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Cesare Molinari

Cesare Molinari, Morte a Venezia

Data di pubblicazione su web 26/04/2009
Dirk Bogarde in "Morte a Venezia"

Le analisi più attente, basandosi del resto anche su una dettagliata dichiarazione dello stesso Visconti, hanno sottolineato che il film del 1971 inserisce nella narrazione del quasi omonimo romanzo breve Der Tod in Venedig (La morte a Venezia), degli spunti e anche qualche episodio tratti da altre opere di Thomas Mann, e in particolare da quella grande bibbia del tardo decadentismo europeo che è il Doktor Faustus, scritto, come è ben noto, oltre trent’anni più tardi, vale a dire nel 1947, ma ambientato tra il 1920 e il 1943. Non mancano però riferimenti ad altre opere manniane, per lo più composte tra il 1903 e il 1918, dalla saga dei Buddenbrooks alla “Prosa-Ballade” Tonio Kröger fino al grande affresco di Zauberberg (La montagna incantata) o al breve racconto Tristano, le quali opere tutte trattano di arte e di malattia (con la parziale eccezione dei Buddenbrooks che ad esse riserva solo l’episodio finale), due temi che si fonderanno inestricabilmente nel Faustus.

Si potrebbe dire che, in certo modo, Visconti ha realizzato un’operazione non dissimile da quella di Mejerhol’d che aveva inserito nella sua regia del Revizor battute e brani tratti da altri lavori di Gogol, quali Il naso e Le anime morte. Ma le modalità e il significato di questi inserimenti sono del tutto diversi nel film di Visconti, il quale li confina in una serie di flash-back, destinati a svolgere due funzioni parallele ma distinte: i primi sono intesi a costruire una sorta di biografia alternativa del personaggio, fatta in parte di episodi della vita di Adrian Leverkühn, quali la visita alla piccola prostituta Esmeralda (Esmeralda essendo anche il nome della barca su cui Aschenbach arriva a Venezia) o la fallimentare esecuzione della sua sinfonia, ma in parte anche da momenti decisamente incompatibili con quella vita quali il ricordo della moglie e della figlioletta (fig.1) i cui ritratti il protagonista del film bacia teneramente; i secondi invece risolvendo nelle discussioni con un amico, forse stranamente ispirato alla Lisaweta Iwanowna del Tonio Kröger, le riflessioni sull’arte di Aschenbach, che nel romanzo sono descritte in terza persona – nel Faustus infatti, vale la pena di notare, Adrian Leverkühn non discute veramente con il suo amico, devoto e rispettoso, il quale altri non è che l’autore della storia della vita di Adrian.

Ciononostante, in forza del complesso di questi flash-back, la biografia di Gustav von Aschenbach tende in qualche misura a identificarsi con quella di Adrian Leverkühn, pur senza assumerne affatto le caratteristiche psicologiche: un certo parallelismo c’era anche in Thomas Mann, che trasferisce nel nome dell’inesistente città dove Adrian Leverkühn sarebbe cresciuto, parte del nome del protagonista di Der Tod in Venedig, talché in Kaisersaschern (ceneri dell’imperatore) si trova un’assonanza con Aschenbach (ruscello della cenere). Nel film Aschenbach non è più il grande, rispettato e ammirato scrittore, che costruisce i suoi racconti e i suoi personaggi sulla base della grandezza e della dignità della tradizione classica, ma, come Adrian, un musicista incompreso e apprezzato solo da una ristretta cerchia di ammiratori, ma che, diversamente dallo sprezzante Leverkühn, esce distrutto dal fallimento dell’esecuzione della sua sinfonia.

Ma la fusione dei due personaggi si ferma a questo livello, sicché i flash-back, nel loro insieme, rimangono appunto dei lampi che lasciano soltanto intuire le contraddizioni profonde della vita di Aschenbach e che sono inseriti nel percorso narrativo senza alcun segnale sintattico, come brevi sequenze che sviluppano il percorso stesso. Nel film Aschenbach non possiede un vero sistema di pensiero estetico che vada aldilà del culto della dignità: anche se i termini che indicano “dignità” ritornano spesso nel romanzo (Würde, würdig), nelle discussioni  con l’amico sui temi dell’arte e della vita che si svolgono nella seconda serie di flash-back, lo Aschenbach di Visconti viene sempre sopraffatto, appunto a causa della sua mancanza di un pensiero sistematico, mentre Adrian Leverkühn è capace di elaborare e mettere in pratica una complessa ideologia musicale di tipo razionalista e matematico, che è essa stessa attrazione verso l’abisso, concretizzata nell’incontro, vero o sognato, con il demonio. Paradossalmente invece, in Der Tod in Venedig, Aschenbach trovava una sintesi fra il suo amore per Tadzio e l’idea di bellezza, la sola cosa capace di dare corpo sensibile alla spiritualità del pensiero, come si chiarisce soprattutto nel grande monologo interiore che, verso la fine del romanzo, intende rielaborare il contenuto narrativo e filosofico del Fedro platonico.

Monologo che scompare nel film, del resto quasi del tutto privo anche di dialoghi: quasi un film muto o, meglio, un film in cui le riflessioni del narratore vengono sostituite dalla ricca e coerente colonna sonora, basata prevalentemente su due sinfonie di Mahler (in particolare sull’adagietto della Quinta, che assurge a vero Leit-Motiv), il compositore che aveva in parte ispirato il personaggio di Adrian Leverkühn. E si potrebbe anzi dire che in ciò consiste il grande paradosso su cui si basano la genesi e la forma stessa dell’opera di Visconti, il quale da un lato sembra aver preteso di tradurre alla lettera (se mai ciò fosse possibile) la diegesi del racconto, ma dall’altro si vieta qualsiasi sostegno verbale inteso a chiarire il pensiero, i desideri e le sensazioni del protagonista, che invece nel romanzo vengono dettagliatamente e puntigliosamente descritti nel loro formarsi e nel loro evolversi, di modo che tutte le azioni e i gesti di Aschenbach risultano inestricabilmente connessi con quei pensieri, desideri e sensazioni e spesso direttamente da essi determinati, mentre nel film essi sono integralmente lasciati alla deduzione dello spettatore, o semmai affidati all’intensa e trattenuta mimica e al portamento di Dirk Bogarde (fig.2).

Ciò vale anche per il ricco tessuto di simboli che in Thomas Mann anticipano e concentrano il destino di Aschenbach, ma che Visconti tratta con libera e varia misura: rinuncia all’episodio di apertura in cui, a Monaco, Aschenbach rimane turbato alla vista dello strano personaggio che misteriosamente lo costringe a scegliere di partire (mentre nel film la causa del viaggio è riferita ad una debolezza cardiaca), riduce a una breve apparizione la figura del vecchio pederasta incontrato sul traghetto da Pola a Venezia, indugia invece a lungo nel descrivere lo spettacolo dei guitti sulla terrazza dell’Hotel des Bains, e ancor più sull’episodio del trucco cui Aschenbach si sottopone – in tutti tre i casi Aschenbach è silenzioso, o quasi poiché si limita a rivolgere qualche domanda al guitto dopo la fine dello spettacolo, mentre sono loquaci i personaggi di supporto (ma veri protagonisti dell’azione simbolica): lo stesso guitto e il parrucchiere.

Si è detto della quasi totale assenza di dialogo. Va precisato che (come del resto succede anche nel romanzo) nelle poche battute che pronuncia, Aschenbach parla soltanto con le figure marginali del mondo che lo circonda: il gondoliere, il compunto e formale direttore dell’hotel, stupendamente descritto da Romolo Valli, l’impiegato dell’agenzia di viaggi che lo informa sul diffondersi del colera con la lunga descrizione del percorso del contagio, ripresa quasi integralmente dal testo del romanzo e in qualche modo riferibile alla descrizione del tifo dell’ultima parte dei Buddenbrooks –  e pochi altri. Con i membri della varia, elegante e ricca società internazionale, tanto finemente descritta nei costumi e negli atteggiamenti, Aschenbach non scambia una sola parola, che anzi le signore e i gentiluomini che affollano le sale dell’Hotel des Bains sembrano talvolta quasi assimilabili ai mobili e alle suppellettili, svolgendo in qualche modo il solo ruolo di filtro o di ostacolo tra Aschenbach e Tadzio (fig.3). Solo nel sogno ad occhi aperti in cui pensa di avvertire la madre di Tadzio del pericolo che corre restando a Venezia, inserito anch’esso con la stessa tecnica dei flash-back senza soluzione di continuità, Aschenbach si rivolge ad un membro di quella società – in verità il più importante, poiché all’inizio l’inquadratura insiste ambiguamente più su di lei che sullo stesso Tadzio.

Forse, la lunga descrizione dello spettacolo dei guitti, e soprattutto dell’esibizione dello sdentato canterino, la cui arte grottesca viene esplicitamente esaltata nel romanzo, nel film di Visconti intende piuttosto rappresentare l’esistenza non di un’arte diversa, ma di un’altra società, minacciosa quanto affascinante. Perché egli appartiene a pieno titolo a quel jet set internazionale che popola il grande albergo, e vuole appartenervi, vuole condividerne i riti e le forme come dimostrano la lunga e compiaciuta vestizione con cui egli indossa il frack di rigore per la cena, “la livrea della correttezza”, ossia la divisa della civiltà, ma anche gli atteggiamenti sprezzanti che spesso assume nei confronti della gente di classe inferiore. L’assenza di qualsiasi accenno di conversazione si risolve in una sostanziale e assoluta solitudine – la solitudine dell’artista? – esplicitata già nel romanzo, dove il protagonista viene spesso definito “il solitario: der Einsame”. E a questo proposito si potrebbe ricordare che anche Adrian Leverkühn tende a rifiutare un vero rapporto di ordine sociale, e non solo perché si ritira in un isolamento sempre più completo, ma anche perché la sua unica vera e approfondita conversazione è quella con il demonio che lo subissa e lo domina dialetticamente, così che si potrebbe quasi dire che il biondo amico che compare  in due flash-back del film deriva anche dal demonio del Faustus: non per niente dopo l’insuccesso della sinfonia egli aggredisce e tratta duramente Aschenbach, che si rifugia tra le braccia della moglie.

Allora c’è da chiedersi se l’unico contatto di Aschenbach con il mondo esterno non sia costituito proprio da Tadzio (fig.4), ma anche se Tadzio sia non solo un reale e concreto oggetto del desiderio, quel  desiderio (Sehnsucht) che prende forma nella formula eterna, “ti amo”, mormorata in perfetta solitudine, o non sia anche e piuttosto il simbolo astratto che, nel film almeno, rende assoluti l’amore e la passione che trascendono la vita stessa, senza per questo sublimarsi nell’idea della bellezza salvifica.

C’è chi ha sostenuto che nel film di Visconti il motivo dominante o almeno prevalente è di carattere autobiografico: il riconoscimento, l’accettazione o addirittura l’esaltazione dell’omosessualità che Visconti visse con intensità e passione (fig. 5). Può darsi. Certo è che il rapporto fra Aschenbach e Tadzio si configura nel film in modo diverso che nel romanzo: è vero che anche nell’opera di Mann è il giovanetto che per primo si volta a incontrare lo sguardo di Aschenbach, il quale, nel film, sembra dapprima essere attratto soprattutto dalla nobile figura della madre, seguita a lungo mentre fa il suo ingresso regale nella hall dove egli è seduto a leggere distrattamente un giornale; ma è vero anche che questa iniziativa dell’efebo si ripete nel film con insistita frequenza e diventa vera ed esplicita civetteria nell’episodio della passerella sulla spiaggia, in cui Tadzio rallenta il suo andare danzando attorno alle aste che reggono la copertura di tela. E la stessa corrispondenza si ripeterà quasi sempre, decisamente accentuata, sia nell’albergo dove la figura di Tadzio viene isolata dall’occhio di Aschenbach, che la coglie filtrando attraverso la folla degli eleganti ospiti, sia a Venezia dove invece il ragazzo rimane sempre intenzionalmente e talvolta ostentatamente indietro rispetto al gruppo dell’istitutrice e delle “monacali sorelle”, isolandosi quasi  per realizzare un rapporto assoluto con colui che lo insegue in una “celeste corrispondenza di amorosi sensi”.

Così la storia di Tadzio e Aschenbach diventa davvero una storia d’amore, di un amore “impossibile, assurdo, perverso, grottesco e tuttavia sacro” – per ripetere, adattandoli, gli aggettivi che Thomas Mann attribuisce alla formula dell’amore citata sopra. Ma d’altra parte l’esaltazione della bellezza viene da Visconti perseguita in termini squisitamente filmici in quanto “il desiderato: der Begehrte”, che è prima di tutto “il bello: der Schöne”, viene spesso inquadrato nel vano di una finestra o di una porta, o di qualsiasi altra cornice, come per definirne lo status di opera d’arte (fig. 6). Rimane che, al momento della morte di Aschenbach, Tadzio viene come assorbito, minuscola silhouette, nell’immensità lattiginosa del mare e del cielo (fig. 7) (quel mare e quel cielo su cui si era aperto il film): se uno degli amanti muore, anche l’altro deve, qua talis, dissolversi (fig.8).

Di questa storia d’amore Venezia è il teatro e il riflesso: come l’amore è malata (ma gli accenni alla fragile salute di Tadzio scompaiono nel film), come l’amore è stupenda: una città-miracolo (wunderlich-wundersame), che si annuncia a chi viene dal mare in tutto il suo splendore (Herrlichkeit). Ma, simile all’empire romain de la décadence, Venezia è una regina decaduta (die versunkene Königin: alla lettera “la regina sprofondata”). Come succedeva in Senso, lo sguardo di Visconti evita programmaticamente di presentare la Venezia monumentale, cui concede soltanto una rapida visione d’insieme all’arrivo del vapore da Pola (fig.9 e fig.10),  una sfumata panoramica nel corso della traversata in gondola dal bacino di San Marco al Lido e una parzialissima carrellata sui palazzi del Canal Grande visti solo di scorcio dal vaporetto durante il viaggio verso la stazione per attardarsi piuttosto sugli scorci pittoreschi della Venezia segreta e minore, dove lo splendore si corrompe in penombra e la bellezza si risolve in incubo. Perché questa Venezia, in verità così complementarmente necessaria a quella ‘maggiore’, sulla quale solo imprevedibilmente può aprirsi, come un labirinto è sempre uguale a se stessa nella sua continua e radicale diversità. Qui i percorsi, al contrario di quelli dei veri labirinti (quello ad esempio della villa di Stra dove si era perduta la Foscarina-Duse nel Fuoco dannunziano), non hanno neppure la parvenza della ragione geometrica: come nell’amore e nella passione o come nella sofferenza della malattia irrimediabile solo è possibile perdersi e perdere, ragion per cui Aschenbach perde Tadzio, che improvvisamente è scomparso, e perde se stesso, lasciandosi cadere sulla base di una vera da pozzo, letterale preannuncio della sua morte.

Da simili impasse infatti non si esce che con la morte, che è inscritta in questa Venezia malata moralmente e fisicamente, nel suo splendore come nel suo disfacimento – o sprofondamento, se si vuol ripetere la terminologia manniana, che accenna al destino anche fisico della città superba: per parlare semplicemente di “decadenza” Thomas Mann avrebbe potuto usare diverse altre parole, tra cui quel Verfall, che compare, et pour cause, nel sottotitolo dei Buddenbrooks. Ma in verità questa Venezia ‘minore’ è qualcosa di più e di diverso. Quando ho visto il film per la prima volta mi è rimasta la sensazione che buona parte dell’azione si svolgesse in quei degradati campielli e sottoportici attraverso i quali Aschenbach insegue il suo amato. Non è così: queste sequenze sono relativamente brevi, soprattutto in rapporto a quelle ambientate nell’Hotel des bains, e concentrate nell’ultima parte del film – Visconti, tra l’altro, elimina anche l’inseguimento in gondola che avrebbe potuto aprire nuove prospettive particolarmente pittoresche sulla città. Ma si tratta di sequenze di particolare intensità, non solo in quanto in esse viene descritto il fatale esaurirsi della stessa vitalità del protagonista, che cammina sempre più curvo e distrutto, ma soprattutto perché quei campielli, sudici e cadenti, sono punteggiati da fuochi (fig.11) dai quali si leva un fumo acre e denso, ultimo filtro attraverso il quale Aschenbach scorge Tadzio, immobile in attesa, decisa negazione delle cornici che ne esaltavano la bellezza, come, su un piano diverso, del filtro costituito dalle candele attraverso cui Aschenbach aveva contemplato il fanciullo assorto in preghiera nella cattedrale. Talché il disperato inseguimento si trasforma in una vera descensio ad inferos. Cui si opporrà, nel finale, l’immensa visione di mare e di cielo, che è pur sempre un perdersi, ma nell’incorrotta assolutezza del tutto.

Come Thomas Mann, anche Luchino Visconti sa bene che il percorso di tutti i personaggi della fantasia che hanno raggiunto un alto livello di compiutezza è al tempo stesso assolutamente necessario e radicalmente arbitrario. Perciò egli non si discosta dal testo di partenza nel collocare un irragionevole percorso materiale (arbitrariamente interrotto con uno stacco che riporterà l’azione nell’albergo del Lido) al centro di una storia che ha una sola causa e un solo effetto, ma che è fatta di un succedersi arbitrario di episodi nessuno dei quali è episodico ed in cui, soprattutto, nessuno degli attori, ma in particolare il protagonista, è padrone dei suoi atti e delle sue scelte, massimamente quando crede di esserlo: la Selbstgestaltung, la costruzione della propria personalità e del proprio destino è solo illusione. Indimenticabile, in quest’ordine di idee, il vacuo e furbesco accenno di sorriso con cui Dirk Bogarde esprime la soddisfazione di Aschenbach per aver, come crede, fregato il destino annullando la precedente decisione di lasciare Venezia e di sottrarsi al maleficio dello scirocco, ossia al fascino di Tadzio. Un sorriso che credo di aver visto ritornare addirittura nel momento in cui ascolta dall’impiegato della Cooks il racconto sulla pestilenza e che si trasformerà in trionfale saluto quando, dalla sua finestra, saluterà con la mano Tadzio che lo guarda dalla spiaggia.

Così, arbitraria e necessaria a un tempo è la morte di Aschenbach, direttamente ma  segretamente determinata proprio dall’inganno che alla stazione (dove viene brevemente mostrata l’unica morte causata dal contagio) Aschenbach aveva ordito contro se stesso. La morte del protagonista   costituisce il momento di maggior distacco stilistico dal romanzo, preparata anche dal lungo e questa volta faticoso percorso sulle passerelle della spiaggia e articolata com’è nel disfarsi in primo piano del trucco (fig.12) con cui aveva lasciato che il ruffianesco parrucchiere gli ringiovanisse la faccia, ma che in verità rappresentava un suo perenne e sostanziale desiderio di essere ciò che non aveva voluto essere. Una morte rivelata poi anche dalla lontana e silenziosa visione dei soccorritori che, nel deserto della spiaggia, accorrono verso il defunto e ne trasportano via il corpo – azione che si potrebbe definire di una monumentalità minore, che se riesce a fare di quella morte un evento, gli conserva però una dimensione assolutamente privata e personale (in realtà quale morte non lo è?) poiché lo Aschenbach di Visconti non è l’uomo pubblico e famoso di quello di Mann, la cui morte peraltro è annunciata ma non descritta. Ma poi questo evento privato si allarga ad una dimensione metafisica nel controcampo sull’infinita visione di Tadzio immerso tra mare e cielo.

Come tutte le opere d’arte, Morte a Venezia di Visconti possiede un valore e un significato autonomi ed assoluti, che prescindono dal rapporto interpretativo con l’opera letteraria che l’ha ispirata. Se ci si sofferma ad esaminare questo rapporto, si tratta piuttosto di un’operazione di tipo filologico, intesa a definire la genesi dell’opera in questione: quasi una critica delle fonti (tanto invisa a Benedetto Croce) piuttosto che una critica del testo. Pure è innegabile che il confronto parallelo di due opere per qualsiasi motivo considerate vicine, nell’esaltare somiglianze e differenze, finisce con l’esaltare anche il valore di entrambe e con penetrarle più a fondo. E se questo può dirsi vero per qualsiasi confronto, è indubbio che nel momento in cui il rapporto è anche di tipo interpretativo, l’opera ‘seconda’ acquisisce il doppio significato di un’operazione critica e di un’operazione creativa.

Per Luchino Visconti che è anche – e, a mio modo di vedere, soprattutto regista di teatro – tale doppia prospettiva è inscritta nella sua forma mentis: non per nulla, come regista di cinema, si è spesso rivolto alla trasposizione filmica di opere narrative – da Ossessione a L’innocente – considerate quasi come il corrispettivo dei testi drammatici da portare sul palcoscenico. Con Morte a Venezia egli è riuscito nel miracolo di operare una ‘trasposizione’ che, come già detto, appare a volte addirittura letterale della struttura e degli episodi del romanzo, al punto che i flash-back appaiono in qualche misura intellettualisticamente forzati nell’intenzione, da una parte, come già detto, di costruire una alternativa biografia del protagonista, mista, per così dire di Adrian Leverkühn e di un suo opposto (si vedano i ricordi di una felice vita familiare che mai Adrian avrebbe potuto avere), ma, dall’altra, di dare un quadro più totale dell’opera dello scrittore amato. Peraltro, traducendo il pensiero nella superba banalità dell’azione, Visconti ha illuminato il sogno della bellezza assoluta, sospesa fra la materia e lo spirito, della concreta e tragica bellezza dell’amore terreno, della passione percepita come destino.





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