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Francesco Cotticelli

Francesco Cotticelli, Il teatro recitato. Teatro a Napoli nel Settecento

Data di pubblicazione su web 28/05/2009
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È in uscita per la Turchini edizione la Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, a cura di Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, con una lettera di prefazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il volume inaugura una serie che intende esplorare la grande tradizione nelle arti del teatro dell’antica capitale (per informazioni sulla casa editrice cfr. www.turchini.it). Anticipiamo qui una parte del contributo di Francesco Cotticelli dedicato a Il teatro recitato.


 1. A mo' di premessa

Negli anni convulsi del passaggio dal Viceregno al regno autonomo, di fronte al rapido susseguirsi degli appaltatori del Teatro di San Bartolomeo, detentori del ius repraesentandi per conto della Casa Santa degli Incurabili, la questione dei diritti da versare fu talora risolta non senza la mediazione dell’autorità pubblica e l’ombra di un utile patteggiamento, come si evince da questa polizza bancaria del 1735:

 

A Giacinto de Laurentiis ducati novanta, e per esso a Salvatore Notarnicola passato Impresario del Teatro di San Bartolomeo cessionario, mentre durò la sua Impresa della Casa Santa degli Incurabili del Ius di esigere da tutti gl’altri teatri, i quali ducati 90 sono per l’annata terminata all’ultimo di Carnevale 1735 per lo Teatro Nuovo sopra  Toledo, tanti accordati, e convenuti pagarsi coll’olim Impressarij di San Bartolomeo Aurelio del Po, e Domenico Galdieri, in presenza del fu Regio Consigliere Muzio de Maio allora Auditore Generale dell’Esercito, per qualsivoglia rappresentazione di commedia in musica, Prosa, e d’Istrioni, nessuna eccettuata, e per qualsivogliano spettacoli in qualsivoglia maniera consistentino […] [1].

 

Così, mentre al Teatro Nuovo ottenevano un trionfale successo le repliche de Il Flaminio, musicato da Giovan Battista Pergolesi su libretto di Gennarantonio Federico [2], l’impresario de Laurentiis estingueva il proprio debito con gli amministratori della principale sala cittadina per un’attività produttiva variegata ed eclettica, di cui la «commedeia pe museca» costituiva il fiore all’occhiello, senza tuttavia prevaricare in una programmazione attenta alle novità come ai gusti collaudati del pubblico e – ovviamente – alle esigenze di bilancio. Il piano delle rappresentazioni era dunque molto più fitto di quanto non risulti oggigiorno dalla regolare successione di “chellete”, e sembrava necessario ribadirlo in sede di “saldo e final pagamento”, a tutela da ogni eventuale ulteriore pretesa fiscale.

Questo del 1735 non è un caso isolato: sono numerosi i segnali, lungo tutto il XVIII secolo, di un’offerta scenica in prosa, a corte, nei teatri cosiddetti minori, nei palazzi, negli spazi provvisori, forse meno eclatante ma ugualmente incisiva nelle consuetudini e nell’immaginario collettivo, ora sommersa dai clamori dell’opera comica, ora capace di definire una propria identità poetica e di proporsi secondo modelli alternativi, come lascerebbe trapelare la formula ambigua della causale bancaria, dove “Prosa” e “Istrioni” rinvierebbero all’antitesi premeditazione/improvvisazione, o l’intera espressione isolerebbe l’avvicendarsi di musica e prosa dal genere degli istrioni, forse non assimilabile e partecipe a un tempo di entrambe. E sarebbe possibile seguire questi reperti documentari fino all’affermarsi di nuove tendenze sul finire del Settecento, o fino ai poderosi impegni editoriali di primo Ottocento dedicati a Lorenzi e a Cerlone, al limite tra la nostalgia, il cimento storiografico e la necessità di consegnare alla memoria esperienze comunque significative di un recente passato. Quel che affiora, comunque, restituisce una trama discontinua, frammentaria, la cui labilità appare legata alle concrete dinamiche della civiltà teatrale napoletana non meno che alla perdita di tracce preziose, che sole potrebbero far luce sull’intermittenza con cui una pratica ordinaria emerge per bagliori istantanei o assestamenti del sistema.

È questa pratica ordinaria che sfugge, questa presenza costante nelle piazze, nei saloni, nei luoghi privati laici e religiosi, nei pubblici ritrovi, un dato incontrovertibile quanto evanescente. È come se i percorsi dello spettacolo in prosa nella Napoli settecentesca risentissero di un imponente naufragio, che non riguarda tanto il profilo qualitativo di ciò che è sopravvissuto, ma il peso di una tradizione nell’intero universo culturale del Regno [3]; un’esistenza in filigrana, da ricostruire con prudenza, allargando continuamente lo sguardo a considerare altri palcoscenici, altre realtà, formulando ipotesi, accostando fenomeni diversi ma contigui. In casi estremi rassegnandosi al silenzio, ben sapendo che qualsiasi lettura di fonti superstiti non può prescindere dal rapporto con i fantasmi di una scena svanita: le cronologie del Fiorentini e del Nuovo, redatte principalmente sulla scorta di libretti e partiture, sono con tutta probabilità ben lungi dal riprodurre esaustivamente la programmazione teatrale, corredata di eventi che non hanno lasciato testimonianza di sé, mentre – sul piano drammaturgico – è impensabile che non si producessero osmosi linguistiche, scambi, contaminazioni tra le più raffinate soluzioni in musica e le vecchie risorse del mestiere.

Se, come dichiara l’Uditore Erasmo Ulloa Severino in una relazione del 1738, nei due teatri agivano normalmente due compagnie, l’una di cantanti, l’altra di attori [4], rimane fuori da inventari pur minuziosi una serie non irrilevante di rappresentazioni in bilico tra un onesto artigianato e slanci di rinnovamento e di competizione. Soprattutto, nell’ottica dello spettatore coevo, è opportuno non lasciarsi irretire dall’inevitabile parzialità di determinati approcci. Si può privilegiare l’analisi di testi drammatici, manoscritti e a stampa, cogliendo le trasformazioni della “letteratura” nel trascorrere degli anni, ma – al di là dell’ovvio divario tra la pagina e la scena – occorrerà non perdere di vista come, ancora per lungo tempo, lo statuto della “scrittura” appaia debole e incerto, debitore a una prassi militante, alle mode e al mercato, e in fondo incomprensibile se non ricondotto alla frenesia produttiva di compagnie e impresari.

Negli autori intellettualmente più consapevoli o agguerriti  la distanza fra la parola e le convenzioni del teatro è a volte addirittura perseguita e sottolineata, tanto da delineare il rigore di una ricerca formale, l’esistenza di un teatro come spazio mentale senza ripercussioni sulla quotidiana fatica dei professionisti. Si possono ripercorrere biografie eccellenti, osservando i mutamenti di parti e ruoli in un arco cronologico più o meno esteso e il farsi e disfarsi di compagini attive in città, ma quel che rimane di una circolazione di maestranze talora vorticosa consente di intuire più che cogliere precise strategie poetiche. È difficile dar conto delle interazioni tra le scelte di repertorio e i luoghi di spettacolo, in una capitale dove, se si eccettua il San Carlo, la tendenza imperante nelle varie sale fu sempre quella di non  procedere a una rigida specializzazione di genere.

Per ogni via si rischia di sottovalutare o sopravvalutare l’incidenza della prosa nel panorama della scena coeva, laddove il più modesto profilo delle sue epifanie al cospetto del melodramma serio o dell’opera buffa parrebbe da imputarsi a molteplici fattori, che non si escludono a vicenda e, anzi, concorrono variamente a motivare la collocazione eccentrica, quando non decisamente marginale, di alcune forme teatrali all’interno dell’offerta cittadina. In primis, la natura di routine, che contraddistingue, ad esempio, la commedia improvvisa, destinata ad assurgere ai fasti delle cronache solo sporadicamente proprio per il suo forte e ormai scontato radicamento tra le attività di spettacolo (altra faccia, forse, di uno “svuotamento” espressivo, del suo progressivo illanguidirsi in movenze stereotipate, solo di rado vivificate dal genio isolato di qualche autentico performer); quindi, il ridotto grado di formalizzazione burocratica e amministrativa che interessa un’ampia fascia di addetti ai lavori, mentre la Real Cappella e il San Bartolomeo prima, il San Carlo poi, sperimentano soluzioni contrattuali e previdenziali che assicurano controllo e visibilità al settore.

Da non trascurare, inoltre, è la provvisorietà di strutture che ospitano messinscene di vario livello secondo calendari irregolari, o la promiscuità di attrici e attori con un policromo milieu dalla dubbia moralità, che attira l’attenzione degli uffici (e di curiosi commentatori) più sulle ricadute nel costume e nell’ordine pubblico che sui contenuti e i valori delle esecuzioni. Ed ancora, sono da considerare le scelte linguistiche e organizzative, che, tra idioma “nazionale”, toscano, apporti “forestieri”, possibilità effettive di divulgazione, garantiscono alle produzioni circuiti di maggiore o minore respiro, con mutevole risonanza in patria e all’estero; lo splendido isolamento di esperienze marcatamente intellettuali, che dialogano con le punte più avanzate della riflessione coeva italiana ed europea, ma poco o nulla concedono al confronto con i pubblici teatri; la predilezione ricorrente per un alto dilettantismo, anch’esso poco incline a lasciar tracce se non quando entra in rotta di collisione con le ragioni della “professione” e le convenienze della rappresentatività del teatro nell’ambito delle arti. Né è da tralasciare l’emblematicità di singole carriere (Belvedere, Liveri, Cerlone, Lorenzi), che sollevano questioni di ordine estetico e sociologico, illuminando per converso tutto un pullulare di situazioni analoghe ma meno fortunate, né vanno dimenticati gli interventi teoretici e progettuali per promuovere e definire un nuovo teatro, spesso polemici con la realtà materiale delle scene e in questo portavoce di istanze e gerarchie non scritte ma dominanti per artisti e spettatori. Un quadro tortuoso, instabile, su cui grava l’assenza di ingenti riscontri documentari, ed entro il quale è lecito orientarsi solo a prezzo di prospettive sempre discutibili, scelte strumentali e indizi fugaci, nell’unica certezza che un disegno unitario sembra ormai irrimediabilmente perduto.

 

2. I destini dell’Arte. Vecchi istrioni e comici per passione   

 

D’altronde, Giacinto de Laurentijs aveva ottime ragioni per ritenersi soddisfatto dell’andamento dell’impresa. Dalla Pasqua del 1734 fino a tutto il Carnevale del 1735 il Teatro Nuovo sopra Montecalvario aveva ospitato la prestigiosa compagnia dei comici all’impronto di Lorenzo Tiziano, Giuseppe Rago e Girolamo Medebach, per un decisivo rilancio della commedia improvvisa che pure aveva ottenuto i suoi spazi nelle ultime stagioni degli anni Trenta [5]. Ai tre erano state offerte condizioni particolarmente lusinghiere: potevano disporre di «tre vedute di scene col suo Telone per ogni veduta per uso di domo», ma ne sarebbero state commissionate ancora «una di Città, altra di Bosco, ed un'altra di Camera» [6], mentre l’incasso si sarebbe calcolato sulla base di una «Plattea con sedie ad uso di Teatro capace da circa duecento Persone con cinque ordini di Palchi al numero di tredici Palchi per ciasched'uno ordine» [7]. Una compagine musicale avrebbe affiancato gli attori per i loro spettacoli. L’unico vincolo imposto era stato una sorta di esclusiva a favore della sala pubblica, dove pure si era resa necessaria un’eccezione: «in caso di chiamate, o visite su Casa, o altri luoghi, non possa la Compagnia andarvi per qualsivoglia Causa, eccetto che se fusse Chiamata dal Regio Palazzo à servire Sua Eccellenza il Signor Vicerè» [8].

Può darsi che l’“evento” - la presenza di forestieri con una loro notorietà alla prese con un repertorio comunque amato dal pubblico - avesse suggerito all’appaltatore una maggiore cautela nei rapporti professionali, definendo, con un contratto dettagliato, diritti e doveri delle controparti, o avesse prospettato margini di guadagno più cospicui se solo si fosse limitato l’uso di recitare nelle dimore private, che da tempo garantiva una più capillare diffusione dell’offerta, un’intensa circolazione delle maestranze tutte e una stimolante concorrenza al settore. Il punto è che le premure affaristiche di de Laurentijs, concentrando le recite in un sol luogo, altro non furono che un escamotage insolito per convogliare nella sua sala risorse e attenzioni su un genere di cui forse Napoli continuava ad abbondare, in antitesi ad un capocomicato tradizionale che affidava la sua sussistenza proprio alla molteplicità dei luoghi e dei committenti nella stessa area urbana. Non solo: denunciavano la “pericolosità” di quei palcoscenici nobiliari dove accanto a geniali dilettanti si esibivano con regolarità anche professionisti eccellenti, abituati a calibrare gli impegni presso le sedi ufficiali con serate all’insegna del “mestiere” e della propaganda di sé e del proprio entourage. Questa fitta “conversazione” di palazzi aristocratici, conventi e monasteri fu il vero regno della scena improvvisa [9], esito di antichi retaggi (un teatro finanziato e protetto dall’autorevolezza di potenti mecenati) e di specifiche congiunture (un mercato al riparo dall’agguerrita competizione con formule attraenti e meglio strutturate). Già intorno al 1700 il poderoso Gibaldone prodotto per volere di Annibale Sersale, Conte di Casamarciano [10], era stato probabilmente il frutto di un’alacre attività organizzativa tra gli esponenti più in vista dell’alta società e le esperienze tutte della scena militante in un’area deputata della città, dove sorgeva anche l’abitazione di Tiberio Carafa, Principe di Chiusano, ospite di una solenne messinscena dell’opera in lingua napoletana, La Cilla, alla presenza del Vicerè Daun il 26 dicembre del 1707 [11]. I centottantatré soggetti, «alcuni proprij, et altri da diversi raccolti» [12], erano la memoria di una passione personale e di una consuetudine largamente diffusa tra piccoli e grandi signori, avvezzi alle trame serie o farsesche che professionisti di ogni specie e ogni livello portavano in giro per l’Europa intera. È lo stesso orizzonte da cui si diparte la teoresi di Andrea Perrucci, che nel suo Dell’Arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso (1699) [13] codificò tecniche e obiettivi di un nuovo modello di attore e di spettatore, mentre echi di una poetica drammaturgica che si evolse (e si spense) dietro le suggestioni di interpreti magistrali (Cristoforo Rossi, Giuseppe Sansò) sono da ritrovarsi nella Selva del padre Placido Adriani da Lucca, che soggiornò a più riprese nel Monastero dei Santi Severino e Sossio tra 1716 e 1730 [14].

Più che un’eccezione sul piano dell’offerta spettacolare, l’ingaggio di Medebach, Tiziano e Rago fu un esperimento provocatorio, non tanto nell’avocare a un teatro pubblico la scelta di esibire con regolarità recite all’impronto, ma nel riconoscere ad esse il medesimo potenziale artistico ed economico delle «chellete» che furoreggiavano ormai da decenni, sfidando il monopolio sommesso di una rete di appassionati e il ruolo ancillare cui erano relegate (e si erano relegate) nei cartelloni. Si richiamava alla comune estrazione di molti dei cantanti buffi con le maschere ancora in giro, e dovette riscuotere un certo successo, se proprio tra gli anni Trenta e Quaranta la Commedia dell’Arte tornò a far parlare di sé e conquistò qualche autonomia tra i palcoscenici del Nuovo e del Fiorentini. Fu quella la stagione aurea di Domenico Antonio di Fiore, il celebre Pulcinella che alternò alle scritture presso le due sale gli spettacoli (soprattutto estivi) nei luoghi provvisori all’aperto, provandosi a dare alle stampe alcune sue creazioni: un evidente compromesso tra le mode della librettistica buffa coeva e le antiche strategie compositive delle compagnie dell’Improvvisa [15]. Il Nerone detronato o sia il Trionfo di Sergio Galba (1743) [16], Fra lo sdegno nasce amore (1746) [17], Don Marforio (1746) [18], Capitano Giancocozza (1747) [19] sono scherzi, frammenti drammatici ad uso di un consumato talento istrionico che giocano con le convenzioni della “commedia pe museca” quasi ad accentuare un’intrinseca diversità; in realtà, sono travestimenti talora davvero approssimativi di vecchi canovacci, dove non è chiaro se prevalga un esasperato gioco farsesco o una sottile vis polemica nei confronti di un’opera buffa debitrice agli stessi impianti e agli stessi “trucchi” di tanti scenari. A differenza di quanto era accaduto al Nuovo nel 1734, di Fiore accettò normalmente un ruolo a latere nei teatri che lo avevano scritturato insieme con la sua compagnia: in un contratto del 1738 con gli impresari del Fiorentini Francesco di Rosa e Francesco Sessa gli erano stati accordati solo tre giorni alla settimana (lunedì, martedì e giovedì) per le sue recite, a condizione di cederne alcuni nel caso in cui lo spettacolo in musica in programmazione nello stesso periodo avesse ottenuto particolare consenso di pubblico, tanto da richiedere un numero maggiore di repliche [20]. Molti anni dopo, nel 1774, si ricordava come le sue «comedie in prosa» si davano solo «due volte la settimana, quando si riposavano li comici della musica, cioè nel martedì e venerdì» [21]. Vi era stato, dunque, un progressivo ridimensionamento (sancito probabilmente anche da incidenti diplomatici, come la rappresentazione de Il finto impresario nell’Ottobre del 1747, le ire dell’appaltatore del San Carlo Diego Tufarelli e l’intervento del ministro di giustizia [22]), che spinse l’artista a riprendere l’abitudine di muoversi incessantemente tra i palcoscenici alti e bassi della capitale, alternando alle esibizioni nei luoghi consueti anche il lavoro nel casotto del Largo del Castello, sotto S. Giacomo o in baracconi di fortuna, fino alla morte, nel 1755 [23].

Forse quello del Pulcinella di Fiore era stato un progetto ambizioso: se la riconversione del Fiorentini al repertorio musicale nel 1706 si era proposta di «animare qualcheduno dei Comici ad abilitarsi negli impieghi maggiori» [24], lo sforzo di questi epigoni dell’Arte era stato quello di abilitare un’intera tradizione tra gli impieghi maggiori, e non i singoli attori in metamorfosi più o meno riuscite, riportando una prassi mai decaduta sulla ribalta delle grandi sale accanto ad altri generi e ad altri meccanismi di allestimento. Era un’impresa difficile, segnata da opportunità economiche non meno che dalla fascinosa contiguità che le soluzioni del premeditato ebbero lungo tutto il Settecento con il “mestiere” dei professionisti. Il silenzio che cadde sulle fortune degli istrioni non fu l’inizio dell’agonia, ma la consapevolezza di un loro valore residuale nella società dello spettacolo, al centro di un effettivo paradosso nella cultura scenica della capitale.

A partire dalla metà del secolo, il profilo del comico all’impronto finì con l’essere identificato sempre più frequentemente con esecuzioni mediocri, in strutture collocate ai margini del circuito teatrale cittadino e a ridosso delle performances di strada, votate alla precarietà e a una stentata sopravvivenza. Furono soprattutto gli spazi all’aperto a proseguire nel solco tracciato dai gloriosi canovacci dell’epoca cinque-seicentesca, e in ambito buffo le rievocazioni del repertorio dell’Arte nelle battute dei personaggi rinviavano per lo più a un apprendistato umile e poco edificante nel convulso show business dell’epoca. La chiusura del primo San Carlino fu dettata da questioni di ordine pubblico non disgiunte da una certa preoccupazione per il degrado morale di artisti e avventori [25], se si ribadì la necessità di circoscrivere almeno quantitativamente il fenomeno della presenza di troupes di dubbia reputazione: ad una petizione indirizzata all’Udienza di Casa Reale si rispose che

 

le compagnie di comici o siano istrioni, sinora permesse in Napoli, non sono che due, e queste già in atto vi si trovano: onde quella, che asserisce di tener per suo conto il Traghetti, sarebbe la terza, e che questi piccioli teatri per Istrioni, tra per la qualità degli attori e delle attrici, come per quella degli uditori, che sono per lo più gente disapplicata e dissoluta, non lasciano di essere pericolosi, perché in essi, all’ombra del divertimento, si fomentano dissolutezze e vi si trova una scuola d’iniquità: onde parrebbe di non doversene moltiplicare [26].

 

E quando nel 1770 a Tomaso Tomeo e a Elisabetta d’Orso fu concesso di aprire una sala «di alcuni bassi delle loro case nel largo del Castello», furono imposte condizioni estremamente rigorose: «che, primo, […] dovesse farsi in luogo profano; secondo, le commedie dovessero essere scritte e rivedute dall’Uditore; terzo, che ogni anno bisognasse presentare la lista dei recitanti, uomini e donne, per l’approvazione» [27]. I Tomeo, impresari e attori di lungo corso, per garantire alla loro iniziativa una certa continuità avevano chiesto e ottenuto di «rappresentare comedie premeditate» [28], cedendo a una censura estetica e sociale che provocò la riconversione di collaudati moduli operativi verso un mutato rapporto con la scrittura drammatica. Certo, si trattava ormai anche di competere con le incursioni sempre più assidue di compagini “forestiere”, lombarde e francesi, che diffondevano un nuovo repertorio e nuove tecniche esecutive, ma era impossibile non ammettere che l’ «impresa bellissima, e pericolosa» [29], decantata dal Perrucci circa un secolo prima, poteva seguitare a infondere linfa vitale nel gioco scenico, ma in sé appariva consunta dal tempo e dalle insidie di un mondo troppo cambiato per non guardare con insofferenza o disappunto ai virtuosismi retorici cari al mondo barocco. Cominciò solo allora, nei teatri pubblici, una lenta e graduale estinzione.

Tutt’altra sorte toccò all’Improvvisa a corte e nei palazzi aristocratici, frammista a quelle punte illuminate di dilettantismo (o di professionismo mimetizzato, come si è giustamente notato per le variegate produzioni musicali di primo Settecento nelle quali fu implicato un astro nascente come Metastasio [30]). Al suo arrivo a Napoli Carlo di Borbone aveva ai suoi stipendi una compagnia comica, e verso la fine del 1734 diede mandato al conte Zambeccari di Bologna di trovarne un’altra. La scelta cadde sull’ensemble di Gabriello Costantini, l’Arlecchino, che con altre undici persone era in grado di allestire una novantina di recite l’anno [31]. Fu una presenza significativa, appena scalfita dal successo del Barone di Liveri, eccellente concertatore e metteur-en-scène. Lavorare per il Re rimase la principale aspirazione per numerosi gruppi itineranti, come provano le suppliche puntualmente esaminate dagli uffici competenti, né i sovrani si privarono mai a lungo di un piacere mondano vissuto insieme come ostentazione di potere. Proprio alla morte del Liveri fu chiamato Giuseppe Pasquale Cirillo, «cattedratico primario della giurisprudenza» [32], affinché si introducesse «nel Teatrino domestico di Corte la Commedia all’Improvviso» [33]. Cirillo si era segnalato come autore dei soggetti che si rappresentavano in casa del Duca di Maddaloni Carlo Carafa, dove si radunavano insigni esponenti del ceto civile uniti dalla passione per lo spettacolo. Agli inizi dell’Ottocento, il prefatore all’edizione delle opere di Giambattista Lorenzi così raccontava l’età dell’oro di quelle “conversazioni dilettevoli”:

 

[Lorenzi] cominciò a recitare all’improvviso nella compagnia domestica del fu Carlo Carafa Duca di Maddaloni, uno de’ più insigni Mecenati di un tale divertimento, di cui potevamo gloriarci di essere i soli in tutta l’Europa; compagnia di eccellentissimi soggetti, annoverandosi tra costoro un Cristoforo Rossi da Pascariello, un Nicola Buonocore da Marco Pacchietta, un Francesco Villani da Petit-Maestro affettato, un Francesco Binei da Abbate Bitontese, un Giuseppe Bisceglia da Vecchia caricata; tra le parti serie esso Duca, ed il nostro Lorenzi, da innamorati, Francesco Antonio Castiglia, e Pietro Napoli Signorelli da donzelle, Gio: Paolo de Dominicis prima, e poscia Gennaro Salerno da vecchi serj, Gaetano Giordano da servo furbo, e Nicola Curcio da servetta, ed altri che ora non mi ricorrono alla memoria [34].

 

Il gusto del recitare all’impronto si diffuse largamente nella capitale, fino a conquistare il Palazzo Reale. Quel che tra piazze e casotti sembrava vieto e frusto, sentina di vizi e di immoralità, si profilava nei palazzi più in vista dell’aristocrazia regnicola come la via maestra al teatro. L’educazione alla scena comportava l’apprendimento di antiche virtù - una costante per le esperienze di maggior rilievo nella Napoli settecentesca, da Belvedere a Cerlone -, come se l’ambiente circoscritto delle case patrizie le preservasse dall’usura e dal pericolo di degenerazione, e la realtà a secolo inoltrato continuasse a riflettere le lacerazioni documentate dal trattato perrucciano del 1699. Cominciò a delinearsi il mito di un esercizio accademico libero dalle pressioni e dal malcostume del mestiere, e tutto proteso al conseguimento di un altissimo livello estetico, tale da assumere connotazioni nostalgiche nelle rievocazioni di chi pure passò a cimentarsi con le convenienze e inconvenienze della scena militante, e a farsi strada persino nei dispacci di Corte:

 

Volendo il Re per suo real divertimento che si facciano in Caserta dai 20 del prossimo mese di gennaio in poi le commedie all’improvviso il Lunedì e il Venerdì di ogni settimana; e considerando la M. S. non esservi cosa più contraria alla riuscita di tali rappresentazioni che il dispotismo con cui s’obblighino i recitanti a far parti non corrispondenti al lor carattere, ha risoluto che V. S. s’incarichi così dell’invenzione dei soggetti delle comedie, come della disposizione e concerto dei medesimi, e che V. S.  anche scelga tra i comici del Real Servigio quelli che stimerà più proprii secondo il far di ciascuno perché le commedie possano incontrar bene […] [35].

 

Nel 1768 l’imperatore Giuseppe II poté ammirare il talento di improvvisatore del Lorenzi, che consolidò la sua posizione a Palazzo, prima di cimentarsi come autore di opere buffe [36]. Tuttavia la sua vicenda può dirsi emblematica della forza e dei limiti che la commedia all’impronto conobbe sui palcoscenici privilegiati delle «case più cospicue»: si tennero vive abitudini e pratiche,  ma, almeno a giudicare dalle cronache superstiti, i soggetti - anche per le prove musicali - vennero desunti dagli intrighi letterari e drammatici più in voga (il Tamburo dell’Addison mediato da Destouches, Il Pregiudizio alla Moda di Nivelle de la Chaussée, il Bugiardo di Goldoni [37]), dichiarando forse l’obsolescenza di spunti e trame secolari. Soprattutto, né la direzione del teatrino regio né l’assiduità con cui si provvedeva all’allestimento di spettacoli privati pareva assicurare un riconoscimento sociale agli autori e agli attori di quella storia, costretti in fondo a misurarsi con le insidie del grande pubblico e delle imprese se si intendeva imprimere un corso al genio, alle mode e al sapere di un’intera comunità. L’Arte trascorse nei meccanismi occulti del professionismo, sopravvivendo a lungo in un clima di separazione coatta e studiata con il resto del mondo, quasi bandita nelle sue più immediate manifestazioni o vagheggiata nel chiuso di grandi saloni fra pochi apprendisti teatranti di razza e molti intellettuali mediocri, affezionati ad un rito di gradevole urbanità.


  Un calorosissimo ringraziamento va a tutti gli amici della Sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli.

[1] Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco di San Giacomo, matricola 845, partita estinta il 12 ottobre 1735.

[2] Cfr. Il Flaminio. Commedia per musica di Gennarantonio Federico napoletano. Da rappresentarsi nel Teatro Nuovo di sopra Toledo nell’anno 1735. Dedicata all’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore Don Alfonso Francesco Carafa [...]. In Napoli MDCCXXXV. Sull’opera si vedano ora Francesco Cotticelli, Dalla commedia improvvisa alla «commedeia pe mmuseca». Riflessioni su Lo frate nnamorato e Il Flaminio, «Studi pergolesiani. Pergolesi Studies» 4 (2000), pp. 179-191 e Francesco Degrada, Strategie drammaturgiche e compositive nel Flaminio di Giovanbattista Pergolesi, «Studi Pergolesiani. Pergolesi Studies» 5 (2006), pp. 141-186.

[3] Corre l’obbligo di ringraziare qui gli amici Ausilia Magaudda e Danilo Costantini per la disponibilità e la cortesia con cui hanno discusso con me delle occorrenze di “commedie” e “tragedie”  per lunga parte del XVIII secolo nelle fonti documentarie da loro analizzate. Il risultato delle loro ricerche confluirà nel volume in preparazione Musica e teatro nel Regno di Napoli attraverso lo spoglio della «Gazzetta» (1675-1768).

[4] La notizia è in una relazione dell’Uditore riportata in Benedetto Croce, I teatri di Napoli. Sec. XV-XVIII, Napoli, Pierro, 1891, p. 386.

[5] Archivio Distrettuale Notarile di Napoli, Notaio Giovanni Tufarelli, scheda 65, 22 dicembre 1733, cc. 499v-503v.

[6] Ivi. c. 501r.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, c. 503r.

[9] Cfr. Francesco Cotticelli – Paologiovanni Maione, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli». Materiali per una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Milano, Ricordi, 1996, pp. 201-209.

[10] Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», manoscritti segnati XI AA 40-41. Si veda ora The Commedia dell’Arte in Naples. A Bilingual Edition of the 176 Casamarciano Scenarios = La Commedia dell’Arte a Napoli. Edizione bilingue dei 176 Scenari Casamarciano. Volume 1. English edition (eds. Thomas F. Heck - Anne Goodrich Heck - Francesco Cotticelli); Volume 2. Edizione italiana. Introduzione, nota filologica, bibliografia e trascrizione di F. Cotticelli, Scarecrow Press Inc., Lanham, Md. & London, 2001.

[11] Per il rilievo della Cilla cfr. il contributo di Paologiovanni Maione in questo stesso volume; sul rilievo dell’area urbana teatro di queste esperienze cfr. Francesco Cotticelli, Notizie su Annibale Sersale, Conte di Casamarciano, «Quaderni dell’Archivio Storico del Banco di Napoli», 2004, pp. 271-328.

[12]Così nel frontespizio del vol. XI AA 40.

[13]Andrea Perrucci,  Dell’Arte rappresentativa premeditata, et all’improvviso. Giovevole non solo a chi si diletta di rappresentare, ma a’ Predicatori, Oratori, Accademici e Curiosi […]. Parti due, Napoli, M. L. Mutio, 1699. Cfr. ora l’edizione A. Perrucci, A Treatise on Acting, From Memory and by Improvisation - Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso (Napoli 1699), edizione bilingue a cura di Francesco Cotticelli - Thomas F. Heck - Anne Goodrich Heck, Scarecrow Press Inc., Lanham, Md. & London, 2008.

[14] Perugia, Biblioteca Augusta, segn. A 20. Si vedano Suzanne Therault, La Commedia dell’Arte vue à travers le zibaldone de Perouse, Paris, C.N.R.S., 1965; Stefania Maraucci, Spazio verbale e spazio scenico in un suggello alla Commedia dell’Arte di area meridionale: lo Zibaldone di Placido Adriani, in Myriam Chiabò - Federico Doglio. (a cura di), Origini della Commedia improvvisa o dell’Arte. Atti del XIX Convegno Internazionale del Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, Roma 12-14 ottobre 1995/Anagni 15 ottobre 1995, Roma, Torre d’Orfeo, 1996, pp. 247-271; Valentina Gallo, La Selva di Placido Adriani. La Commedia dell’Arte nel Settecento, Roma, Bulzoni, 1998.

[15] Cfr. Francesco Cotticelli, Neapolitan Theatres and Artists of the Early 18th Century: Domenico Antonio Di Fiore, in Brigitte Marschall (Hg.), Theater am Hof und für das Volk. Beiträge zur vergleichenden Theater- und Kulturgeschichte. Festschrift für Otto G. Schindler, Wien, Böhlau, 2002 («Maske und Kothurn», 48. Jahrgang, Heft 1-4), pp. 391-397. Oltretutto Di Fiore non si esimeva dall’andare in tournèe in provincia, guadagnando anche dalla vendita dei materiali d’uso per il suo teatro. Percepisce ad esemprio ducati 9.1.10 «cioè ducati 8 per la sua annata in Ariola, a fare il Pulcinella, e ducati 1.2.10 per un libro di Soggetti di Comedia» (cfr. Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco del Santissimo Salvatore, matricola 1260, partita estinta il 15 giugno 1733). Si veda al riguardo Francesco Cotticelli - Paologiovanni Maione, Le carte degli antichi banchi e il panorama musicale e teatrale della Napoli di primo Settecento: 1732-1733, «Studi Pergolesiani. Pergolesi Studies» 5 (2006), pp. 21-54 (con CD allegato).

[16] Il Nerone detronato O sia Il trionfo di Sergio Galba. Divertimento teatrale da cantarsi in musica Dalla Compagnia de' Comici nel Teatro de' Fiorentini. Dedicato all'Illustrissimo Signore Don Giuseppe Carnevale Avocato Primario della Gran Partenope, in Napoli 1743.

[17] Fra lo Sdegno nasce Amore. Scherzo drammatico per Musica da rappresentarsi dalla Compagnia de' Comici nel Teatro Nuovo sopra Toledo, nell'inverno di questo anno 1746. Dedicato al Molto Illustre Signor Don Domenico Fierro, in Napoli MDCCXLVI.

[18] Don Marforio Frammento drammatico per Musica da rappresentarsi dalla Compagnia de' Comici del Teatro de' Fiorentini nel corrente anno 1746. Dedicato all'Illustrissimo Signore il Signor Don Filippo Palomba de' Baroni di Pascharola [...], in Napoli 1746.

[19] Capitano Giancocozza Componimento drammatico per Musica da rappresentarsi Dalla Compagnia de' Comici del Teatro de' Fiorentini nel corrente Anno 1747. Dedicato all'Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signore Il Signore Don Giovan Battista Vitilio Marchese di Auletta, e Principe di Cerenza [...], in Napoli MDCCXLVII.

[20] Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Notai sec. XVIII, Pietro Aniello Maresca, scheda 73, volume 21, cc. 69v-73v, 22 maggio 1738 e cc. 120r-122v, 4 aprile 1740.

[21] La notizia è in B. Croce, I teatri di Napoli cit., p. 452.

[22] Cfr. ivi, pp. 426-427.

[23] Cfr. F. Cotticelli, Neapolitan Theatres cit., cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche.

[24] Dalla prefazione a L’Ergasto. Dramma per musica di Carlo De Petris da recitarsi nel Teatro de’ Fiorentini nel mese di ottobre di questo corrente anno 1706 […], Napoli, Michele Luigi Mutio, 1706.

[25] Cfr. B. Croce, I teatri di Napoli cit., pp. 460-462.

[26 Il testo si legge ivi., pp. 462-463.

[27] Le notizie, desunte da un documento coevo, sono riportate in B. Croce, I teatri di Napoli cit., pp. 524-525.

[28] Cfr. ibidem.

[29] Andrea Perrucci, Dell’are rappresentativa cit., edizione bilingue, p.  101.

[30] Per la definizione cfr. Rosy Candiani, Pietro Metastasio da poeta di teatro a “virtuoso di poesia”, Roma, Aracne, 1998, p. 19.

[31] Cfr. B. Croce, I teatri di Napoli cit., pp. 315-316.

[32] Opere teatrali di Giambattista Lorenzi napolitano. Accademico Filomate, tra’ Costanti Eulisto, e tra gli Arcadi di Roma Alcesindo Misiaco, tomo I, Napoli, nella stamperia Flautina, 1806, L’editore ai lettori, p. IX.

[33] Ivi, p. XI.

[34] Ivi, p. VIII. Un doveroso tributo agli attori che fecero grande il teatro di Liveri e Cirillo è in Pietro Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle Due Sicilie o sia Storia ragionata della loro legislazione e polizia, delle lettere, del commercio, delle arti e degli spettacoli […], tomo V, in Napoli MDCCLXXXVI, presso Vincenzo Flauto, pp. 355-358. Si vedano anche Salvatore Di Giacomo, Cronaca del Teatro San Carlino, Trani, Vecchi, MDCCCLXXXV2 e Orietta Giardi, I Comici dell’Arte perduta. Le compagnie comiche italiane alla fine del secolo XVIII, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 76-84 e pp. 274-287. Sul Lorenzi si veda Vanda Monaco, G. B. Lorenzi e la commedia per musica, Napoli, Berisio, 1968.

[35] Il biglietto di Bernardo Tanucci è datato Persano 28 dicembre 1768 ed è riportato in B. Croce, I teatri di Napoli cit., pp. 538-539.

[36] Cfr. per l’aneddoto B. Croce, I teatri di Napoli cit., pp. 540-541.

[37] Opere teatrali di Giambattista Lorenzi napolitano cit., pp. IX-X.



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