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Anna Barsotti

Il privato è politico: in scena, per Binasco, il tiranno sempiterno di Alfieri

Data di pubblicazione su web 14/12/2010
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Ad apertura di scena una giovane donna, seduta in faccia agli spettatori, con le braccia dietro la schiena, così da apparirne quasi priva fra le vesti che le rigonfiano dattorno, pronuncia un soliloquio che sembra un’allocuzione, proponendo uno dei nodi centrali della tragedia: il suo amore, sentito come colpa, per Carlo, figlio del suo sposo Filippo, e quindi suo figliastro ma già, prima, suo promesso sposo.

Così la regina Isabella – scrive Alfieri al Calzabigi nel 1783 – ha prevenuto gli spettatori «in favor suo, e in favore di Carlo, e disfavor di Filippo; ella ha lasciato intendere chi ella sia, dove ella sia, con cui ella abbia a che fare, e ciò ch’ella debba temere e sperare. Onde, dopo i suoi ventiquattro versi [...], lo spettatore [...] salta a piè pari in mezzo all’azione».

 

Isabella (Sara Bertelà) irradia luce, in quella mattina in cui s’apre ancora classicamente la tragedia (ispirata però al romanzo seicentesco «dell’abate di San Reale»), ma ben presto quel chiarore già minacciato dalle ombre della paura, dall’incubo dell’assente − Filippo, il quale compare (come nella maggior parte dei drammi alfieriani) solo al secondo atto −, s’offuscherà, nel testo e nella messinscena di Valerio Binasco, baluginando specialmente nei suoi modi di tiranno, la cui «condotta» doveva sortire (per l’Autore) un effetto di «perplessità»; perciò vi aveva sparso «oscurità, dubbiezza, contraddizione apparente e sconnessione di cose», volendo dargli «quel feroce e cupo carattere del Tiberio di Tacito».

 

Non a caso la scena è resa da Nicolas Bovey (autore anche delle luci) claustrofobica ed essenziale; pannelli grigio-piombo disposti a chiudere le pareti di una reggia («a Madrid») priva di orpelli e puramente metaforica. Solo qualche spiraglio s’apre da un atto all’altro, cinque come nell’originale, ma scanditi i primi quattro da una breve calata di sipario, che riproduce appositamente Saturno che divora suo figlio di Rubens (e quindi facente parte della cornice dello spettacolo); il quinto da un buio che avvolge palco e sala. Pochi oggetti metonimici, poltrone e sedie, un tavolo per la seduta del Consiglio, una panca in proscenio per Carlo (Edoardo Ribatto), ma non al quinto atto della prigione (come avrebbe voluto Alfieri) bensì al quarto, là dove il principe medita prima dello scontro col padre; panca che aveva ospitato il suo primo colloquio rivelatore con Isabella, e ospiterà quello ingannevole, con Isabella, di Gomez (Michele di Mauro).

 

Gli spiragli che s’aprono fra i pannelli-mura servono non tanto alle entrate-uscite dei “personaggi attori” quanto di volta in volta a, geometricamente, disegnare ritagli di luce più forte nell’insieme chiaroscurale dell’«infame laberinto», che cala nella penombra al limite della visibilità per il secondo incontro, furtivo («in ora tarda e strana»), fra Carlo e Isabella. Del resto la luce è bassa, e fredda, diventando accecante e improvvisa a sottolineare la sorpresa (anche per il pubblico) dei due pudichi amanti, mentre essi, addossati alla oscura parete di fondo, stanno forse arrivando a un bacio (fuori testo). Ma le aperture servono anche a far vedere le intromissioni stranianti di personaggi che appartengono a un altro mondo, come la serva che lava il pavimento (d’un teatro?). Funzione assolta anche dall’inserto di canzoni né antiche né contemporanee come Perduto amore di De André, Attento a te di Donatella Moretti, e No woman no cry di Bob Marley al momento degli applausi.

 

Epoche diverse o nessuna contrassegnano anche i costumi degli attori; più vicini alla storia (o alla fiaba) quelli di Isabella, rosea e chiara nelle vesti scollate, che ne lasciano senza malizia le spalle nude, candide, con gorgiera e corona all’inizio, o ricoperta d’uno scialle rosso fuoco sulla camicia bianca, nei momenti notturni. Alla fine, però, quando cade nel tranello ed entra nella prigione di Carlo, per convincerlo alla fuga, la veste è nuovamente ricca e gonfia e serve a ritagliare nello spazio, quasi come in un tableau vivant, la sua silhouette nel gesto suicida. Non a caso, il chiarore che emana dalla figura da ballerina classica di Isabella-Bertelà, impreziosito dall’oro dei capelli, contrasta con l’oscurità dell’abbigliamento di Filippo-Binasco, in giacca lunga con lustrini, non metaforicamente riferito a un’epoca determinata, ma a uno statuto regale senza corona, anzi come usurato, già, dalla parrucca (evidente) di capelli grigi che gli pendono disordinatamente attorno alla maschera facciale (il trucco forte, più che invecchiare il personaggio, gli conferisce una fisionomia distorta e debosciata). Abbigliato in modo simile ma inferiore (la giacca è rabescata), il non troppo ambiguo scherano Gomez, nel senso che Michele di Mauro nei modi spicci, quasi rozzi, da vassallo mafioso, mostra con evidenza il suo ruolo di braccio ‘sinistro’ e poi sicario del capo. I due potrebbero formare, perfino, una coppia d’avanspettacolo. Senza tempo, ma moderne le fogge militaresche (per le mostrine e i bottoni dorati) della coppia d’amici fraterni Perez (Lorenzo Bartoli) e Carlo, nell’allusione forse agli «otto anni d’ineducazione» patiti dall’Autore nella Reale Accademia di Torino. E all’ammodernamento, che non arriva tuttavia alla contemporaneità – per distanziare e distinguere i personaggi (che restano tali) –, concorrono gli occhialini di Ribotto (il quale quando non porta la divisa indossa un goffo completo verde), funzionali soprattutto a disegnarne una certa intellettualità imbelle, l’inettitudine (nonostante la romantica foga amorosa) nei confronti di quel padre, che pure gli è padre.

 

Per arrivare ai versi alfieriani (secondo l’Autore duri e oscuri soltanto alla lettura, ma resi energici e comunicanti da una recitazione scandita e a senso) sono variamente pronunciati dai “personaggi attori” dello spettacolo, perlopiù coraggiosamente non resi prosastici, e non cantati. Se l’atmosfera, nel suo complesso, non può non alludere – per gli spettatori odierni – al melodramma, anche per la forte tipizzazione di ogni figura, si evita l’effetto del recitativo (tanto alfierianamente temuto) mediante una scansione diversificata ma metricamente assunta, nelle sprezzature, negli enjambement e nei sospensivi (che implicano suggerimenti per la recita); tranne un’occasione perduta dal più bravo, Binasco, che nella scena d’interrogatorio a Isabella (II, 2) là dove la tattica del personaggio è fatta di ambiguità e, appunto, insidiose sospensioni, manca di sottolineare una crudele pausa: «in te virtude adunque / cotanta hai tu, che di Filippo sposa, / pur di Filippo il figlio ami d’amor ... materno» (vv. 52-54), anche se poi non la tralascerà con Carlo quand’egli chiede al padre la «cagion vera» dei suoi «falli» («Amor, ... che poco / hai della patria tua, nulla pel padre», II, 4, vv. 192-195).

 

Spiccano, a ogni modo, la resa quasi ebbra, e in certe punte ruminante, eppure perfettamente percepibile delle parole e del senso, dello stesso Filippo-Binasco, e quella appassionata e pur limpida di Isabella-Bertelà. Meno comunicativa dei valori verbali del testo la ‘voce’ del Ribotto, forse più avvezzo a un repertorio contemporaneo, e d’altra parte, forse, influenzato dalla declinazione “malata” del suo ruolo, secondo l’interpretazione registica. Esplode soltanto, con indubbia efficacia, nel grido contro il padre: «Tu m’odii; ecco il mio sol misfatto» (IV, 2, v. 96). Da un lato, poi, la rapidità ritmica, quasi effervescente (o scanzonata) nell’ottimismo iniziale, di Bartoli, un Perez sempre dinamico (anche nella prossemica e nei movimenti su palco), che passa (con la stessa dizione incalzante, ma non oscura) nella scena del Consiglio all’indignazione smascherante ma passionale; dall’altro, la dizione tendenzialmente più lenta di Michele di Mauro, ad accentuare (nelle varie parti che finge) la rozzezza subalterna al potere, ma a cui aspira (per un momento siede sul seggio di Filippo). Una volgarità che sa farsi astuzia: non però l’acuminato consigliere, sottile e lucido, non Jago ma piuttosto, appunto, consigliori del boss. Come emerge anche nel famoso scambio di battute che chiude l’atto secondo: («Udisti?»; Udii.»; «Vedesti?»; «Io vidi.»; «Oh rabbia! Dunque il sospetto?...»; «... E’ ormai certezza...»; «E inulto. Filippo è ancor?»; «Pensa...»; «Pensai. – Mi segui.»), qui isolato giustamente in proscenio (sulla sinistra), ma detto da entrambi con intenzione, e specialmente da Gomez-di Mauro con istrionici ammiccamenti.

 

La scelta e l’operazione registica di Binasco è considerata coraggiosa, o “insolita”: la prima tragedia alfieriana (riconosciuta dall’Autore) e quella in cui si trova il solo tiranno intero, un padre-padrone (o padrino?), del repertorio del grande Astigiano. Anche se io, da amante di Alfieri ma anche assidua spettatrice di teatro di ricerca (ove impazzano i classici), non riesco a comprendere perché ci voglia “coraggio” a rappresentare un classico visceralmente barbarico, abitato da un «disordine interno» (Raimondi) come appunto l’Alfieri tragico, oggi più che nel Novecento (nell’Ottocento è stato banco di prova di Grandi attori). Del Filippo si ricorda l’interpretazione di Orazio Costa nel 1949; certamente degno di nota l'«oratorio drammatico» orchestrato da Testori nel 1987, dove i sei personaggi attori in abiti contemporanei (comunque costumi metaforici) compivano soltanto un movimento verticale, alzandosi dai cubi (anch’essi grigio-piombo) quando veniva data loro la parola. Già nella radicale soluzione testoriana si focalizza un dramma familiare moderno, ormai privo della classica “collisione” e annidato nell’inconscio (Alfieri studioso della settecentesca “scienza dell’uomo” eppure proiettato nello sturm und drang è anche questo). Là però non c’era soltanto il destino di solitudine “mostruosa” di un tiranno in grigio (Franco Parenti), ma la coscienza delle sue vittime, soprattutto di Carlo (Giovanni Crippa) che, per Testori, è il primo «lucido» «eroe libertario», che «nella morte troverà la via d’esser uomo e libero». Binasco invece declina diversamente il sottotesto familiare di questa tragedia alfieriana, focalizzandovi il rapporto padre-figlio, e sminuendo (in ciò a torto) il versante politico, almeno nella dichiarazione contenuta nel foglio di sala: «ad Alfieri non importa nulla dei temi monarchici». Non era certamente così negli anni del Filippo (1775-78) se nel 1777 l’Autore incomincia a scrivere il trattato Della tirannide. Dalla rappresentazione, del resto, emerge anche questo aspetto nel senso più ampio, e più universale, antico e moderno: ciò che è privato è politico, si potrebbe dire, se la sola azione è quella progressiva di Filippo per smascherare l’amore colpevole (ma innocente) fra Carlo e Isabella, e il compiersi del suo disegno (morte di Carlo), oltre il suo stesso disegno (morte di Isabella). Ma alla fine anche quell’azione è un pretesto per affermare il proprio ego smisurato, e degenerato dalla senescenza, da parte d’un eterno “monotiranno”.

 

Sul principio della “paura” universale che unisce in modo attivo e passivo tiranno e oppressi è costruito il Filippo (per Baratto), ma Binasco porta all’estremo l’incapacità o impossibilità di reazione attiva da parte delle vittime d’un padre-re-regista d’un dramma che trasforma il luogo indeterminato dell’«orribil reggia» in teatro: nel secondo atto, quando impone a Gomez di assistere al confronto fra Carlo e Isabella così da poter sorprendere i moti nascosti dei due amanti, e nel terzo, dove il falso Consiglio di Stato (cui presenzia anche la Chiesa, nella figura – appena riconoscibile per la croce sul petto – di Leonardo/Contri) è altro teatro; concertato nella nebbia dei grossi sigari accesi (come quelli, in  tutt’altro contesto, della festa di Mackie Messer nella strehleriana Opera da tre soldi) sempre da Filippo, che si finge personaggio. E alla fine Perez è espulso (subdolamente) perché fuori parte.

 

Nel finale, per Binasco, l’«enimmatico mostro» incarnato, per Alfieri, da Filippo, esclude l’atto suicida di Carlo, così che l’inetto figlio-suddito venga ucciso da Gomez, il suo scherano. È l’altra variante (o invenzione) imposta al testo, oltre quella, ancora nel finale, che vede il suicidio di Isabella – importante perché l’unico gesto che sorprende il tiranno – non scaturire dal più complicato e fulmineo scambio temuto dall’Autore in scena: «Morir vogl’io... Supplisca / al tolto nappo... [N. d’A. Rapidissimamente aventatasi al pugnale di Filippo, se ne trafigge] il tuo pugnal!…» (V, 4, vv. 274-75). Qui il calice (di memoria shakespeariana) non è tolto da Filippo a Isabella, ma la Bertelà ne beve il liquore che, beffardamente, non l’avvelena; perciò la giovane afferra il pugnale e si trafigge. Da un lato (quasi in schiera) Filippo e Gomez, al centro il già trafitto Carlo, all’estremo opposto Isabella che s’immerge il pugnale nel grembo, in un’immagine esteticamente bella (grazie anche all’abito che le si gonfia e s’affloscia intorno al corpo). Alla ardua rapidità alfieriana si sostituisce una lentezza che sfiora, s’è detto, il tableau vivant, tale da focalizzare l’attenzione sulle movenze danzanti della donna e distrarre dalla (strana) inerzia del tiranno.

 

Non sappiamo se il regista abbia scelto una soluzione alternativa condividendo le preoccupazioni d’Alfieri comunicate all’Albergati Capacelli per una recita nella villa di Zola, dopo l’esperimento da lui stesso compiuto nelle “camere” fiorentine. Bisognava, gli scrive nel 1795, provare e riprovare il suicidio di Carlo (anch’esso corredato nel testo da una rara didascalia) e soprattutto «quel breve contrasto fra la Regina e Filippo, nel voler quella afferrare il nappo del veleno, e questo versarglielo; e così pure provar mille volte quell’atto rapidissimo del pugnale di Filippo, che in un sol punto dev’essere visto, adocchiato e piantato nel cor d’Isabella». Quelle azioni finali improvvise, che sciolgono la tragedia gareggiando sulla scena con le parole, rappresentano per Alfieri sempre un cruccio: nella “catastrofe” il rapporto fra parole e azione rischiava di essere compromesso dalla violenza o complicatezza del gesto.

 

Certamente Binasco, interprete anch’egli di Filippo (come l’Autore, che però racconta di aver recitato alternativamente la «così diversa» parte di Carlo), fa uccidere il figlio suddito dal padre re, per mano del suo scherano, allo scopo di radicalizzarne l’impotenza. Ed estendendo nelle note di regia tale impotenza a ribellarsi all’Autorità – sia pure, anzi tanto più ridotta a una maschera, un mascherone – a «questa nostra epoca di imbecillità totalitaria» dimostra di cogliere nel testo i valori di senso che oltrepassano la fine secolo o il passaggio di secolo alfieriani (rivoluzioni e restaurazioni) assumendo un portata politica e sociale (che forse Alfieri aveva vertiginosamente prevista). Anche Testori, nel 1987, portando in scena Alfieri voleva esprimere «un grande richiamo morale» contro, allora, il «libertarismo imbecille» in cui s’accampavano «compromesso» e «lottizzazione». Qui però le ultime battute di Filippo, che nella Risposta al Calzabigi l’Autore spiegava minuziosamente e teatralmente, vengono pronunciate dapprima attraverso un inaspettato ma divorante abbraccio del cadavere del figlio − «Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio…» −, ma subito dopo l’ultima «pennellata» resta quella della paura, e della minaccia a Gomez, espressa da Binasco con terribile, rassegnato cinismo, per finire appunto con «un tratto caratteristico suo»: «A me la fama, / a te, se il taci, salverai la vita» (V, 4, vv. 282-83).

 

Magnifico testo, avvincente spettacolo.

 

 

 

 

Si riportano di seguito i Cast and Credits dello spettacolo:

 

FONDAZIONE DEL TEATRO STABILE DI TORINO

Spettacolo di inaugurazione della Stagione 2010/2011 

 

Debutto in prima nazionale - Teatro Carignano, 16 - 28 novembre 2010

 

FILIPPO di Vittorio Alfieri

 

con Valerio Binasco, Sara Bertelà, Edoardo Ribatto, Michele Di Mauro, Fabrizio Contri, Lorenzo Bartoli

 

Regia: Valerio Binasco

Scene e luci: Nicolas Bovey

Costumi: Sandra Cardini

Musiche: Andrea Chenna

 

Fondazione del Teatro Stabile di Torino in collaborazione con la Città di Asti

 


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