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Cristina Grazioli

Cristina Grazioli, Shakespeares Sonette di Robert Wilson

Data di pubblicazione su web 09/04/2010
Una scena dello spettacolo

Il seguente saggio è stato scritto da Cristina Grazioli in occasione della messinscena del 19 febbraio 2010 di Shakespeares Sonette di Robert Wilson e Rufus Wainwright al Berliner Ensemble, Theater am Schiffbauerdamm.

Lo spettacolo ha debuttato il 12 aprile 2009.

 

Bob Wilson ha annunciato il suo ritorno al prossimo Festival di Spoleto con Shakespeares Sonette, entrato nel programma del Berliner Ensemble la scorsa stagione e ancora in cartellone ad aprile allo storico Theater am Schiffbauerdamm.

Per questo suggestivo allestimento il regista ha selezionato 25 dei 154 sonetti shakespeariani, chiedendo al giovane cantautore canadese Rufus Wainwright di comporre le musiche per la sua traduzione cinetico-visiva dei celebri versi.

Come sintetizzare la portata di un lavoro così complesso, che ha preso forma entro un contesto prestigioso e ancora oggi vitale come il teatro che fu di Brecht e che appartiene nel senso più proprio non solo ai berlinesi ma alla storia e alla cultura della città?

Ci proveremo partendo dalla fine: dalla quarta di copertina del bel programma di sala, prezioso ausilio per una riflessione sullo spettacolo; una pagina rigorosamente nera, come lo è l'elemento primario di molti spettacoli di Wilson, la luce resa espressiva a partire dalla sua origine, ma anche dal suo negativo, il buio. Perché quando Wilson è all'opera, nulla è casuale: sulla “buia” quarta di copertina leggiamo a caratteri bianchi: «...Nacht wird Tag, läβt Traum dein Bild erstehn» («And nights bright days when dreams do show thee me»), nella traduzione italiana di Ettore Perrella (ed. Elitropia, a cui per praticità faremo riferimento d'ora in avanti) «giorni le notti in cui ti vedo in sogno». Si tratta di un frammento dell'ultimo verso del 43° sonetto di Shakespeare, collocato in testa allo spettacolo. La frase intera recita: «All days are nights to see till I see thee, / And nights bright days when dreams do show thee me» («Son notti i giorni in cui vederti agogno, /giorni le notti in cui ti vedo in sogno»).

All'interno della stessa pagina, nella terza di copertina del programma, leggiamo invece:

John Cage said:

Nothing has changed but

now our eyes and ears are 

ready to see and hear.

Cercheremo di farci guidare da queste due coordinate suggerite dallo stesso regista, il verso dei sonetti scelto ad epilogo del programma (ma anche come apertura dello spettacolo) e la frase di Cage.

Il sonetto 43 che apre questa sorta di “poema visivo” è forse quello che penetra nel modo più evidente le metafore della luce e del buio e tutte le loro implicazioni, sfruttando la possibilità di giocare con le loro inversioni.

La notte e la dimensione del sogno, la “luce” dell'ombra, hanno il privilegio di rivelare l'amato e la bellezza («Then thou whose shadow shadows doth make bright, / how would thy shadow's form, form happy show, / to the clear day with much clearer light, / when to unseeing eyes thy shade shines so!»)

La conoscenza grazie alla rivelazione di luce ed ombra: sembra essere questo il tema portante di tutto lo svolgimento scenico. Tema declinato nel suo aspetto specifico di conoscenza dell'amore, e incarnato dal gioco sottile - come sempre ineccepibile - tra immagine/movimento e suono (eyes and ears). Qui più che altrove questi elementi sembrano sgorgare naturalmente dalla parola poetica.

Ci sembra che, corrispondendo al nobile materiale da cui scaturisce il lavoro, la parola si configuri come un punto d'origine dell'esperienza sensoriale e conoscitiva (“passando” attraverso immagine e suono).

Ma non si tratta solamente di ciò che ispira l'arte poetica di Shakespeare e della sua materializzazione percettiva. Oltre a Cage, Wilson ci affida indirettamente ad un'altra guida: il programma dello spettacolo è arricchito da un testo di Heiner Müller (direttore del Berliner fino alla morte, nel 1995) dove il drammaturgo afferma che quando legge un testo poetico in primo luogo non lo vuole capire, bensì «in qualche modo accogliere come un'attività percettiva più che concettuale. Mentre esiste una tradizione di razionalismo che ostacola la percezione sensoriale dei testi. Solamente se un testo viene prima percepito con i sensi, è poi possibile comprenderlo». A sottolineare il forte legame che per Bob Wilson stringe in un unico codice percezione sonora e parola.

 

Coerentemente con la posizione assunta da Shakespeare nei Sonetti, dove parla in prima persona, nello spettacolo l'Autore diventa uno dei personaggi: questi si possono scandire in due categorie, quella delle figure che “agiscono” nelle poesie, e alcune altre di tipo metateatrale: l'autore stesso, il Fool, Georgette Dee (diseuse nota al pubblico berlinese, all'anagrafe uomo), ma anche una vistosa Queen Elisabeth. La presenza di questo secondo gruppo corrisponde al fatto che l'illusione e la disillusione d'amore si svolgono parallelamente al continuo gioco tra illusione e disincanto teatrale.

Anche la scelta di fare dell'ambiguità sessuale una costante dell'opera (tutti i personaggi femminili sono incarnati da attori, quelli maschili da attrici) ha una doppia motivazione: se nelle liriche d'amore l'elogio della bellezza va al di là delle distinzioni di genere e sesso, il motivo allude anche alla consuetudine, in epoca elisabettiana, di far interpretare personaggi femminili ad attori uomini.

Al gioco di disvelamento e rovesciamento della luce e dell'ombra corrisponde così il motivo dell'identità e del travestimento (dell'amante).

Si rammenti che nella storia della ricezione degli splendidi componimenti di Shakespeare uno dei problemi che più ha occupato la critica è quello dell'identità dei “personaggi”.

Se nelle poesie di Shakespeare si distinguono la serie dedicata al giovane amato e quella dedicata alla “Dark lady”, il regista presenta le figure contemporaneamente (confermando che si tratta di una “universale” figura di amante) e dispone i sonetti in un ordine originale, dettato dalle proprie scelte drammaturgiche (concertate insieme alla brava Dramaturgin Jutta Ferbers: nel corso dell'introduzione allo spettacolo – consuetudine del Berliner – quest'ultima ne sottolineava la riflessione sulla bellezza, senza differenze rispetto all'oggetto d'amore).

I personaggi compaiono tutti assieme, all'inizio dello spettacolo, e non si pongono in diretta relazione con le “azioni” dei singoli sonetti. Il rapporto con i testi di partenza ha implicato un paziente lavoro di scelta, interpretazione, scomposizione e ricomposizione da parte di Bob Wilson e di Jutta Ferbers, che hanno scelto di utilizzare le ottime traduzioni di Christa Schuenke e di Martin Flörchinger. Ne è risultato il gruppo di poesie dove sbalzano i motivi della luce e del buio, del giorno e della notte: temi che, enunciati in modo programmatico da quello che diviene il primo sonetto, si fanno drammaturgia visiva e musicale.

I personaggi e la loro identità diventano così delle funzioni, volte a far emergere l'eterno tema della bellezza d'amore e dei sofferti tormenti che ne derivano; si pensi alla sesta scena del primo atto, dove la figura di Shakespeare assiste da una finestrella alla “traduzione” del sonetto 20 in un quadro crudele, la cui immagine finale mostra nel controluce la figura di una Lady-Androgino (Sabin Tambrea) che si strozza con un nastro.

 

Il ritmo della poesia si fonde o si confronta, a volte si scontra, con le musiche di Rufus Wainwright.

Quadro dopo quadro, in modo sempre diverso i sonetti vengono ora recitati in tedesco, ora messi in musica e cantati in inglese, o ancora musicati e cantati tradotti in tedesco; affidati a personaggi molteplici, i versi subiscono un procedimento di moltiplicazione, raddoppiamento, reiterazione. La modalità del “montaggio” varia dunque continuamente (come ad esempio nella seconda scena, dove il motivo della cecità d'amore del sonetto 148 viene amplificato dalla ripetizione dei versi, e la ricomposizione poetica viene espressa visivamente dal lento, inesorabile e ripetitivo movimento di enormi ruote di bicicletta che sovrasta il movimento di ruote più piccole).  

La musica è eseguita dal vivo, da musicisti collocati al di sotto del proscenio, parzialmente visibili agli spettatori (Hans-Jörn Brandenburg al piano, Domenic Bouffard alla chitarra, Andreas Henze al basso, diretti da Stefan Rager, insieme all'Isang Quartett, Yun Ui Lee, primo violino, Sangha Hwang, secondo violino, Min Kim, viola, Yeo Hun Yun, violoncello).

 

Secondo Ettore Perrella i Sonetti esigono una traduzione metrica affinché non ne vada persa la peculiarità fondamentale: l'umorismo, «quella sublime leggerezza che è tutta e solo shakespeariana, con cui contrasta vivamente l'ardore della passione che vi si confessa» (dalla prefazione all'edizione citata). Un verso dalla forma cantabile «in contrasto con la bruciante serietà di certi contenuti». Un tratto certamente colto dal regista, che non risparmia il riso, e dal compositore, che adatta abilmente il suo stile pop a diversi generi, talvolta ammiccando al barocco, spesso evocando i motivi di Kurt Weill, ma anche creando contrasti con più dure sonorità rock.

Ritmo e rima vengono mantenuti nell'eccellente traduzione tedesca (e forse in questo caso una ricezione “straniera” come la nostra consente di meglio cogliere la musicalità della lingua, e la continuità metrica dall'inglese al tedesco). Alla musica in senso stretto fa eco lungo tutto lo spettacolo una efficacissima partitura sonora, che risuona insieme alla gestualità e agli spostamenti in scena degli interpreti. È ancora Perrella a suggerire che nel testo scritto l'elemento ritmico e formale «tiene il luogo del gesto», inglobando il significato stesso. Ripensiamo alle considerazioni di Heiner Müller sopra citate.

 

In apertura, su di un palcoscenico ridotto alla sua essenza di luce e spazio, un trasparente scende a dividere il quadro visivo in tutta la sua ampiezza. Dietro ad una tenda rettangolare, anch'essa di garza, sulla sinistra, un tavolo con una sedia. Nella penombra si intravede una figura seduta di schiena: la silhouette disegna un costume che evoca l'epoca elisabettiana; con movimento preciso allunga il braccio destro ad accendere una piccola luce (scatta l'associazione con un'altra celebre creazione di Wilson degli anni Novanta, Doctor Faustus lights the lights).

L'altro braccio si allunga a simulare l'atto di mescolare lo zucchero in una tazza di tè; i rumori cristallini del cucchiaino risuonano nella scena essenziale, le luci fredde sembrano costituire il correlativo visivo dei suoni. Nella penombra il lumino acceso a destra, il caschetto di capelli bianchi del personaggio e il bianco della tazzina costituiscono tre coordinate visive luminose da cui sembra germinare l'illuminazione della sequenza successiva, una luce omogenea su tutta la scena. La figura seduta è Shakespeare (una splendida Inge Keller, quest'anno ottantasettenne, attrice del Deutsches Theater), che utilizza il lume come un campanello, producendo una sonorità simile ad una scossa elettrica, come a chiamare in scena i suoi personaggi: con un balzo entra il Segretario (Anke Engelsmann), a cui segue la Regina Elisabetta (Jürgen Holtz); poi, uno dietro l'altro, i due Boys dalla gestualità grottesca (Christina Drechsler, Anna Graenzer), le Ladies (Ursula Höpfner-Tabori, Sabin Tambrea, Christopher Nell e Dejan Bucin, che saranno anche Eva e un Gentleman), il Young Poet (Sylvie Rohrer), il Rivale (Traute Hoess) che straccia i fogli dei versi poetici. Sfilano con movenze ed emissioni di voce diverse, fino a che il ritmo sempre più divertito e irriverente si placa per fare posto all'ingresso del Fool, una magnifica Ruth Glöss (storica attrice del Berliner) dal volto imbiancato e cappello a due punte, in costume nero, a mezzo tra una figura felliniana e Liesl Karlstadt (la compagna di Karl Valentin). Riprende il motivo musicale canticchiando, con il bastone infilza i pezzetti del foglio che il Segretario aveva stracciato e rimane estasiata dai versi... la sua gestualità è sempre puntellata da effetti di luce e sonori. Poi un tuono oscura il palcoscenico; con le “magie” che (oltre a Prospero...) solo Bob Wilson sa realizzare con tale maestria, il trasparente (prima impercettibile) si materializza come sipario d'ombra e viene sollevato a scoprire un'altra scena... Quanto credevamo “luce”, giorno, si rivela improvvisamente schermo che deve essere tolto per rivelare la “vera” visione, inondata da luce abbagliante. È uno dei tanti esempi di traduzione scenica della metafora della luce e del buio ricorrente nei testi di Shakespeare; l'incessante passaggio da un velo all'altro, l'illusione che si infrange rivelando una nuova illusione, e così potenzialmente all'infinito... si tratta di una costante di tutto l'allestimento: l'equilibrio, o meglio la compresenza, di magia dell'illusione teatrale e coscienza della finzione.

Tutti i personaggi dal volto imbiancato che nella prima parte erano stati colpiti dalla luce rientrano trasformati nella propria ombra da un magnifico controluce; su note d'organo gravi si “staglia” una risata fragorosa e maligna. Sfilano eseguendo movimenti spezzati, sottolineati dal rimbombo di tuoni. Tra loro una figura completamente nera, che rimarrà enigmatica fino alla fine (una sorta di “ombra” che accompagna Inge Keller-Shakespeare). Una pioggia scrosciante coincide con l'oscuramento della scena; fa il suo ingresso Cupido (Georgius Tsivanoglou) e con una bacchetta magica (al solito “sonante'', come tutti gli oggetti scenici) scocca i suoi dardi: le figure riappaiono in una dimensione di sogno. Uno dei Boys ha sul capo una testa di pecora (non è un asino, ma l'associazione al Midsummer night's dream è inevitabile...). Gli attori ruotano nello spazio come carillons, la luce si fa blu intenso (esiste il “Blu Klein” ma non esiste ancora stranamente il “Blu Wilson”, un blu fatto di luce... ): una Blaue Stunde prerogativa del passaggio dal giorno alla notte. Lentamente il personaggio di Shakespeare si volge verso gli spettatori e svela il suo volto (truccato con pizzetto alla maniera dell'autore): e qui le parole del 43° sonetto risuonano come fossero pronunciate in mezzo al bosco del Sogno... (forse un omaggio allo storico allestimento di Reinhardt, che nel 1905 lo presentò proprio in questo teatro?).

Vale la pena riproporre questo sonetto che sta significativamente innanzi a tutti gli altri:

Chiusi, i miei occhi vedono meglio, ché / il giorno guardan cose che non curo, / ma quando dormo, in sogno, vedon te, / oscure luci su un riflesso oscuro. / Allora, ombra che l'ombre fai splendenti, puoi mostrare con l'ombra tua che forma, / di giorno e con le tue luci lucenti, se in occhi ciechi l'ombra lascia un'orma? / E che gioia a questi occhi (io dico) spetta, / quando potran vederti in viva luce, / se di notte quest'ombra tua imperfetta, / nel sonno e in occhi ciechi si produce! / son notti i giorni in cui vederti agogno, / giorni le notti in cui ti vedo in sogno.

Nessuno tra i 154 sonetti potrebbe esprimere meglio le relazioni tra luce e buio, giorno e notte, l'interrogativo circa il riconoscimento dell'oggetto d'amore. L'ombra coincide qui con la dimensione del sogno e della visione, della rivelazione amorosa.

Al termine di questa sequenza Georgette Dee è la protagonista di un siparietto: canta, si rivolge al pubblico e all'orchestra, riceve una telefonata “in diretta” alludendo alla Kantine dove stava prima dello spettacolo, un servo di scena con ali d'angelo (Winfried Goos) le porge delle fragole che lei divora avidamente...

Questa prima scena condensa pressoché tutti i procedimenti adottati nel corso dello spettacolo.

Colpisce l'utilizzo dell'ombra: grazie ad un magistrale impiego luministico, questa sembra apparire ora come tridimensionale, in particolare quando le figure ruotano su se stesse, ora nella sua apparenza più “naturale”, appiattita sul fondo (così si manifesta sempre la figura di “accompagnatrice” dell'Autore).

 

Lo spettacolo è diviso in due atti, ognuno di 7 scene (dove non necessariamente ognuna contempla un singolo sonetto), e al prologo corrisponde simmetricamente un epilogo. Notiamo sin d'ora che nel secondo atto i costumi delle figure, in dominanza neri, oltre ad un ocra/dorato per i due Boys e al porpora per lo sfarzoso costume della Regina, sono diventati bianchi: la foggia è la stessa, ma nella variante cromatica idealmente più prossima alla luce, aggiungendo così un'ulteriore variante alle modalità del gioco di rovesciamento tra luce e ombra. Le uniche figure a mantenere il costume iniziale nel corso di tutto lo spettacolo sono Georgette Dee, il Fool, l'enigmatica figura nera e Shakespeare.

La scena finale coincide con l'ultimo sonetto della raccolta shakespeariana, il 154, ma a questo segue l'epilogo, che ripropone in chiusura il sonetto 66. Ma entrambe sono preparate dalla precedente, la settima del II atto (sonetto 87), dove i personaggi in abiti bianchi si muovono con gesti sospesi dinanzi al fondo blu, con suoni altrettanto sospesi che evocano un carillon, come avveniva all'inizio dello spettacolo, entro una dimensione onirica. Le mani dapprima tese verso il cielo, quindi tenute dietro la schiena, poi ancora sollevate con le dita alzate nel gesto di afferrare il nulla, un oggetto che sfugge. Il tema del sonetto, che viene recitato in conclusione da una voce fuori campo, è l'inganno d'amore, e quindi il sogno qui sembra assumere valenza opposta rispetto alla poesia posta in apertura.

Senza cesure ci si avvia verso l'epilogo. Alla nostra vista si offre un rettangolo grigio tagliato orizzontalmente da una striscia di luce chiara, sfumata ai margini (come in un quadro di Rothko, ma evocando anche la smaterializzazione ad opera della luce delle creazioni di Turrell), composizione “pittorica” ricorrente nelle creazioni di Wilson.

Entrano la Regina, i due Boys, Cupido, il Young Poet, una Lady, il Rival, il Segretario, la seconda e la terza Ladies, il Fool. Nei loro costumi bianchi, in fila diagonale rispetto alla ribalta, il braccio destro alzato avanti e la gamba sinistra indietro, come sospesi ad una linea immaginaria. Entra in scena Shakespeare (che mantiene tutto il tempo il proprio costume) accompagnato dalla figura completamente nera, volto compreso, simile nel profilo ad una figurina di Seurat.

All'ingresso dell'Autore un cambio di luce (e di posa degli attori, in piedi dritti, alcuni con le mani ai fianchi) illumina il fondale e mette in ombra tutti i personaggi, tranne la Regina, il Fool (anche lui sempre nero) e Shakespeare, cioè i personaggi metateatrali, che sono illuminati da una luce glaciale, azzurrognola. Entro una perfetta orchestrazione di coro, assolo, parti recitate e parti cantate, ritorna così la composizione visiva vista in apertura, segnata da tre punti luminosi (i tre volti dei personaggi citati).

A fare da controcanto al lirismo della sequenza, l'ombra di un Boy evoca una figura di clown – un parente di Pierrot (e il ciuffo all'insù perfettamente delineato ricorda di nuovo le figure di Seurat; mentre quando la luce torna a rischiarare le figure scopriamo che Georgette Dee calza un naso rosso da clown, a ribadire il legame con i motivi circensi). Tutti avanzano verso il proscenio, il ritmo di parole e musica incalza, fino alla conclusione.

Questa scena corale trova corrispondenza anche nella prima “chiusura”, quella del I atto: sono i momenti in cui lo svolgimento drammaturgico ha una maggiore continuità rispetto ad altri dove vengono proposte singole “immagini sonore” dei sonetti, accostate piuttosto secondo un procedimento paratattico.

Anche alla fine del primo atto l'ultima scena è legata alla precedente (la sesta): quando l'amante si strozza con un nastro, se ne fissa per un attimo l'ombra, poi, senza soluzione di continuità eppure con un cambio netto di sonorità e di scelta luministica, la musica diviene la “colonna sonora” di una sequenza che evoca il film muto, in controluce, con ombre che si muovono come nell'acqua. Una ballata nello stile di Wainwright “raddoppia” le parole del sonetto 40 recitate dal Fool, riproponendo a livello sonoro un rapporto simile a quello tra la figura e le ombre sul fondo blu.

Il blu si fa più scuro, quasi nero, fino a divenire un nuovo fondale che si alza e ne scopre uno azzurro, su cui si stagliano ora le figure scure del Rivale e di una Queen Elisabeth in vesti contemporanee, con borsetta e tailleur (entrambe le figure recitano il sonetto 143). Rientrano tutti i personaggi, come a formare un fregio lungo la linea orizzontale, di profilo, e ricompare Shakespeare (recitando il sonetto 102). Le figure arretrano, solo Shakespeare e la sua “ombra” accompagnatrice avanzano lentamente. Il fondo si fa sempre più luminoso, ritorna netto il contrasto tra luce del fondale e figure nere. Una striscia di luce più chiara compare nel fondo.

 

Ma, a voler cercare altre liaisons di uno spettacolo che potrebbe all'apparenza sembrare un montaggio di quadri autonomi, l'epilogo richiama anche un'altra scena, la quarta del II atto, dove già si ascoltava il sonetto 66. Ci è parso un ulteriore momento chiave dello spettacolo (che a sua volta rinvia ad altri motivi ricorrenti).

La silhouette nera di un albero “con mele rosse” campeggia al centro di una scena scoperta da un sipario scuro che si alza orizzontalmente. In corrispondenza dell'albero la Lady, ora Eva di bianco vestita, solleva il braccio destro, tiene tra l'indice e il pollice un serpente di gomma guizzante; l'altra mano mostra una mela rossa. In perfetta simmetria, ai due lati siedono Queen Elisabeth e Shakespeare. Cantano a turno (con ritmi ed accenti che evocano Weill), la canzone composta sul sonetto 66: alla perfetta immobilità delle figure fa da contrasto il gesto di mordere avidamente la mela di Eva (come le fragole di Georgette...), con bave e sputi: i versi del sonetto cantano il marciume del mondo e la volontà di abbandonarlo, se non fosse che la morte del poeta lascerebbe l'amato in solitudine.

L'albero, immagine della colpa (ma il cui rischio è messo in conto dall'amore per la bellezza) era apparso in una versione più “spoglia” nella quarta scena del I atto, dove viene introdotta una struttura formata dalla carcassa di un'automobile infilzata su di un tronco d'albero; rossa, muterà anch'essa aspetto nella propria ombra; così come cambi di luce e colore si susseguono nel fondo della scena, che culmina nel bacio tra il Giovane Poeta e il Gentleman.

 

L'incipit del secondo atto vede il solito “sipario” alzarsi orizzontalmente, sempre scoprendo un fondale luminoso; ma in questo caso la composizione è più complessa: ospita sedie, personaggi seduti o allungati in pose diverse, due sostegni con luci, e, “fuochi” del quadro visivo, due cavalletti che sostengono ognuno un monitor, collocati simmetricamente al centro della scena. Al loro interno lo stesso video, duplicato: si tratta (lo apprendiamo dal programma di sala) di un frammento del video Deafman Glance (1970) di Bob Wilson. È interessante il fatto che le immagini e lo spazio contenuto all'interno del video siano i soli elementi in movimento, tutto il resto è immobile.

Le figure scure sul fondo di luce sembrano in posa, parte dell'arredo scenico; poi cantano il sonetto 29, nella lingua originale, una ballata nello stile di Rufus Wainwright. La figura nera del film somiglia alle figure reali. Il campo lungo fa proseguire lo spazio del palcoscenico dentro a quello del monitor. Le Ladies si muovono creando relazioni con le immagini del monitor. Il Rivale alla fine ripete il sonetto («When in disgrace...»), non cantato ma recitato in tedesco, mentre alle sue spalle il video propone una scena di crudeltà surreale (l'affilatura di un coltello conficcato nell'immagine impenetrabile di un candido bimbo).

Questo frammento offre l'occasione di ricordare un altro passaggio, riferito a Bob Wilson, del testo di Heiner Müller riportato nel programma: il drammaturgo ricorda l'importanza del silenzio e delle pause nelle creazioni del regista texano: il pubblico oggi (1986) non sopporta quasi più le pause a teatro, una tipologia di esperienza non “etichettabile”, inafferrabile, dove i segni non rispondono ad un significato esattamente riconoscibile. Per Müller, come per Wilson, il movimento mette in discussione l'immobilità e viceversa (e lo stesso vale per il rapporto tra testo e silenzio); senza questa continua rimessa in discussione della propria creazione non esiste vitalità dell'evento spettacolare.

I Sonetti di Shakespeare, costruiti sulla dialettica ombra/luce e sulle sue metafore, sembra così procedere per polarità che rimettono continuamente in gioco la possibilità di concepire qualcosa di univoco. Ne è “figura” la seconda scena del secondo atto, dove in un bianco accecante si ergono tre distributori ugualmente candidi: il Giovane Poeta, il Rivale e il Segretario cantano il 23° sonetto a ritmo di rock tenendo in mano le pompe di benzina (incuranti dei numeri dei contatori impazziti). È la prima volta che nel corso dello spettacolo i “personaggi” appaiono “sbiancati” nel loro rovescio, nel negativo cromatico delle loro immagini precedenti. Nella “univocità” del bianco una bombetta nera posata a terra lentamente si solleva, fino a scomparire in alto.

Il sonetto scandito dal ritmo martellante recita l'indicibilità d'amore; invita ad ascoltare con gli occhi per comprenderne la lingua («to hear with eyes belongs to love's fine wit», «Leggi lo scritto d'un tacito cuore, / udir con gli occhi è un concetto d'amore»), ribadendo ancora una volta il concetto della traduzione del sentimento in immagine sonora.

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