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Paola Daniela Giovanelli

Paola Daniela Giovanelli, A proposito di un parere sull’edizione Marsilio della Serva amorosa goldoniana

Data di pubblicazione su web 22/09/2009
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera di Paola Daniela Giovanelli in risposta a Bartolo Anglani a proposito della sua estesa recensione – pubblicata nel numero luglio-dicembre 2008 de «La Rassegna della letteratura italiana» – relativa alla edizione critica de La serva amorosa di Goldoni (Venezia, Marsilio, 2007) appunto curata da Giovanelli.

 

La recensione di Bartolo Anglani solleva alcune obiezioni interpretative sulle quali occorre fare un po’ di chiarezza. I rilievi, pur appartenendo allo stesso ordine di ragioni (la questione della borghesia settecentesca veneziana), vanno distinti in duplice prospettiva.

In primo luogo il rapporto della borghesia con la poetica teatrale goldoniana: scrive il recensore, ampliando a modo suo e contemporaneamente stritolando una circoscritta e documentata analisi di Gaetano Cozzi (distrattamente attribuita a me), che esso non va inteso come «corrispondenza minuta tra le commedie e l’andamento della produzione e del commercio». «L’andamento della produzione  e del commercio»? E certo che no: nessuno si è sognato di pensarlo, salvo il recensore. (Ma le indebite illazioni evidentemente sono irresistibili: con un secco quanto fuorviante «il che equivale a dire» si discetterà più avanti sulle mie intenzioni critiche a proposito del commento alla regia ronconiana della commedia...). La citazione dello studio di Cozzi era indirizzata a offrire un supporto scientifico – «minima prova documentaria», come vorrebbe lo stesso recensore – alla speciale sensibilità, anche sociale, che a Goldoni veniva dall’essere compiutamente dentro il suo tempo e certo con l’intelligenza di una forma mentis di ampio respiro, ripeto «di ampio respiro», come testimonia il tessuto drammaturgico delle sue commedie – e in particolare di determinate commedie – e la rilettura che in tale prospettiva e con una molteplicità di approcci ne ha fatto tutto un autorevolissimo settore critico goldoniano, da Petronio a Fido, da Baratto a Padoan. Distinguere il piano dell’analisi drammaturgica al quale il recensore, bontà sua, concede il placet e quello dell’analisi «sociologica» che negherebbe invece «il carattere multiplo, ambiguo e perfino sperimentale» del primo, è frutto di una impostazione metodologica o meglio di una tranciante idea purchessia che non tiene conto di come l’analisi drammaturgica si sia venuta componendo sulle affermazioni e sulle strategie del testo, sulla progressiva caratterizzazione dei personaggi ben inseriti in una determinata, evidente humus ideologica. Ci si fosse presa la briga di leggere anche il commento particolareggiato alla commedia, non sarebbe sfuggita la complessità dei livelli, che si articolano ulteriormente a contatto con gli ingredienti del vecchio teatro (le maschere con i loro tradizionali topoi, il plagio molieriano del terzo atto), elementi tutti che coesistono con l’originalità goldoniana, esattamente come il linguaggio dei due “nobili” della Locandiera, tipico del vecchio teatro spagnoleggiante, coesiste con l’eccezionale novità della commedia. Anche nella Serva amorosa quei vecchi ingredienti nulla tolgono alla sostanziale “moralità” borghese della protagonista della Serva amorosa che dalla prima all’ultima battuta non  ha mai un cedimento ideologico e, tutt’al più, avanza, diciamo così, qualche “miglioria” progressista: un personaggio nel quale Goldoni trasfonde tutto il suo momentaneo ottimismo (nutrito anche di personalissime ragioni, come argomentato nel mio commento) e che molto dovrebbe piacere al recensore, il quale, al contrario, preferisce non comunicarci nulla della sua presumibile ammirazione in proposito – e questo, un po’, dispiace. La sua convinzione, infatti, è che Goldoni «credé sempre che la società mercantile, con i suoi meccanismi e le sue contraddizioni, era l’unica società possibile», tanto che «non ebbe alcun sentore di una “crisi” di là da venire». Pare pedante, adesso, chiedersi a qual periodo a un dipresso sia collocabile quell’errante «di là da venire», ma se Goldoni «credé sempre» è lecito collocarlo in una qualche fase successiva al suo travagliato passaggio su questa terra.

La seconda prospettiva alla quale facevo riferimento riguarda infatti la questione della crisi della borghesia: seguendo passo passo una pagina critica di Petronio (Il punto su Goldoni, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 58) che, riferendosi allo stesso Anglani, lamentava la mancanza di prove documentarie in merito, il recensore, mostrando lodevolmente di avere assorbito quella lezione (per la verità ancora un poco compromessa da quel «di là da venire»), ora scrive: «Tutti coloro che pongono la spiritosa invenzione della “crisi” e dello “sfacelo” a fondamento delle loro analisi goldoniane non si sognano mai di addurre la minima prova documentaria di ciò che affermano» e, a sua volta attribuendo a Goldoni un inflessibile «programma di governo», aggiunge che l’autore mise in scena «un meccanismo mercantile perfettamente funzionante che stritolava gli individui e ne distruggeva i sentimenti» e, appunto, «credé sempre» etc.

Ci si chiede che fine abbiano fatto «la dimensione nuova – che è già di crisi e di ingovernabilità costitutiva – propria della nascente società borghese» (B. Anglani, Le passioni allo specchio, Roma, Kepos, 1996, p. 78); «l’idea di fondo di una borghesia veneziana (e del mondo equilibrato e pacifico da essa creato nei secoli) tarata e in pericolo che pattinava sulla voragine senza saperlo» e quella di «una crisi che, sebbene interna alla ristrettezza del modello mercantile veneziano, alludeva ai caratteri permanenti del modello borghese tout court» (ivi, p. 102); la «fase acuta di crisi della ragione mercantile» documentata dalla Locandiera (ivi, p. 115), fino al «tramontato mondo mercantile» maturato col Bourru (ivi, p. 120). Ci si chiede altresì che fine abbiano fatto i rilievi circa il contraccolpo che se non l’«inesistente» crisi, almeno quella «di là da venire» provocò sulla drammaturgia goldoniana: un Goldoni «metteur en scène della crisi mercantile» (ivi, p. 101); «il tempo della registrazione della crisi originaria del mondo mercantile» (ivi, p. 101); la «disponibilità a registrare la crisi» (ivi, p. 102); la «crisi che il progetto goldoniano di un teatro organico alla società borghese subisce con la Locandiera» (ivi, p. 104); l’«affievolimento della sicurezza ideologica circa la positività assoluta del sistema» (ivi, p. 105); la «riflessione teatrale sulla crisi precoce ed amara delle illusioni borghesi» (ivi, p. 76); «l’intervento teatrale nella crisi sotterranea di una società mercantile» (ivi, p. 82), mentre l’originalità del Bourru «sta nel tono con cui l’autore rimedita il disfacimento, tutto già consumato, di un vecchio mondo di valori e di “sentimenti” mercantili» (ivi, p. 120): ci si chiede che fine abbia fatto tutto ciò, e consimili, frequentissime, «spiritose invenzioni» (per ulteriori riscontri cfr. almeno ivi, pp. 76, 78, 82, 84, 86, 87, 95, 101, 102, 103, 104, 105, 112, 115, 120, 121-122).

Ma ora il recensore, adottando una tattica vincente di grande attualità, nega convinto: nemmeno un’ombra, anzi nemmeno «un sentore» di «crisi», mai, come se, per essersene parlato tanto, fosse giunto il momento di smetterla: per noia e saturazione, al pari delle vecchie barzellette straconosciute. E va bene. Pure, se è vero, da un lato, che la protagonista della Serva amorosa è un modello pienamente compenetrato di ragion borghese, frutto di quella «vocazione didattica» che tanto spesso distingue le commedie goldoniane (cfr. Petronio, Il punto su Goldoni, p. 60) e qui fin troppo esibita, tanto che lo stesso commediografo se ne giustificava nell’Autore a chi legge («Dicesi che Corallina parla più che da serva, ed opera con troppo ingegno, e con troppa fina condotta […] ma io […]»); dall’altro è altrettanto vero che accanto a lei sono anche i borghesi Ottavio e Pantalone nei quali Goldoni ha incarnato le sfumature di inclinazioni psicologiche differenti e diversificati atteggiamenti. E sono precisamente questi ad attivare e sviluppare la partecipata e a tratti divertita riflessione di Goldoni su meccanismi reattivi, valutazioni morali e comportamentali, ripercussioni sociali della stessa mentalità borghese, dunque sul terreno di una sostanziale condivisione di valori, ma un terreno sul quale proprio le «passioni» fanno la differenza.

Per comprovare poi il mio presunto fraintendimento di un passo dello stesso recensore, arriviamo a un punto nodale dove, con una certa qual propensione per le capriole al trapezio, si accompagna una vistosa eclissi della buona fede, che ben merita, perciò, una severa alzata di sopracciglio.

Il recensore vorrebbe precisare, con un’autocitazione (che cito anch’io), il senso di un’altra autocitazione (che cito anch’io). Per chiarezza: «La curatrice [nel corso dell’intera recensione il mio nome non compare mai] cita anche un mio vecchio saggio (del 1981) che analizzava “lucidamente” la “natura utopica dell’ideologia economico-mercantile goldoniana” (p. 29), ma che non ricordo ponesse un’equivalenza tanto rigida fra orientamenti ideologici e mutamenti economici e sociali [benedetta memoria! cfr. supra]. E in un altro saggio più recente, anch’esso gentilmente citato, mi è capitato infatti di affermare che il rapporto tra Goldoni e il ceto mercantile va posto “non in termini riduttivamente sociali o politici ma in termini assoluti”. [...] non posso non far notare che le mie affermazioni, giuste o sbagliate che siano, vanno in una direzione diversa»: infatti sono parole tratte da un altro suo saggio (Arlecchino, uno e centomila, in Passioni allo specchio, pp. 180-181) e relative a tutt’altra tematica. Non si riferiscono affatto al rapporto tra Goldoni e il ceto mercantile (d’altronde se così fosse il loro senso rimarrebbe alquanto oscuro), ma alla maschera di Arlecchino contestatore e personificazione “infantile” dell’antiserio e dell’antiborghese in termini appunto «assoluti», affermazione che riprendo anch’io, ma nel giusto contesto (alle mie pp. 33, 240, 241).

Forse, quando esiste un esistenziale problema di coerenza, sarebbe auspicabile e sì, anche elegante, cercare di chiarirsi in solitudine i termini delle questioni invece che immettersi – fatalmente – in cortocircuiti così carambolici che finiscono per assomigliare piuttosto a inconsci e bizzarri autoboomerang. Ma, come scriveva Petronio: «Discutere con [...] Bartolo Anglani e confutarlo, è difficile, anzi impossibile» e chiudeva il suo esemplare intervento parlando di quei critici che, indipendentemente dal proprio oggetto di studio, non fanno che proiettare se stessi, «nevrotici e alla ricerca di un ruolo»: un giudizio destinato a lasciare segni visibili. «Sarebbe ora», auspica conclusivamente il recensore, che si cominciasse «a pensare che l’autore è anche un individuo soggetto a vicende personali». Appunto: e finalmente non si può che essere d’accordo.







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