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Francesca Simoncini

La dimensione internazionale dell’arte di Eleonora Duse

Data di pubblicazione su web 18/10/2010
Eleonora Duse

Pubblichiamo in anteprima il contributo di Francesca Simoncini per il catalogo della mostra Il Viaggio di Eleonora Duse intorno al Mondo curata da Maurizio Scaparro, Maria Ida Biggi e Alessandro Nicosia nell'ambito del programma delle Celebrazioni del 150° Anniversario dell'Unità d'Italia e prevista a Roma (Complesso del Vittoriano, 2 dicembre 2010 - 23 gennaio 2011) e, successivamente, al Teatro della Pergola di Firenze (3 marzo-25 aprile 2011). Il progetto scientifico del catalogo della mostra che uscirà per i tipi della casa editrice Skira e che contiene, oltre a quello qui pubblicato, interventi di M. Schino, F. Perrelli e P. Bertolone, è di M. I. Biggi.

 

È noto che Eleonora Duse recitò più all’estero che in Italia[1]. Portò la sua arte in quasi tutti i paesi europei – Russia compresa –, nell’America del Nord e del Sud e perfino, sia pur limitatamente, in Africa. L’ampiezza geografica e la frequenza dei suoi spostamenti possono dirsi quasi pari all’intensità della sua recitazione. Il suo continuo, estenuante e faticoso viaggiare non fu però soltanto il risultato estemporaneo di una personale sfida, di un desiderio di pioneristica conquista di platee e di mercati, della legittima aspirazione di chi vuole innalzare il vessillo della propria arte e divulgarla, compiendo opera di vero apostolato, tra popoli di diversa lingua e costumi. Fu, certo, anche questo, ma fu anche il frutto, forse il più maturo luminoso e conseguente, di una secolare e gloriosa tradizione che numerose generazioni di attori, italiani come lei, avevano coltivato fin dagli albori della professione nata, appunto in Italia, intorno alla metà del XVI secolo.

Già dagli anni Settanta del Cinquecento compagnie di comici dell’Arte, prima fortunosamente aggregate, poi sempre più organizzate e disciplinate, avevano avventurosamente attraversato le Alpi, navigato per mari e per fiumi, aggirato briganti e pirati, occupato, vincendo concorrenze agguerrite e divieti legislativi, le piazze, i teatri, e le corti regali delle principali capitali europee. Avevano imparato, forti solo della loro sensibilità e intelligenza, a cogliere e registrare le differenze insite nelle diverse consuetudini di vita e di cultura dei popoli che visitavano, le avevano messe a fuoco e colto l’opportunità della fertile rappresentazione scenica di uno scarto di modi di essere e di punti di vista. Avevano così ad arte secondato e/o contrastato i diversi orizzonti di attesa, i pregiudizi e le curiosità dei loro variabili e poliglotti spettatori. Erano riusciti a sorprenderli e nello stesso tempo a farsi accettare. Avevano ottenuto successi e avevano creato un teatro duttile, fluido e vitale trasformando il loro linguaggio e la loro gestualità, fortemente marcati da peculiarità locali e regionali, in idiomi comprensibili a tutti, esportabili e universali:

 

quello spettacolo non esisteva al di fuori del punto di vista di coloro che lo vedevano di volta in volta apparire e lo giudicavano in rapporto alle proprie convenzioni culturali e anche rituali. Esso fu il risultato, sempre variabile, di uno scarto e di una differenza. Fu l’invenzione viaggiante fra due limiti variabili […] perché fu prima di tutto un teatro di rapporti e di misurazione dei rapporti[2].

 

Nomade e figlia d’arte anche Eleonora Duse apparteneva a quella stessa razza di comici, ne aveva ereditato il patrimonio genetico, ne condivideva necessità ed esigenze. Come loro dunque viaggiò. E imparò presto a trovare, di volta in volta, le più opportune, e forse per lei naturali, strategie, necessarie per instaurare un “sensibile” e “reattivo” rapporto con le disparate platee davanti a cui si esibiva. Quel rapporto lo cercava, le era necessario per dare energia alla sua arte, per rinnovarla con l’invenzione di infinite variazioni recitative, che le servivano per mantenere vive le sue creazioni sceniche, per non fossilizzare la sua ispirazione e per non farla morire. Riuscì nell’intento e ogni sua esibizione, in ogni luogo e in ogni piazza attraversata, apparve sempre nuova e imprevedibile, anche quando calata in interpretazioni più e più volte recitate, sempre riproposte e mai abbandonate come quella di Margherita Gautier, nella Signora dalle camelie, e di Cesarina Ruper, nella Moglie di Claudio, entrambe uscite dalla penna di Alexandre Dumas fils, o quella di Magda in Casa paterna di Hermann Sudermann, o di altre e altre ancora.

Per riuscire a stabilire un rapporto sempre fertile con il pubblico Eleonora Duse ricorreva a espedienti diversi. Centellinava le sue presenze, trascurava per lunghi periodi proprio quegli stati che più le avevano tributato onore, rendeva incerte le sue recite rinviandole o cambiandole improvvisamente e spiazzando così, oltre agli spettatori, anche impresari e giornalisti. Con questi ultimi poi non parlava, spesso li depistava, si sottraeva alle loro interviste. Non faceva dichiarazioni e manteneva un sapiente mistero su ogni sua intenzione o decisione. Aumentava così desideri ed attese e riusciva a trasformare «i suoi incontri col pubblico in epifanie improvvise, in rivelazioni drammatiche»[3]. Tutto questo, chiaramente, non sarebbe bastato se non ci fosse stato poi anche il grande talento, la sua capacità di porsi alla guida di compagnie ben strutturate, il suo fiuto di imprenditrice; se non ci fossero state l’eccellente e originale attrice e l’esperta e autoritaria capocomica.

La manifestazione di una spiccata vocazione al viaggio apparve in Eleonora Duse, si può dire, insieme alle sue prime vere responsabilità di capocomica. Da quando cioè, ormai sciolti i vincoli contrattuali che la legavano a Cesare Rossi, l’attore che ne aveva paternamente guidato l’ascesa verso i primi successi, la Duse fondò, nell’anno comico 1887-1888, la sua prima compagnia indipendente: la Compagnia Drammatica della Città di Roma. Appena assunta la guida della ditta la neo-capocomica programmò lunghe e impegnative tournées all’estero. Le trasferte transnazionali divennero da allora una vera e propria costante della sua vita e del suo mestiere e si susseguirono con ritmi quasi frenetici – Egitto (1889-1890); Spagna (1890); Russia (1891-1892); Austria e Germania (1892); Stati Uniti e Inghilterra (1893); Ungheria, Austria, Germania (1893-1894), ancora Inghilterra e Germania (1894), Olanda, Belgio, Germania, Inghilterra, Austria, Ungheria, Danimarca, Svezia (1895) ecc. – imponendo scelte precise nella composizione della compagnie e nella concentrazione del repertorio.

Sull’ancora giovane imprenditrice agiva probabilmente il modello, divenuto all’epoca quasi un mito, della Grande Attrice e marchesa Adelaide Ristori, considerata dai colleghi l’organizzatrice più brava, colei che aveva saputo raggiungere il massimo della razionalità nella gestione dell’impresa. Nel 1855, affrontando una fortunata tournée in terra di Francia, a Parigi, Adelaide Ristori aveva, per prima, riproposto il concetto e la pratica di un vincente e glorioso nomadismo attoriale, dimostrando ai suoi contemporanei come l’arte della recitazione potesse svilupparsi e fiorire anche in condizioni di precarietà e di obbligata itineranza. Gli altri Grandi Attori della sua generazione, Ernesto Rossi e Tommaso Salvini, ne avevano presto seguito la via, ma non erano riusciti, come lei, a organizzare i loro viaggi con una capacità di gestione che fu giudicata degna di un vero capitano di industria e così perfetta da permettere all’attrice di effettuare, tra il 1874 e il 1875, un trionfale e simbolico “giro del mondo”, compiuto in venti mesi e dodici giorni per un totale di 312 recite realizzate. Per la Duse, che pure riguardo ad altri aspetti della sua arte ne aveva rifiutato il magistero, la Ristori incarnava un esempio illuminante di efficace organizzazione, forse non ripetibile, ma comunque, inevitabilmente, da seguire. Calcandone le orme, coltivò dunque per sé un profilo artistico e manageriale di carattere internazionale, sebbene alimentato con mezzi più artigianali rispetto a quelli dell’attrice-marchesa, e senza poter contare, a differenza di colei che l’aveva preceduta, su alcun aiuto esterno, né di tipo finanziario, né di natura gestionale. Eleonora Duse dovette unicamente affidarsi al suo istinto e alla sua intelligenza e imparare, strada facendo, i segreti e le regole di un mestiere che per funzionare davvero doveva – le apparve presto chiaro – intrecciare e fondere le nobili ragioni dell’arte con quelle del vile commercio.

Sebbene a più riprese Eleonora Duse si lamentasse dei limiti e delle costrizioni insiti nel suo lavoro, seppe però anche prontamente adattarvisi e visse intensamente immersa nel sistema produttivo e organizzativo del teatro del suo tempo, assumendo la totale direzione, artistica, gestionale e amministrativa, delle compagnie a lei intitolate. Del mestiere si accollò con disinvoltura onori e oneri e non ebbe difficoltà ad affiancare al lavoro puramente creativo quello più prosaicamente organizzativo e imprenditoriale, costellato da contratti, bilanci, viaggi. Riuscì, col tempo, a far convivere i due necessari e apparentemente inconciliabili aspetti del suo lavoro assumendone, completamente e in prima persona, l’intero carico. A lei spettarono la gestione dei rapporti con agenti e impresari, la pianificazione delle numerose tournées estere, la selezione del repertorio, la scelta delle piazze teatrali, la stipula dei contratti di scrittura, la formazione di compagnie, la ferma direzione delle prove, l’impostazione di una consapevole drammaturgia d’attrice. Tutti compiti che svolse in completa autonomia, economica e di pensiero, e che condusse, sapientemente e contemporaneamente, con il piglio risoluto di una manager e con l’attenta cura culturale di una intellettuale.

Col tempo e l’esperienza imparò a costruire compagnie “snelle” ed affiatate, calibrate sulla lunghezza dei viaggi e su precisi progetti artistici. Diminuì il numero dei suoi scritturati e si affidò alla costante e sicura presenza di un gruppo consolidato di attori con cui poteva creare un particolare ed efficace gioco scenico e risparmiare energie durante il faticoso esercizio delle prove. Tra le fila delle sue compagnie si ritrovano infatti, e con stupefacente assiduità, presenze che, più che ricorrenti, sembra opportuno definire stabili. Scritture fisse cioè, confermate negli anni sempre agli stessi attori e da questi accettate e mantenute, per lunghi, in taluni casi lunghissimi, periodi. Erano attori evidentemente indispensabili all’arte della “divina”, collaboratori sicuri e fedeli, ma soprattutto capaci di assecondare sul palco la sua originale recitazione e di contribuire in modo consistente al conseguimento dei suoi successi.

Le compagnie assemblate dalla capocomica rivelano sotto questo aspetto un’accorta e non casuale pianificazione volta alla creazione di un gioco di squadra affiatato, sperimentato e ben assortito. Alla buona riuscita del complesso concorsero, di volta in volta, anche elementi scritturati temporaneamente, ma comunque abilmente innestati su un impianto solido e rodato, incardinato su un forte nucleo di elementi fissi, veri e propri perni della troupe, inseriti oltretutto in ruoli strategici, i più importanti del sistema teatrale ottocentesco, quelli cioè di Primo attore, di Caratterista, di Brillante, di Seconda donna, di Generico primario. Negli anni comici che vanno dal 1895-1896 al 1906-1907, per un periodo cioè della durata di dodici anni, tali determinanti ruoli furono sempre ricoperti, nelle compagnie di Eleonora Duse, dagli stessi attori. Alcuni di essi l’avevano accompagnata anche in periodi precedenti, altri si concessero brevissime, determinate e motivate, divagazioni, qualcuno la abbandonò un po’ prima degli altri, ma nella sostanza un compatto e devoto manipolo di sei veterani le fece costante corona costituendo la forte e ben dosata ossatura delle sue truppe comiche.  

La loro sicura e sperimentata permanenza riuscì, con ogni evidenza, a garantire omogeneità e armonia alle sue recite e a bilanciare, con la sua radicata stabilità, l’inevitabile e pericolosa dispersione provocata dall’obbligata itineranza. Per Eleonora Duse costituirono probabilmente una formidabile ancora di salvataggio che le consentì navigazioni e approdi tranquilli nonché un salutare e confortante antidoto contro il perpetuo e disgregante nomadismo. Erano il Primo attore Carlo Rosaspina, il Caratterista Ettore Mazzanti, in compagnia anche con mansioni di amministratore, il Brillante Antonio Galliani, sua moglie, Guglielmina Magazzari Galliani, impiegata come Seconda donna, Ciro Galvani che ricopriva in scena parti di Amoroso o di Generico primario ed il più umile Alfredo Geri, un semplice Generico che aveva però anche funzioni di segretario. Erano, per la maggior parte, attori di riconosciuta qualità anche se purtroppo generalmente poco menzionati nelle cronache teatrali contemporanee che, seguendo una deprecabile abitudine, si prodigavano molto nel raccontare la trama dell’opera rappresentata, spendevano qualche parola per descrivere l’interpretazione del Primo attore o della Prima attrice, ma scarsa attenzione dedicavano alla recitazione dei comprimari. A testimonianza della buona resa collettiva delle loro azioni sceniche rimane però una fugace nota di Giovanni Pozza, autorevole prima firma del «Corriere della sera» che, il 14 settembre 1897, dopo averli osservati in scena impegnati in una replica di Casa paterna di Hermann Sudermann, ne fornì un rivelatore ritratto di gruppo tessendone un sentito elogio:

 

Anche tutti gli altri attori che circondarono la Duse recitarono il dramma con efficacia, con misura e con verità. Devo loro questa lode […]. Il Rosaspina (il Pastore), […] il Mazzanti (il colonnello) sono attori di valore che non devon esser messi e confusi con quelli che circondano di solito i grandi attori o le grandi attrici. Degne di encomio speciale poi sono le signore Salazzi e più ancora la signora Magazzari, alla quale non si rimprovera altro che una imitazione troppo evidente della Duse[4].

 

Anche gli agenti e gli impresari con cui Eleonora Duse intratteneva relazioni d’affari per organizzare le sue tournée erano spesso gli stessi, ma erano molti e diversi. Di loro Eleonora Duse di solito non si fidava, metteva a confronto e soppesava le loro proposte. Li sollecitava costantemente soprattutto in determinati periodi dell’anno, ad esempio d’estate, quando la normale routine recitativa, iniziata con il Carnevale, conosceva un momento di sosta. Un periodo di pausa che divideva in modo netto i due semestri della stagione teatrale. Gli attori, esentati dagli obblighi della ribalta, potevano trascorrerlo riposando e godendo finalmente di una sospirata e domestica stanzialità, prima di essere nuovamente chiamati al lavoro, riprendere la vita nomade e affrontare la seconda parte di attività annuale che si chiudeva con la Quaresima. La relativa pace non era però concessa ai capocomici, soprattutto a quelli che guidavano le più importanti compagnie primarie. Approfittando della temporanea assenza dai palcoscenici questi si dedicavano con maggior cura alla gestione degli affari ed erano impegnati a imbastire trattative per completare e perfezionare gli itinerari delle tournées fissate per i mesi autunnali o per organizzare le più importanti e impegnative trasferte per le successive stagioni teatrali.

 

Un lavoro quotidiano e pressante che numerose lettere e telegrammi, inviati da Eleonora Duse al suo amministratore documentano con fedeltà[5]. Le missive registrano le fasi salienti della pianificazione artistica concertata da Eleonora Duse nei mesi estivi e vissuta dalla “diva” con fatale e disinvolta rassegnazione. Rivelano le sue incertezze, le sue diffidenze, le sue difficoltà, l’abilità nello schivare insidie e possibili fallimenti, il suo fiuto per gli affari e, spesso, anche la sua fatica, l’esasperazione della donna costretta a fare la manager per potersi permettere, poi, di fare anche l’artista. L’ambito delle trattative, che l’attrice conduceva risolutamente da sola, è quasi esclusivamente internazionale. Colpisce del suo lavoro l’ampiezza degli orizzonti geografici e l’estrema duttilità con cui la capocomica trattava gli affari stringendo e sbrogliando, nell’arco di pochi giorni, talvolta soltanto di poche ore, le fila di ipotetici itinerari che avrebbero potuto condurla a intraprendere lunghi viaggi dalle coordinate varie e mutevoli. Con piglio autoritario Eleonora Duse gestisce, organizza, costruisce o smonta, tournées indifferentemente localizzate in Spagna, Portogallo, Francia, Belgio, Inghilterra, Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, Germania, Romania, Ungheria, Olanda, Russia, America del Sud, Stati Uniti. Itinerari di viaggi differenti, spesso solo imbastiti e poi non intrapresi, che si intrecciano tra loro, si accavallano e coesistono, rimbalzano nelle sue relazioni di affari. L’artista dà l’impressione di poter tenere ben strette nelle sue mani le platee di interi stati e continenti, corteggiandone e assecondandone qualcuna, trascurando e poi abbandonando le altre. Le offerte che giungono da agenti e impresari sono tutte attentamente vagliate, con una eguale disincantata, talvolta cinica, sprezzatura. Ogni proposta è valutata, rigettata o accolta a seconda delle esigenze e delle convenienze del momento, della qualità degli attori presenti in compagnia, della rispondenza a effettivi criteri di affidabilità, della possibile compatibilità con i progetti artistici intrapresi nel periodo.

 

Eleonora Duse opera mantenendo aperti più fronti, scruta i piani di ogni suo intermediario, esercita una costante cautela, mostra una scoperta diffidenza. Tratta perlopiù con agenti stranieri. I loro nomi: Braga, Minkus, Schulk, Schürmann, Smith, Täncer, Tayler, Ullmann, Zeller e le loro più disparate e disomogenee proposte, si succedono senza soluzione di continuità nelle lettere dirette all’amministratore della sua compagnia. La capocomica sonda le possibilità e le capacità di ognuno, cerca di capire il livello della loro effettiva conoscenza di piazze e situazioni, stabilisce tra loro un ordine gerarchico e li divide in categorie. Alcuni sono adatti per organizzare soltanto itinerari di piccolo cabotaggio, semplici riempitivi di relativo impegno da collocare tra una tournée e l’altra con il solo scopo di mantenere in piedi il bilancio della ditta; altri invece, più capaci e informati, vengono attivati per progettare le tournées più complesse e importanti.

 

Di Täncer si serve per organizzare brevi giri tra Austria e Germania. Sono queste le aree geografiche di sua comprovata competenza. Inutile e rischioso rivolgersi a lui per andare altrove poiché – sostiene la capocomica – avventurarsi con lui fuori di Vienna, l‘unica piazza di cui sembra avere reale e diretta conoscenza, significa «scendere al guitteggiamento»[6]. Malvolentieri gli affida il controllo di incursioni, sia pur brevi e limitate, in piccoli centri della Francia o della Svizzera, come Vichy, Aix les Bains, Ginevra o Lucerna. Lo ritiene un «cieco azzardo»[7] poiché, come scrive, Täncer non possiede la necessaria conoscenza degli usi e delle abitudini di quelle genti e di quei luoghi. Ullmann è invece l’uomo adatto per guidarla in quelle zone. «Assodato alla ditta francese»[8] conosce il territorio e garantisce i margini di sicurezza e affidabilità richiesti dalla Duse. A lui la capocomica si rivolge per fissare recite a Lucerna, Ginevra e Zurigo o quelle sul litorale della Costa Azzurra, principalmente Nizza e Cannes. Anche Ullmann ha però i suoi limiti e quando l’agente alza la posta e propone piazze più impegnative, un atteggiamento di sospetto e di critica diffidenza si impadronisce dell’attrice, meno disposta a seguire le sue indicazioni.

 

Di José Schürmann, impresario astuto ed esperto, che l’aveva condotta nel 1896 negli Stati Uniti, e poi a Parigi nel 1897, permettendole di conseguire successi e visibilità internazionali, Eleonora Duse ha maggiore stima. Lo ritiene abile, ma preferisce starne alla larga: «Quel furfante di S[chürmann] è sempre in vedetta, ma è l’ultima corda alla quale vorrò appiccarmi». Ne conosce e ne teme furbizia e opportunismo e forse anche per questo preferisce «tagliar corto», per non essere «presa al Laccio»[9]. Con George Tyler e Joseph Smith lavora a lungo per preparare un’importante tournée negli Stati Uniti e contatta sporadicamente Braga per concludere viaggi nei paesi di lingua neolatina (Spagna, Portogallo e America del Sud). L’atteggiamento è con tutti guardingo, caratterizzato da momenti di strategico temporeggiamento o di improvvise accelerazioni, impartite per chiudere finalmente le trattative lasciate sospese. Ciò che importa è realizzare quanto di meglio è possibile sul momento, limitando al minimo i rischi di imprese avventate o improduttive. I nodi, all’inizio prudentemente tenuti allentati, alla fine si stringono, e i contatti si trasformano velocemente in contratti. Da fissare, firmare e spedire.

 

Non meno attenta è la cura di Eleonora Duse nel costruire il repertorio con cui presentarsi davanti ai pubblici stranieri. Le sue strategie sono qui più difficili da sondare poiché non vi sono documenti che possano rivelarle. Ma i riscontri ci sono e sono dati dalla composizione dalle pièces di volta in volta assemblate in ogni singola tournée. L’organizzazione di una tournèe coinvolge infatti meccanismi ampli e complessi che variano, come abbiamo visto, dagli aspetti puramente logistici o organizzativi, quali i rapporti con gli agenti e gli impresari, la preparazione dei viaggi e dei loro itinerari, la conoscenza delle logiche mercantili e dei gusti del pubblico locale, a quelli di natura invece più propriamente artistica come la formazione armonica delle compagnie, l’affiatamento tra gli attori, la pianificazione del repertorio. Quest’ultima in particolare riveste fondamentale importanza per l’attore ottocentesco che costruisce la sua immagine pubblica ed esibisce la sua potente personalità artistica utilizzando quelle dei personaggi interpretati e “ricreati” sulla scena. È difficile, forse impossibile, ricomporre e riconoscere oggi la stratificata profondità, la pluralità di senso e di significati che il repertorio di questi attori racchiudeva al suo interno. Per comprenderne fino in fondo la multiforme natura non è certo sufficiente stilare un meccanico elenco dei testi allestiti nel corso di un’intera carriera: il repertorio non è infatti semplicemente riducibile a una somma di copioni o di interpretazioni, anche se questi, inevitabilmente, ne costituiscono la base di partenza e ne formano l’ossatura portante. Ha piuttosto le caratteristiche di un organismo complesso e polimorfo, in continua, talvolta impercettibile, trasformazione, che rimanda a significati altri, che intreccia ed evoca relazioni sfuggenti. Per analizzarlo è necessario operare contemporaneamente su più livelli di indagine, oltrepassare il puro dato testuale e considerare tutti quegli elementi che coinvolgono la specificità dell’evento teatrale, l’immanenza del suo farsi, le caratteristiche di chi lo produce, la cultura e le aspettative di chi lo guarda. Conoscenze che oggi, a distanza di tempo e dato il carattere effimero dell’evento teatrale, possediamo solo per frammenti, spesso fallaci e poco o mal documentati. Ciò che sappiamo però con certezza è che gli attori ottocenteschi si servivano del repertorio come di uno strumento, a loro ben noto ma per gli altri spesso misterioso e imperscrutabile, con cui costruire una forte e ben riconoscibile identità teatrale che andava oltre i singoli personaggi interpretati e che doveva anche essere distintiva e apparire unica e irripetibile.

 

Le eroine incarnate da Eleonora Duse, frutto della concezione di autori diversi, venivano recitate l’una dopo l’altra e, sera dopo sera, affiancate in una coerente ed eloquente sequenza logica. Erano proposte a pubblici formati da assidui affezionati che tornavano a teatro più e più volte nel corso della permanenza di una compagnia nella stessa città. Le fisionomie delle protagoniste, pur mantenendosi fortemente e originalmente connotate, si sovrapponevano così, nel ricordo degli spettatori, le une sulle altre, divenendo tra loro interscambiabili e, pur mantenendo la loro netta identificabilità, perdevano il carattere di individualità assolute per assumere invece i tratti pertinenti e unitari dell’arte recitativa dell’attrice che li incarnava. Non è che i singoli copioni rappresentati, una volta inseriti nella più vasta dimensione del repertorio, perdessero il loro valore di singole entità autonome, ma contemporaneamente si trasformavano anche in tasselli tra loro intrecciati e funzionali alla composizione di una più ampia e complessa partitura scenica che li oltrepassava e li travalicava.

 

Andando oltre i testi inscenati e intrecciando abilmente e contemporaneamente diversi livelli di comunicazione, Eleonora Duse instaurava continue relazioni all’interno delle sue diverse interpretazioni, suscitava echi e rimandi allusivi che evocava attraverso gesti, sguardi, emozioni, azioni, reazioni, inflessioni vocali, variazioni su tema, scarti dalla norma. Riusciva in tal modo a dare origine a una sua personale opera di “poesia”, extratestuale ed extraletteraria, che trasmetteva al pubblico insieme alla propria immagine fisica ed esistenziale e alla propria originale cifra stilistica. Era questa un’abilità che possedeva al massimo grado e di cui costantemente si servì per recitare non solo il dramma annunciato ogni sera in cartellone, ma anche, e insieme a questo, un’altra storia, quella della sua biografia artistica e della sua soggettiva specificità di attrice[10]. Procedette così a costruire il suo repertorio connotandolo con apparizioni significative che accostavano i copioni affrontati in gioventù, ormai divenuti suoi “cavalli di battaglia”, con le novità che nel corso della carriera aveva progressivamente recitato e che più di altre avevano accompagnato la sua maturazione, stimolato la sua vena artistica, raccontato le sue emozioni. Alle rodate Signora dalle camelie, Moglie di Claudio, Casa paterna si aggiunsero così, e rimasero stabilmente in repertorio, anche Gioconda di Gabriele D’Annunzio, Hedda Gabler e Rosmersholm di Henrik Ibsen, Monna Vanna di Maurice Maeterlinck. Un modo usato da Eleonora Duse per narrare, attraverso le sue interpretazioni, la storia del suo percorso artistico e della sua biografia di attrice. Tutto il resto, ed era davvero tanto, lo aggiungeva ricorrendo al suo superiore talento e alla altissima qualità tecnica della sua arte per affidarlo, sera dopo sera, alla capacità di ricezione degli spettatori, che accorrevano a guardarla e ad assistere alle sue rivelazioni.

 

 

 

Bibliografia essenziale: Ferdinando Taviani, La poesia dell’attore, in Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 135-157; Siro Ferrone, Attori mercanti corsari, Torino, Einaudi, 1993; Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Roma, Bulzoni, 2008.



[1] Alcuni passaggi di questo scritto anticipano quanto più diffusamente trattato nel mio Eleonora Duse capocomica, di prossima pubblicazione per i tipi della casa editrice Le Lettere di Firenze.

[2] Siro Ferrone, Attori mercanti corsari, Torino, Einaudi, 1993, pp. 16-17.

[3] Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Roma, Bulzoni, 2008, p. 53.

[4] G. Pozza, Cronache teatrali di Giovanni Pozza (1886-1913), a cura di G. A. Cibotto, Vicenza, Neri Pozza, 1971, p. 276.

[5] Le lettere di Eleonora Duse a Ettore Mazzanti sono conservate a Roma, Museo e Biblioteca Teatrale del Burcardo, Autografi Duse.

[6] Lettera di Eleonora Duse a Ettore Mazzanti del 24 luglio 1902.

[7] Così testualmente si esprime Eleonora Duse in una lettera diretta a Ettore Mazzanti e datata 25 luglio 1902.

[8] Lettera ad Ettore Mazzanti del 12 luglio 1902. Le sottolineature sono nel testo.

[9] Ibidem.

[10] Si veda in proposito Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit., pp. 48-63

 

 


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