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Italo Moscati

Smarriti nella moderna Little Italy

Data di pubblicazione su web 05/10/2010
Il portaborse

È in uscita per le edizioni Rubbettino, in collaborazione con il Tuscia Film Fest, il volume Il Portaborse. Vent’anni dopo. Pubblichiamo l’introduzione di Italo Moscati, curatore del libro. Il film, diretto da Daniele Luchetti, prodotto e interpretato da Nanni Moretti, è stato a suo tempo un grande successo, viene considerato un punto di svolta nella commedia all’italiana, una novità assoluta rispetto al cinema che cerca di interpretare e rappresentare la nostra società alla vigilia di Mani Pulite; suscitò molte e roventi polemiche non dimenticate. Il libro ospita i contributi del regista, degli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, della prima coppia di sceneggiatori Franco Bernini e Angelo Pasquini, dei critici e storici Luca Pallanch e Domenico Monetti, del co-produttore Angelo Barbagallo.

 

Ho rivisto con attenzione Il portaborse di Daniele Luchetti (certi dizionari lo datano 1990, altri 1991). Sono passati vent’anni dalla prima proiezione a cui ho assistito, rigorosamente in sala, nella sala buia, come mi piace sempre fare con i film. Questa volta, la seconda volta, l’ho visto sul computer a casa, un bel computer con lo schermo grande. Siccome ho imparato a fuggire dall’“effetto finestra” che il computer, e lo schermo delle televisioni, tendono a creare per troppa confidenza con chi guarda, ho seguito un mio metodo che offro al giudizio di che legge.

Ho riguardato Il portaborse, che mi piace, e che non ho intenzione di celebrare ma di capire meglio, alla luce del cinema. Ne vorrei parlare, come introduzione a questo libro, preoccupandomi di tenere il film di Luchetti, prodotto dalla Sacher Film di Nanni Moretti e di Angelo Barbagallo, rifiutato dalla Rai (sia pure quella delle terza rete diretta da Angelo Guglielmi), al riparo delle contaminazioni, chiamiamole così, delle televisioni. Contaminazioni che nel momento in cui scrivo sembrano avere raggiunto livelli di micidiale tossicità. Ma qualche riferimento, più avanti, lo dovrò pur fare, se non altro per non chiudere gli occhi sulla storia del nostro paese, regno della comunicazione fondata sull’apparenza e della politica come colla vischiosa di un paese che non cambia, nonostante le bufere giudiziarie e le risse che ne conseguono.

 

Dunque. Vedo Il portaborse e a poco a poco, e tuttavia abbastanza presto, il personaggio che dà nome al film mi ricorda qualcuno. Non ho bisogno di rovistare troppo nella memoria. Silvio Orlando, il protagonista, non scolerà mai nel film e nella vita gli spaghetti con una racchetta da tennis, e forse non solo perché è nato a Napoli, e in questa pellicola vive su una splendida costiera campana, grande scenario di struggente natura e di altrettanto struggente decadenza.

Chi conosce il cinema, dalla racchetta scolapasta potrà risalire facilmente ad un film del 1960, quando viveva una stagione mondiale di indimenticabile celluloide, nell’anno de La dolce vita felliniana. Il titolo è L’appartamento di Billy Wilder, con Jack Lemmon, Shirley MacLaine e Fred MacMurray.

Jack Lemmon, nel film, si chiama C.C. Baxter, fa l’impiegato in una grande società di assicurazioni, e viene preso in giro con un nomignolo dai superiori e dai colleghi: Cicci Bello.

Cicci è un sentimentale. Si innamora dell’amante, Shirley ovvero Fran Kubelik, del capo del personale e fa carriera cedendo le chiavi del suo appartamentino al capo (l’attore Fred MacMurray).

Non vado avanti con il racconto della trama. La racchetta come scolapasta, con una bottiglia di champagne, sanziona il lieto fine con Fran che lascia Fred l’ultima notte dell’anno e corre fra le braccia di Cicci Bello, lasciandosi alle spalle schiavitù d’amore, al suono di una musica trascinante e appassionata. Un altro accostamento. Fran mi ricorda Cabiria, alias Giulietta Masina, in Le notti di Cabiria, film di Fellini che precede La dolce vita. Fran ci ricorda che una donna può essere usata come una puttana anche se non batte tra le luci di Via Veneto.          

L’appartamento presenta una storia chiara come un classico paradigma, con happy end, secondo le leggi inflessibili di Hollywood.

Ovvero, una società che si può criticare e persino detestare ma che c’è, ha le sue regole, un’etica di facciata molto rispettata, un retroscena in cui l’ etica passa in contabilità. Una società capitalista, made in Usa, in cui un’azienda può diventare la metafora di molti aspetti della stessa società tutta intera, mostrando e dimostrando come  le relazioni vivono di dispotismo e di inevitabile subordinazione dei più deboli. Tra ardenti spaghetti impiegatizi e zuccheri d’amore.

 

Nel film di Luchetti, Silvio Orlando è Luciano Santilli - il bravo co-protagonista con il grande Nanni Moretti -  e propone un Cicci Bello tutto speciale, tutto nostro, tutto italiano.

Se sotto i grattacieli, e non molto lontano dallo stesso grattacielo newyorchese di Cicci, viveva mezzo secolo fa e ancora prima una Little Italy, rivedendo Il portaborse ho scoperto un’altra Little Italy, quella che abbiamo in casa, dentro casa, intorno alla casa. Storia del film e sua ambientazione mi hanno spinto ad osservare meglio ciò che non sappiamo, o non vogliamo vedere.

Ho avvertito un senso di vuoto assoluto, un brivido di commozione e di orrore, un sentimento misto di attrazione e repulsione. Un effetto potente.

L’Italia di Luchetti, l’Italia del portaborse, “dei” portaborse, dei ministri che usano i portaborse, mi è sembrata una Little Italy terribile e pelosamente misericordiosa (ipocrita, autoassolutoria). Ben diversa  da quella costruita non solo a New York dalle mani dei poveracci italiani approdati a Ellis Island sotto la  Statua della Libertà. Quella emigrazione sana, speranzosa, di qualità e di talenti,  degenerata in una società americana che nella sua storia non dimentica quasi mai con fierezza di essere nata sulle strade.

Lo ricorda l’italoamericano di seconda generazione Martin Scorsese in Gangs of New York (2002).  Gramigna di una emigrazione radicatasi nel New Jersey con i mafiosi soprano’s della nota serie tv: crimini regolamentari, professionisti,  e divani psicanalitici, per equilibrare sensi di colpa e progetti di normalità al ritmo  delle machine guns.

 

Il portaborse si svolge in una Little Italy che stiamo imparando a conoscere ancora prima d’averla incontrata nel film. Perché Little?  Perché il bel paese, il grande paese dalla storia e dell’arte, viene fuori come una piccola cosa mediocre, in cui si agitano figure sinistre, lugubri, un paese minaccioso, intriso di ambiguità e di complotti, devastato delle ambizioni di megalomani ben addestrati al complottismo e alla realpolitik  della falsificazione ideologica, e non solo, anche elettorale o semplicemente esistenziale (un esercito di Narcisi e di Megalomani tenuti su dallo scheletro della politica che arricchisce).

La nostra Little Italia viene fuori dai cadenze e dai toni di commedia a cui Silvio Orlando presta la sua fisicità e la sua mimica, nonché dalle situazioni laterali, familiari o sentimentali in cui è coinvolto quando si fa tentare dal trasformarsi da insegnante a “portaborse”:  ad esempio, l’innamoramento della bella Juliette, elegante, sensibile, amante del ministro Nanni Moretti-Cesare Botero. La nostra Little Italia affiora in un teatrino di ambienti che fanno da sfondo alla vicenda e la caratterizzano. Ambienti, luoghi e non luoghi (la realtà dei politici che abita ovunque, dall’astrattezze verbali alle casseforti delle tangenti).

E’ strano ma se parte della vicenda si svolge evidentemente a Roma, e non poteva essere altrimenti, nel film si nota una contrapposizione su cui mi sono interrogato a lungo.

Roma c’è nel film, ripeto, ed era indispensabile come approdo promesso, una terra seduttrice, nella vicenda del professorino di provincia, Silvio-Luciano, che ha accettato di essere “promosso” a consulente del ministro Cesare-Nanni, come scrittore dei suoi discorsi, suggeritore anche tv di temi e di suggestioni, citazioni culturali.

A Roma, come consulente e ghost-writer,  il professorino si trasferisce e cambia vita. Lo raggiunge Irene (l’attrice Angela Finocchiaro) grazie ai favori, una “sorpresa”, un cadeau  del ministro, spostandosi da Bergamo alla gran città, grazie alle “premure” di Botero. Il quale più che altro è preoccupato per l’interesse  verso la sua pupilla, Juliette, suggestionata dal professorino, che ne sa troppo più di Botero.

Botero ha strategie di larghe vedute, non perdona, guarda avanti al destino della “sua squadra”,  facendo favori persino non richiesti. 

La rete del ministro, con portafoglio e con voglia di tenerezze, avvolge e trasforma in modo definitivo Cicci Bello. Se lui è il “portaborse” intellettuale, deve farsi uscire Juliette dagli occhi e dal desiderio amoroso. Le relazioni intime non sono consentite fra due “portaborse”e Juliette è una privatissima esclusiva del Capo, gonfio di orgoglio e di possesso come le statue dell’omonimo scultore spagnolo. 

Nel film la contrapposizione tra la capitale e la provincia italiana è netta, forte, indicativa.

Da una parte, la costiera da dove viene il professorino che abita in una vecchia casa disastrata la cui ristrutturazione sarà finanziata tramite i buoni uffici di Botero.

Dall’altra, Verona e quindi il Nord, il Veneto non più democristiano, ossessionato dal bisogno di trovare politicamente il partito della Balena Bianca, pronto a rifugiarsi in altri partiti che sorgeranno dopo l’apocalisse di Mani Pulite, quando cadranno ad uno ad uno i partiti: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Socialdemocratici, i Repubblicani, i residui Liberali; il Partito Comunista Italiano impolverato dal crollo del muro di Berlino, costretto in fretta a chiamarsi  in modo diverso (da Partito dei democratici di sinistra e poi Democratici di Sinistra).

Roma, dunque, centro della politica e dei suoi guasti. Senza fine.  La provincia dove la politica e i suoi guasti si sono sviluppati rapidamente, divorando tutto e tutti, lasciando un territorio simile a una prateria agitata dai venti, da tutte le soluzioni spesso improvvisate di partiti e di alleanze che ci ritroviamo. Dalla Lega a Forza Italia, ad Alleanza Nazionale, al Partito della Libertà.

Un brontolio lontano di rivolgimenti.

 

Il film, com’è giusto, osserva e ratifica quel che sa, mostra di saper vedere e raccontare; ma non si appassiona al passato e neanche al suo presente, lavora soprattutto per il futuro, in un orizzonte dove sono tramontati i virulenti e poi pallidi soli dell’avvenire, dopo i sogni di razze superiori dei totalitarismi, delle dittature e dei loro gagliardetti (anche qui, soli, ma italiani : “… sole che sorgi libero e giocondo”). Ustioni per nostalgici, senza vergogna.

Il portaborse sciorina un campionario di personaggi che escono da un album d’immagini in corso di formazione. Tutti uniti in un’arca antropologica che ha un humus in comune: il vuoto di prospettive, un guado lungo (dal 1991 ad oggi il guado continua), un’ossessione d’ identificazioni senza ricerca di identità, una galleria di pose e di atteggiamenti che scoloriscono e si perpetuano. I “santini” di cui parla nel suo libro L’italiano di Giulio Bollati (1983) o i “santoni”, tutti impegnati a reggere il Sistema.

Ricordate il Sistema? Vecchia parola che risale agli anni Sessanta subito dopo La dolce vita, de profundis per il  “miracolo economico”, squarcio anticipatore  su un’Italia scossa nelle fibre più intime dalla  irruente contestazione del 1968, con quel che venne subito dopo, degenerazioni comprese.

In prima linea, fra le degenerazioni, fra le opportunità estremiste, il terrorismo, che viene dalla pancia di indigestioni di vecchia data nella società italiana, una società aperta a pulsioni violente, frutto di un panico irresistibile. Il panico di non essere, di non sapere dove andare, e di non avere risposte praticabili sul come trasformare la Little Italy delle mediocrità che comandano.

Una stagione di tradimenti a spese di migliaia e migliaia di giovani che, spesso invocavano la parola “rivoluzione” con un linguaggio usurato, poiché non ne ce n’era un altro. Animati da confuse convinzioni su ciò che si poteva fare per una democrazia più profonda. Abbandonati.

La vecchia parola Sistema, ovvero architettura e fondamenta di una società modernamente totalitaria, annegata nelle logiche capitaliste arretrare e fino in fondo autoritarie, ebbe una lunga fortuna.

Poi, la frase di un pensatore che l’aveva impiegata persino troppo, pescata nel mare magnum del marxismo , Herbert Marcuse, arrivò come un fulmine nel cielo di tuoni e lampi: “… nessuno può voler tagliare il ramo in cui si è seduti”.

Il portaborse ci porta, quando la parola Sistema era ormai defunta, ad un nuovo modo di intendere e usare la stessa parola. Ci presenta la evidenza e i retroscena di un altro Sistema che tende a perpetuarsi, a “perfezionarsi”, e ad arrivare fino a noi.

 

Il ministro Cesare Botero e il portaborse Luciano Santilli sono le figure di questo  nuovo Sistema, che si potrebbe scrivere con la minuscola, senza enfasi. Un Sistema vecchio e nuovo nello stesso tempo. Che ricalca alla lontana quello della Italia democristiana e si è aggiornato, in mezzo alle procelle giudiziarie e ai decessi dei partiti, attraverso un processo di apparente allargamento, reso possibile dalla presenza dello Stato in una moltitudine di agenzie di affari capaci di legare a se il consenso con le risorse dei cittadini, traditi anch’essi, e spesso drammaticamente inconsapevoli.

Botero è un ministro che si profila come un imprenditore capace di orchestrare potere e la sua efficacia. Santilli è un “portaborse” che, senza saperlo, o peccando di ingenuo sogno di promozione sociale, anticipa tutte le altre forme contemporanee  di dipendenza diretta o indiretta nelle istituzioni e fuori di essa, incoraggiate o addirittura entrate in simbiosi con il Sistema che si spezza ma non si piega. I processi rischiano di essere battute d’arresto. Il Sistema macina. Arriva dove vuole e dove può. In mezzo alle polemiche e agli scandali. Coazione a ripetere.

Santilli lavora perché sa scrivere e ha cultura, ma soprattutto perché si adatta, perché vuole migliorare la sua esistenza, prova curiosità per Botero che lo ha scelto per inserirlo nel suo entourage fatto di accoliti selezionati, ognuno dei quali si comporta come membro di una “squadra” compatta.

Non è solo un uomo di fiducia. Santilli non è un “portaborse”, è il precario costante in un lavoro nuovo che si sta affermando in una nuova burocrazia politica. Appartiene per il suo sapere al secondo livello dell’entourage dopo le guardie del corpo, sempre più necessarie dopo la cattura e l’assassinio di Moro, e  dopo le folate ancora impetuose di rivolgimenti fin sotto la data del film di Luchetti.

Santilli è il candidato professionista della politica, di una politica che non ha bisogno di fedeli consulenti ma di prestatori d’opera, senza scrupoli, pronti a fare da ponte e da esperti in relazioni con imprenditori, manager, affaristi.

Siamo con Il portaborse all’inizio degli anni Novanta. L’anno dopo, nel 1992, ci sarà la lunga serie di Mani Pulite, mai finita, anche dopo la dissoluzione dei partiti. Il “portaborse” è oggi un mestiere obsoleto, cambierà, troverà altre specializzazioni.  Santilli lo capisce a suo spese e solo il volto innocente di Silvio Orlando, volto di chi si è compromesso ma vuole rompere, ci permette di sopportare lo spettacolo.

Lo spettacolo di chi si è fatto dare da Botero i temi da svolgere negli esami dei suoi studenti. E’ un “piccolo fatto”, una virgola in mezzo ad in un sistema, minuscolo, che ha cambiato o si accinge a cambiare tutta l’ortografia, tutta la grammatica, tutto rispetto a prima.

 

Il portaborse chiude molto bene la stagione della “commedia all’italiana” (Dino Risi, Mario Monicelli, il Vittorio De Sica de Il boom, Pietro Germi e altri che non nomino per brevità). Seppellisce la commedia e il dramma satirico, e propone la tragedia senza ipotesi di scenari, solo una tragedia di mezzi toni, pacata, che si muove e fagocita nell’Italia delle televisioni.

Luciano- Cicci Bello è , a suo modo, un eroe convenzionale. Ha morso la mela della politica e ne ha scoperto l’ebbrezza, le occasioni, i colpi d’ala del benessere privato, personale , regalato dai compratori della politica e dagli sponsor. Luciano- Cicci Bello reagisce, come si può capire in un film che ha bisogno di un eroe, e lascia Botero in un cumulo di macerie in cui si mescolano altri imbrogli, altro affarismo. Colpisce con la mazza del golf un’autovettura regalatagli proprio dal suo Botero di cui aveva pensato di essere l’anima. Colpi simbolici. Senza senso. Colpi di sensi di colpa che si accaniscono nel liberatorio bisogno di sfogarsi. Colpi avari di prospettiva, gesti di rabbia e di impotenza.

Tanto Botero continuerà la sua corsa e non sapremo mai, il film non ce lo dice, se la sua rielezione è dovuta o no ai brogli nell’epoca dell’informatica che si lascia formare, talvolta, chissà.

Questo libro intende tornare su un’opera importante. Avrà, anzi ha i suoi difetti, nacque in condizioni difficili (il rifiuto della Rai), fece registrare il ritiro dei nomi di due sceneggiatori dai titoli di testa, ebbe non poche critiche ma anche elogi che non si spengono, al contrario crescono.

Rivedere Il portaborse non significa applicare meccanicamente le sue intenzioni, il suo risultato, alla realtà in cui siamo immersi e alle cronache che ci aggrediscono. Può voler dire soprattutto una cosa: trovare percorsi che scorrono sotto la caratterista della società in cui viviamo, quella dell’apparire, nel trionfo delle tv, delle immagini, delle relazioni, del continuo scontro-confronto fra politica, affari, e magistratura.

Il puro volto di Silvio Orlando, il Cicci Bello di ieri, era carico di stupore. Noi, oggi, sappiamo il perché. Lo stupore non basta più. In tempi di risse, di rivelazioni e di segreti sventolati. In tempi di un cinema che dice poco o nulla, scavalcato, retrocesso per l’onda sempre più alta delle sceneggiature dei massmedia.

Cicci Bello sarebbe utile chiederti cosa ne pensi. Abiti ancora nella bella casa della costa, davanti al mare, restaurata a spese dello stato?

E tu ministro Botero dove sei finito? Ti hanno affidato una comoda poltrona da qualche parte? Janette è con te?




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