’altronde, la scena del parto con pancia semovente ancora di Ballarini rievoca l’analoga (in tutt’altra situazione) di Carnezzeria, mentre le lucine fatte accendere e poi spente, alla fine, dalla vecchia Lei richiamano uno dei finali studiato dall’autrice per quel capitolo centrale della prima Trilogia (dove si era pensato, in alternativa all’impiccagione alla rovescia di Nina, a una sua brusca interruzione delle luminarie e dell’intera illuminazione). La genesi processuale, infatti, degli spettacoli della Dante sembra soltanto «dissipare»[7] trovate o soluzioni, che si ritroveranno invece, come marchio di qualità, in altri spettacoli. In questo, riguardo alle differenze non solo qualitative ma anche quantitative col testo, credo, altrimenti dalla mia valutazione iniziale, che una minore dissipazione del monologo fantastico di Nicola – di peso relativo in scena anche perché decisamente ridotto – avrebbe chiarito meglio le «coordinate essenziali della vicenda»[8], terminando invece con la battuta «zia Marisa, dov’è mia zia?». Drasticamente tagliato (forse in virtù o a causa di quella specie di furia verso l’essenzialità che sembra cogliere l’autrice, dopo la scrittura edita) anche tutto il finale del testo a partire da p. 61, dove circolarmente replica l’isterico e violento scontro, verbale e fisico, fra le due suore, finché non «s’avviano verso la seconda seggiola della fila [in fondo] a scoprire un altro malato sollevando il lenzuolo dal suo corpicino rannicchiato» (p. 66). L’opera scenica s’interrompe con il «buio improvviso» che cala sulla ri-caduta di Nicola nella catatonia.

 

D’altra parte, il lungo flusso di coscienza o «Pensiero in corsivo di un mendicante» che costituisce apparentemente, in Acquasanta, l’unico luogo della parola (fra i tre testi) assume un ruolo paritario con gli altri linguaggi, non verbali, dello spettacolo. Non certo perché si tratti, come scrive Enrico Fiore, di «un abborracciato napoletano assai poco significante ed espressivo»[9], ché anzi, da toscana avvezza a percepire le sonorità eccezionali della lingua partenopea, ho colto nel parlato-recitato dell’attore solista (nel testo in tondo, in corsivo italiano la didascalia-pensiero) una notevole capacità espressiva e poetica: in linea con la credibilità teatrale delle consuete sperimentazioni autoriali e attoriali – non a caso s’è accentuato il napoletano con l’ingresso di Maringola in compagnia, con la Taillandier si mescola il francese all’italiano – e per certi vezzi o tic verbali con il personaggio persona, folle e ingenuo visionario.

 

Le «non-gerarchizzazione» nei codici della lingua teatrale di questo capitolo è dovuta soprattutto alla performance – a detta di tutti i critici, straordinaria – dello Spicchiato/Carmine Maringola, abbandonato (come tutti gli altri diseredati della Trilogia) nel luogo a lui più estraneo per eccellenza, la terraferma. Colpiscono come e più delle parole del «mezzo mozzo» napoletano innamorato del mare, e impazzito per esso, le azioni fisiche con cui «sa manovrare con maestria le tre ancore appese, non solo muovendosi senza che le tre corde» cui è legato «si intreccino, ma fingendo addirittura di rimanere appeso per la corda (sfruttando invece la sua forza muscolare)» (ancora Paesano); e la sua stessa capacità di simulare all’inizio un’intera tempesta e di passare poi da un personaggio all’altro, marinaio-aguzzino, capitano, anche qui nella rievocazione del passato, recitando (direbbe Fo) in soggettiva e in obiettiva, con l’ausilio d’un cappello diverso come di  diverse posture e intonazioni. C’è anche da notare l’idea sceno-coreografica alla base di tale performance per cui l’attore, con le caviglie e la cinta di dietro dei pantaloni allacciate dalle tre corde alle pesanti ancore appese al traliccio sovrastante, si muove come un Pupo (napo-siciliano), dopo avere azionato i ritmici contaminuti oscillanti sul suo capo; quando non s’inginocchia davanti all’artigianale prua (variante del boccascena-nave di pietra di mPalermu o del catafalco-nave dei folli di Vita mia) fino al punto di fingersi alla fine nella polena. Ma anche qui, nel finale, l’evento scenico cambia rispetto al testo pubblicato; dopo «l’urtima scena» toccante e sferzante in cui l’innominato mozzo canta a squarciagola (premendo con la voce sulla base musicale di «Indifferentemente») la più triste canzone d’amore, rispetto alla struggente ma più allegra «Maruzzella», anziché restare fissato nella posa del mitico Titanic, rimane in palco replicando (stavolta nello spettacolo) l’incipit, ovvero continuando a spruzzare beffardamente il pubblico con l’acqua bevuta, sputata, dalla bottiglia di plastica, e in più chiedendo l’obolo da depositare nel cestino davanti invita lo stesso pubblico ad allontanarsi per il cambio scena.

 

Gli spettatori, come dicevo prima, seguitano a essere negli spettacoli della Sud Costa Occidentale rappresentati e reali, nel senso che sono doppiamente implicati in ogni capitolo della Trilogia. Si rivolge loro coralmente e individualmente il mendicante-mozzo, dopo che sono entrati trovandolo già là; li fissa presentandosi il giovane malato («’U mè nome è Nicola. Sugnu di Palermo, d’a Zisa») nel risveglio che addirittura potrebbe essere un nostro sogno[10], come nel sogno della vecchia Lei siamo coinvolti, pur se non esplicitamente (forse per la struttura della pièce che è stata definita beckettiana). Eppure siamo anche così reali che qualcuno si ripara dai liquidi sputati da Maringola o rabbrividisce a vederne la bava che, inesorabilmente, si riforma nella sua bocca; è il trucco della Dante e dei suoi attori-persone per comunicare l’effetto d’un coinvolgimento che – ho già detto – non può essere immedesimazione, grazie a certa intenzionale sgradevolezza emanata, per un verso o per l’altro, da ciascuno (le maschere, per esempio, dei vecchi, anche se via via suscitano tenerezza). Per essere colpiti brutalmente da essi, non ci dev’essere completa immedesimazione, come per ridere di tali vinti di cui talvolta si ride.

 

Ma veniamo agli occhiali, che costituiscono il fil rouge di questa Trilogia, segno ambiguo di semi-cecità e, al tempo stesso, di capacità visionaria: li porta lo Spicchiato perché «’i lenti song ’a rappresentazione dell’intelligenza» sua, e per esse è perseguitato dal marinaio che teme forse di vedersi nelle lenti riflesso; inforcando gli occhiali il catatonico Nicola riesce meglio a tenersi in piedi e a vedere, appunto, gli spettatori; con gli occhiali il vecchio Lui ringiovanisce. Ma li portano anche le due speculari suore-infermiere, esasperate sì fino alla lite brutale ma pure dedite, in fondo, a un ingrato compito che potrebbe anche farle sognare, come noi, il risveglio del paziente (al di là della ricorsa autocitazione delle croci in scena, sospese a corde elastiche come quelle che paiono muovere il barbone).

 

Oggetto metaforico per eccellenza, l’occhiale o la lente rispecchia à l’envers o deforma; sintomo di vecchiaia per Nonna Citta (di mPalermu), che si leva gli occhiali per giocare alla rocambolesca partita di pallone, causa di errore e di disgrazie per il ferroviere di Cani di bancata. Altro reperto dell’armamentario artigianale del teatro di Emma Dante, che cambia di segno a seconda delle situazioni, conservando tuttavia, sempre, quella potenzialità di ribaltamento visionario o aggressivo che costituisce uno dei tratti salienti dello stile Sud Costa Occidentale; anche quando gli attori cambiano, si sostituiscono gli uni con gli altri, mantenendo comunque quelle specifiche capacità fisiche che sono frutto di talento e soprattutto d’un addestramento magari massacrante, ma condiviso, il cui frutto è una estrema precisione e penetrazione espressiva.

 

 

Scheda dello spettacolo:

Trilogia degli occhiali di Emma Dante

Acquasanta, cap. I – Il castello della Zisa, cap. II – Ballarini, cap. III

Testo e regia di Emma Dante

Scene di Emma Dante, Carmine Maringola

Costumi di Emma Dante

Disegno luci di Cristina Fresia

Coproduzione Compagnia Sud Costa Occidentale – Teatro Stabile di Napoli – CRT Centro di Ricerca per il Teatro (Milano) – con il sostegno di Théâtre du Rond Point (Paris)

   



[1] E. Dante, Trilogia degli occhiali, Milano, Rizzoli, 2011, p. 7. Da cui continuo a citare nel testo indicando le pagine in numeri arabi.

[2] Cfr. A. Barsotti,  Emma attraversa lo specchio: posdrammatico vs drammatico, in «Prove di Drammaturgia», XVI, n. 1, 2010 (numero che contiene anche un contributo di Hans-Thies Lehman).

[3] E. Dante, Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana, prefazione di A. Camilleri, Roma, Fazi, 2007.

[4] A. Barsotti, La lingua teatrale di Emma Dante. mPalermu, Carnezzeria, Vita mia, Pisa, ETS, 2009.

[5] A. Paesano, Una marginalità che riguarda ognuno di noi, 9 marzo 2011, Teatro Palladium, Roma, in www.teatro.org/spettacoli/ limone_fonderie_teatrali/la_trilogia_degli_occhiali_2091_16302.

[6] Vi accenna soltanto nel foglio di sala per la “Trilogia degli occhiali” al Teatro dell’Archivolto di Genova.

[7] Cfr. in proposito Hans-Thies Lehmann, Segni teatrali del teatro post-drammatico, in «Biblioteca Teatrale», n. s., Il teatro di fine millennio (presentazione di Valentina Valentini), n. 74-76, 2005, pp. 23-47; ediz. originale: Id., Postdramatische Theaterzeichen, in Id., Postdramatische Theater, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main, 1999, pp. 139-79; Id., Le Théâtre postdramatique, traduzione francese di Philippe-Henri Ledru, Paris, L’Arche, 2002.

[8] C. Canella, Vite ai margini dietro gli occhiali dei vinti, in «Hystrio», XXIV, n. 2, 2011, p. 76.

[9] E. Fiore, Gli occhiali di Emma Dante, in «Il Mattino», 27 gennaio 2011.

[10] Tale è l’interpretazione dell’autrice: «Siamo noi che lo vediamo rialzarsi dopo la caduta, alzare gli occhi al cielo, emettere un urlo imprigionato nel corpo, siamo noi che lo sentiamo parlare, ridere, accendersi di passione» (E. Dante, Introduzione, cit., p. 9); e La caduta nel sogno è il sottotitolo di Il castello della Zisa.


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