È nata una nuova, importante rivista di studi teatrali. Intitolata alla «Commedia dell'arte», si apre con una frase tanto provocatoria quanto condivisibile: «“La Commedia dell'Arte” non esiste». Non esiste ovviamente perché l'espressione è storiograficamente indefinita e dunque non contestualizzabile. Nella Presentazione i responsabili della rivista, Siro Ferrone e Annamaria Testaverde, indicano tuttavia contemporaneamente la necessità di delimitare un territorio a cui tutto può essere ricondotto: il testo, la messa in scena, l'organizzazione, il consenso di pubblico, l'edizione. Credo che la presente ricerca[1], diretta ad approfondire i possibili sensi originari dell'espressione, possa essere un contributo in tal senso.
Ritorno brevemente sui termini della questione. Si è detto che “arte” nell'espressione “commedia dell'arte” significa originariamente “mestiere”, come da crociana memoria[2]. Le prime dizioni conosciute di questa formula, com'è noto, sono tarde, addirittura goldoniane[3] e sembrano significare commedie all'improvviso generalmente legate alle maschere e al mestiere: “commedie fatte alla maniera degli attori” con un senso spregiativo che accompagna probabilmente il declino del fenomeno[4]. Ma l'espressione, si è anche detto, potrebbe essere anteriore, probabilmente attinta dal gergo attoriale.
La ricerca nasce da due considerazioni. Innanzitutto: che i comici elaborassero la famosa formula con un senso già inizialmente negativo, quale sarebbe quello di una commedia legata alla dimensione mercenaria, sembra in realtà poco credibile. Inoltre: i documenti e le fonti legati ai problemi dell'arte del Cinque-Seicento riportano molto spesso, ovviamente, questa parola. Lo storico del teatro non può, allora, esimersi dal ricordare la famosa formula e dal porsi il problema del perché la parola non abbia mai, nei tanti testi e documenti coevi consultati, quel significato di mestiere prezzolato a cui la storiografia della propria disciplina l'ha consegnata. Esser fermo ne' «buoni precetti dell'Arte» ; «arrivare alla perfezzione dell'arte»; quadri che recano diletto agli ignoranti non meno che «ai Professori dell'Arte» ; attori virtuosi come «antichi Professori dell'Arte»; sono espressioni seicentesche[5] che dicono un senso alto del termine, difficilmente conciliabile con il disprezzo con cui all'epoca si guardava alla dimensione mercenaria. Se “arte” dunque fosse parola nobile, la risonanza semantica del termine non potrebbe che avere un accento corrispondente: “commedia di eccellenza”.
La questione delle origini è, particolarmente nel teatro, operazione metodologicamente discutibile. «Il teatro non ha né la sua origine né la sua spiegazione nel teatro», scrive Cruciani, «la storiografia del teatro acquisisce consapevolezza della necessità di costruire relazioni per parlare di teatro, uscendone fuori ma per tornarvi dentro». Porsi il problema dell'origine di un'espressione come quella citata, storicamente documentata a metà Settecento, ma di cui si è ipotizzata un'origine anteriore e un uso circoscritto all'ambiente dei comici, senza che a queste ipotesi si sia mai accompagnato un sia pur minimo supporto documentario, può apparire dunque un obiettivo doppiamente fallace. Ma si potrebbe anche osservare che un “errore” – proprio la storiografia teatrale ne dà cospicui esempi – può dimostrarsi fecondo. In questo caso: ci offre un filo rosso per uscire dal teatro e poi ritornarvi.
Cruciani recuperava, contestualmente, il concetto di «tradition de la naissance» di Copeau: non individuare l'origine di un fenomeno pensato come nuovo e dirompente, ma recuperare e indagare la «tradition», cioè l'humus culturale che ha presieduto alla sua nascita. E aggiungeva: «la storiografia teatrale è, nel suo essere indagine storica, fondamentalmente pensiero dialettico […], teatro e altro […]: istanze rappresentative, bisogni espressivi, società, commercio, utopia, comportamenti, forme, visioni, letteratura, musica, arti plastiche e figurative, estetica, pedagogia, ecc»[6].
È certo che molto spesso gli attori erano anche artisti. Di fronte alla frequenza della compresenza delle due dimensioni, una frequenza che ha fatto parlare di “un quadro di promiscuità”, di «un'inclinazione perenne al meticciato artistico»[7], è inevitabile chiedersene le ragioni. Alla domanda iniziale, allora, se ne potrebbe aggiungere un'altra, che ha tutta l'apparenza di un paradosso: potrebbe essere la dizione “commedia dell'arte”, originariamente, una traduzione letterale di questa dialettica?
Sono domande a cui è impossibile rispondere, almeno finché non troveremo documentazioni più antiche. Si può però, forse, tentare di approfondire i sensi con cui, tra Cinque e Seicento, le due parole “commedia” e “arte” erano usate. Sensi tutt'altro che ovvi o univoci.
“Commedia”
Il primo termine, “commedia”, è, almeno in apparenza, più semplice del secondo.
La definizione della parola nella più antica edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) appare quanto mai stringata: «Poema rappresentativo di private persone». Una frase ben lontana dall'esprimere sia la complessità della fonte, ovviamente la Poetica aristotelica, sia la ricchezza del dibattito coevo, all'epoca quanto mai acceso.
Il letterato Francesco Robortello, traducendo tra i primi la Poetica, aveva rilevato come Aristotele avesse in realtà individuato, oltre ai noti generi della tragedia e della commedia, con personaggi rispettivamente migliori o peggiori di noi, anche un terzo genere dedicato ai nostri simili e contemporanei; osservando anche come per i tre livelli il filosofo avesse indicato il nome di tre pittori, rispettivamente Polignoto, Pausone e Dionisio, ognuno esemplare nel proprio genere (ed è uno dei numerosi passi in cui egli esplicita il parallelo originario tra arte e teatro)[8]. Il Robortello segnalava anche, peraltro, come non fosse segnalato il genere drammaturgico relativo ai “simili”: una commedia che, come nelle parole di Cicerone riprese da un altro grande filologo, il fiorentino Pietro Vettori, fosse «imitatio vitae, speculum consuetudinis, imago veritatis» e che fosse capace di suscitare «un riso regolato, risolto nei modi della urbanitas e della iocositas controllata», in qualche modo vicino a un trattato coevo sul comportamento come il Galateo di Giovan Battista Della Casa, tra l'altro amico dello stesso Vettori. Questo terzo genere non era certo una Comoedia vetus dunque, cioè una commedia aristofanesca dai personaggi reali e riconoscibili (e sboccati), ma una commedia nuova (nella versione terenziana), con personaggi quali conveniva che fossero (decorum), dove, «sulla media di un noi collettivo, si dovranno costruire dei “tipi” che nel corso della fabula narrativa, coinvolti da quelle passioni che per lo più si rinvengono in essi, esprimeranno una certa qualità o vizio»[9]. Questa commedia, che, come avrebbe voluto il Vettori, si proponeva di combinare la mìmesis aristotelica con l'utilitas latina non aveva in realtà un riscontro nei due principali generi drammaturgici che, prevedendo uomini rispettivamente peggiori o migliori di noi, non facilitavano certo i meccanismi di identificazione. Lodovico Castelvetro risolveva il problema in modo originale, orientando l'interpretazione di “peggiori, migliori, simili” sul versante della rappresentazione degli ambiti sociali (nobili, contadini, cittadini) e pensava dunque a una «perfettissima» e «dilettevolissima storia», nel senso di una fiction verosimile che rigettava le saette de «l'arco della commedia” antica; e una simile ripulsa sarà espressa anche da Giraldi Cinzio[10]. Il fine, come rilevava in particolare Alessandro Piccolomini, era quello di giovare con l'imitazione ai nostri “simili” e favorirne l'inserimento ordinato «ne le gran repubbliche, ne i regni e in ogni regolatissimo principato». Così dall'imitazione dei simili si passava all'imitazione per i simili[11].
Che questo tipo di commedia fosse negli obiettivi anche dei comici, almeno di quelli che tra Cinque e Seicento pubblicavano trattati e drammaturgie, sembra del tutto verosimile. In un'altra opera aristotelica, l'Etica Nicomachea, essi potevano trovare un'altra distinzione almeno altrettanto rilevante e che infatti è ricorrente nei loro trattati: quella tra l'attore comico, assimilabile all'«uomo di spirito o uomo faceto» e che dunque «tiene una via di mezzo», e il buffone, che «è al di sotto del comico, poiché non ha riguardo né di sé né degli altri, se fa ridere, e dice cose nessuna delle quali un uomo ameno direbbe ed alcune non vorrebbe neppure ascoltare»[12].
In una maniera che si direbbe assolutamente coerente con queste indicazioni, i comici si dichiaravano «professori dell'arte viva» e scrivevano della commedia come di «una pittura viva», di uno specchio in cui «al vivo, le immagini si scoprono» (Domenico Bruni[13]) e ancora come di «una cronica popolare, una scrittura parlante, un caso rappresentato al vivo» (Niccolò Barbieri[14]), di una commedia da essi sentita, in definitiva, come imitazione viva e palpitante della Natura.
Ancora alla fine del Seicento, Andrea Perrucci, librettista e teorico napoletano, dichiarava di dedicare la sua opera, Dell'arte rappresentativa premeditata ed all'improvviso, un testo in cui, fin nel titolo, è evidente la volontà di non separare le due dimensioni, precisamente alla commedia come «Imitatio vitae, Speculum consuetudinis, Imago veritatis» di cui aveva scritto Cicerone; e tale che servisse «ad morum salubrem expurgationem» cara allo Stagirita; a quell'«arte Comica», insomma, che «consistendo nel ben rappresentare, con iscelte parole, con regolati gesti, e con misurate azioni, non può negarmisi esser parte dell'Oratoria»[15].
Anche la svolta regolarizzatrice impressa da don Giovanni de' Medici alla celebre compagnia dei Confidenti, di cui scrive Siro Ferrone[16], era probabilmente nel segno della commedia «de' simili». La svolta porta infatti alla valorizzazione di una drammaturgia d'autore e scritta, di cui sono probabilmente parte anche i più tardi Frutti delle moderne Comedie, et Avisi a chi le recita di Pier Maria Cecchini (1628) o la Supplica (1634) di Niccolò Barbieri[17], che pensano anch'essi il teatro dei comici in termini di regolarità. A questa valorizzazione del “premeditato” contribuisce anche Giovanni Battista Andreini quando, dopo il suo Lelio bandito (1620), sposta il baricentro della composizione dalle parti mascherate a quelle a volto scoperto degli Innamorati, deviando dalle oscenità, dai dialetti e dall'improvvisazione[18]. E si potrebbe anche dire, con Luciano Mariti[19], ch'egli segua la suggestione delle attrici, la loro interpretazione fondata sulla tecnica psicofisica dell'espressione degli affetti; ricordando anche il ruolo particolarissimo e fondante, sul versante della cultura, che esse, secondo Ferdinando Taviani[20], hanno probabilmente avuto nelle compagnie “dell'Arte”.
Lo stesso tipo di commedia era poi certamente al centro dell'attenzione anche della cerchia barberiniana, se è vero che per il teatro di martirio che essi si proponevano l'ostacolo più importante era costituito proprio dal fatto che, come espressamente notato dal suo principale teorizzatore, il gesuita Tarquinio Galluzzi, il protagonista sarebbe stato necessariamente migliore di noi[21]: il che dimostra quanto l'idea di questa commedia con personaggi mezzani fosse riuscita a penetrare.
La teoria generale della mezzanità (un concetto aristotelico applicabile anche al di là delle teorie drammaturgiche) era sostenuta contemporaneamente, nella pittura, dai Carracci e dal teorico ad essi legato Giovan Battista Agucchi e rispondeva precisamente allo stesso passo della Poetica aristotelica. Assertore di un'idea di mezzanità regolatrice dell'universo[22] e dell'importanza dei diversi linguaggi regionali italiani, quest'ultimo sosteneva l'eccellenza del pittore Annibale Carracci che in maniera straordinaria tali linguaggi aveva assimilati e che dei “simili” aveva fatto l'oggetto precipuo della sua arte pittorica[23]. Anche il musicista Jacopo Peri, nella dedica «a' lettori» premessa all'Euridice, la prima opera in musica data a Firenze nel 1600, dichiarava di avere operato imitando la «forma mezzana», tra la melodia e il «parlare ordinario», adottata dagli antichi[24].
Non è un caso dunque che nell'edizione del 1618 dell'Iconologia del Ripa, un'opera, come è noto, di grandissima diffusione, la Commedia si presenti con tre icone (non incise, ma descritte) completamente diverse, in particolare le prime due rispetto alla terza. La prima è una donna in abito da zingara, in quanto, come gli zingari, facili a promettere fortune immaginarie, ha «propositioni facili, e attioni difficili»; il vestito a vari colori esprime il diletto che le commedie offrono all'«occhio dell'intelletto»; ha «nella destra mano [...] un cornetto da sonar musica, nella sinistra una maschera, e nei piedi i socchi», dove il cornetto è simbolo di «armonia», la maschera di «imitazione» e i socchi sono i calzari della commedia classica. La seconda è una donna d'età matura e d'aspetto nobile, con in mano una tibia[25] e i socchi ai piedi; nell'acconciatura ha «molti travolgimenti, e con grande intrigo di nodi», che significano la ricchezza e la complessità dei pensieri, e reca il motto: «Describo mores hominum». La terza è la «Comedia Vecchia», la più curata nell'edizione del 1618 dell'Iconologia, assente nella prima del 1593 e senz'altro soppressa nelle successive, certamente non a caso. Una «donna ridente, vecchia, ma con volto grinzo, e spiacevole» con «il capo canuto, e scarmigliato, le vesti stracciate, e rappezzate, e di più colori variate»; nella mano destra ha «alcune saette, overo una sferza, avanti a lei vi sarà una scimia, che gli porge una cestella coperta» che la vecchia apre con la sinistra, scoprendo animali «brutti, e venenosi [...], cioè vipere, aspidi, rospi e simili». Il Ripa, riprendendo evidentemente la distinzione aristotelica, separa così nettamente la Commedia nuova riformata, più civile e onesta, dagli antichi commediografi che «dilettavano il popolo (appresso del quale era la somma del governo) col dire e raccontare cose facete, ridicolose, acute, mordaci, in biasmo, e irrisione dell'ingiustizia de i Giudici, dell'avaritia, e corruttela de' Pretori, de' cattivi costumi, e disgratie de i Cittadini, e simili altre cose», dunque con la rappresentazione satirica della realtà contemporanea. E se le vesti stracciate della «Comedia Vecchia» alludono alla bassa qualità sociale dei suoi personaggi, se le saette ci dicono la pericolosità dei suoi detti, i vari colori mostrano «la diversità, e l'inconvenienza di più cose, che poneva insieme in una compositione, e anco il vario stile, meschiando insieme diversi generi di cose»; mentre la «sozza imitatione per mezo la quale faceva palesi li vitii, e le bruttezze altrui» è incarnata dalla scimmia[26].
Ma c'è di più. Lo studio dei documenti seicenteschi ci dimostra che la parola “commedia” può essere usata anche come equivalente di altri termini: in particolare di teatro, di pittura e di “arte”. È noto infatti che la parola “teatro” non aveva, all'epoca, l'odierno significato, ma quello di un edificio (da cui si vede e si è visti) o di un luogo mentale. Anche se nessun Vocabolario lo riporta, si può dire che “commedia” in parte lo sostituisse. Può avvenire dunque che il pittore fiorentino Giovan Maria Casini, identifichi, nel segno dell'ut pictura poesis oraziano e del comune obiettivo della mimesi, la commedia con la pittura, una pittura che egli considera come espressione globale e onnicomprensiva di tutte le Arti, del Trivio e del Quadrivio. La commedia è dunque per lui «Pittura [...] viva» in quanto tesa a «immitare la verità, co moti, con l'attione, et con gl'effetti»[27].
E c'è anche un passo di Nicolò Barbieri, comico professionista, che sembra apparentare senz'altro “commedia” con “arte”: «sotto questa voce di comedia – egli scrive infatti – voglio sempre inferire l'arte in genere, qual rappresenta tanto comedie quanto tragedie, pastorali, tragicomedie, pescatorie ed altr'opere miste»[28]. A prescindere dal senso rivestito qui da “arte” (per il quale si veda più oltre), potrebbero le due parole, nella espressione qui in esame, essere usate come sinonimi, allo scopo di rafforzarsi a vicenda?
Infine: come è noto, la fedele imitazione della Natura regolata dall'Arte era per Aristotele l'obiettivo primario della Commedia come di ogni processo creativo e suscita il piacere attraverso il riconoscimento delle forme reali. Questo concetto era più che mai, all'epoca di cui ci occupiamo, largamente condiviso; ma il rapporto Arte-Natura diviene anche un contrasto nei trattati e negli scritti di estetica cinque-seicenteschi. Chi frequenta i trattati e gli scritti di quest'epoca sa bene come il riferimento alla dialettica Natura-Arte, almeno a partire dal Bembo e dal Vasari, sia costante nei dibattiti teorici e accademici di ogni campo dell'espressione. Giulio Cesare Scaligero sentenziava che «la natura è disordine ed anarchia, laddove l'arte è metodo e regola»[29]. L'opera dei Carracci, soprattutto quella di Annibale, era pesantemente stigmatizzata a partire dal fatto che aveva come punto di riferimento la «Natura sempre imperfetta, più tosto che [...] l'Arte che quella addimestica e corregge»[30]. Sempre Annibale progettava a Roma, a cavallo dei primi anni del Seicento, una mascherata sul tema: egli sosteneva la Natura sull'esempio degli antichi, contro il Vasari e quello che egli chiamava «il fare statuino»[31].
Non si tratta sempre, in realtà, di un'opposizione, ma di diversi livelli di eccellenza tra cui, fin dal primo Rinascimento si riconosce una sorta di competizione e gara permanente[32]. Non basta. La non separazione dei prodotti dell'Arte e di quelli della Natura è un un tema magico-ermetico, legato all'alchimia e alla Cabala[33]. Intorno a questo tema si sviluppano non solo le decorazioni, ma anche le collezioni, miste di tesori offerti dalla natura ed elaborati dall'arte, dello Studiolo (concepito intorno al 1570) di Francesco I de' Medici, un principe di “umor malinconico” come quello degli artisti, dedito agli studi e alle pratiche alchemiche ed esoteriche, espressi per suo volere in questa piccola stanza attraverso una rivisitazione dei miti pagani. La volta a botte, le pareti e gli armadi della piccola stanza erano infatti decorati, secondo un denso apparato iconografico espressamente previsto da Vincenzo Borghini di concerto con il Vasari, di elementi e umori e temi iconografici gravitanti intorno a un Prometeo (l'Arte) che, affaticato a strappare alla terra i suoi segreti tesori come nel mito tramandato da Plinio, consegnava alla nuda Natura la pietra filosofale, secondo il pensiero ermetico dell'Accademia di Careggi[34]. Che la pittura possa essere considerata operazione “naturale” e insieme ermetico-alchemica è stato autorevolmente notato[35]. Ma anche l'esercizio del teatro, o la “commedia” (potremmo dire usando un linguaggio cinque-seicentesco), potrebbe rivelarsi tale; potrebbe anzi costituire il luogo privilegiato in cui Natura e Arte, unite insieme, trovano la loro compiuta, reale e duratura espressione.
Se Annibale Carracci e Caravaggio dichiarano di valutare al sommo, piuttosto che l'Arte (come invece i loro colleghi coevi, sulla scorta del Vasari, usavano fare), la Natura, Isabella Andreini, attrice professionista e insieme celeberrima e raffinatissima letterata, dichiara di attingere, per entrambe le funzioni, non solo alla Natura (come generalmente i comici) ma anche all'Arte: «E come ne' teatri or donna ed ora/ uom fei, rappresentando in vario stile/ quanto volle insegnar Natura e Arte,/ così la stella mia seguendo ancora/ di fugitiva età nel verde aprile,/ vergai con vario stil ben mille carte»[36]. Tra i tanti passi che si potrebbero citare allo stesso proposito mi sembra che ve ne siano alcuni di Nicolò Barbieri e di Domenico Bruni davvero significativi. Il primo esalta il comico come «un bell'intelletto che spende que' doni di cui il Cielo e la natura l'ha arricchito. Tali sono i comici virtuosi, che si sanno valere dell'occasione e dell'arte»; e ancora: «In quest'arte è di mestiere un talento naturale, a pochi conceduto, e di cento che si pongono a recitare, dieci non riescono buoni, ancor che siano Aristotili di sapere, poiché vi vuol elocuzione, pronunzia e grazia»[37]. Il secondo scrive che al buon comico «è neccessario lo studio, e lo studio assiduo. Oltre di ciò, bisogna che la natura, con un privilegio particolare, asista al comico»[38]. Il concetto di Natura e Arte incarnate insieme nell'attore non è dunque osservazione estemporanea: è un topos di lunga durata. Perfino i pochi versi che corredano un'immagine incisa d'attore – nel caso, di Francesco Gabrielli; e nella prospettiva di quanto segue il riferimento a quest'attore è importante – vi alludono chiaramente[39]. E si sosterrà il primato del grande attore settecentesco David Garrick proprio a partire dal fatto che egli incarnava in sé quest'unione mirabile[40]: un possibile precedente, questa notata contraddizione vivente, per il Paradosso dell'attore di Diderot. E si potrebbe anche osservare che i moderni storiografi del teatro hanno in realtà ripreso questo topos quando hanno scritto di un' «artificialità naturale» della recitazione dell'Arlecchino del Recueil Fossard[41].
Se è vero dunque che, come è stato detto, la piccola stanza intensamente decorata del Principe alchimista aveva la funzione di evocare e sollecitare la rivelazione della Sapienza attraverso un estraniamento da sé, la pazzia e/o l'assunzione di una identità altra, un estraniamento che era concepito come presupposto necessario per la coniunctio con la Divinità[42], appare verosimile che anche alcune interpretazioni attoriali potessero implicare e convogliare sensi di natura esoterica. Non è stato, del resto, di recente scritto che l'idea di teatro di Giovan Battista Andreini era «sintesi tecnico retorica di un sapere polivalente che affonda le sue radici colte nella conciliazione di sacro e profano, di temi umanistici neoplatonici e autorità cristiane»[43]? Ricordiamo anche le celebri “follie” di Isabella Andreini in cui la cifra particolare, com'è stato rilevato[44], è costituita dalla metamorfosi e dalla perdita di identità, un'identità che era punto fermissimo del sistema platonico-aristotelico-tomista. L'alchimia è una prospettiva di conoscenza che è stata nel tempo più volte legata al teatro[45].
“Arte”
Cerchiamo ora – un'impresa veramente ardua - di approfondire la parola “arte”.
Si è già detto come il senso della parola appaia ben diverso da quello a cui generalmente si riferiscono gli storici del teatro.
Non si tratta qui di resuscitare quell'“arte” intesa come disinteressata e alta espressione del gusto che Nicoll[46] contrapponeva all'interpretazione crociana, ma di approfondire il significato della parola nel suo senso antropologico, studiandola nel contesto delle frasi in cui essa era al tempo effettivamente usata. Nel Seicento essa poteva ben mantenere il suo significato medioevale di “mestiere” ; ma sembra di poter affermare che, dopo il Rinascimento, “arte” potesse avere, molto più frequentemente, un significato “alto”. Fin dal XIV secolo del resto il Boccaccio chiariva: «Intra 'l mestiere e l'arte è questa differenza, che il mestiere è un esercizio, nel quale niuna opera manuale che dall'ingegno proceda s'adopra; [...] arte è quella, intorno alla quale non solamente l'opera manuale, ma ancora l'ingegno e l'industria dell'artefice s'adopera»[47]. Quest'accezione, confortata da altri riscontri, mi sembra resti fondamentale e si presti mirabilmente a connotare un'attività come quella del teatro, in cui manifestamente le due dimensioni si fondono; ma è certo anche all'origine dell'ambiguità della parola. Se le Arti si impongono a tal punto, nel Medio Evo, da soppiantare le Muse classiche, permane in parte, nella dizione “arte”, quella inseparabilità tra l'operazione manuale e quella intellettuale che era stata già della techne e dell'ars classiche[48]. Così nei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo “Arte” è uno dei cinque «habiti umani» (con Prudenza, Intelletto, Scienza e Sapienza) che consentono il raggiungimento della Virtù e della Sapienza; è «habito secondo la ragione» ma è anche opera manuale e «corporale» e in questo senso vi si comprendono «tutte le arti meccaniche»[49].
Nell'Iconologia del Ripa (1603) l'icona dell'“Arte” è una donna vestita di verde (un ovvio riferimento alla Natura) che ha nella mano destra un pennello e uno scalpello (la Pittura e la Scultura) e nella sinistra un palo piantato nel terreno che permette la crescita corretta di un «torto e tenero arboscello»[50]: da un lato dunque un'arte da cui è stata espunta l'Architettura, quindi essenzialmente mimetica (e aristotelica), dall'altro un'arte pensata come «artificio, con humana industria ritrovato, il quale vince di gran lunga la natura e le faccende difficilissime con poco sforzo mandate a fine» [51], un'arte dunque che attraverso l'esercizio dell'«ingegno» consente di facilitare le operazioni manuali. Due concetti sentiti entrambi essenzialmente nobili.
Neppure sulla edizione citata del Vocabolario della Crusca (1612), il senso della parola è quello di “mestiere”. Il primo e più importante significato è quello di un «abito cavato dalla esperienza di potere operare con ragione, intorno a qualsivoglia materia, come le sette arti liberali e le meccaniche»[52]; dove operare con ragione in una materia significa osservare il complesso delle regole da cui ogni arte, “liberale o meccanica”, è retta: anche qui il riferimento ad Aristotele è implicito. Né le successive edizioni seicentesche aggiungono granché di nuovo. Il Baldinucci nel suo Vocabolario dell'arte del disegno nel quale si esplicano i propri termini e voci, non solo della Pittura, Scultura, & Architettura; ma ancora di altre Arti a quelle subordinate, e che abbiano per fondamento il Disegno (1681), pur ripetendo sostanzialmente nella voce “arte” la definizione della Crusca, mostra nel titolo dell'opera di conoscere, oltre che il riferimento ai postulati teorici dell'Accademia fiorentina, l'accezione comune moderna della parola. Ma se il suo campo semantico era quanto mai vasto, non c'è dubbio che almeno per gli eruditi “arte” fosse parola nobile e che l'Arte di riferimento fosse la Poetica aristotelica.
Secondo Giasone De Nores, Aristotele «costituisce il corpo dell'arte poetica» con soli tre «sorti di poesie»: la commedia, la tragedia e il poema eroico, generi scelti in relazione alla loro utilità sociale[53].
«Ciascun'arte ha un suo fine» sentenzia il Guarini, anzi ne ha due: uno che egli chiama strumentale, legato alla forma della materia; l'altro più importante e generale, detto «architettonico».
Nell'arte tragica e comica – si noti come “arte” unito all'aggettivo “tragica” o “comica” significhi tragedia o commedia; e che dunque, se “commedia” poteva essere usata nel senso di “arte”, si verifica in qualche modo anche il processo inverso – questi fini esistono entrambi. Nella commedia il fine strumentale è quello aristotelico, già enunciato, di «imitare quelle azioni degli uomini privati che col difetto loro muovono a riso»; quello architettonico, anche se non è stato definito dal filosofo, lo si può definire quello di «rallegrar l'animo nostro» e di «scuoter [...] quell'umore fosco e caliginoso, che [...] tardi il più delle volte e ottusi ci rende nell'operare». Per l'arte tragica invece entrambi i fini sono stati enunciati da Aristotele: lo strumentale è l'«imitazione di qualche caso orribile e compassionevole», l'architettonico è la «purgazione del terrore e della compassione». Per la tragicommedia e la pastorale, trattandosi di generi misti, i fini non sono stati studiati, ma si possono proporre in modo adeguato e comunque sono, genericamente, fini di utilità[54]. Anche Battista Guarini dunque, e con maggiori puntuali riferimenti all'apparato scenico, usa la parola “arte” in diretto collegamento con le regole e i problemi dei diversi generi del teatro.
Angelo Ingegneri infine, originale figura di letterato veneziano, primo corago del teatro Olimpico di Vicenza, al servizio, tra gli altri, del cardinale Aldobrandini e dei Savoia, usa al riguardo parole inequivocabili. Non basta che un poema riesca subito a «guadagnare l'universal consenso» se poi, ad un esame più approfondito, risultano non curate la «favola», la «disposizione» e il «decoro» e quindi lo si ritrova «privo d'arte e d'invenzione (parlo della vera arte e dell'invenzione secondo lei) e (quello ch'è talora più stravagante) incapace del palco e della rappresentazione». La vera arte è dunque quella stabilita da Aristotele con le cinque parti che la sua Retorica assegna al processo creativo, memoria e actio comprese; al punto che una composizione che non si presti a fini di rappresentazione si presenta al giudizio degli “intendenti” in qualche modo difettosa. Su questo saldo presupposto l'Ingegneri si accinge a un'operazione mai tentata fino ad allora e cioè a esporre le sue teorie intorno alla Poesia Rappresentativa.
Il fine dei “Poeti scenici”, giunge infatti ad affermare l'Ingegneri prendendo le distanze in tal modo da chi pensava il teatro in termini di pura drammaturgia, è che «i loro componimenti vengano rappresentati»; ma difficilmente essi vi si cimentano, dal momento che «le Commedie imparate, per ridicole ch'elle sappiano essere, non vengono più apprezzate, se non quanto sontuosissimi intermedi et apparati di eccessiva spesa le rendono riguardevoli. E di ciò sono stati cagione gl'istrioni mercenari, detti altre volte della Gazzetta; i quali colla loro lunga industria e con il continuo essercizio hanno ridotto il ridicolo a segno, che indarno può venir loro in paragone, chi massimamente aborrisce l'obscenità, ch'essi alle volte studiosamente vanno cercando: il che però sia detto con pace di coloro che si dimostrano in questa parte men liberi e più circospetti»[55]. E dunque, egli ammonisce, dobbiamo essere grati ai pochi che hanno affrontato l'impresa: «Compagnie ricche, come in Vinezia», «Accademie generose, come in Vicenza» e «stupendi Teatri, come l'Olimpico».
Un pregiudizio moralistico che lo porta alla fine a rinunciare anche alle predilette pastorali «per le tenerezze ch'elle [...] sogliono talhora ammettere» che rischiano di «corrompere i costumi»[56]”; e a propendere per la tragedia; anche se «la difficoltà de i precetti, dati in questa materia da i Maestri dell'arte» finisce per scoraggiare gli eventuali interessati.
A partire da questi trattatisti, “arte” è dunque parola nobile, da accostarsi ai precetti e ai generi teatrali enunciati da Aristotele e codificati dai letterati. Non sono certo «gli istrioni mercenari, detti altre volte della Gazzetta» – questo è il modo con cui essi sono chiamati dall'Ingegneri – a potersi produrre in commedie di qualità; o piuttosto, solo i migliori di essi lo possono fare, come le «Compagnie ricche» o le «Accademie generose», professionisti e dilettanti avvicinati fra loro dall'Ingegneri in nome di un loro esercizio teatrale “alto”, teso a quell'elevazione culturale e sociale di cui avevano scritto sia Platone che Aristotele. Che fra le due dimensioni – dilettantismo, professionismo – esistesse una così netta separazione è oggi messo in dubbio da molti studiosi.
Com'è noto, l'improvvisazione è un punto molto importante, legato prevalentemente ai comici italiani professionisti: una capacità di creare che, potremmo dire neoplatonicamente, attinge il furor direttamente dalla divinità. Eppure Massimo Troiano scrive che nel 1569 una compagnia di dilettanti recitò alla corte di Monaco, in occasione delle nozze del Principe, «una commedia all'improvviso all'italiana»[57]: un passo che sconcerta le comuni categorie storiografiche, documentando l'improvvisazione come un talento, sì squisitamente italiano, ma in questo caso patrimonio di dilettanti.
Anche Nicolò Barbieri distingue nettamente i comici italiani dagli altri, esaltandone le capacità d'improvvisazione e la vasta cultura: «Tutti i comici oltramontani fanno opere gravi con intermedi ridicolosi, e non sono zelanti delle buone regole de' Greci e de' Latini; ma gli italiani fanno opere gravi, le commedie popolari miste di grave e di faceto, e d'altre istorie composte pur dell'uno e dell'altro, e s'avvicinano a' dogmi d'Orazio e d'Aristotile; e di più recitano improvisamente, cosa che l'altre nazioni non hanno ancor fatto sinora: sì che le comedie sono quasi da tutt'il mondo abbracciate; e sono così antiche che l'uso ha fatta la legge e pare che si stabiliscano su l'eternità de' tempi»[58]. E infatti si può dire che esse siano in tutto simili a quelle stampate degli eruditi e degli Accademici. Di diverso, e in questo gli italiani erano veramente maestri, c'era, com'è noto, una straordinaria sapienza di montaggio, di “concertare” in tempi velocissimi le azioni. «Un famoso comico spagnolo detto Adriano, venuto con altri a rappresentare in Napoli le loro commedie non potea capire come si potesse fare una commedia col solo concerto di diversi personaggi e disponerla in men d'un'ora»[59]. «Disponerla», cioè, appunto, distribuirla negli atti – è la dispositio della retorica – montandola su scene successive. Anche nella musica il talento di improvvisazione appare una prerogativa squisitamente italiana: il musico francese André Maugars dichiara di aver dovuto superare, per affermarsi, non pochi scetticismi: «ils doutoient qu'estant François, je fusse capable de traitter et diversifier un subjet à l'improvise»[60].
Mantenere alto il livello dell'improvvisazione senza ripetersi, questo era l'obiettivo e certamente era, anche allora, arduo; nel 1640 Leopoldo de' Medici notava per esempio che quella spacciata per improvvisazione in realtà non lo era affatto[61]. L'improvvisazione che si esalta è ben lontana da quella dei comici raffazzonatori che usano «accomodare le parti al suo dosso [...] alla meglio, per non dire alla peggio», di cui parla il letterato e nobile genovese Giovanni Ambrosio Marini per giustificare la pubblicazione del suo Calloandro[62]; o da quella «abborrita» da Luigi Riccoboni perché «al Comico ignorante e scostumato [...] l'uso di recitare a l'improvviso gli serve di facilità per studiar solamente come inserrire ne' suoi discorsi qualche oscenità»[63]; o da quella dell'artista illetterato portato naturalmente a improvvisare, pure biasimata da Goldoni[64]. È invece, fra Cinque e Seicento, una pratica di eccellenza comune a professionisti e accademici, che consente l'avvicinamento tra le due dimensioni e legittima la speranza di un inserimento dell'“Arte” nel contesto accademico della cultura “alta”. Come ha osservato Apollonio, «l'improvvisazione [nel teatro dei comici] va di pari passo con l'improvvisazione nelle altre arti dell'età barocca; e soprattutto letteratura e musica»[65]. E se nella musica l'Impromptu richiama probabilmente consuetudini antiche, nella composizione dei testi essa ha rapporti con la pratica del centonare, una pratica che è alla base dell'improvvisazione dei comici, così come dimostra in particolare la produzione poetica di Isabella Andreini[66]. In questo contesto può bensì darsi il caso di un accademico Umorista romano, Basilio Locatelli, che considera l'Accademico «virtuoso» e «faceto» come il vero comico; ma per lo più, come rilevato da Luciano Mariti e da Ferruccio Marotti, la pratica dell'improvvisazione sembra essere pacificamente condivisa[67]. E può darsi il caso di una famosa comica professionista, Marina Dorotea Antonazzoni, un'attrice dei Confidenti che si propone come erede di Isabella, che «non vale all'improvviso» ma solo nel «premeditato»[68], un caso che per di più è probabilmente significativo di una tendenza precisa, quella regolarizzatrice dei Confidenti diretti da don Giovanni di cui si è detto. E non mancano altri casi significativi: c'è il caso di una Florinda di Giovan Battista Andreini messa in scena nel 1603 a Firenze dagli Accademici Spensierati[69]; o quello di una misteriosa tragedia (il Solimano?) che vede, tra il 1618 e il 1619, impegnati i comici Confidenti nel teatro di corte di Firenze[70]; o la diffusa attività dei comici romani Ridicolosi, i quali hanno certamente molto presenti non solo le pratiche dei professionisti ma anche i dibattiti degli accademici; e c'è anche l'episodio probabile del dilettante Bernini che si esibisce a Roma (1638) insieme al professionista Jacopo Fidenzi detto Cinzio, capo dei nuovi Confidenti, «onor delle scene ed amico delle Muse», «virtuoso» per doni di natura e per sapienza dell'“arte”[71].
Allargamenti
Di questo senso alto dell'“arte”, che sembra avvicinare dilettanti e professionisti, cerchiamo, allargandoci, altre conferme. Nella prefazione alla sua traduzione dell'opera düreriana Della simmetria de i corpi umani, pubblicata nel 1591, il patrizio veneziano Giovan Paolo Gallucci dichiara di proporsi di dimostrare la «similitudine c'ha la pittura con la poesia» e che «la pittura è arte» perché «ambedue queste arti, l'una con le parole, l'altra con i suoi colori vanno tuttavia imitando le cose naturali et artificiali»[72]. Dunque nessuno discute sull'“arte” della poesia, mentre la pittura come “arte” è tutta da dimostrare; e l'argomento principe per questo è che entrambe imitano le «cose naturali et artificiali». E il più grande merito è riconosciuto ad Alfred Dürer che ha «tirato la Pittura in precetti et alla ragione della dottrina», avendo identificato un sicuro canone proporzionale per la raffigurazione del corpo umano e rifiutando così l'anticanonico «giudizio degli occhi» espresso da Michelangelo che tanti abusi avrebbe prodotto e, in particolare, la “maniera” vasariana. Dürer è dunque, per Gallucci, colui che ha consentito di pensare in termini di “arte” anche la pittura. Anche dai pittori “arte” è sottoporre il proprio lavoro a una precettistica precisa e a criteri di ragione, rifiutando quello che viene sentito un «piacimento» o «appetito»[73] del tutto arbitrario. Negli anni '80 del Cinquecento anche nella precettistica figurativa si impone la «furia tassonomica contemporanea», l'esigenza di un metodo tramite il quale siano raccolti e ordinati i «fondamenti immutabili dell'arte»[74]. Ma “arte” può anche corrispondere nella pittura ai dettati della Controriforma, diretti anzitutto a correggere gli abusi dei pittori dal punto di vista concettuale, così come nel teatro a correggere le oscenità[75].
Allarghiamoci ancora: alla musica questa volta. In una lettera dell'11 novembre 1623 il fiorentino Antimo Galli racconta di una disputa, avvenuta pochi mesi prima, tra lui e il Marino sul primato tra due straordinarie cantanti: La Cecchina (Francesca Caccini, figlia del musicista romano Giulio Caccini, legato ai primordi dell'opera in musica fiorentina) e Adriana Basile (sorella del napoletano Giovan Battista Basile, autore del Cunto delli cunti). Inizialmente entusiasta di quest'ultima, il Marino aveva dovuto ricredersi di fronte a una strepitosa improvvisazione canora della Cecchina compiuta proprio sui versi del suo Adone: prova che la “bell'Adriana” non seppe uguagliare. Fu costretto allora ad ammettere che «questa [la Cecchina] sia di molto più sapere, et padrona dell'arte, et in quell'altra [l'Adriana] alquanto miglior voce, et artifiziosa negli affetti»[76].
Si è “padroni dell'arte”, dunque, quando si sono assimilate le regole a tal punto che si è capaci di una sapiente e “alta” improvvisazione. Altre doti, come la bellezza della voce e la verità degli affetti, sembrano da questa distinte: e particolarmente la seconda sembra inseguire una verità che non è sempre all'apice delle valutazioni.
Anche qui Arte e Natura dunque?
Con l'evidenza dell'immagine, l'Arte dell'Iconologia del Ripa asserisce questa costante ambivalenza. Al ritratto perfino il Vasari richiede sia la somiglianza che l'inventio appropriata. Ma la prima non è nel Rinascimento una virtù sempre apprezzata: è noto che Michelangelo non amasse fare i ritratti[77], perché più che nell'imitazione della realtà egli credeva nell'Idea e così i tanti che lo seguirono. Ma, dopo i grandi artisti del Cinquecento e le espressioni intellettualistiche dei manieristi, il riferimento alla realtà acquista accenti nuovi, recuperando dalle arti basse anche la verità degli affetti: linfa vitale alla cultura alta, strumento potente di coinvolgimento di un pubblico in funzione del quale si comincia a pensare la produzione artistica e letteraria[78]. Questo accade tra Cinque e Seicento ed è evidente nei ritratti “al naturale” o “dal vivo” – sono locuzioni che ne ricordano altre, del tutto analoghe e sopra citate, scritte dai comici per le loro commedie – imposti dai Carracci, Agostino, Ludovico e soprattutto Annibale, per la prima volta nella cultura “alta”. Così quest'ultimo scrive di essere attratto da una «schiettezza» che è «vera, non verisimile, e naturale, non artifiziata né sforzata»[79] ed è su questo presupposto di verità che si fondano le loro famose Accademie (eppure, come diremo, non c'è dubbio che essi sapessero prodursi, all'occorrenza, anche con altri linguaggi).
Anche la musica si potrebbe dire divisa tra coloro che, come il teorico bolognese Giovanni Maria Artusi, credevano in un'evoluzione separata e autonoma all'insegna del diletto e del bello e coloro che, come Monteverdi, ne intendevano sviluppare soprattutto le straordinarie potenzialità di espressione degli affetti. Il musicista romano Giulio Caccini, un protagonista della nascente opera in musica, scriveva di avere tratto ispirazione per la sua «nuova maniera» da alcune canzonette popolari «per lo più di parole vili», non stimate dagli «uomini intendenti»[80]. Mentre non c'è dubbio che, sia pure con potenti derive nel segno della verità[81], l'artificio, potremmo dire lo spettacolo della parola, sia la principale preoccupazione dei grandi letterati dell'epoca, dal Tesauro al Marino; e a lungo, anche nei trattati di teatro, si continua a pensare a un'importanza superiore dell'insieme di regole di ogni disciplina, a quell'Arte (aristotelica) a cui si riconosce ogni autorità[82].
Tra Firenze e Roma[83] si gioca una partita importante, tutta imperniata sugli affetti e l'interpretazione naturale e volta alla ricerca di un intimo dialogo fra le arti, una partita che riconosce nel melodramma nascente il suo luogo privilegiato e nella commedia un punto di riferimento implicito e costante. Per Giulio Caccini, cantante e musicista attivo tra le due città, quella del canto è «un'arte che non patisce la mediocrità» e vuole «principalmente tre cose»: «lo affetto, la varietà di quello e la sprezzatura». E dunque, da un lato, seguendo l'insegnamento di Platone, «l'imitazione de i concetti delle parole», ognuna eseguita con le variazioni più adeguate e con la necessaria naturalezza perché «dalle voci finte non può nascere nobiltà di canto»; dall'altra una «nobile sprezzatura», per la quale si cela il più possibile l'«arte del contrappunto» per togliere «una certa [de]terminata angustia e secchezza» e rendere il canto «piacevole, licenzioso e arioso». Infatti, egli osserva, «nella professione del cantante (per eccellenza sua) non servono solo le cose particolari, ma tutte insieme la fanno migliore» e dunque è «necessario per il musico un certo giudizio il quale suole prevalere talvolta all'arte»[84]. Anche Pietro Della Valle ricorda che: «secondo il detto di quel gran dotto e giudizioso [...] Quintiliano, [...] le regole dell'arte bisogna ben saperle per far bene, e che è molto ignorante chi non le sa; ma che sa poco assai chi non sa o non ardisce talvolta e a luogo e tempo in buon modo trasgredirle per far meglio»; e Vincenzo Giustiniani osserva che «si può dir veramente che ne gl'effetti che procedono dalla musica, la natura vi abbia gran parte, accompagnata anche dall'artificio»; mentre il fiorentino Filippo Vitali, maestro di musica del cardinale Antonio Barberini, dopo essersi soffermato sulla straordinaria “piazza” romana, inesauribile fucina di esimi cantanti, scrive in merito allo spettacolo che «essi [i cantanti] davano alle parole ed al concetto coi gesti vivissimi spirito: tutti i lor movimenti erano graziosi, necessari e naturali, e avresti nei lor volti conosciuto ch'essi sentivano veramente nel cuore quelle passioni che con la bocca spiegavano»[85]. Esercizio, quest'ultimo, in cui gli attori erano evidentemente i modelli: non era questa un'umiliazione da poco per chi era cresciuto nella convinzione della superiorità della musica, unica delle arti ad essere inequivocabilmente annoverata fra le Arti liberali. Il «cantare [...] in comedie travestita» era infatti sentito in qualche modo disonorevole per una cantante[86]: non è per caso che la celebre Leonora Baroni non si esibisca mai sulle scene di un teatro. Ma è l'autore fiorentino del Corago a scrivere su questo una pagina inequivocabile: «Sopra tutto per esser buon recitante cantando bisognerebbe esser anche buono recitante parlando, onde aviamo veduto che alcuni che hanno avuto particolar grazia in recitare hanno fatto meraviglie quando insieme hanno saputo cantare. Intorno a che alcuni muovono questione se si deva eleggere un musico non cattivo che sia perfetto recitante o pure un musico eccellente ma di poco o nessun talento di recitare, nel che si è toccato con mano che sì come ad alcuni pochi molto intendenti di musica sono più piaciuti l'eccellenti cantori quantunque freddi nel recitamento, così al com[un]e del teatro sodisfazione maggiore hanno dato i perfetti istrioni con mediocre voce e perizia musicale»[87]. Il gusto di pochi “intendenti” contro il piacere di tutti: posta la questione in questi termini, la scelta apparirebbe oggi pressoché obbligata[88]. Che allora si indicasse come migliore un simile orientamento è invece una novità assoluta, il segno di una mutazione antropologica epocale. Una scelta che si deve, oltre che alle finalità di rappresentazione cortigiana espresse nell'opera, anche a una poetica che tende sempre di più al coinvolgimento emotivo universale. Ed è certo una scelta per la quale la Natura – e con essa gli attori – finisce per avanzare nella considerazione collettiva.
Comici e buffoni
Se i precetti dell'arte nella drammaturgia sono quelli che avevano elaborato, sulla base della Poetica, alti letterati come Francesco Robortello e Ludovico Castelvetro, si deve probabilmente proprio a Isabella Andreini il punto più alto della composizione dell'arduo equilibrio tra l'«elegante e dotto stile» di una raffinatissima accademica e il virtuosismo proteiforme e “naturale” delle sue celebrate imitazioni. Nel suo Amoroso contrasto sopra la comedia una donna di cultura, Ersilia, stigmatizza la funzione generalmente negativa dei comici “erranti e mercenarii” che non guardano ad altro se non a un effetto “strepitoso” e al “maggior guadagno”; ad essi ella contrappone, come fondamento della commedia, lo studio dell'“arte poetica” di Aristotele e dei relativi precetti. Ma anche il deuteragonista del dialogo, lo scrittore di commedie premeditate Diomede, difende l'elevatezza della sua funzione: «il poeta [...] debbe fare come fa il pittore (che vien nomato poeta muto), il quale prima abbozza la figura ch'egli intende di fare, poi fa quella perfetta, dandole i lineamenti con i colori»[89]: prassi ed esempio attinti anch'essi dallo Stagirita, così come l'azione «meravigliosamente intrecciata di peripezia, di riconoscimento»; mentre la sua qualità «affettuosa e non episodica» ci parla anche di sensi nuovi, che attingono in quel profondo dell'animo umano che, almeno a partire dal Tasso[90] (e dal Correggio nella pittura), è diventato oggetto dell'indagine e dell'espressione letteraria (e artistica), rinviando per questo implicitamente al mondo dell'interpretazione attoriale.
Questa nozione alta dell'esercizio del teatro, come invenzione e come interpretazione, questa “scena” concepita come «mostra de' compositori dramatici»[91] e come palestra delle doti di natura e ancor più di quelle di un'“arte” che è (innanzitutto? anche?) ardua padronanza dei relativi precetti, oltre che esempio precipuo di moralità[92], appare condivisa anche dal marito di Isabella, Francesco, da Flaminio Scala e (almeno) da quella «mai a bastanza lodata compagnia de i Comici Gelosi» che ha mostrato «ai Comici venturi il vero modo di componere e recitar Comedie, Tragicomedie, Tragedie, Pastorali, intermedii apparenti, ed altre invenzioni rappresentative»[93]. Ma è certo che sia Francesco che lo Scala spostano decisamente il tiro, rivendicando il riconoscimento di un'“arte” teatrale del tutto autonoma, fondata non sui precetti aristotelici (di cui si deve comunque avere precisa nozione), ma sulla pratica del teatro. Scrive lo Scala: «Chi può sapere i precetti dell'arte che i comici stessi, che ogni giorno gli mettono in pratica esercitandola, e però gl'imparano dall'uso? E chi ha più la vera arte dello imitare di loro, che non solo imitano nelli affetti e proprietà delle azzioni, ma ancora, con l'introdur varie lingue, sono necessitati a procurare di sapere ottimamente imitare, non solo con la propria favella, ma anco con l'altre?». Non si tratta, come si vede, della consueta querelle tra antichi e moderni, ma di rivendicare al teatro una specificità di criteri, perfino diversi da quelli dei letterati; e, considerato l'enorme seguito di cui godevano quelli dello Stagirita, non era discorso di poco conto. «Da questo avviene - scrive ancora lo Scala – che molti gran letterati, e de' migliori, per non aver pratica della scena, distendano commedie con bello stile, buoni concetti e graziosi discorsi e nobili invenzioni, ma queste poi, messe su la scena, restan fredde perché mancando dell'imitazione del proprio, con una insipidezza e languidezza mirabile, e talora con l'inverisimile, per non dir coll'impossibile, fanno stomacare altrui, né conseguiscono perciò il fine di dilettare, e meno del giovare»[94]. Anche Francesco Andreini si mostra profondamente consapevole della novità e dell'importanza del suo operato: «E come quello che di nuovo era spaventato dalla grandezza del verso Eroico, del Lirico, del Tragico, e da molt'altre sorti di versi, mi posi con cuor tremante a scrivere e mi diedi alla prosa, ed a trattar quello che non era stato trattato ancora da scrittore alcuno. E se l'invenzione è quella che fa il Poeta, non è corona in Parnaso ch'io non meriti solo per questa nuova invenzione, avend'ella in sé del Comico e del Tragico rappresentativo»[95]. Un'invenzione che non deve essere intesa in senso assoluto: Giovanni Briccio, comico-pittore-menante (dunque dilettante, ma in realtà non sempre tale: il suo potrebbe essere un caso emblematico dei confini non sempre netti fra le due dimensioni) romano, accusa i moderni commediografi di attingere costantemente a quelle degli autori di ogni letteratura, classica, italiana e straniera così che è ben raro poter ritrovarne una che «di vecchio non abbia odore».
C'è poi un'opera in cui il senso alto del termine è particolarmente evidente: si tratta de Il Tedeschino overo difesa dell'Arte del Cavalier del Piacere, un'opera scritta da un coltissimo buffone mediceo, Bernardino Ricci, tra il 1633 e il 1635. Eppure l'“Arte” del titolo non è quella del comico, ma addirittura quella di un buffone, una figura che nei trattati dei comici appare ancora più squalificata, anche perché (almeno formalmente) legata alla condanna aristotelica. Si tratta anche qui di un dialogo in cui si sostiene che anche la buffoneria è arte: un obiettivo che vede il Tedeschino del tutto isolato eppure fermamente convinto; e i termini con cui sviluppa il suo discorso si rivelano quanto mai utili ai nostri fini di approfondimento. Ch'egli intenda “arte” nel senso più alto è evidente, dal momento che il suo interlocutore, Pompeo, così gli replica: «Voi dite che la buffoneria è arte. Ma come può esser arte se l'arte è una raccolta di precetti ordinati ad un fine utile alla vita umana ed il buffone non ha altra industria che la infingardaggine, e par che nel commercio civile sia [...] come il fuco tra le pecchie?». Il Tedeschino gli oppone allora il fatto che la buffoneria ha «i suoi precetti e le sue regole», fatto in realtà generalmente accettato; ma che il vero buffone sa anche «conoscer le nature altrui: in che consiste il principal punto dell'arte, perchè scoperte le inclinazioni con questo lume, [...] elegge i mezzi più efficaci per introdurre il riso e l'allegrezza colle facezie e colle burle. E queste devono essere adoperate con gran giudizio e discrezione, e vi sono molte regole ed osservazioni particolari oltre a tutte quelle che il conte Baldassar Castiglioni insegna al suo compitissimo Cortigiano. Perché il buffone [...] deve saper fare ancora diversi atti nuovi, scomposti e stravaganti, contraffare e dileggiare altri, quando senza offesa di persona degna di rispetto, porta l'occasione che facendosi si accresca il diletto di quegli a cui attende». Al buffone si richiedono dunque tutte le conoscenze e i comportamenti del «compitissimo Cortigiano» e anche molte altre.
Ma Pompeo lo incalza: come si può sostenere che le regole e i precetti della buffoneria siano «indirizzati a qualche fine che sia utile alla vita civile»? L'autore risponde come occorra intendersi sul concetto di utilità e come essa possa non escludere il «dilettevole, quando non si scosta dall'onesto, perché in altra maniera ne resterebbono escluse quell'arti, che tra tutte sono le più nobili e le più degne. Né la musica, né la pittura né la poetica potrebbono chiamarsi arte»[96]. E dunque anche l'arte del buffone, portando «onesto diletto», può rivendicare una sua utilità alla vita civile; e in particolare risultano necessarissimi ai prìncipi come veri «medici degli animi», in quanto ne ristorano e ne rinvigoriscono le forze, indebolite dai «pensieri gravi e molesti» dei loro uffici, mostrando loro, insieme, anche i pericoli a cui li possono portare gli istinti della loro indole[97]. Se ne può concludere che la buffoneria è arte, e non certo arte meccanica, ma liberale, essendo innanzitutto «arte di parole». Di più: è assistita dalle altre arti come da ancelle: dalla grammatica «che insegna di parlar acconciamente», dalla retorica «che suggerisce i termini che debbono usarsi secondo la differenza delle persone, de' tempi e dei luoghi» e dalle «altre per ornamento, le quali insieme colla poetica, che aiuta a trovar l'invenzioni per dilettare e colla cognizion delle istorie e delle altre cose, dovono concorrere a formar un perfetto buffone, qual fu Aristippo»[98]. E, ancora interrogato, il Tedeschino specifica come per «arte di parole» egli intendesse significare un'arte che «abbracci i motti, che consistono in poche parole acute e frizzanti, e le ciance e le narrazioni» in cui «si scopre assai il sapere d'un buon buffone», indicando nel Decameron una ricca fonte di simili «artificiosi condimenti», anche se occorre essere ben consapevoli del fatto che lo studio non può sostituire doti naturali particolarissime e in particolare un «ingegno svegliato e pronto». E ancora: non basta al buffone d'aver «l'arte delle parole, perché deve averla de' fatti ancora»: e non solo «de' gesti, con i quali graziosamente accompagni le narrazioni e i motti, ma dei contraffacimenti, degli atti nuovi, dei scherzi e delle beffe che bene spesso possono essere senza accompagnamento di parole»[99].
Anche se la pratica della «appropriazione indebita», del processo costante di «manipolazione» e della «riscrittura inventiva»[100] (dovuti alla necessità di poter fruire in breve tempo di sempre nuove invenzioni), insieme con il puntuale riferimento alla Natura e all'Arte, possono avvicinare il buffone al comico, tra il primo e il secondo non solo non v'è identità, ma, almeno a giudicare da questo trattato, è il buffone, dedito alla soddisfazione di un pubblico di corte spesso quanto mai ristretto (e perfino di una sola persona), a godere e/o a pretendere maggiore considerazione sociale, non essendo egli legato ad una dimensione mercenaria, ma essendo invece, come erede di una antica tradizione, direttamente dipendente dalla persona del principe[101], dal quale soltanto egli aspetta emolumenti e prebende. Mentre i comici «sui publici palchi» dimostrano «i difetti altrui, tanto al nobile quanto al plebeo per vil prezzo», scrive Bernardino Ricci, il buffone «sta solo appresso la persona del principe»[102]. Questa esclusiva dipendenza e vicinanza e l'alta funzione rivendicata in relazione alla serenità del principe, persona pubblica per definizione, sono gli argomenti con i quali il Tedeschino dimostra l'utilità sociale del buffone. Alla luce di questo passo si potrebbe leggere in modo diverso l'ostentato disprezzo di questi da parte del comico: è in realtà un rapporto di invidia e gelosia da parte di chi è nomade, in costante balia dei capricci dei potenti e delle avverse fortune, verso chi è invece saldamente ancorato al riferimento nobilitante del principe. Il passo suggerisce anche che i viaggi dei comici, in particolare quelli dei Gelosi o dei Confidenti verso la corte di Francia, non inseguissero semplici obiettivi di lucro, ma tendessero piuttosto all'inserimento in un contesto cortigiano in cui il loro guadagno potesse venire nobilitato: una qualità di professionismo che all'epoca era valutata in maniera affatto diversa e probabilmente tutt'altro che disprezzata[103]. Se questo è vero, che il “mito” della commedia dell'Arte (con tutti i travisamenti del caso) sia nato in Francia appare strettamente consequenziale: anche se preparato da precedenti viaggi teatrali, da molteplici pubblicazioni e da un originale progetto culturale, è a partire dal loro incardinamento nella corte (1660 circa, con Tiberio Fiorilli) che i nostri comici traggono la più forte ragione della loro straordinaria affermazione.
Dove le due figure – il comico e il buffone – rivelano una strettissima contiguità è in realtà nella preoccupazione di cultura, moderazione e moralità, rivendicate sia dal Tedeschino che da tanti illustri comici nei loro trattati[104]. Il buffone e il comico intendono prendere le distanze dalla generale riprovazione di cui è circondata la più comune accezione delle loro figure e per questa loro ansia di considerazione sociale scrivono testi e drammaturgie.
Più spesso però, specie con l'addentrarsi nel Seicento, l'“arte”, pur mantenendo il suo alto carattere di rigore e di studio, sembra diventare sinonimo di “esercizio”, “professione” teatrale nel senso seicentesco del termine e dunque non finalizzata al guadagno né da esso condizionata: una ricaduta del significato che, se anche possiamo dire originata da quella mancanza di una parola adeguata che già si è notata, la dice lunga sulle difficoltà dei livelli e degli obiettivi iniziali. Un'arte che tuttavia un attore professionista e teorico come Domenico Bruni intende indirizzare «al suo fine» vero, «qual è di dilettare e giovare», protesa a sanare i difetti della natura con le «meraviglie» che essa sola, l'“arte”, sa «ritrovare ne' più reconditi ripostigli dove la natura conserva i suoi segreti» (la grotta di Prometeo?)[105]. Così Giovan Battista Andreini pensa i comici come «alfieri di virtù» e mantiene netta la distanza tra comico e buffone e scrive «in lode dell'Arte comica», «mandata in terra per la pietà che esso ha in cielo della misera ed affannata vita de' mortali»[106]; e in questo senso, secondo Nicolò Barbieri, si legittima senz'altro, per l'“arte”, una «giusta mercede». Quando lo stesso Barbieri scrive il passo (sopra citato) che sembra identificare “commedia” e “arte”, egli codifica in realtà lo stretto rapporto tra interpretazione attoriale e generi drammaturgici, concludendo che «il titolo de' comici non fa argomento del bene o del male oprare, ma i loro portamenti fanno il merito o 'l demerito» e che non v'è «arte tanto perfetta che faccia essenti i suoi operari da gli errori». Discorso in cui egli unisce poeti e istrioni, recitanti e compositori, comici accademici e mercenari rispetto ai quali «non confondo ancor ch'io non distingua», perché «i comici mercenarii sovente recitano le stesse [commedie] delle Accademie». E ricorda il San Genesio martire che «santificò nell'atto del recitare», i costumi generalmente morali e religiosi dei comici e le disposizioni in proposito di San Tommaso, dimostrando in tal modo l'uso onesto e salvifico a cui l'“arte” può prestarsi[107]. In definitiva “arte”, «benché tenghi il medesimo nome, non è però della stessa natura di quella dettestata da tanti e con ragione abborrita da ogni galantuomo», è dunque «cosa media» – sono espressioni rispettivamente di Domenico Bruni[108] e di Flaminio Scala[109] che rieccheggiano il concetto di mezzanità – che si può indirizzare a fenomeni di segno addirittura contrario.
È però Nicolò Barbieri a indicare con maggiore lucidità la sorgente del pericolo, quando fa riferimento ai differenti gusti e “umori” di un pubblico che va formandosi come tale anche in conseguenza di queste rappresentazioni. Ben consapevole del fatto che all'elevatezza di propositi non corrispondono adeguati riscontri dal punto di vista economico, egli scrive che «quantunque l'intenzione dell'opere dramatiche siano tutte più all'utilità che al dilettamento dirette, nulladimeno il maggior capitale che facciano i vaghi della comedia è il diletto, ove ne convien porre l'utile immascherato di giocondità, come col zucchero si cuoprono gli antidoti per li malori de' fanciulli, acciò che come confetti, e non come medicine, siano da loro inghiottiti; altrimenti il popolo non avrebbe gusto, e senza il di lor gusto ogni picciolo teatro sarebbe sufficiente all'auditorio ed ogni picciola borsa sarebbe capace al nostro guadagno, essendo ch'il senso ha più seguito nell'umanità che non la ragione»[110].
Immagini, quelle del “teatro” e della “borsa”, che, insieme con il riferimento alla Natura e all'Arte, un'Arte ben diversa, peraltro, da quella dei precetti, appaiono usate anche dal Marino, ammesso e non concesso che la misteriosa Oratione fatta in Parnaso dal cavalier Marino, pubblicata nel contesto delle Essequie poetiche overo Lamento delle Muse Italiane in morte del Sig.r Lope de Vega Insigne & Incomparabile Poeta Spagnuolo, pubblicate a Venezia per conto dell'ambasciatore spagnolo nel 1636, sia realmente opera sua o almeno ne riprenda fedelmente le idee: «Vera arte di comedia è quella che mette in teatro quello che più piace agli uditori; questa è regola invencibile della natura; e voler la carestia d'ingegno o il far del critico a poca spesa sostentar che una effigie sia bella perché abbia le figure del volto corrispondenti all'arte, se li manca quell'ingasto e aria inesplicabile ed invisibile con il quale la natura (con l'arte) le liga insieme, sarà voler sostentare che la natura fia inferiori a quelli che, crepando di critici, e' fingono a loro beneplacito l'arte in ogni cosa». E aggiunge: «Basti per onor di LOPE il consenso ed applauso delle nazioni, poiché in Italia e Francia quelli che rappresentano comedie per accrescere il guadagno mettono nei cartelli che rappresentano un soggetto di LOPE DE VEGA, e con questo manca loro coliseo per la gente e casse per li denari»[111]. Un passo, quest'ultimo, che rivela il probabile riferimento dell'Oratione al passo di Beltrame; e ancora al trattato di Beltrame, pubblicato per la prima volta anch'esso a Venezia nel 1634, potremmo riferire le rivendicazioni di assoluta moralità e perfino le conversioni ottenute grazie alle commedie di Lope.
Il commediografo spagnolo, come è noto, aveva sostenuto nella sua Arte nuevo de hacer comedias in este tiempo (un discorso pronunciato nel 1608, diffuso anche in Italia a partire dalla sua pubblicazione nel 1611), la legittimità di un'Arte nuova, liberata dai precetti aristotelici e unicamente riferita al gusto del pubblico; argomenti nell'Oratione puntualmente ripresi, e in maniera molto più radicale di quanto non avvenga nello scritto del Barbieri o di altri comici. Si potrebbe obiettare che la pubblicazione di queste Essequie avviene nell'orbita dell'Ambasciatore di Spagna, il quale a buon diritto propaganda le idee dei propri commediografi; e anche che l'operazione è concepita e realizzata a Venezia, con ogni probabilità in ambienti vicini agli Accademici Incogniti, prossimi all'esplosione del teatro musicale d'impresa. Si direbbe dunque che, almeno in questo caso gli accademici siano più spregiudicati degli stessi comici, impegnati e tesi, come si è visto, a elevare la propria figura sociale e, almeno alcuni di essi, pienamente consapevoli dell'autonomia della loro “arte”, al punto da voler introdurre nella cultura “alta” dei letterati un genere nuovo, quello dello scenario. Un genere ignoto fuori d'Italia, per lo meno per la dignità e l'autorevolezza con cui almeno alcuni dei nostri comici lo difendono e lo impongono, che si afferma anche a Roma, e successivamente a Venezia, per delineare le azioni del nascente teatro per musica[112], nonché, almeno a partire dal 1616, perfino nel teatro dei Gesuiti[113]; mentre la pubblicazione degli scenari dei comici si interrompe con la prima parte del Teatro delle favole rappresentative dello Scala (edita a Venezia nel 1611, con dedica di Francesco Andreini; si ricordi quanto scritto sui Confidenti); tanto che si è potuto affermare che «abbastanza rapidamente [...] l'improvvisazione, che fino a quel momento era stata quasi sinonimo dell'arte teatrale professionistica, diventò un'eccezione di pochi»[114].
Attori e artisti
È il letterato fiorentino Filippo Baldinucci a darci l'ultimo, importante significato: «Ad istanza del Cardinal Antonio Barberini compose il Bernino ed a proprie spese, da Persone dell'Arte, cioè da pittori, scultori e architetti [il corsivo è mio], fece rappresentare le belle, ed oneste commedie delle quali a suo tempo si parlerà»[115]. Qui “arte” ha un senso ancora diverso. Significa evidentemente artisti e questo significato sarà infatti registrato nell'edizione del 1729 del Vocabolario della Crusca («Compagnia d'Artisti»), senza alcun riferimento a una corporazione, dal momento che, così come non esisteva quella degli attori, non esisteva neanche quella degli artisti.
L'identità della parola suggerisce che tra teatro e arti figurative non ci sia semplice vicinanza, ma un rapporto profondo, almeno in parte strutturale: un rapporto che, ancor oggi vitalissimo in fenomeni come la body art o nelle azioni stesse dei performers, ha le sue radici – è importante chiarirlo – nelle tecniche espressive dell'artista del passato.
Che questi, sull'onda dell'ut pictura poesis[116] (ma Emmanuelle Hénin già nel titolo della sua recente opera ha corretto: Ut pictura theatrum[117]), preferisca fondare la sua elocutio, più che sull'imitazione di modelli generici, sulle impersonazioni, proprie (si pensi ai tanti autoritratti eseguiti allo specchio, da quelli dei Carracci, a quelli del Caravaggio, del Domenichino, di Rembrandt, del Bernini, di Salvator Rosa[118]: evidentemente una consuetudine diffusa) o anche su impersonazioni di altri artisti, va imputato a un motivo specifico, espresso chiaramente nella biografia dei Carracci scritta da Carlo Cesare Malvasia: «Usavano farsi modello fra di loro; godeva Agostino di accomodarsi nelle attitudini bramate da Lodovico, essendo di questa opinione, che chi non le intendea, non le sapesse ben rappresentare e perciò quelle de' modelli fossero posticce ed insipide». Così Ludovico «ch'era cicciosotto e polputo» si prestò a spogliare e «lasciar copiare la sua schiena ad Annibale nella Venere volta in quell'attitudine»[119]. Nella cerchia dei Carracci si dava dunque più importanza al talento d'interpretazione che alla verosimiglianza fisica del modello e questo fa delle loro due Accademie bolognesi, quella dei Desiderosi e quella degli Incamminati, ambienti di primaria importanza per quel dialogo speciale tra attori e artisti che qui si ipotizza. Due recenti mostre[120] hanno indicato poi una via di indagine di grande rilievo, segnalando come i Carracci fossero ben avvertiti della cultura figurativa comica e profana milanese coeva: in particolare di quell'Accademia della Val di Blenio, che accoglieva e sviluppava, con spirito alternativo alla cultura borromaica imperante, i temi dell'illusoretà del reale e della contaminazione grottesca degli stili, della contrapposizione di Natura e Arte (puntavano però, questi Accademici, nettamente sulla prima), dell'ispirazione e del furor poetico e insieme di una vita piena e incontrollabile degli istinti e dei sensi: tutti i temi insomma di quello che è stato chiamato “Controrinascimento”[121]. A quest'Accademia sono stati ricondotti, tra i molti, anche i pittori cremonesi Campi, con cui i Carracci ebbero rapporti documentati, e Simone Pederzano, l'unico maestro riconosciuto di Caravaggio[122].
L'Accademia, fondata nel 1560 per la protezione del conte Pirro Visconti di Modrone, e a lungo presieduta dal pittore e teorico lombardo Giovanni Paolo Lomazzo con l'obiettivo di opporsi agli aulici stilemi petrarcheschi e di approfondire le tensioni realistiche, comiche e caricaturali di Leonardo, era “di natura poetica” (pur se antiletteraria e irregolare in un senso che è stato avvicinato ai modi dei comici) ed era aperta non solo agli artisti delle arti maggiori sanzionate dal Vasari, ma anche ad artigiani come intagliatori, ricamatori, medaglisti, cesellatori; e aveva assunto per i suoi membri, al fine di esprimere una tensione di “umiltà”, le vesti e il dialetto dei facchini che scendevano lungo le valli dell'alta Lombardia, appunto la Val di Blenio, ma anche la Valtellina o la Valcamonica, come scriveva il Garzoni nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo, verso Milano o Venezia. «Il facchino bleniese del Lomazzo non è soltanto una variante del folle o del buffone della tradizione comico-popolare (è un buffone che introduce il I dialogo dei Sogni e raggionamenti del pittore e teorico lombardo), ma anche del pastore arcadico, della cortigiana dell'Aretino o del buon selvaggio ammirato da Montaigne»[123]. Agli studiosi di teatro è invece ben nota la funzione particolarissima di quei facchini che «hanno una lingua tale, che i zani se l'hanno usurpata in comedia», come osservava ancora il Garzoni, rilevandone gli spunti caricaturali comuni agli Zanni[124]. Un legame confermato dalla documentata presenza, fra gli Accademici bleniesi, di Simone Panzanini da Bologna, comico della compagnia dei Gelosi, detto fra i comici Zan Panza de Pecora e “compà Svagnin” nell'Accademia, «rarissimo in rappresentare la persona di un facchino bergamasco»[125]; il cui celebre Lacrimoso Lamento dedicato a se stesso è infatti espresso nella stessa lingua facchinesca dei Rabisch, i componimenti poetici raccolti dal Lomazzo che sono forse l'espressione più compiuta di quel clima culturale. E confermato anche dagli strettissimi rapporti che Isabella Andreini, nel corso dei suoi frequenti soggiorni milanesi, intrattenne con alcuni fra i più importanti Accademici: in specie con il poeta Gherardo Borgogni e con l'editore di questi Comin Ventura, entrambi suoi entusiasti ammiratori, al punto che, in evidente accordo, delinearono un parallelo dell'attrice con il Tasso. L'ambiente di librai, editori, poeti, pittori e attori milanesi frequentato dalla Andreini di cui scrive Taviani[126] in una sua importante ricognizione dell'attrice, è dunque, almeno per buona parte, quello dell'Accademia bleniese.
E quando il Malvasia scriveva che il “ragazzaccio” Annibale (così era chiamato per i suoi atteggiamenti strafottenti e spregiudicati) suscitava le critiche degli “intendenti” per il suo «modo triviale troppo facile ad ogni imperito» perché egli «ben poteva, nudato un facchino e postogli un panno addosso, copiarlo di peso sul quadro, e presso a' poco intendenti farsi un grand'onore con poco capitale d'ingegno», è difficile pensare che il riferimento a quel “facchino” fosse generico. Si direbbe che anche nell'Accademia carraccesca continuino, sia pure in modi meno estremi, modi e figure già sperimentate nell'Accademia bleniese. È in collegamento a quel contesto, oltre che in riferimento agli artisti nordici fiamminghi specialisti della pittura di genere, che vanno forse intesi quadri “strani” di Annibale come la Macelleria o il Mangiafagioli o anche quella pratica dei ritratti “carichi” e quella frequentazione di comici che sono legate al nome dei Carracci; i suoi dissapori con il fratello potrebbero essere dunque meno futili di quel che non appaia a prima vista[127]. Anche un quadro come il Bacchino malato del Caravaggio, in cui il pittore si rappresenta vestito al modo dei filosofi cinici[128], così come aveva fatto il Lomazzo in alcuni frontespizi delle sue opere (in particolare nel primo libro delle sue Rime intitolato, molto significativamente I Grotteschi, 1587), potrebbe rientrare a buon diritto in questo quadro.
È infine ben certo che la ricerca della verità porta con sé anche quella degli “affetti” ed è per questa ricerca, facilitata dal richiamo comune all'ut pictura poesis, che si realizza in queste Accademie una vera comunanza di interessi fra artisti e attori. Si crea in tal modo una sorta di professionalità dell'interpretazione anche negli artisti: il verbo «intendea» nel fondamentale passo del Malvasia riporta alla mente la distinzione, all'epoca fondamentale, tra gli «intendenti» e i «non intendenti», ossia tra i sapienti delle regole (dell'Arte?) e gli ignoranti delle stesse in ogni materia. Ma ancora dal Lomazzo viene una riflessione che crea un diversivo importante in direzione della Natura: «una pittura rappresentata [...] con moti al naturale ritratti farà senza dubbio ridere con chi ride, pensare con chi pensa, ramaricarsi con chi piange, rallegrarsi e gioire con chi s'allegra»[129]. Dal Domenichino, altro pittore bolognese attivo a Roma, sentiamo parole ancora più significative, che non troveremmo facilmente neppure nei trattati dei comici. Secondo il Bellori, egli soleva infatti dire che «non poteva capire come certi conducono l'opere gravissime, ciarlando in conversazione: il che è contrassegno di pratica e non di applicazione d'intelletto; et aggiungeva che nelle azzioni della pittura, bisogna non solo contemplare e riconoscere gli affetti, ma sentirli ancora in se stesso, fare e patire le stesse cose che si rappresentano». Prima di dipingere, egli soleva infatti ricreare personalmente, in privato, azioni e atteggiamenti e parole dei diversi personaggi; e, sorpreso un giorno dal suo maestro Carracci, mentre impersonava un soldato che martirizzava Sant' Andrea inveendo e minacciando, fu da lui per questo abbracciato e lodato[130].
Dalla biografia di Federico Barocci scritta ancora dal Bellori ricaviamo un altro aspetto estremamente interessante. Usava egli ritrarre esclusivamente “al naturale” e usava quindi cercare nella realtà volti, o parti di volti «riguardevoli [...], facendone scelta e servendosene all'occasione»; ma «prima concepia l'azzione da rappresentarsi, et avanti di formarne lo schizzo, poneva al modello i suoi giovini, e li faceva gestire conforme la sua imaginazione e chiedeva loro se in quel gesto sentivano sforzo alcuno; e se col volgersi più o meno trovavano requie migliore, da ciò sperimentava li moti più naturali, senza affettazione, e ne formava gli schizzi. Nel medesimo modo se voleva introdurre un gruppo di figure, adattava li giovini insieme all'azzione e da gli schizzi formava poi da sé il disegno compito. E perciò nelli moti suoi si riconosce una proprietà facile, naturale, e graziosissima»[131]. Sono, queste, vere pratiche teatrali, attoriali e capocomicali, di una straordinaria modernità; esse si direbbero attinte dal “segreto” mondo dei comici, un “segreto” che ci sarebbe in parte disvelato da questi passi tratti dalle biografie degli artisti.
A questo punto il ricorso, da parte di questi, a veri attori appare assolutamente ovvio e coerente. Si accreditano le ipotesi di Siro Ferrone sulle attrici raffigurate da pittori e incisori in impersonazioni a volte anche fra loro contrastanti (come Virginia Ramponi in Arianna, Maddalena e la Malinconia[132]). E si comprendono anche le ragioni profonde per le quali troviamo tanti artisti che fanno gli attori, ovviamente dilettanti, eppure spesso documentati come improvvisatori: una doppia valenza che a Siena è documentata fin dal primo Cinquecento[133]. Nell'Indice di tutti i più famosi recitanti di Comedie improvise, che sono stati in Roma ne' tempi dell'Autore, e che hanno recitato con lui, compilato da Giovanni Briccio, la massima parte è costituita da pittori[134]. Non solo: come osserva Sara Mamone, intere compagnie di artisti fiorentini erano anche compagnie d'attori[135]. Un'altra ragione di questa doppia attività ce la fornisce il Passeri parlando di Salvator Rosa ed è quella originaria dei comici: le sue «azioni ridicole» gli servivano «per fare una larga apertura alla cognizione della sua persona», vale a dire per pubblicizzare la propria attività di pittore, anche se, «come cose disgregate dalla professione, non gli partorirono troppo buon nome» ovviamente presso i letterati[136]. Ma esiste anche il fenomeno inverso. La fama conquistata da alcuni attori molto popolari sollecita la diffusione di ritratti e incisioni: fra attori e artisti si crea dunque una sorta di commercio parallelo[137].
E ci sono anche, ad avvicinarli fisicamente, luoghi come le Fonderie (la Fonderia Medicea, la Fonderia Vaticana[138]) che sono per eccellenza i luoghi degli artisti e degli artigiani, ma sono anche quelli delle esibizioni attoriali: luoghi dell'Arte (Arte nel senso del Prometeo pliniano, dunque della fatica fisica del corpo, e Arte come esercizio dell'ingegno nel senso contemplato dal Ripa) e luoghi della Natura (Natura del corpo degli attori e della mimesi teatrale del reale, la migliore tra le possibili mimesi teorizzate da Aristotele).
Secondo il Bernini, la Pittura constava di tre parti: il disegno, il colore e l'“espressiva”, cioè l'espressione dei sentimenti: e non c'è bisogno di dire quanto l'ultima, teorizzata per la prima volta nel Trattato dell'arte della pittura, scoltura et architettura (1585) del Lomazzo, un testo che l'artista possedeva personalmente, interessasse gli attori. È stato detto giustamente molte volte che il teatro mancava all'epoca di uno specifico statuto.
Attori bravi «come antichi Professori dell'Arte»: in questo passo arte e teatro si identificano. Di più: arte sostituisce teatro, perché teatro, come già si è detto, non aveva all'epoca il senso che noi diamo a questa parola. Che i comici si riferissero all'arte, e cioè alla forma d'espressione che essi, attraverso l'“espressiva”, sentivano più vicina, e che era ben più riconosciuta rispetto alla loro, potrebbe apparire un passaggio giustificabile e naturale. Anche Croce del resto riconosceva che il loro «nucleo vitale» non era «nella poesia o letteratura ma nella figurazione plastica e nella mimica»[139]. Ed è evidentemente retaggio della stessa sostituzione il fatto che, come spesso è stato rilevato, fino al secolo appena trascorso, gli attori all'antica italiani usassero parlare del proprio lavoro come dell'“arte” senza altre specificazioni. Ma anche la parola “commedia”, come si è visto, poteva esser chiamata a ricoprire la stessa funzione. Tra Cinque e Seicento il richiamo all'ut pictura poesis è così forte da offuscare la specificità di ogni linguaggio.
“Commedia dell'arte” ossia gli attori
Se di fronte a questi sensi diversi e/o coincidenti il lettore di oggi non può che sentirsi spiazzato, è certo tuttavia che quello di arte come mestiere mercenario appare, dopo un'attenta lettura di numerosi testi e documenti cinque-seicenteschi non solo teatrali, di gran lunga quello meno frequentato[140]. Il mestiere del teatro appare all'epoca del tutto squalificato innanzitutto per le implicazioni morali che la vendita di un corpo travestito e deformato comportava e anche per un'oggettiva considerazione del fenomeno (a volte per ammissione degli stessi comici). La «sordida mercede» è vergogna per tutte le azioni, sentenziava ancora alla fine del Seicento Andrea Perrucci riflettendo un'opinione probabilmente dominante, per «il Canto, il Suono, il Ballo, la Scherma, la Lutta, il Cavalcare, potendolo fare ogn'uno, benché nobile, senza intaccare la sua riputazione, non esigendone mercede, e ogn'una delle suddette azioni è stimata vile, quando il guadagno se ne cava»[141]. Ma dilettanti e professionisti al loro livello più alto appaiono uniti nella condanna degli «istrioni infami», di coloro che disonorano un'“Arte” suscettibile di per sé dei più alti destini.
È vero anche, del resto, che, come è stato notato, la famosa formula non è equivalente ad “arte della commedia” e questo anche se “arte comica” è espressione ricorrente perfino nei titoli dei trattati.
In un momento in cui, con la pubblicazione dei primi Vocabolari, lo studio dei significati delle parole si sta affermando come disciplina, questi sono ancora in buona parte fluttuanti, la parola è ancora, più che mai, “parola che pensa” e segue da presso i travagli e le trasmutazioni dell'essere. Dunque si potrebbe dire che non esiste un modo “giusto” con cui, anche alla luce di un'età passata, si possa interpretare il senso di ogni parola. Esiste invece quello con cui la parola è utilizzata da ogni persona, ognuno con una sua diversa cultura (“alta” o “bassa”, dei letterati o degli artisti-attori) e dunque, spesso, con un diverso intendimento; e c'è anche uno svolgimento diacronico del significato da seguire, che ha a sua volta puntuali giustificazioni culturali e antropologiche.
È vero che, se il buffone, in una sua accezione nobilitante, si autoproclama «cavalier del piacere», il comico potrebbe chiamarsi “comico dell'Arte”, intendendo per arte quel complesso di regole dirette ad un fine di utilità della vita umana la cui perfetta padronanza rende capaci di “invenzioni”. Ma non è così semplice.
In “commedia dell'arte” potremmo sentire, volta a volta, molte, troppe cose: la rivendicazione di una specificità, appunto “teatro fatto alla maniera degli attori” (“arte” come esercizio teatrale) e degli artisti (“arte” come studio dell' “espressiva”), non dei letterati (“arte” dei precetti). Potremmo leggervi al contrario proprio un riferimento all'Arte aristotelica (si pensi all'Amoroso contrasto di Isabella) e comunque la padronanza di un'elevata sapienza, una sapienza che non era, all'epoca, prerogativa dei soli accademici; o la identificazione plurima, nel segno dell'ut pictura poesis oraziano, di commedia, teatro, pittura, scultura e arte (come arti mimetiche). E infine tutti i sensi citati potrebbero convivere ed essere riconosciuti negli sguardi insieme diversi e vicini degli attori, degli artisti e dei letterati e negli obiettivi comuni di mezzanità, di moralità e di riferimento alla realtà che buona parte di essi si proponevano.
Alla fine, per esprimerci con linguaggio seicentesco[142], rispetto a “Commedia”, “Arte” può essere metafora «di simiglianza» o di «antitesi»: «teatro fatto alla maniera degli attori» (teatro di Natura) o «teatro di eccellenza» (teatro d'Arte – “commedia dell'Arte”?). Può ben darsi che il senso originario dell'espressione dipenda dall'epoca in cui fu effettivamente coniato: più antico, contemporaneo a Isabella, il secondo; più tardo il primo. Ma personalmente non posso fare a meno di rilevare quanto la metafora di antitesi fosse, nel Seicento, particolarmente valutata e costantemente frequentata; e non credo che il primo significato possa escludere l'altro, perché è proprio l'intrinseca opposizione a dare valore alla fusione. Una traduzione appropriata a questo aspetto (anche tenuto conto dei passi della Andreini, di Barbieri e di Bruni sopra notati) potrebbe allora essere: teatro d'Arte che si intende contrapposto a un pur lodevole e comunque padroneggiato teatro di Natura dove per Arte si intenderebbe un esercizio dell'ingegno e per Natura l'imitazione fedele di un'azione reale. Il tema della sopravvivenza dell'attore – un tema quanto mai sentito, da Isabella Andreini e non solo – sembrerebbe legato precisamente a questi due modelli. A questi ricorre infatti l'altissimo panegirico scritto da Adriano Valerini in mortem di un'altra celebre attrice, Vincenza Armani: «oltre i natural doni di che le fu data sì gran parte, l'Arte s'ingegnò anch'ella, emola della Natura, d'ornarla a garra»[143].
Natura-Arte: una dialettica di origine vasariana[144], dunque riconducibile alla prima generazione dei grandi comici, che la direbbe lunga anche su quella particolarissima vicinanza tra attori e artisti che si è rilevata; che anzi, in alcuni casi, si direbbe rappresenti il loro rapporto[145]; e che replicherebbe per gli attori accentuandolo (si pensi a Isabella e agli Zanni) un contrasto di risonanza “grottesca”[146] che era già negli artisti (si pensi all'Accademia di Blenio e a non secondari aspetti del manierismo). Questa vicinanza s'intende favorita da un processo analogo e contrario da parte degli artisti: partiti, con il Vasari, da una generale sopravvalutazione dell'Arte, essi (o buona parte di essi) riscoprono la Natura anche attraverso la frequentazione degli attori.
Ma l'ambiguità, che resta tale dopo i due percorsi delineati, percorsi in cui non sono mancati reciproci intrecci, è ricchezza di contenuti, corrisponde in realtà alle tante sfaccettature di un fenomeno come quello degli attori, un fenomeno nuovo, almeno se lo consideriamo all'interno di una cultura “alta” e d'altronde costantemente caratterizzato da un'ambivalenza di «serietà e leggerezza, ignoranza e cultura, impegno e disimpegno»[147].
Probabilmente proprio per questa ambiguità e questa ricchezza si può pensare che un'espressione come “commedia dell'arte” si sia imposta, nel tempo, su tutte.
Iconografia
Di una elevatezza di propositi e di immagine sono comunque puntuale testimonianza alcuni ritratti di attori.
Il primo numero di “Commedia dell'arte”, già citato, presenta, tra gli altri, uno studio di grande interesse dal punto di vista dell'iconografia del teatro: Sopra un ritratto d'attore inedito di Alberto Ambrosini e Maria Ines Aliverti[148]. Un ritratto d'attore già attribuito al pittore lucchese Giovanni Paolini (1603-1681), che l'Ambrosini, dopo un convincente percorso, attribuisce invece ad Angelo Caroselli e a una sua attività romana intorno al 1611.
L'indagine iconografica di Aliverti ha però il merito di sollevare un problema nuovo: quello della maschera neutra che l'attore tiene in mano sorridendo. La studiosa identifica anche, in parte proprio grazie a questa maschera, l'attore in questione: si tratterebbe di Francesco Gabrielli detto Scapino (già sopra citato), appartenente, fin dal 1612, a quella compagnia dei Confidenti che il nobile pesarese Giuseppe Zongo Ondedei definiva «forse la miglior compagnia che vada a torno adesso»[149] e dunque compagno di comici del calibro di Jacopo Fidenzi, Domenico Bruni, Nicolò Barbieri, Ottavio Onorati e Marina Dorotea Antonazzoni (sopra citata); partecipe e anzi protagonista[150] della riforma regolarizzatrice voluta da don Giovanni de' Medici; figlio infine di quel Giovanni Gabrielli detto Sivello il cui ritratto, con una simile maschera in mano, è stato inciso a Roma verso la fine del '500 da Agostino Carracci.
Annibale e Agostino Carracci, attivi a Roma tra il 1595 e i primi anni del secolo (ma Agostino torna a Parma fin dal 1600 a causa dei dissapori con il fratello), frequentavano assiduamente il mondo degli attori e in particolare proprio Sivello, famoso per le sue particolarissime doti nell'imitazione. Si diceva di lui che sapesse interpretare «da per sé solo» tutti i personaggi di una commedia attraverso la «diversità de' linguaggi e della voce»: ed è a questi talenti che, nel trattato di Giovan Battista Agucchi, vengono assimilate le straordinarie abilità in particolare di Annibale nel riprodurre i diversi linguaggi pittorici delle diverse scuole regionali italiane[151]. Aliverti rileva il carattere particolare della maschera e, pur riconducendola a quella dell'antica pantomima a cui in quegli anni l'ambiente romano – quello dei Caetani, dei Gonzaga, dei Giustiniani (le famiglie a cui potremmo legare i Gabrielli) –, fervido di interessi classicistici, era certamente interessato, la interpreta come simbolo del teatro e del suo «studio e [...] rappresentazione degli affetti», mettendola anche in connessione con «la familiarità dei pittori con la scena nel contesto del semi-professionalismo teatrale dei circoli accademici» in particolare fiorentini e romani[152]. Rinvio ad una lettura personale dell'articolo per la ricchezza del percorso e dei dettagli. Ma la maschera neutra può dire qualcosa di pertinente anche al presente discorso.
Ricordiamo che la maschera era citata come attributo della Commedia di tipo terenziano nell'Iconologia del Ripa. Ci si potrebbe domandare allora con quali caratteristiche essa vi era presentata. Pensava, il Ripa, alla maschera della commedia classica o a quella dei comici?
Una ricerca sull'Iconologia smentisce entrambe le ipotesi. Non mancano icone con maschere incise all'interno dell'opera, per esempio quelle della “Imitatione”, della “Fraude” e della “Morte”, ma nessuna presenta la deformazione tipica delle due possibilità citate. Si tratta sempre in realtà di una maschera neutra, indice di una fedele riproduzione della realtà. In particolare l'icona della “Imitatione” ha nella mano destra i pennelli (la Pittura, arte per eccellenza di imitazione), nella sinistra la maschera neutra (la corretta imitazione) e ai piedi una scimmia (la “sozza” imitazione, che abbiamo già incontrato nella descrizione della “Commedia Vecchia”). Dunque per il Ripa la maschera neutra, al contrario della scimmia, indica la corretta imitazione della realtà. Anche qui si tratta di un topos di lunga durata, se è vero che alla base di un ritratto ancora di Garrick troviamo la maschera neutra, probabilmente usata con piena cognizione di causa[153].
La stessa maschera, come «ritratto della faccia dell'uomo», dunque non deformata e intera, è citata anche nella descrizione dell'icona della Pittura: era legata ad essa con una catena d'oro. Una figurazione che si direbbe una puntuale traduzione in termini figurativi dell'espressione “commedia dell'arte”.
La Pittura è, per Ripa, innanzitutto «applicazione dell'intelletto»; e la bellezza della donna esprime “nobiltà”, dove la nobiltà è segno precipuo dell'intelletto. I suoi capelli sono «neri e grossi, perché stando il buon Pittore in pensieri continui dell'imitatione della natura, & dell'arte, in quanto da prospettiva [...] viene per tal cagione a prendere molta cura & maninconia [...]. Saranno i capelli hirsuti, & sparsi in alto, & in diverse parti con anellature, che appariscano prodotte dalla negligenza, perché nascono questi esteriormente dalla testa, come interiormente ne nascono i pensieri, & i fantasmi, che sono messi come alla speculatione, così ancora alle opere materiali. Le ciglia inarcate, mostrano meraviglia, & veramente il Dipintore si estende, a tanta sottile investigatione di cose minime in se stesse per aiuto dell'arte sua, che facilmente n'acquista maraviglia e maninconia. La bocca ricoperta, è inditio che non è cosa che giovi quanto il silentio e la solitudine [...]. Tiene la catena d'oro onde pende la Maschera, per mostrare che l'imitatione, è congionta con la pittura inseparabilmente. Gli anelletti della catena, mostrano la conformità di una cosa con l'altra, & la congiunzione perché non ogni cosa, come dice Cicerone, nella sua Rettorica, il Pittore impara dal Maestro, ma con una sola ne apprende molte [...]. La qualità dell'oro dimostra che quando la pittura non è mantenuta dalla nobiltà facilmente si perde, & la maschera mostra l'imitatione conveniente alla Pittura. Gli Antichi [...] volevano che que' Poeti a quali mancava quella parte, non fossero Poeti riputati, così non sono da riputarsi i Pittori, che non l'hanno, essendo vero quel detto triviale, che la Poesia tace nella Pittura, & che la Pittura nella Poesia ragiona; vero è che sono differenti nel modo d'imitare [...perché] a forza d'arte, quasi con inganno della natura, fa l'una intendere co' sensi, l'altra sentire con l'intelletto. Ha bisogno dunque la Pittura della imitatione delle cose reali, il che accenna la maschera, che è ritratto della faccia dell'uomo». Una maschera non deformata, dunque, dal momento che la deformazione avrebbe probabilmente evocato una generica commedia della classicità; mentre il Ripa intendeva significare l'imitazione dell'uomo reale, “simile” a noi. E se la «veste cangiante» mostra tutto il diletto offerto dalla varietà, i «piedi ricoperti» significano che le proporzioni debbono celarsi, perché «è grand'arte presso agl'oratori saper fingere di parlare senz'arte; così presso a i pittori saper dipingere in modo che non apparisca l'arte se non a' più intelligenti e quella lode che sola attende il pittore curioso di fama, nata dalla virtù»[154].
Immagini descritte che inevitabilmente ne chiamano altre, queste però realizzate: la Musa Polymnia, Musa pensosa, solitaria e malinconica che abita le menti di artisti e poeti; il bassorilievo di Menandro che sceglie, tra le altre, una maschera neutra mentre guarda la stessa Musa[155]; la Melencolia I incisa da Dürer, qui collegata all'Arte liberale della Geometria[156], ma in seguito, anche come segno di elevazione delle nuove arti mimetiche, più spesso sentita come il “temperamento” fondamentale che ispira e ispirerà i “lamenti” e le “follie” di poeti, comici (e comiche), artisti e musici[157], una Melancolia in cui notiamo, per gli sviluppi successivi di questo percorso, gli attributi del cane e del putto che scrive[158]; quella di Domenico Fetti, impersonata dall'attrice Virginia Ramponi, con il teschio (omaggio, come “memento mori”, al clima controriformista e legame diretto con la figura della Maddalena), un libro chiuso e uno aperto (la letteratura, forse nei due momenti dell'opera conclusa e della lettura e/o interpretazione), i pennelli (la pittura), il busto classico (la scultura), il cane (la malinconia); il Parnaso di Raffaello, dove le Muse, già sostituite nell'immaginario dell'uomo medioevale dalle Arti liberali, ritornano trionfalmente, due di loro reggendo un'unica maschera dalla bocca celata, simbolo, anche prima dell'Iconologia, di un'unica imitazione. La medaglia della Pittura coniata in onore della pittrice Lavinia Fontana[159], che sembra esplicitare, sul recto e sul verso, il contrasto tra l'impersonazione “gioiosa” di una Pittura intenta all'opra con i capelli irti a raggera (una figurazione chiaramente attinta al Ripa) e l'immagine austera, quasi da antica matrona, che di lei si intende consegnare; e soprattutto La Pittura (ritratta addormentata, in attesa di essere risvegliata dal Granduca mediceo) di Fabrizio Boschi[160], che porta al collo anche la catena con la maschera (tra comica e tragica): entrambe figurazioni vicine alla descrizione del Ripa, entrambe con la bocca bendata, evidenti riprese della silente Musa classica.
C'è anche un Trionfo della Pittura di un anonimo pittore veneziano (fine XVI secolo)[161] che la ritrae nuda, incoronata d'alloro da un genio alato, con pennelli e tavolozza a fianco, posti sopra una maschera accostata ad un teschio. Anche qui la maschera non è deforme come le maschere attoriche, è un vecchio, un «ritratto della faccia dell'uomo», un segno di quell' imitazione «conveniente [...] delle cose reali» che deve essere perseguita dalla pittura con l'intelletto, «a forza d'arte, quasi con inganno della natura», ma celando tutta la fatica e la sapienza di quest'operazione. I laccetti dorati fanno pensare alla catena descritta dal Ripa, ma in realtà non la congiungono alla figura ed evocano invece la pratica di un attore che la indossa; terminano per giunta con una piccolissima maschera neutra. Che è come dire, in qualche modo contraddicendo il Ripa (forse, del resto, non conosciuto): la Pittura trionfa del tempo e anche degli effimeri esercizi mimetici, sia pure nobili. Un quadro che vorrebbe ribadire la superiorità degli artisti sugli attori, ma che contraddice lo scopo nel momento in cui rappresenta non un'immobile allegoria, ma una donna in movimento, come sorpresa dal genio che la incorona: un tentativo di superare, con un espediente che potremmo dire attorico, il tradizionale limite di fissità dell'opera artistica.
Che Annibale Carracci condivida gli orientamenti dell'Iconologia è evidente se pensiamo ai suoi obiettivi di imitazione fedele della realtà naturale; ma lo dimostra anche il frontespizio delle Diverse Figure, Al numero di ottanta, Disegnate di penna Nell'ore di ricreatione Da Annibale Carracci... (1646) in cui l'autoritratto dell'artista, fiancheggiato da pennelli e tavolozza e arnesi da disegno, è posto proprio sotto due maschere intere di una donna e di un vecchio (non deforme, simile al vecchio sopra citato; mentre la coppia donna-vecchio deformato è un topos che si può far risalire almeno ai mosaici pompeiani e sembra significare entrambi i tipi di commedia, la Nuova e la Vecchia), a loro volta sotto due trombe della fama incrociate.
Altre immagini del nostro ideale percorso: il ritratto del Veronese recentemente identificato da Aliverti con Isabella Andreini[162], che si potrebbe anche vedere come un esercizio mirabile di raffigurazione non di sovrani, ma di personaggi “mezzani”, “cittadini”, simili a noi, soggetti nuovi del ritratto[163]; il famoso ritratto di Leonora Baroni, opera del nobile letterato e pittore Fabio della Cornia, fedele riflesso delle apoteosi poetiche che per lei si compongono, in cui un Cupido vinto infila il suo dardo nelle corde della viola dell'esimia cantante[164]; e quello, almeno altrettanto celebre, del castrato favorito dal cardinale Antonio Barberini, Marc'Antonio Pasqualini, classicamente incoronato da Apollo[165]; puntuali riferimenti, questi ultimi, del sostituirsi delle musiche e soprattutto, a Roma, dei castrati alle attrici nell'immaginario e nella predilezione del pubblico; e anche testimonianze di un modo diverso, certamente più alto rispetto a quello usato per gli attori, di rappresentare i cantanti.
Ma le immagini forse più significative del nostro percorso fra le arti sono due opere pittoriche di argomento affine, già commentate da Aliverti: La Poesia e la Pittura di Francesco Furini (1626) e l'Allegoria della Commedia e della Pittura di Cesare Dandini (di poco successiva), entrambi di area toscana. Ogni coppia di allegorie è avvicinata al suo interno dalla similarità dell'abbigliamento e della posa. Nella prima le due figure allegoriche sono uguali, ugualmente abbigliate all'antica e incoronate d'alloro. Nella seconda i tratti somatici uguali suggeriscono una stessa modella, probabilmente Marina Antonazzoni, la celebre attrice dei Confidenti di cui sopra[166]: la Commedia è ritratta di fronte, la Pittura di profilo; l'accento malinconico è dato loro, oltre che dall'espressione delle figure, dall'affacciarsi del muso allungato di un cane e anche dal putto che regge il libro chiuso, ricordi entrambi della Melencolia düreriana; e non mancano il libro aperto, i pennelli e un torso classico, e cioè le tre arti mimetiche del Teatro, della Pittura e della Scultura. Non solo dunque Pittura e Scultura, come scriveva il Vasari, ma anche Pittura e Commedia sono «care gemelle nate da un parto», come scriveva il Marino, riprendendo provocatoriamente l'espressione vasariana[167]. Non basta. L'allegoria della Pittura nella prima coppia e della Commedia nella seconda presentano entrambe, come loro principale attributo, per l'appunto una maschera neutra: quell'imitatio sapiens dell'uomo e dei suoi affetti che è al vertice dei loro comuni interessi, un'imitazione della realtà (della Natura) migliorata dall'“Arte”. Attributo della Pittura e di altre icone del Ripa, la maschera neutra sembra essere assunta da alcuni comici dell'Arte, in particolare dai Gabrielli, intimi dei Carracci, e dalla compagnia dei Confidenti riformati da don Giovanni, per esprimere la loro parzialità verso una certa Commedia, quella di cui aveva scritto Cicerone; e sancisce la sostanziale unità di artisti, attori e poeti sotto l'egida della retorica. Si potrebbe anche dedurne che entrambi i pittori (Furini e Dandini), ma anche numerosi altri – Agostino Carracci e Angelo Caroselli, nonché Domenico Fetti – accolgono e sostengono nelle loro figurazioni le alte istanze dei comici.
C'è un'altra immagine che non abbiamo e che sarebbe probabilmente fondamentale per il nostro viaggio iconografico: quella di Isabella Andreini, che, secondo la testimonianza di suo figlio Giovan Battista, fu «non solo dipinta, ma coronata d'alloro in simulacro colorato fra 'l Tasso e il Petrarca», dopo che a un banchetto del cardinale Cinzio Aldobrandini, alla presenza di «sei Cardinali saputissimi, il Tasso, il Cavalier de' Pazzi, l'Ongaro ed altri poeti preclari, sonettando e scrivendo improvvisi» riportò la vittoria su tutti. Lo stesso Andreini rivolgeva anche, contestualmente, una invocazione appassionata alla «Commedia inghirlandata d'alloro»[168]; l'alloro simbolo di quell'eternità che era la grande aspirazione della celebre attrice, a tal punto da essere sentita, oggi, come la sua «ossessione»[169]; l'alloro che, nei rispettivi ritratti incoronava innanzitutto poeti come il Tasso[170] e il Marino[171], ma anche la figura della Pittura nel quadro veneziano citato; e allora non è un caso che l'immagine di Isabella, seguita da Petrarca, Ariosto e i due Tasso, come notato da Stefano Mazzoni[172], compaia anche nel Laurel de Apolo di Lope de Vega (1630). Tanto grande è il mito e la risonanza di Isabella che essa diventa, quasi insensibilmente, anche l'icona della commedia e del teatro: si vedano le vignette con la sua immagine incisa (a tutt'oggi non riconosciuta come tale) in alcune opere di Giulio Cesare Croce come Le dieci allegrezze delle spose opera piacevole et bella. Descritta in ottava rima (Bologna, per Ferdinando Pisari, [1608]), o La Farinella, inganno piacevole, comedia nova (Ferrara, per Vittorio Baldini,1609, riedita nel 1612)[173], e anche nella commedia Amoroso Segretario del fiorentino Pietro Susini, (edita a Bologna, per il Longhi, nel 1695)[174]. «Novo Musarum germine orta»[175] Isabella è chiamata del resto dall'umanista fiammingo Erycius Puteanus, dopo che il Rinascimento, con i celebri quadri del Parnaso di Mantegna e Raffaello, aveva recuperato le loro funzioni. E in un lungo componimento redatto dopo la sua morte[176] essa finisce per incarnare addirittura, a causa dell'eccellenza dimostrata in tutti i registri drammatici, tutto l'Olimpo femminile e il coro intero d'Elicona. Che in seguito Marina Antonazzoni si faccia ritrarre ancora dal Dandini come personificazione della Commedia laureata con il libro aperto e la maschera neutra non stupisce, se è vero che l'attrice si proponeva come l'erede di Isabella: ed è una figurazione in cui, come provano l'espressione dell'attrice e la considerazione del quadro dell'Allegoria dello stesso autore, confluisce anche l'idea della Musa malinconica degli artisti[177].
La costruzione del mito di Isabella di cui tante volte si è scritto potrebbe rispondere in realtà a un'esigenza precisa: quella di chi, inseguendo le tracce degli artisti sul terreno specifico delle loro aspirazioni di crescita nella considerazione sociale, avrebbe voluto creare un equivalente dei loro grandi miti cinquecenteschi, Leonardo, (soprattutto) Michelangelo e Raffaello; i quali, come è noto, avevano contribuito in maniera determinante, forse anche più delle teorie dell'Alberti o del Vasari, a mutare la generale sottovalutazione delle arti. Isabella, come Michelangelo[178], era un prodigio sia che la si guardasse dal punto di vista della Natura (imitazione della realtà), sia che la si considerasse a partire dall'Arte (esercizio dell'ingegno e dell'intelletto): la sua straordinaria esibizione del 1589 di cui sono state rilevate le modalità contrastanti (si pensi da un lato alla parte patetica e grave dell'Innamorata – che travalica nel pezzo di bravura della Pazzia – e dall'altro ad una identità che si perde nell'imitazione dei linguaggi di tutti i comici) potrebbe offrire a questo riguardo una testimonianza precisa[179]. Per tutta la vita Isabella aveva combattuto in piena consapevolezza l'evanescenza della fama teatrale. La morte prematura ne consacra il mito ed esso dà forza alle non comuni aspirazioni dei comici, ai loro trattati e alle loro drammaturgie.
Lo studio dell'iconografia conferma una lettura “alta” del nuovo fenomeno degli attori, una lettura che, sia a Milano che a Roma e a Firenze, appare condivisa fra attori e artisti; trasmette il senso di un'autoconsapevolezza forte degli attori, posti allo stesso livello dei pittori e perfino dei letterati. Ma da questi ultimi viene opposta, specie a Roma, una netta chiusura[180], una chiusura che sarà determinante per la frattura tra attori e letterati che connoterà in senso negativo la cultura del nostro paese.
Tra comici, artisti e letterati
Negli ultimi anni del Cinquecento, probabilmente a causa della generosa committenza dei papi impegnati in una politica culturale di cui, tra Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII è stata rilevata la forte continuità[181], e anche a causa di una sostanziale autonomia delle microcorti romane, si crea a Roma uno straordinario contesto che tiene conto e si alimenta non solo delle fonti classiche e degli artisti classicisti e manieristi, ma anche di una nutrita presenza di artisti fiammingo-olandesi[182]. Non è un caso dunque che nell'Accademia degli Umoristi lo scambio fra le arti – tutte le arti, anche la musica e il teatro – e le lettere – di cui le drammaturgie sono parte integrante – fosse, almeno nei primi anni, istituzionalmente previsto. Per questo scambio la Commedia dell'Arte, di cui, come osserva Gerardo Guccini, è stato di recente riconosciuto il buon diritto a rientrare nella genealogia delle “arti multimediali”, «mobilitando congiuntamente le risorse della scena e quelle della letteratura [...] e [...] dei diversi media (la musica, la declamazione poetica, il libro, e anche la pittura)»[183], costituisce un importantissimo punto di riferimento; e neppur tanto lontano, se dobbiamo credere ai molti indizi che, com'è stato rilevato, la apparentano alle Accademie[184].
Isabella Andreini, documentata a Roma più volte, nel febbraio 1585, nel gennaio-febbraio 1590 e anche alcuni anni più tardi (1600)[185], in questo percorso dell'“arte” “alto” e transdisciplinare e anche con le sue celebri “follie”, occupa certamente un posto di riguardo, ponendosi anche come importante anello di trasmissione, da Milano a Roma, degli ideali dell'Accademia bleniese. Un altro punto importante, congruo alla svolta regolarizzatrice impressa da don Giovanni e alla valorizzazione delle parti mascherate su quelle a volto scoperto degli Innamorati voluta da Giovan Battista Andreini[186] (ed è probabilmente una deviazione verso la commedia dei simili oltre che un'ulteriore via per l'attenzione di alcuni comici verso la maschera neutra), è, a Roma e a Firenze, la capillare diffusione dei dilettanti, accolti anche nelle Accademie, e delle “ridicolose” interamente distese. L'apertura dell'Accademia degli Umoristi a un letterato atipico come il Marino (un'apertura che, dopo quella dei primi anni del secolo, avrà un altro momento forte nel 1623 con la successiva sua elezione a Principe) costituisce un indizio sicuro degli abbattimenti degli steccati e di un'eccezionale circolazione delle idee fra lettere e arti e anche fra i generi al loro interno. Un letterato, il Marino, che, benché apparentemente lontanissimo dalla “casta Venus”, fu grande ammiratore di Isabella[187] e credeva fermamente e usava praticare abitualmente queste sorti di “intarsi”[188] tra le arti, tanto da prestare la sua principale attenzione, non solo e non tanto agli affetti intesi in senso classicistico, ma anche proprio a quelle “tenerezze” delle commedie già riprovate come corruttrici dall'Ingegneri e da dedicare una sua famosa e vietatissima Canzone a quei baci che costituivano una potenziale attrazione degli spettacoli dei comici[189]. E che cos'era il Cannocchiale aristotelico se non il documento di questa osmosi continua tra parola e immagine e di una spettacolarità della scrittura inseguita e propagandata dal Tesauro già nei suoi anni romani presso l'Accademia savoiarda dei Desiosi, prolungamento di quella degli Umoristi, un'Accademia in cui si era potuto mettere in luce il «fumo vaporoso delle passioni»[190]?
È ovviamente a Roma, roccaforte dei valori assoluti e centro della classicità, che si gioca la parte più difficile della partita.
Se Lomazzo, che era, certamente non a caso, abituale spettatore delle commedie dei Gelosi[191], si può dire il primo teorico dell'“espressiva”, Annibale Carracci è tra i primi che si propone in maniera quanto mai concreta e consapevole uno studio “dal vivo” e a porsi il problema di un'imitazione fedele della realtà, un tipo d'imitazione considerato fino ad allora appannaggio di un'arte popolare o folclorica[192]; essendo in questo vicino agli attori quando si dichiaravano “professori dell'arte viva” e arrivando a lanciare[193] la pratica della caricatura, quel ritratto non deformato ma “caricato”, già coltivato dall'Accademia bleniese, e in cui anche l'attore dilettante Bernini si rivelerà maestro.
E quando leggiamo che Annibale studiava e praticava tutti i linguaggi delle varie scuole pittoriche regionali, servendosi ora dell'uno ora dell'altro a seconda del soggetto da ritrarre e rispettando dunque, anche nella pittura, le leggi del decorum, come non pensare ai diversi dialetti coerentemente e sapientemente usati dai comici (dal Sivello allo stesso Bernini)? «Sono anni e ambienti, questi di Annibale e del Sivello – scrive la studiosa d'arte Sylvia Ginzburg Carignani – in cui lo stile in pittura è considerato in modo molto simile al dialetto nella lingua, entrambi legati come sono a una determinata area geografica»[194].
Uno degli argomenti del Croce per considerare la commedia dell'arte come semplice “teatro di mestiere” era che la commedia dell'arte fioriva in un'epoca di piena decadenza italiana. Ma dal 1590 al 1620, è in atto un progetto politico-culturale esteso a tutte le branche del sapere e dell'espressione, un progetto riconducibile prevalentemente alla cerchia degli Aldobrandini (i due cardinali Cinzio e Pietro nonché il pontefice Clemente VIII) e dei Savoia (Carlo Emanuele I, ma anche il cardinale Maurizio) che, tra Roma e Torino, tra Tasso, Lomazzo, Agucchi, Marino e Tesauro, tra pittori e letterati, tra commedia e melodramma[195], puntava al risveglio della penisola[196]. Da più parti si agitano gli stessi fermenti: anche il teatro Farnese appare legato al disegno di costruire un'alleanza con i Medici, uno stato forte fra lo Stato Pontificio e quelli d'Oltralpe[197]. Erano disegni che avevano in sé fierissimi ostacoli (tra i quali in primis quello della designazione della dinastia promotrice) e che difatti, come è noto, non si realizzarono; ma che potevano trovare sostegno in una Maria de' Medici regina di Francia[198], nipote di quel Ferdinando, che, come amante delle lettere e delle arti tutte, aveva organizzato lo spettacolo della Pellegrina con gli intermezzi in musica per tanti versi famoso: e famoso anche a motivo di Isabella Andreini che si produsse in quell'occasione nella sua celebre “pazzia” e non solo. Uno spettacolo grandioso, che solennizzava il matrimonio del Granduca con Cristina di Lorena, segno tangibile della politica filofrancese inaugurata dal suo principato. Ricordo allora che la realizzazione della Galleria Farnese era tutt'altro che allineata, nei contenuti, con i desiderata pontifici; che Odoardo Farnese appare il più importante tramite tra la corte francese e le compagnie dei comici; che egli era con il padre Ranuccio, Cinzio Aldobrandini, Federico Borromeo, Alessandro e Cesare d'Este, Carlo Emanuele di Savoia e Alessandro Pico della Mirandola fra gli Accademici Intenti di Pavia[199], quelli che avevano avuto il coraggio di affiliare fra loro la coltissima Isabella; e anche che tra i comici il più desiderato dal re di Francia era per l'appunto Francesco Gabrielli[200], identificato da Aliverti nel ritratto dell'attore con la maschera neutra.
L'impegno civile che pare risorgere nell'Accademia degli Umoristi e non solo in quella, attraverso la pubblicazione di repertori biografici tesi a una valutazione nuova insieme dei letterati e degli artisti, potrebbe essere letto anche nell'accezione di un'“arte” dei comici italiani fondata su una “vera” imitazione della Natura e dunque sulla sapienza del corpo e dell'“espressiva”; e contemporaneamente tesa verso un'Arte concepita come prodotto dell'ingegno, come artificio nel senso seicentesco del termine (chi più sapiente nell'“artificio” di chi fonda la propria “arte” sulla finzione?), un' Arte che da un lato sa ricorrere a tutte le altre e spazia negli immensi magazzini dei materiali degli antichi e dall'altro fiorisce in un'improvvisazione “alta”, in tutto degna della letteratura premeditata.
È lecito pensare anche che alcuni comici “lombardi”, in particolare i comici Gelosi, particolarmente legati alla dinastia sabauda[201] e i Confidenti protetti da don Giovanni, fossero pedine d'alleanza ma anche in qualche modo consapevoli delle nuove prospettive culturali e politiche sopra delineate? La loro intensa attività editoriale di questi anni, la riforma delle loro modalità di composizione e la nuova coscienza della loro “arte” potrebbero essere intese anche all'interno di questo contesto, come proposta di un nuovo teatro, e dunque di una loro riconosciuta nuova funzione, per nuove corti, più libere e aperte? Quello che è stato chiamato il “mito della Commedia dell'Arte” e che, si è detto autorevolmente, si è formato e consolidato in Francia a partire dalle esibizioni di alcune delle nostre migliori compagnie teatrali si deve forse alle loro aspirazioni a inserirsi nel contesto “alto” di una corte particolarmente magnifica e a queste nuove prospettive culturali e politiche?
In quello che è stato chiamato “il magico passaggio fra Cinque e Seicento”, nella Roma del Caravaggio e dei Carracci, fallisce con la censura e la diaspora degli Umoristi quell'incontro tra le arti, le lettere e il teatro che da più parti d'Italia contemporaneamente si auspicava. Ma l'arte italiana realizza quella che è forse la più originale creazione della cultura occidentale: il personaggio, fondato sullo studio del “naturale” e degli affetti dell'uomo, in un'«accezione espressiva che sarà prevalente fino a tutto l'Ottocento»[202]. A quest'accezione si può credere che anche i “comici dell'Arte”, intesi nel senso più ampio – il teatro –, ma anche in quello più esclusivo e nobile – se pensiamo al particolare apporto dei grandi attori citati –, dessero un contributo determinante. Un contributo verificabile proprio attraverso i sensi diversi che emergono dallo studio della celebre dizione. A cavallo della fine del Cinquecento artisti e attori si incontrano tra Natura e Arte.
L'indagine, seguendo strani e tortuosi percorsi, è ritornata più volte al teatro; ma non per restarvi. Conferma l'infinita rete di relazioni del teatro e la non pertinenza di indagini autoreferenziali. Da un obiettivo iniziale di ricerca certamente assai labile sono nati alcuni interrogativi: a mio parere, non secondari.
Elena Tamburini
[2] Benedetto Croce, Intorno alla “Commedia dell'Arte”, in Poesia popolare e poesia d'arte, Bari, Laterza, 1957 (1° ed. 1932), pp. 507-518. Per Croce, come è noto, «“commedia dell'arte” non è, primariamente, concetto artistico o estetico, ma professionale o industriale»: «commedia di mestiere» e «teatro buffonesco». Il che non gli impedisce, ovviamente, di rilevare l'erudizione e lo spessore culturale dei comici.
[3] Cfr. Roberto Tessari, La commedia dell'Arte nel Seicento. 'Industria' e 'arte giocosa' nella civiltà barocca, Firenze, L. S. Olschki,1969, pp.1-8. Sul tema specifico si veda anche Paolo Fabbri e Sergio Monaldini, Dialogo della commedia, in Commedia dell'Arte e spettacolo musicale tra Sei e Settecento, Napoli, Ed. Scientifica, 2003, pp. 69-87.
[4] Cfr. Ferdinando Taviani e Mirella Schino, Il segreto della commedia dell'arte, Firenze, La Casa Usher, 1982, p.435.
[7] Siro Ferrone, Pose sceniche di una famiglia d'attori, in Domenico Fetti (1588/89-1623), a cura di E. A. Safarik, Milano, Electa, 1996, p. 51. Questo problema è al centro delle indagini di Sara Mamone, e questo fin dal suo Tra tela e scena. Vita d'Accademia e vita di corte nel primo Seicento fiorentino, «Biblioteca teatrale», 37-38, gennaio-giugno 1996, pp. 213-241.
[17] Cfr. R. Tessari, Il testo postumo. Strategie promozionali e letterarie degli attori professionisti, «Culture Teatrali», 10, primavera 2004, pp. 21-24.
[19] Cfr. Luciano Mariti, Il comico dell'Arte e Il Convitato di Pietra, in Silvia Carandini e Luciano Mariti, Don Giovanni o l'estrema avventura del teatro. Il nuovo risarcito Convitato di Pietra di Giovan Battista Andreini, Roma, Bulzoni, 2003.
[21] Una difficoltà a cui egli ovvia ricorrendo a Platone e alla funzione etico sociale da lui rivendicata al teatro: «mi venne in memoria che Platone un altro fine apporta della tragedia molto diverso da quello che Aristotele colla purificazione di quegli affetti le prescrive»; e ancora: «la tragedia […] nacque in Repubblica e nello stato di libertà e […] fatta per render maggiormente esosa e detestabile al popolo la tirannia»: Tarquinio Galluzzi, Rinovazione dellantica Tragedia e difesa del Crispo. Discorsi, Roma, Stamperia Vaticana,1633, pp. 7 e 8; lopera è dedicata al cardinale Francesco e vi si citano infatti le rappresentazioni nel suo teatro «con fornimento di ricchissime vesti, di eccellenti attori, di meravigliose apparenze e di vaghissima scena». Cfr. anche Bruna Filippi, «...accompagnare il diletto d'un ragionevole trattenimento con l'utile di qualche giovevole ammaestramento...». Il teatro dei gesuiti a Roma nel XVII secolo, «Teatro e storia», IX, 16, 1994, pp. 106-109. Il Galluzzi è con ogni probabilità l'autore “litteratissimo” della lettera premessa al Sant'Alessio: cfr. E. Tamburini, Per uno studio documentario delle forme sceniche: i teatri dei Barberini e gli interventi berniniani, in Tragedie dellOnore nellEuropa Barocca (2002), a cura di M. Chiabò e F. Doglio, Roma, Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, 2003, pp. 259-262.
[25] Si tratta di una sorta di flauto, usato nel teatro classico: alla tibia Giulio Cesare Scaligero, nei suoi Poetices libri septem (Lione, 1561), dedica due paragrafi del I libro. Si veda un'applicazione parziale di questo tipo di commedia nella vignetta di cui alla n. 173.
[34] Cfr. Marco Dezzi Bardeschi, Cultura, segno, situazione dell'architetto, in Il potere e lo spazio. La scena del principe, Firenze, Electa, 1980, pp. 87-102; Maria Cecilia Mazzi, Il collezionismo di Francesco I. Dal segreto alchemico all'ordine meccanico, in La Rinascenza a Firenze. Il Cinquecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, pp. 166-194.
[36] Cito da Franco Vazzoler, La saggezza di Isabella, in L'Arte dei comici. Omaggio a Isabella Andreini... (a cui si rimanda per una ricognizione recente e aggiornata sull'attrice), cit., p. 124. Si veda anche, sullo stesso dualismo Natura-Arte, la dedica delle sue Lettere redatta dal marito Francesco Andreini (ivi, pp. 127-128), nonché le scritte sul ritratto inciso dell'attore (Enciclopedia dello Spettacolo, ad vocem Andreini, Francesco); nonché la dedica di Comin Ventura alla Signora Emilia Albana Agliarda, datata 14 novembre 1594: «colei che con invidia de' passati e con essempio de' futuri a tempi nostri quasi altera pompa di Natura e d'arte, sola onora le scene, sola i teatri adorna, ed ivi come in suo regno altrui le leggi e gli affetti a sua voglia prescrive» (cito da F. Taviani, Bella d'Asia. Torquato Tasso, gli attori e l'immortalità, «Paragone/Letteratura», 480-410, febbraio-aprile 1984, p. 63, n. 11).
[41] Cito da un passo di Franco Ruffini (su un concetto di Ferdinando Taviani) riportato in F. Marotti, La Commedia dell'Arte. Studi recenti e prospettive, in Origini della Commedia Improvvisa o dell'Arte. Convegno di studi. Roma, 12-14 ottobre 1995, Anagni, 15 ottobre 1995, a cura di M. Chiabò e F. Doglio, Roma, Centro studi sul teatro medioevale e Rinascimentale, 1996, p. 27.
[45] Si veda ad esempio il recentissimo M. Schino, Alchimisti della scena: teatri laboratorio del Novecento europeo, Roma-Bari, Laterza, 2009 in cui l'immagine dell'alchimia come processo di una reale trasmutazione è assunta per esprimere quella altrettanto radicale a cui si tendeva nei teatri laboratorio del secolo passato.
[46] Cfr. Allardyce Nicoll, The World of Harlequin, Cambridge, University Press, 1963.
[52] Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, C. Alberti, 1612. Il secondo significato è quello di maestria, artificio, astuzia, frodolenza; il terzo e ultimo di «arte per lo magistrato che rende ragione agli artisti» (un ufficio giudiziario riservato agli artigiani?).
[54] Battista Guarini, Compendio della poesia tragicomica tratto dai duo Verati. Per opera dell'autore del Pastor fido, colla giunta di molte cose spettanti all'arte (1601). Cito da La scena contestata..., cit., pp. 21-24.
[55] A. Ingegneri, Della Poesia rappresentativa & del modo di rappresentare le Favole Sceniche...(1598). Cito da Ferruccio Marotti, Lo spettacolo dall'Umanesimo al Manierismo. Teoria e tecnica, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 273-275.
[63] «Non vi fu mai chi più di me avesse in odio la stravagante usanza di recitar comedie all'improviso e chi forse più di me si sia servito di questo comodo. Per un Comico diligente, morigerato e non affatto ignorante, confesso che l'invenzione non è pericolosa servendogli anzi di stimolo per ben parlare e per erudirsi. Ma io l'ho sempre abborrita poiché per esperienza ho conosciuto che al Comico ignorante e scostumato (che pur troppo alle volte se ne trovano) l'uso di recitare a l'improvviso gli serve di facilità per studiar solamente come inserrire ne' suoi discorsi qualche oscenità; e chi non ha talento, ancor che si conservi guardingo e modesto, riesce noioso e sciapito. Di qui è venuto che molte e molte volte una Comedia eccellente si è trovata insoportabile passando da Comici a Comici, poiché i motivi delle scene non sono stati ornati di spirito e di vivacità di pensieri, come fu a l'ora quando per buona il publico l'aveva ricevuta»: Luigi Riccoboni, Discorso della Commedia all'improvviso e scenari inediti, a cura di I. Mamczarz, Milano, Il Polifilo, 1973, p. 30.
[82] Così per esempio il Bellori (Giovanni Pietro Bellori, Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni, Roma, success. al Mascardi, 1672, pp. 5, 8). Andrea Perrucci scrive alla fine del Seicento che la Natura senza l'Arte «restarà come un albero selvatico, senza Cultura [...] e può dirsi di questa questione l'istesso della Poesia [...], aggiungendo peraltro di aver visto “l'Arte vincere la Natura, ma non la Natura l'Arte» (A. Perrucci, Dell'arte rappresentativa..., cit., pp. 104-105). Si deve notare che, se il predominio dell'Arte sulla Natura appare nel Cinque-Seicento, e cioè dopo il Vasari, largamente condiviso, non mancano, soprattutto in epoca più antica, diverse opinioni: il Varchi (1546), per esempio, pensando le opere della Natura come frutto della creazione divina e quelle dell'Arte come prodotto della mano dell'uomo, antepone le prime alle seconde; e così Paolo Pino (cfr. B. Varchi, Lezzione nella quale si disputa della maggioranza delle arti...., cit., p. 5; Paolo Pino Dialogo di pittura, in Trattati d'arte del Cinquecento..., vol. I, p. 100).
[96] Bernardino Ricci, Il Tedeschino overo difesa dell'Arte del Cavalier del Piacere, a cura di T. Megale, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 85-86.
[112] Cfr. Gloria Staffieri, Lo scenario nell'opera in musica del XVII secolo, in Le parole della musica. Studi sul lessico della letteratura critica del teatro musicale in onore di Gianfranco Folena, a cura di M. T. Muraro, Firenze, L. S. Olschki, 1995, II, pp. 3-31; e R. Ciancarelli, Sistemi teatrali..., cit., p. 59.
[113] Cfr. B. Filippi, Il teatro degli Argomenti. Gli scenari seicenteschi del teatro gesuitico romano, Roma, Institutum Historicum S.I., 2001.
[115] F. Baldinucci, Vita del cavaliere Gio. Lorenzo Bernini scultore, architetto, pittore, Firenze, V. Vangelisti,1682, p. 23.
[116] Cfr. Renssalaer W. Lee, Ut pictura poesis. La teoria umanistica della pittura, Firenze, Sansoni, 1974.
[121] Hiram Haydn, Il Controrinascimento, Bologna, Il Mulino, 1967 (il termine “controrinascimento” è stato introdotto anche in Italia con lieve variante – “antirinascimento”, termine con cui si tende a comprendere il manierismo – da Eugenio Battisti). Anche a Bologna sono tendenze molto presenti: si pensi a Bartolomeo Passerotti e a Camillo Procaccini, espressamente riconosciuti in questa prospettiva anche nel catalogo della mostra Rabisch. Inoltre temi come il dialetto, l'osteria, il vino e Bacco, il mondo basso e il legame con artisti ed attori si possono ritrovare ancora nel 1639 nell'opera del bolognese Antonio Mirandola (Ilaria Chia, Il Guercino e Annibale Carracci all'Osteria. L'Hosteria del mal tempo di Padre Antonio Mirandola, «Il Carrobbio», XXX, 2004, pp. 189-202). I Campi, il Passarotti e Caravaggio sono momenti forti anche dello studio di Barry Wind, Pitture Ridicole: Some Late Cinquecento Comic Genre Paintings, «Storia dell'arte», 20, 1974, pp. 25-35; studio in cui ritroviamo il Lomazzo, ancora come teorico.
[123] Francesco Porzio, Lomazzo e il realismo grottesco: un capitolo del primitivismo nel Cinquecento, in Rabisch..., cit., p. 27. Questo mondo composito è stato peraltro anche avvicinato a quello delle eresie e dei violenti radicalismi popolari che allora si agitavano nella regione: due anime che forse convivevano nella stessa Accademia (cfr. M. Virginia Cardi, Intorno all'autoritratto in veste di Bacco di Giovan Paolo Lomazzo, «Storia dell'arte», 81, 1994, p. 190).
[127] Annibale aveva richiamato il fratello, che aveva studiato di retorica e amava mescolarsi alle compagnie importanti, alle origini modeste della loro famiglia (cfr. F. Baldinucci, Dal Baroccio a Salvator Rosa..., cit., p. 126). Non stupisce quindi che proprio lui frequenti il comico Sivello (anche se è Agostino che ne incide il ritratto). Si potrebbe pensare che un simile atteggiamento rifletta una coerenza precisa con gli Accademici Bleniesi: l'abbigliamento umile con cui Annibale, a differenza del fratello, si propone nel suo Autoritratto ha similarità con quelli di diversi ritratti legati a quell'Accademia (Rabisch..., cit., pp. 164 e 168).
[129] G. P. Lomazzo, Trattato dell'arte della pittura, scoltura et architettura, in Idem, Scritti sulle arti, a cura di R. P. Ciardi, Firenze, Marchi & Bertolli, 1973-74, vol. II, p. 95 (libro II, cap. I: Della forza et efficacia de i moti). Cfr. anche E. Hénin, Ut pictura theatrum..., cit., p. 582. Simili considerazioni sono espresse anche dal cardinale Paleotti: «non è dubio non ci esser istrumento più forte o più efficace a ciò delle imagini fatte al vivo, che quasi violentano i nostri sensi incauti», in Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna, A. Benacci, 1582 (cfr. in Trattati d'arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, Bari, Laterza, 1961, vol. II, p. 230). E si veda, nel teatro, l'Ingegneri quando, press'a poco in quegli anni, teorizzava che solo la verità produce commozione (cfr. A. Ingegneri, Della Poesia rappresentativa..., cit., p. 277).
[130] Cfr. G. P. Bellori, Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni, Roma, success. al Mascardi, 1672. Cito dalla ristampa di Milano, A. Forni, 1977, pp. 347-348. Si veda anche, su questo, E. Hénin, Ut pictura theatrum..., cit., pp. 595 sgg.; e per il Bernini E. Tamburini, Ut theatrum ars..., cit., pp. 87-88 e 99-104.
[131] G. P. Bellori, Le vite de' pittori..., cit., pp. 194-195.
[132] Cfr. S. Ferrone, Attori mercanti corsari..., cit. Giovan Battista Andreini, nella Ferza (cito da F. Marotti e G. Romei, La commedia dell'Arte..., cit., p. 521), vanta l'uso di ritrarre i comici «per galerie e per luoghi più rari [...] in forme di varie deità [...] non solo per gloriarsi in mostrando que' luoghi colorati dell'eccellenza del pittore, dell'invenzion mirabile, ma per dir: quella fu l'affettuosa e dotta Vittoria [Piissimi], quegli Orazio [Nobili] il saputo e grazioso, e va discorrendo».
[135] Cfr. S. Mamone, Tra tela e scena..., cit.; S. Mamone, Dei, Semidei, uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese (XV-XVII secolo), Roma, Bulzoni, 2003, pp. 228-233.
[136] Giovan Battista Passeri, Vite de' pittori, scultori et architetti che anno [sic] lavorato in Roma morti dal 1641 fino al 1673, Roma, G. Settari, 1772, pp. 421-423.
[142] Penso ovviamente al Cannocchiale Aristotelico di Emanuele Tesauro (1654). Per le metafore citate di seguito si veda Giuseppe Conte, La metafora barocca, Milano, U. Mursia, 1972, sopratutto alle pp. 112-115.
[145] Alcuni versi di Adriano Valerini in un sonetto assai “strano” dedicato al pittore Orlando Flacco, da cui egli sperava un ritratto, sono a questo riguardo significativi: «Quel che natura non può darmi, l'Arte/ mi darà appieno e mi farà immortale/ e dir potrò ch'io sia due volte nato»: cfr. F. Taviani, La Commedia dell'Arte e Gesù Bambino..., cit., pp. 49-83). È inutile dire che il sonetto (in particolare la sua collocazione in appendice alla tragedia Afrodite) appare meno strano nella prospettiva di questo studio.
[154] Cesare Ripa, Iconologia overo Descrittione di diverse Imagini cavate all'antichità, & di propria inventione..., Roma, L. Faeii, 1603, p. 404. Si deve notare che “varietà” e “sprezzatura” (termine mutuato da Baldesar Castiglione) sono canoni di derivazione aristotelica.
[166] Cfr. M. I. Aliverti, I volti di Lavinia: varianti di un'immagine d'attrice nel primo Seicento, in Le passioni in scena. Corpi eloquenti e segni dell'anima nel teatro del XVII e XVIII secolo, a cura di S. Carandini, Roma, Bulzoni, 2009, p. 87-157. Della stessa autrice leggo ora uno studio in corso di stampa che per molti versi si apparenta a quello del presente percorso: Maddalena, musa ambigua: in margine a una ricerca sulla iconografia delle attrici nella prima metà del Seicento, una relazione in corso di stampa presentata al Convegno intitolato alla “Drammaturgia e iconografia della santità: 'I Santi a teatro'”(Napoli-Caserta, 20 e 21 aprile 2006).
[171] L'incisione di Johan Friedrich Greuter (da un'opera di Simon Vouet) è pubblicata da Marc Fumaroli (La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995, 1° ed. 1994, p.107), il quale ne rileva l'espressione malinconica e parodistica.
[183] G. Guccini, Presentazione, in L'Arte dei comici. Omaggio a Isabella Andreini ..., cit., p. 9.
[184] Si pensi per esempio alle intitolazioni delle compagnie e a quelle delle Accademie, all'impresa araldica con stemma e motto dei Gelosi: cfr. R. Tessari, Il testo postumo..., cit., p. 24. E io aggiungo che accade anche che le compagnie di comici siano chiamate “conversazioni” (cfr. B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, Bari, Laterza, 1847, p. 65) - che è quanto dire accademie non formalizzate - e che non mancavano Accademie come quella della Val di Blenio o quella (dei primi anni) degli Umoristi, a cui i comici partecipavano a tutti gli effetti.
[191] Cfr. F. Porzio, Lomazzo e il realismo grottesco..., cit., pp. 23-36. È in particolare documentato che, mentre Lomazzo scriveva la biografia del pittore Girolamo Figino, fu sollecitato da un gruppo di amici dell'Accademia per andare ad assistere a una commedia dei Gelosi.
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