In occasione del 160° anniversario della composizione del Rigoletto di Giuseppe Verdi pubblichiamo il saggio di Paolo Patrizi inserito nel Programma di sala del 2010 della rassegna estiva del Teatro alle Terme di Caracalla. Per gentile concessione del Teatro dellOpera di Roma.
Esiste unedizione discografica del Rigoletto (Emi 1978, direttore Julius Rudel, con Sherrill Milnes, Alfredo Kraus e Beverly Sills) che la critica accolse con disattenzione, ma che – oltre alla curiosità di proporre unaria aggiuntiva, dincerta provenienza verdiana, destinata al personaggio di Maddalena – rappresenta un buon punto di partenza per una ricognizione drammaturgica. In questincisione (poco importa se per scelta precisa o circostanza fortuita) Sparafucile e Monterone sono affidati allo stesso interprete, il non ancora celebre Samuel Ramey: con la conseguenza che la maledizione e il suo materiale esecutore hanno la medesima voce.
È un esito interessante, perché si va a collocare allinterno duna più vasta rete di simmetrie e specularità: Marcello Conati, nel suo Rigoletto. Unanalisi drammatico-musicale (Marsilio 1992), sottolinea il transfert vocale tra Monterone e il protagonista, entrambi padri offesi nellonore della figlia ed entrambi chiamati a gravitare, nella gran scena dove si fronteggiano, sulla nota di Do; e le strutture simmetriche investono – se lallestimento rispetta le didascalie del libretto – pure la scenografia, con un alternarsi dinterni ed esterni, anche nellambito del medesimo quadro, che pone personaggi e pubblico in una situazione quasi voyeuristica (la sponda del Mincio e la stamberga di Sparafucile, osservabile al suo interno, da Rigoletto e dagli spettatori, grazie a un gran numero di fessure).
Questo bisogno di creare una corrispondenza – drammaturgica, vocale, visiva – tra gli elementi che danno vita allopera più vitale di tutto il repertorio italiano deriva, anche, dallincapacità dei personaggi di porsi in relazione tra loro. I rapporti tra Rigoletto e Gilda, Gilda e il Duca, il Duca e il Rigoletto sono strettissimi (quello che lega un buffone al potente che lo foraggia non è meno vincolante del rapporto tra un padre e una figlia, o tra due amanti), ma circoscritti allhic et nunc: si vive in un eterno presente dove – per contorta fobia nel caso di Rigoletto, per svagato edonismo nel caso del Duca – la memoria non trova spazio. È probabile che il passaggio dallambientazione francese di Victor Hugo a quella padana del libretto abbia contribuito a imprimere ai personaggi una concretezza terragna, dove radicarsi nel “qui e ora” è quasi fisiologico; ed è pure possibile che questa rimozione del passato abbia avuto per Verdi un risvolto autobiografico: la composizione del Rigoletto coincise con la rottura di rapporti con suo padre, dopo che questi si era rifiutato di accettare la relazione tra il figlio e la “traviata” Giuseppina Strepponi.
In ogni caso, la memoria è messa al bando. Lunico istante in cui il Duca si volge al passato – laria Parmi veder le lagrime – è uno strappo alla vera natura del ruolo, che per un momento acquista la consueta fisionomia del tenore amoroso e dismette i panni, tenorilmente ben più insoliti, di “antieroe positivo” o, se si preferisce, di simpatico farabutto; mentre lunica che davvero saprebbe guardare indietro – Gilda – è di fatto un personaggio senza passato, unadolescente che non conosce gli uomini e la vita. Quando impara a conoscerli, sarà proprio limpossibilità di dimenticare che la porterà alla morte. In questa prospettiva un brano come Caro nome, allapparenza antiquato ed esornativo, acquista una logica inoppugnabile: sì, in questa pagina – un tuffo allindietro di almeno ventanni, con il suo belcanto di bravura – Verdi arretra le lancette dellorologio. Ma appunto perché è uno dei pochi momenti retrospettivi. In unopera così oltranzisticamente dismemore, era inevitabile che i lampi di memoria si ancorassero a una forma espressiva più tradizionale (per il tenore) o ad una vocalità più “datata” (per il soprano).
Coerentemente con una vicenda che, nei primi due atti, si concentra nel ritmo incalzante di circa ventiquattrore («E tutto un sol giorno cangiare poté!»), il libretto di Piave è un florilegio di frasi smemorate, a cominciare da quel «Gran nuova! Gran nuova!» gridato quasi allinizio da Marullo, che mostra come pure i cortigiani, intesi quale unico grande personaggio, rifuggano il passato interessandosi solo alle “nuove”; sicché quel «Sho dormito sempre!» con cui lo stesso Marullo, nel secondo atto, rintuzza la frase di Rigoletto circa gli avvenimenti della notte prima non è solo un modo di eludere lindagine del buffone: è la metafora dun sonno capace di rimuovere ogni avvenimento. Una delle prime battute del protagonista («Che coglier mi puote? Di loro non temo») mostra poi come, nel gorgo che travolge quella corte, neppure per il futuro resti spazio. Anzi, che il futuro spaventi più del passato è confermato dallangosciatissimo «Mi coglierà sventura?» su cui si chiude il soliloquio Pari siamo: unangoscia che Rigoletto tenta invano di esorcizzare con un repentino ritorno al presente («Ah no, è follia»).
Alle volte il rifiuto del passato assume la forma dellimplorazione («Deh, non parlare al misero / Del suo perduto bene», dice Rigoletto alla figlia, per poi tornare alla concreta spietatezza del presente con un «Padre ti sono, e basti»); voltarsi indietro è possibile solo a prezzo duna sintesi straziante, che fa concentrare tutta la propria storia damore in sole sette parole: «Solo, difforme, povero, per compassion mamò». Perfino Monterone nella sua seconda, fugace comparsa sembra rinnegare il passato, rimangiandosi la maledizione che aveva tuonato il giorno prima. Sicché, paradossalmente, il miglior esercizio di memoria viene fatto dal Duca, quando dice a Maddalena «Un dì, se ben rammentomi, / O bella, tincontrai». Si tratta dun passato forse fittizio, comunque da rivangare solo a scopi seduttivi, ma almeno serve a uscire da questo patologico presente; e siccome, nelle schermaglie che seguono, il libertino ammette «Un mostro son» se ne deduce che il Duca è lunico personaggio ad avere piena consapevolezza di sé. È abbastanza perché lassolutoria simpatia concessagli dallautore appaia tuttaltro che immotivata.
La mancanza di senso del passato diventa mancanza di senso della realtà (un padre che si rifiuta di dire alla figlia il proprio nome) e, talvolta, di capacità percettiva: sarebbe altrimenti difficile spiegare come la tagliente intelligenza del protagonista possa cadere nel puerile trabocchetto della scala tesogli dai cortigiani. La verosimiglianza di una beffa così violentemente farsesca – una sorta di rovesciamento dell«inutil precauzione» di Don Bartolo – sta però nella circostanza, forse non abbastanza messa a fuoco, che il Rigoletto comincia come unopera buffa. O meglio: il tenebroso preludio con cui inizia è un chiaro anticipo del dramma che verrà. Ma è una sorta di memento, tanto più necessario quanto più grande sarà la smemoratezza cui i personaggi andranno incontro. Resta fermo che il sipario si apre su musica e situazione da commedia, e il fatto che Rigoletto sia un buffone di corte dovrebbe farci riflettere: una delle figure più tragiche della storia del melodramma è un personaggio che, di mestiere, fa ridere la gente.
Stando così le cose, si dovrebbe guardare con interesse a quella manciata di cantanti imbrigliati nel cliché del baritono comico-brillante che, magari in via occasionale, si sono cimentati nel Rigoletto: le interpretazioni di Mariano Stabile, Renato Capecchi, Sesto Bruscantini, Rolando Panerai – assai diverse tra loro sotto il profilo degli esiti vocali – sono state importanti proprio per la cura di quellaspetto da opera buffa presente nei primissimi quadri, e che prepara il terreno alla semina della tragedia. Ma cè di più: sono i baritoni comici che hanno sottolineato meglio di altri il lato malvagio di Rigoletto.
Estrapolata dal suo contesto, che era un tentativo di salvare le caratteristiche del dramma di fronte alle modifiche richieste dalla censura, la celebre frase di Verdi («Un gobbo che canta… esternamente difforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno damore») ha finito per offrire il destro a una serie di raffigurazioni smussate, che glissano sullaspetto diabolico e le tare psichiche di Rigoletto per concentrarsi sullafflato patetico e la dolcezza paterna. È una forma didealizzazione (e in fondo anchessa di censura) attribuita, nella storia dellinterpretazione operistica, anche a un altro grande personaggio di matrice victorhughiana: Lucrezia Borgia. Ma se la Borgia “angelicata”, come purificata dai propri misfatti e dalle proprie aberrazioni in virtù della maternità – esattamente come dovrebbe fare la paternità con Rigoletto – può trovare fondamento nella scrittura vocale di Donizetti, che comunque presenta anche momenti confacenti a unincarnazione molto più “nera”, nel caso del gobbo verdiano sarebbe azzardato pensare che la crudeltà sia solo la maschera del personaggio, e la dolcezza il suo vero volto.
Il Triboulet di Hugo è ancora peggiore di Rigoletto, è lui che istiga al vizio il suo signore e fa circolare nella corte il contagio della depravazione. Pretendere che, nellopera di Verdi, la corruzione del Duca e dei cortigiani sia un prodotto dellarte manipolatrice del loro buffone non avrebbe fondamento, ma la questione resta aperta: Rigoletto si trasforma in mostro davanti al precipitare degli eventi o è già un mostro di per sé? Nei primi decenni del Novecento i baritoni di ceppo belcantistico (Mattia Battistini prima, i suoi numerosi epigoni poi) hanno rigettato questipotesi: leventualità che, dietro la facciata dellamore paterno, quello con Gilda fosse un rapporto egoistico e patologico («Mia colomba… lasciarmi non dęi… / Se tinvoli… qui sol rimarrei…») non era presa in considerazione. La raffigurazione violenta – inevitabile corollario duna vocalità ciclopica – di Titta Ruffo ha poi aperto una nuova prospettiva: nelle generazioni successive più dun grande interprete ha preferito vedere in Rigoletto il «vil scellerato»
di Pari siamo, e in quella cavalcata a precipizio verso il male che è Sì, vendetta la vera epitome del personaggio, piuttosto che una figura allultimo stadio della degradazione ma con unineliminabile nobiltà di fondo. E che oggi si torni verso un Rigoletto “belcantista”, sia pure aggiornato rispetto al gusto battistiniano, rientra in una normale dialettica di corsi e ricorsi.
La chiave di volta, probabilmente, sta in quella frase nevralgica che è «Ma in altruom qui mi cangio», dove Rigoletto commenta la propria metamorfosi da criminoso pagliaccio a genitore che cerca rifugio tra le mura domestiche (una trasformazione sottolineata anche dalla scrittura vocale, con il passaggio di registro, allattacco della frase, dal Si naturale al Mi). È proprio questo “altro uomo” che, almeno in parte, viene a mancare nelle interpretazioni più sensibili agli impulsi negativi del personaggio; ma in questa bipolarità tra crudezza espressiva dun recitar cantando che esalta laspetto mostruoso del buffone, da un lato, e armamentario canoro del baritono grand seigneur che sfuma i momenti più scabri attraverso il proprio aplomb vocalistico, dallaltra, non è sempre facile schierarsi con le ragioni del belcanto.
Non lo è sotto il profilo drammaturgico, dato che, come si è visto, in questopera dove il passato fa paura il belcanto è semmai il porto dei rari ancoraggi alla memoria. Ma non lo è neppure sotto un aspetto più oggettivo, e cioè partitura alla mano. Una disamina in tal senso rivela come i momenti di canto tagliente o declamato siano tuttaltro che minoritari; e pure sulla natura delle pagine che, inequivocabilmente, richiedono canto sul fiato, legato e mezzevoci – da Veglia, o donna a Miei signori – ci sarebbe da discutere.
Veglia, o donna è stato per decenni dimidiato nella prassi esecutiva (cantato cioè solo nella sua seconda esposizione a due voci, sia pure su parole diverse, con il soprano, negando al baritono la prima esposizione solistica), appunto in unottica volta a minimizzare quanto di soffice e affettuoso si trova nella vocalità di Rigoletto; e tuttavia il Veglia, o donna preziosamente centellinato, atto a far delibare smorzature e rallentandi, è a sua volta un arbitrio che imprime un tempo più lento di quello previsto da Verdi, togliendo al brano quella carica di ansia che, dietro la facciata dellaffettuosità, lascia trapelare tutte le patologie del protagonista. Anche su Miei signori ci sarebbe da discutere, perché qui la dolcezza commossa potrebbe con pari verosimiglianza cedere il passo a una supplica farisaica, dove il personaggio resta crudele pure nella disperazione. Certo: un Rigoletto a ciglio asciutto quando canta «Ebben, piango» rischia di peccare dinsensibilità. Ma la cosa può assumere una straordinaria verità interpretativa se si pensa che nellunico momento in cui è davvero se stesso – ancora Pari siamo – ammette con amarezza che «il retaggio dognuom mè tolto… il pianto!...».
Vien fatto di pensare, insomma, che il Rigoletto dal canto morbido e nobile sia una forzatura, per quanto squisita, al pari di tanti Germont della Traviata belcantisticamente risolti attraverso una vocalità sfumata, affettuosa, commossa: cosa che obbedisce allesteriorità di molte pagine, ma dimentica come Germont stia mettendo in atto unautentica opera di distruzione di Violetta. Sicché il Rigoletto né idealizzato né magniloquente inviso alla scuola baritonale (e alla critica) più oltranzisticamente vocalistica sarà pure, comè stato detto, “verista” e “borghese”. Ma non per limiti congeniti, bensì perché parte da premesse diverse: unopera che teme gli indugi della memoria, con un avvio da commedia e uno sviluppo da dramma truculento. Il tutto, se possibile, da affidare a un baritono con talento comico.
Lo stato allucinatorio che, quasi dallinizio alla fine, accompagna il protagonista potrebbe poi essere il viatico per interpretazioni di taglio addirittura espressionistico. È unallucinazione che, ancora una volta, trova sintesi in Pari siamo, dove le immagini evocate – Sparafucile, Monterone, il Duca, i cortigiani – danno lidea di scorrere come se passassero non sotto i nostri occhi, ma sotto quelli del monologante; e ci si può anche spingere più in là, ipotizzando – è la tesi di uno studioso di sicura fede verdiana come Gustavo Marchesi – che lintero Rigoletto sia la storia di unallucinazione, e tutti i personaggi siano fantasmi della mente del protagonista. Il finale della tragedia di Hugo, che prevede limprovvisa apparizione di una folla attorno a Rigoletto sul cadavere di Gilda, e fa calare il sipario su una battuta tanto più asettica quanto più irreale (la diagnosi di decesso da parte dun medico sopraggiunto allultimo momento), potrebbe corroborare una simile lettura. Verdi – anticonformista, sì, ma abbastanza pragmatico da non deludere ogni aspettativa del pubblico – preferì rinunciare a un epilogo così straniante, limitandosi a un ultimo duetto. Ma la macchina destinata a scompaginare tutte le certezze del lessico operistico, ormai, laveva messa in moto.
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