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Jelena Reinhardt

Jelena Reinhardt, Reinhardt, Schiller e il teatro di massa.
Le metamorfosi de
I masnadieri.

Data di pubblicazione su web 27/01/2010
La massa

«Sono una vecchia guardia di confine, sull’incerta frontiera tra realtà e sogno.

Tutta la mia vita l’ho passata su questo stretto sentiero

e ho contrabbandato merci di qua e di là.»

Max Reinhardt, 1930.

 

 

 

Cercando di richiamare alla mente gli allestimenti più memorabili del regista teatrale Max Reinhardt, improvvisamente la memoria si paralizza nell’imbarazzo di dover scegliere nel bel mezzo di un tale affollamento di spettacoli che, a ritmo serrato, hanno costellato una vita tutta dedicata al teatro[1]. Accantonata l’incertezza iniziale, uno dopo l’altro si snocciolano di norma i nomi di grandi autori legati ad altrettanti spettacoli di successo. A ben vedere, uno dei tratti distintivi della programmazione teatrale di Reinhardt è stata proprio una varietà a tutto tondo, indice dell’ampiezza dei suoi interessi. Gli studiosi sottolineano generalmente il grande ruolo svolto da Shakespeare, Calderón, Molière, Goethe e i dei grandi classici greci, per poi mettere in evidenza l’interesse per gli autori suoi contemporanei, Hauptmann, Hofmannsthal, Ibsen e gli espressionisti. Raramente, e solo con un certa fatica, invece, si ricordano di Schiller, benché le rappresentazioni dei suoi drammi abbiano riscosso anch’esse un notevole successo all’epoca. Probabilmente una spiegazione può essere individuata nel fatto che talmente eclatanti e straordinari furono gli altri allestimenti da oscurare irrimediabilmente le messe in scena delle opere schilleriane. La gran parte della tradizione critica che si è occupata del lavoro di Reinhardt, ha solitamente preferito concentrarsi sugli entusiasmi per i grandi successi o, al contrario, accanirsi sugli insuccessi: importante è che si tratti di qualcosa di sensazionale, e certo è che, guardando al percorso artistico di Reinhardt, non mancano spunti a cui attingere per una riflessione in tal senso. Ma questa, a mio avviso, è una spiegazione parziale a un problema in realtà molto più complesso. A un’analisi più precisa si scopre una tendenza generale a non voler indugiare con lo sguardo, se non in maniera del tutto frettolosa e superficiale, su un tema capace di aprire delle voragini nel passato storico-politico della Germania. La presenza di Schiller risulta infatti tutt’altro che trascurabile, anzi è sempre stata una costante nella sua vita. Sin da quando, giovane adolescente, ammirava i suoi attori preferiti – Sonnenthal, Lewinsky, Thimig – interpretare i personaggi dei drammi schilleriani all’ imperialregio Hofburgtheater di Vienna. Successivamente fu lui stesso a vestire i panni di quegli attori e a interpretare quegli stessi ruoli, che si erano impressi indelebilmente nella sua memoria. Anche quando cominciò a muovere i primi passi da regista, fece riferimento a Schiller, seppure in forma di parodia, in una serie di scene raggruppate sotto il nome di Don Carlos an der Jahrhundertwende, Tetralogie der Stielarten[2].

 

E così accadde che il povero Schiller venne addirittura deriso e sbeffeggiato; ma non era questa la sorte peggiore che poteva toccargli a quel tempo, anche perché in realtà a essere parodiate non erano le sue opere, bensì il modo in cui venivano rappresentate in teatro. A dire il vero negli ultimi anni gli era toccata una sorte ben più funesta: da una parte doveva sostenere gli attacchi feroci dei naturalisti, che mal sopportavano la sua retorica, non più esaltata come retorica della libertà, ma denigrata per via della sua inconciliabilità con la natura, e dall’altra di Nietzsche, che non riusciva a riconoscervi l’espressione di una personalità geniale[3]. Per non parlare poi della successiva banalizzazione, decontestualizzazione nonché strumentalizzazione a cui la sua opera andò incontro durante il regime nazionalsocialista[4].

 

Tornando a Reinhardt, nel 1905 questi assunse la direzione del Deutsches Theater; finalmente aveva a disposizione un palcoscenico adatto alla messinscena dei classici secondo la sua personale visione. A tal proposito già nel 1902 egli dimostrava di avere le idee ben chiare, così come ci appare da un dialogo con un suo collaboratore, Arthur Kahane:

 

Certo conosco l’odore della noia che emana dai soliti allestimenti dei classici e capisco il pubblico, se se ne tiene alla larga; io so quale patina di pathos e vuota declamazione è stata depositata sopra queste opere da una fossilizzata tradizione da teatro di corte. Questa polvere va tolta. Bisogna recitare i classici in modo nuovo; bisogna rappresentarli come se si trattasse di autori di oggi, come se le loro opere fossero nostre contemporanee. […] L’antico, nobile vino dev’essere versato in nuovi otri. E mi creda, piacerà[5].

 

E fu così che Reinhardt infuse nuova linfa ai drammi schilleriani, che ebbero una posizione di primo piano nella programmazione teatrale del regista: la tragedia Kabale und Liebe (1904, Neues Theater) aprì una lunga serie di allestimenti di opere del drammaturgo tedesco, ma, dal momento che non è mia intenzione seguire, almeno non in questa sede, una narrazione cronologica, rivolgo subito l’attenzione alla messa in scena de Die Räuber, di cui si tenne la prima il 10 gennaio del 1908 al Deutsches Theater di Berlino[6]. Fu un successo immediato, la stampa ne rimase entusiasta e in maniera pressoché unanime venne riconosciuta e ammirata la regia di massa di Reinhardt[7]. Heinz Herald notò con ammirazione come per la prima volta la massa degli attori in scena non apparisse più come un agglomerato informe, goffo e senza vita, e indicò Die Räuber come lo spettacolo che marcava un nuovo inizio della regia di Reinhardt all’insegna della massa[8], la quale a partire dal 1910 troverà la sua massima espressione negli allestimenti monumentali nel Zirkus Schumann di Berlino, trasformato poi nel 1919 dall’architetto berlinese Hans Poelzig, sempre con la collaborazione di Reinhardt, in Großes Schauspielhaus, il primo teatro di massa tedesco. Altri allestimenti monumentali trovarono invece la loro collocazione nei Festival, come per esempio l’Edipo re di Sofocle/Hofmannsthal (1910) nell’ambito del Festival di Monaco all’interno della Musikfesthalle trasformata per l’occasione in un’arena, Das Mirakel (1911) all’Olympia-Hall di Londra, ornata per l’occasione a mo’ di duomo e, non ultimo, Jedermann di Hofmannsthal – già messo in scena al Zirkus Schumann nel 1911 – diventato poi simbolo del Festival di Salisburgo e rappresentato per la prima volta nel 1920 nella piazza del Duomo della città.

 

Tutto lascia presupporre che l’idea di una regia di massa rappresentasse in realtà una riflessione di fondo del regista, della quale si possono scoprire alcuni evidenti indizi sin dai primissimi anni del suo lavoro al Deutsches Theater. Sicuramente tra le iniziali e comunque parziali sperimentazioni l’allestimento de Die Räuber – per lo più trascurato –, occupa un posto particolare, poiché si inserisce in una riflessione dal respiro ben più ampio, che prende le mosse da una questione lungamente dibattuta intorno all’attualità di Reinhardt.

 

Sulla base di recensioni e testimonianze si evidenzia che in questo preciso spettacolo l’idea della massa veniva trasmessa agli spettatori dell’epoca nella contrapposizione tra i personaggi singoli e la banda dei masnadieri. «Centinaia di gole e braccia» si muovevano sulla scena, «animate dalla medesima volontà comune»[9]; «nei boschi boemi la banda di Karl Moor aveva assunto le sembianze di un organismo potente che respirava, viveva, gioiva»[10].

 

Effettivamente anche dal copione di regia risulta lampante una predominante attenzione per la massa: infatti, rispetto al testo schilleriano, tutto il resto sembra essere relegato in secondo piano o addirittura espunto, come si evince dalle riduzioni e dai vari tagli via via attuati dal regista[11]. La banda dei masnadieri diventa la vera forza agente, protagonista e non più accessoria. In una delle scene culminanti, e cioè quella in cui Karl Moor viene unanimemente riconosciuto come capo indiscusso, già sin dall’inizio si ha la sensazione che la massa stia prendendo parte alla decisione, dal momento che fa continuamente sentire la sua presenza con parole di approvazione e mormorii corali. Nel dramma di Schiller al contrario la banda dei futuri masnadieri irrompe con un’esplosione di entusiasmo soltanto alla fine, dopo che la scelta è stata fatta dagli effettivi singoli protagonisti della scena[12].

 

La massa dei masnadieri di Reinhardt «vive di un ardore meraviglioso», scrive Siegfried Jacobsohn in una recensione allo spettacolo[13]. Sulla scia di questa immagine è interessante stabilire se questa massa, così splendidamente evocata sulla scena, viva solo come fatto estetico-artistico oppure si possa inserire all’interno di un discorso più articolato. Per cercare di delineare un quadro più preciso è necessario fare un salto in avanti sino agli allestimenti monumentali del Zirkus Schumann – e quindi del Großes Schauspielhaus –. L’idea di Reinhardt era di creare un Teatro dei Cinquemila[14], un teatro cioè in grado di coinvolgere il popolo, ovvero la massa invisibile, su esempio dei teatri antichi. Secondo lui il teatro greco doveva fungere da modello principalmente per le sue dimensioni monumentali, ma il nuovo teatro per il popolo non doveva esserne un’imitazione, bensì un riadattamento adeguato al nuovo tempo. Questi progetti non rappresentano solo la naturale evoluzione del suo pensiero artistico, bensì sono indice anche di considerazioni di carattere economico e sociale più profonde. Non dimentichiamoci che proprio questi sono gli anni in cui si scopre la massa come un fenomeno altamente complesso, alla cui comprensione concorrono diverse discipline quali la sociologia, la psicologia, la filosofia, l’economia. Inoltre non possiamo non guardare al fenomeno della massa di quel periodo senza tener presente la sua evoluzione e il suo rapporto con i regimi totalitari del XX secolo. Né dobbiamo dimenticare che all’epoca il teatro aveva una risonanza per noi inimmaginabile, e per nulla paragonabile al quadro odierno. Berlino in particolare si era trasformata, oltre che in una grande metropoli, in una vera e propria città dei teatri[15]. Il popolo la cui importanza, con l’industrializzazione e l’urbanizzazione da un lato, e la raggiunta sovranità dall’altra, stava crescendo in maniera esponenziale, aveva bisogno di trovare una sua collocazione nel “corpo” sociale. Allo stesso modo, ai primi del Novecento esso era ancora escluso dal teatro d’arte, il quale era indirizzato per lo più a un pubblico prettamente borghese, e fruiva di forme di intrattenimento più leggere quali il circo, il cabaret e il teatro di rivista[16]. Con il Teatro dei Cinquemila, pensato appunto per coinvolgere tutto il popolo, Reinhardt si riproponeva di colmare questa lacuna. Come al tempo dell’Atene del V secolo il teatro doveva tornare a essere una festa, il luogo d’incontro della polìs, dove i cittadini si riconoscevano come comunità e contemporaneamente potevano identificarsi con gli eroi rappresentati in una generale e catartica condivisione di sentimenti. Allo stesso modo Reinhardt pensava di riunire le folle degli spettatori, che tuttavia non dovevano rimanere semplici folle incomposte, ma dovevano diventare un’unica entità protesa verso la magia dello spettacolo. Così la massa viveva su due piani: da un lato quella degli spettatori e dall’altra quella degli attori in scena. La massa e il suo riflesso dunque. Reinhardt desiderava appunto che l’insieme degli spettatori potesse vedersi e identificarsi con la coralità della massa in scena. Scendendo ancor più nei dettagli, possiamo fare un’ulteriore osservazione: mentre la massa degli attori raggiungeva un’espressione corale ovviamente sotto la direzione del regista, la massa degli spettatori doveva recuperarla mediante il rapimento provocato dallo spettacolo. Anzi gli spettatori dovevano sentirsi parte della rappresentazione; pertanto le barriere tra attori e pubblico dovevano dissolversi. Per questo Reinhardt aveva immaginato un teatro: «in forma di anfiteatro, senza sipario, senza quinte, […] senza apparati scenici e al centro, completamente affidato alla pura forza della personalità, alla parola, l’attore in mezzo al pubblico, e il pubblico stesso fattosi popolo, anch’esso coinvolto, esso stesso parte dell’azione»[17]. È così che lo spettacolo si fa rito, un’idea questa tornata alla ribalta grazie al grande successo di Nietzsche e della sua Geburt der Tragödie aus dem Geist der Musik (1872), fonte di ispirazione per lo stesso Reinhardt[18]. È la ritualità che scandisce il movimento della massa. Ma questo non significava per il regista «propinare alcunché»[19] come afferma lo stesso Reinhardt. Anzi, al contrario, egli riteneva che:

 

Esattamente questo pericolo deve essere invece evitato. L’espressione di un sentimento non può essere comandata, e una massa di comparse rigide e senza vita non produce sui nostri nervi un effetto deleterio quanto un gruppo al quale ci accorgiamo che gesti e moti dell’animo sono stati inculcati secondo uno schema prestabilito. Senza uno slancio che venga da dentro non si raggiunge un effetto neanche con le masse[20].

 

Reinhardt voleva trasmettere al popolo la consapevolezza di essere una collettività ma, ben presto, fu costretto ad abbandonare questo proposito dettato da una visione sostanzialmente ottimistica, poi tradita, come si evince da una lettera scritta a Felix Hollaender nel 1917, in tempo di guerra dunque, che rappresenta un’ulteriore dimostrazione del suo interesse per la massa, non solo da un punto di vista artistico, ma anche storico-sociale, oltre che una presa di coscienza molto amara:

 

[…] sinceramente invidio il suo meraviglioso ottimismo relativamente alla Germania. […] La tirannia non viene dall’alto, è soltanto la conseguenza di un bisogno profondamente radicato delle masse, che non è per nulla estirpabile. Che il dittatore si chiami Rickelt o Napoleone, Kerenski o Marat, Venizélos, S.M. o Erzberger in fondo non cambia il semplice dato di fatto che la folla voglia essere dominata, assoggettata, governata da qualcosa che non comprende[21].

 

Due punti toccati da Reinhardt sono a mio avviso molto importanti: in primo luogo il fatto che senza uno slancio che scaturisca da dentro non si riesca a coinvolgere veramente le masse e pertanto, estendendo questo concetto alla politica, ciò significa che la tirannia non può essere semplicemente imposta dall’alto. In secondo luogo egli nota che le masse hanno bisogno di essere guidate e indirizzate, e qui potremmo aggiungere, proprio per poter trovare un’identità comune.

 

La formulazione di queste riflessioni dimostrano quanto effettivamente il suo teatro fosse stato lo specchio dei fermenti della società dell’epoca. Se poi prendiamo in considerazione l’analisi dello storico G. L. Mosse[22] sulle masse e la loro nazionalizzazione, non possiamo fare a meno di constatare l’acutezza del regista. Secondo Mosse, infatti, il successo del nazionalsocialismo non fu legato principalmente a una politica di terrore, bensì a una politica ben più raffinata e subdola. Hitler era riuscito a inserire il suo disegno di conquista del potere all’interno di un processo politico e culturale antecedente, le cui origini risalivano alle guerre di liberazione antinapoleoniche, e contrassegnato dalla ricerca di una identità nazionale tedesca. Questo processo, a cui Mosse si riferisce parlando di «nuova politica»[23], fu strumentalizzato da Hitler, dopo essersene appropriato e averlo piegato ai suoi piani. Lo scopo della «nuova politica» era quello di diffondere una serie di miti e simboli e di elaborare una liturgia in grado di permettere al popolo di partecipare al culto nazionale[24]. Insomma per risvegliare un senso di comunione all’interno delle folle incomposte fu necessario «inventare una tradizione a livello di massa», per dirla con Hobsbawm, che inscenasse tale spirito comunitario che altrimenti così difficilmente poteva essere evocato[25]. Sulla base di quanto detto, effettivamente colpisce e sconcerta scoprire quanti aspetti legati alla riflessione artistica di Reinhardt si ritrovino, ovviamente svuotati di significato, ridotti a mera demagogia e, nella sostanza traditi, nel panorama culturale nazista. A testimonianza della presa di distanza del regista va ricordato il suo rifiuto della Ehren-arierschaft, la cittadinanza onoraria ariana offertagli dal governo nazionalsocialista nel 1933[26], una decisione questa che implicava, non soltanto la vanificazione del lavoro di una vita, ma soprattutto la perdita della sua Heimat[27]. Sono parole grondanti amarezza quelle che sceglie per registrare la perdita:

 

La nuova Germania […] non desidera che membri appartenenti alla razza ebraica, nella quale peraltro mi riconosco senza limitazioni di sorta, ricoprano alcuna posizione pubblica di rilievo. Tuttavia, se pure questa venisse tollerata, mai e poi mai potrei trovare in codesta tolleranza l’atmosfera necessaria al mio lavoro[28].

 

Tuttavia la chiara presa di posizione non evitò che la sua visione teatrale venisse risucchiata nella folle spirale della degenerazione nazista. Lo stesso destino fu riservato ai testi di Schiller, per altro scomparso da tempo, che non poterono in alcun modo sfuggire a una lettura distorta. Egli, assurto a icona e considerato un eroe nazionale[29], si prestava a sua volta a essere inglobato in questo inarrestabile processo di nazionalizzazione, ben al di là di quanto accadde già nel 1859 quando, in qualità di «simbolo di libertà e di autocoscienza nazionale»[30], venne festeggiato nelle Schillerfeiern, che segnarono l’inizio dell’asservimento delle sue opere alla creazione del culto nazionale. Ripercorrendo poi la storia della ricezione della produzione artistica di Schiller una tappa fondamentale è rappresentata, come già detto, dall’interpretazione che ne dà Reinhardt in teatro. In particolare proprio il dramma de Die Räuber, che nell’allestimento reinhardtiano viene presentato come una prima seppure ancora abbozzata riflessione sulla massa, verrà riadattato secondo letture diverse, ma che ci forniscono un indizio sull’effettiva attualità del tema. Di fatto due sono gli allestimenti in grado di illuminarci sulla successiva evoluzione artistica nonché sociale e politica della Germania di quegli anni. Il primo in ordine cronologico è un allestimento del 1926 di Erwin Piscator, il famoso direttore del «teatro dei lavoratori»[31], che politicizzando il dramma aveva fatto indossare a Spiegelberg la maschera di Lev Trotzkij e aveva trasformato l’assassinio di Karl Moor in un nobile tentativo per recuperare la libertà della banda. Il secondo è un allestimento del 1931 della NS-Volksbühne, un’imitazione della precedente Volksbühne orientata a sinistra e del Bühnenvolksbund cristiano[32]. Anche in questo caso l’interesse era focalizzato sulla figura di Spiegelberg, che fu «trasformato in un “agitatore ebreo che parlava a vanvera” il quale, essendo egli stesso un vigliacco, incitava gli altri ad assassinare vilmente Karl Moor».

 

Se l’allestimento di Reinhardt faceva intravedere la scena sociale, mantenendosi tuttavia relativamente fedele al testo originale, con questi due allestimenti ci troviamo dinanzi a uno stravolgimento del testo asservito a un’ideologia e con una funzione già propagandistica. Ovviamente parlando di Piscator e della NS-Volksbühne dobbiamo sempre fare le dovute distinzioni, artistiche ma anche storico-politiche. Non bisogna dimenticare che lo spettacolo dei Räuber della NS-Volksbühene fu salutato dalla stampa nazista come «l’aurora della nuova era dell’arte tedesca ariana»[33]. E sappiamo tutti quello che questa «nuova era» ha portato.

 

Basta una sola immagine per sintetizzare l’appropriazione e la distorsione culturale, o se si vuole il tradimento da parte dei nazisti delle idee e delle speranze di Max Reinhardt: il Grosses Schauspielhaus decorato dal funesto segno della svastica e dall’ancor più lugubre insegna: “Theater des Volkes. Kraft durch Freude”.


[1] Per una panoramica completa degli allestimenti di Reinhardt si veda H. Huesmann, Welt Theater Reinhardt, München 1983.

[2] Queste brevi scene composte da M. Reinhardt vennero raccolte e pubblicate in un volumetto: Schall und Rauch. Berlin 1901.

[3] L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), Torino, 1971, p. 451.

[4] M. Luserke-J. v. Metzler, Schiller-Handbuch: Leben – Werk - Wirkung, 2005, pp. 561-562.

[5] M. Reinhardt, in A. Kahane, Tagebuch des Dramaturgen, Berlin, 1926, p. 115.

[6] Il copione di regia è datato: Salisburgo 1928. Ma considerando che le descrizioni fornite dalla stampa in occasione dello spettacolo del 1908 coincidono con le annotazioni di Reinhardt, si può presupporre che il copione di regia fosse già stato redatto in occasione della prima. Vedi B. Loden, Max Reinhardts Massenregie auf der Guckkastenbühne von 1905 bis 1910, Frankfurt/M, 1976, p. 73.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. H. Herald, Max Reinhardt. Bildnis eines Theatermannes, Hamburg, 1953, p. 28.

[9] «Der Reichsbote», 14.1.1908.

[10] «Berliner Tageblatt», 11.1.1908.

[11] B. Loden, op.cit., p. 82-84.

[12] Ivi, p. 76.

[13] S. Jacobsohn, Jahre der Bühne, Theaterkritische Schriften, Hamburg, 1965, p.57.

[14] A. Hostetter, Max Reinhardt’s Großes Schauspielhaus – its artistic goals, planning, and operation, 1910-1933, New York, 2003.

[15] “Bühnen-stadt”. In P. W. Marx, Max Reinhardt. Vom bürgerlichen Theater zur metropolitanen Kultur, Göttingen, 2006, p. 89.

[16] Ivi, pp. 89-98.

[17] M. Reinhardt, in A. Kahane, op. cit., Berlin, 1926, pp. 115 e sgg.

[18] J. Reinhardt, Elettra. Tragedia in un atto, Perugia, 2007.

[19] M. Reinhardt, in «Berliner Lokal-Anzeiger», 10 maggio 1914.

[20] Ibidem.

[21] M. Reinhardt, da una lettera a F. Hollaender, Sils [Maria] 15 agosto 1917. In H. Fetting (a cura di), Max Reinhardt. Leben für das Theater. Briefe, Reden, Aufsätze, Interwiews, Gespräche, Auszüge aus Regiebüchern, Berlin, 1989, p. 129.

[22] Due sono i testi di G. L. Mosse particolarmente interessanti sull’argomento: The Nationalization of the Masses. Political Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, New York 1974, (trad. it., La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, 1975); Mass and Man. Nationalist and Fascist Perception of Reality, New York 1980, (trad. it., L’uomo e la massa nelle ideologie nazionaliste, Bari, 2002).

[23] G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), cit., pp. 25-48.

[24] Ibidem.

[25] E. Hobsbawm, Tradizioni e genesi dell’identità di massa in Europa, 1870-1914, in L’invenzione della tradizione, Torino, 2002.

[26] L. M. Fiedler, Max Reinhardt in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbek bei Hamburg, 1975, p. 117.

[27] Parole tratte da una lettera del 16 giugno 1933 indirizzata al governo nazionalsocialista, in cui rendeva nota la decisione di affidare l’opera della sua vita alla Germania. In F. Hadamowsky (a cura di), Max Reinhardt. Ausgewählte Briefe, Reden, Schriften und Szenen aus Regiebüchern, Wien, 1963, p. 97.

[28] Ivi, p. 96.

[29] A. Hostetter, op. cit., pp. 1-2.

[30] G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), cit., p. 133.

[31] Ivi, p. 254.

[32] G. L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, cit., p. 218.

[33] Ibidem.

 


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