logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Italo Moscati

Italo Moscati, Arbore, l’Italia di prima che diventa l’Italia di dopo… Indietro tutta!

Data di pubblicazione su web 25/09/2008
Renzo Arbore

Renzo Arbore ha ottenuto il Premio Smeraldo sulla comunicazione in un incontro tra il 3 e il 5 ottobre 2008 ad Amalfi. Nel corso dell’incontro l’intensa carriera del popolare conduttore e autore televisivo (ma anche radiofonico e cinematografico) è stata documentata da registrazioni provenienti dalle Teche della Rai, e accompagnata da un convegno; ed è stato pubblicato un libro a più mani, da cui proponiamo lo scritto di Italo Moscati. Negli anni scorsi il Premio Smeraldo è stato attribuito a Gianfranco Bettettini, Ugo Gregoretti, Giovanni Minoli.

 

La posizione più attraente di Renzo Arbore è quella di Indietro tutta, 1987, sigla e punteggiatura durante la trasmissione.
In piedi sulla tolda della nave ricostruita in uno studio tv, con piumosa feluca calcata sulla fronte, megafono nella destra, il comandante Arbore - Foggia, 1937- canta senza tutte le erre necessarie la sigla della trasmissione: Vengo dopo il Tggì, con i suoi accoliti della nave: marinai, mozzi e ragazze coccodè. Intorno un pubblico di emigranti. Da una tv all’altra. Giovani.
Notte italiana. Giorni italiani.
Il comandante Arbore - studi a Napoli, in forza alla South Railway Travellers, jazz dixieland- vanta da sempre sotto o fuori l’ampia feluca un bellissimo naso che sporge, due occhi furbi, accesi, birbanti. Tonici.  Nel ricordo ancora fresco del Materasso, pratica e desiderio, canzone pilota di Quelli della notte, 1985, consorteria di barboni della Roma notturna, en artiste, dolcevitaiola. Nostalgia di una Roma felice e falsa come un soldo bucato.
Notte italiana. Notte della tv non del tutto ancora bastarda , dove era entrato subito dopo le esperienze alla radio, da Per voi, 1966, ad Alto gradimento, 1970. In quest’ultimo programma, dice il vecchio compare di Arbore, materassaio anche lui, Gianni Boncompagni, che nacque dalle suggestioni di un film americano degli anni Quaranta  intitolato Helzapoppin, l’idiozia intelligente si fa metodo di lavoro.
La notte della tv per Renzo era cominciata in un pomeriggio: L’altra domenica, 1976. Giorni italiani.
Avanti tutta.

Arbore ha sempre avuto naso, dunque. Fiuta. Zampetta. Cane da tartufi. Cane da caccia. Cerca, trova e prende il comando. Fa branco. Esistono infatti gli arboriani o aborigeni,arbusti di un frondoso albero della spettacolarizzazione del sé, di cui parla Raffaele La Capria nel libro L’armonia perduta.
Napoli, sostiene La Capria, si è difesa nei secoli dai potenti imparando a fare spettacolo di se stesso, nei gesti, nelle canzoni, nella lingua-dialetto, nell’inventare la pizza cibo di tutti e la pasta, nell’ “ammuina”  quotidiana. A questo proposito…
…Molti anni fa, quando Eduardo De Filippo c’era ancora ed era formidabile sia come artista che come filosofo (un’“opinionista” raro), propose insieme al figlio Luca un doppio Pulcinella, uno anziano e uno giovane.
Quello anziano, carico di esperienza e di cinismo, era rotto alla vita e alle sue doppiezze. Da dietro la maschera Eduardo, diceva che la stessa maschera nera era molto utile per godere di tutta la libertà necessaria, nascondere la vera identità, e sfuggire alle malevolenze dei Padroni.
Quello giovane, Luca, sempre da dietro una maschera portata come se si trattasse di una insopportabile maschera di ferro, rispondeva inorridito. Diceva che sì, che forse era vero, anzi era proprio vero, ma – domandava − si può vivere tutta una vita con una maschera nera e deforme sulla faccia?…
Arbore non è un Pulcinella, né anziano né giovane. Da sempre non ha età.  Si è scelto una identità ariosa e ironica che mette al riparo lui, e i suoi spettatori (me compreso) dalle prepotenze e dai rancori autoritari dei Padroni, quelli delle televisioni, feudi contemporanei. Ci ispira in questo senso.

La sua è una biografia speciale, che vive di luci di una spettacolarizzazione di ieri e dei suoi aggiornamenti di oggi, una spettacolarizzazione sempre in corso, che sembra ferma a volte ed invece si aggiorna.
Conosco da lontano la biografia di Arbore. Non pretendo di affrontarla a fondo, vado per impressioni. Ho accettato di scrivere queste righe su di lui per stima e simpatia.
Conosco Renzo dai video e di persona. Ho visto i suoi film, oggi dimenticati: Il pap’occhio, 1980, F.SS., 1983. Scrissi una cattiveria su di essi, per pura appagante impertinenza. I giornali si complimentavano con il nuovo regista e lo fotografavano sul set o fuori dal set con una lunga sciarpa al collo. La sciarpa. Da   Luchino Visconti a Federico Fellini, a Bernardo Bertolucci, e a una lunga serie di imitatori meno meritevoli, tutti, dico tutti i neoregisti, sfoggiavano lunghe e preziose sciarpe da calpestare. La sciarpa come etichetta di qualità e segno di appartenenza. Moda kitsch. Nell’articolo dicevo che Renzo aveva deciso di passare alla regia solo per indossare il prezioso capo di vestiario, simbolo d’arte e di cultura, parte di un abbigliamento chic, una divisa d’autore. Adesso dico: pardon.

Ho sempre seguito il comandante dal gran naso. Mi sono esposto alle sue esibizioni e ai suoi concerti. L’ho derubato di suggestioni, saccheggiando quando e quanto ho potuto dalle interviste e dagli incontri che abbiamo avuto nel tempo, saltuariamente.
Come definire, allora,  Arbore?
Chi ha una definizione definitiva si faccia avanti. Sono sicuro che, messo di fronte ad essa, Renzo andrebbe indietro tutta. Di sicuro. Per pudore. Si piace, è ovvio, ma vive nel pudore. Fugge.
Anzi no. Arbore non fugge, ma sfugge. Fiuta cose, persone; coglie ciò che va e lascia ciò che non gli va, sceglie le persone che gli vanno e se ne circonda. Con pudore e rigore (ma senza stivaloni e frusta). Forma una, due, tre compagnie di giro più o meno con le stesse persone, compagnie di cui lui è l’indiscutibile capocomico. Sono decine di nomi: Luciano De Crescenzo, Pazzaglia, Luotto, D’Agostino, Dario Salvatori, Maurizio Ferrini, Lory Del Santo, e si potrebbe continuare a lungo.
Renzo non è solo un cane da fiuto, è anche un’anguilla. Provate ad appiccicargli un’ etichetta. Non ci riuscirete. Arbore non porta etichette, è un’etichetta, un uomo firmato da se stesso.
Adesso sembra per così dire avere messo la testa a posto − se mai l’ha avuta fuori posto. Ha maturato una formula. L’approdo è la romanticasincopatanazionalpo- polare Orchestra Italiana. È il comandante con feluca immaginaria. Suonicchia, canticchia, solfeggia, smorfeggia, ma soprattutto pizzica i suoi orchestrali e se stesso, non per bisogno ma perché ha il pizzico incorporato. Ha l’età da bel signore.  La droga che usa si chiama adreanalina sapiente. Fatta in casa.
L’adrenalina. L’energia. Lo spirito. Il buon senso. L’attenzione. Lo sfizio.

In primo luogo il jazz.
Per un figlio dell’Italia nato nel ’37 (pugliese, romano, toscano,emiliano, lombardo, eccetera) la musica di Jelly Roll Morton & C , bande dette tradizionali, con i funerali e tutto, o di Charlie Mingus o di Sonny Rollins, era fondamentale. Se si avevano sedici-diciotto anni tra la fine della seconda guerra mondiale, 1945, e il lento cammino dalla ricostruzione verso il miracolo economico, il jazz e naturalmente le canzoni made in Usa erano la colonna sonora di quelle generazioni. 68 giri di cera, 45 di plastica, long playing.
Il secondo luogo l’università. Ovunque.
Napoli, Roma, Bologna, Milano, Torino. Era l’università della goliardia. Non più quella del fascismo e dei guf, cus, cut, cuc, ovvero dei gruppi  in cui erano inquadrati i giovani studenti: gruppi universitari fascisti, centro universitario sportivo, centro universitario teatrale, cinematografico e così via, tutti fascisti. Era, quella degli anni del jazz, di Glenn Miller, e dei film americani arrivati in bastimenti dopo l’embargo bellico, una goliardia democratica, per così dire, in cui si misuravano le forze giovanili direttamente espressione dei partiti antifascisti o di organizzazioni cattoliche, o in misura minore della destra (che a poco a poco si farà notare).
La goliardia nuova aveva ereditato dal passato una leggerezza spesso risolta in scherzi pesanti a spese delle matricole ma comunque meno violenta, meno maschile o maschilista (le ragazze ne sapevano qualcosa). Una leggerezza che era l’altra faccia dello studio dei secchioni. Si accendevano le luci nel dancing Settimo cielo.

Voglio dire che i giovani come Renzo vivevano in un’epoca di poveri ma belli (il film di Dino Risi, da cui rubo il titolo piegandolo a spia del costume dell’epoca).  Ognuno con i suoi problemi. Il sesso in testa per esempio e le adunate in massa nelle case chiuse aperte a turbolenza ormonali. I casini, come si sa, chiusero nel 1958, e la generazione di Arbore approfittò fino all’ultimo giorno.
I giovani erano poveri, senza una lira in tasca, e in casa; erano belli perché gli italiani affamati, e vestiti in ordine, erano certamente più gradevoli di quelli calvi e in jeans dei tempi nostri, troppo simili a bodyguard.
Circolava tra quelle generazioni di fanciulli, neanche adolescenti, che la guerra aveva sfiorato con lutti e fame, ma non erano abbastanza grandi per averla vista o sentita, una irresistibile, potente voglia di giocare lontano dalle macerie e dalle lacrime. Voglia di sopravvissuti. Sopravvissuti. Senza drammi. La fortuna della inconsapevolezza (non colpevole).
La leggerezza partiva da qui, da una storia assaggiata. Si poteva innestare in un clarinetto (che diverrà spasso musical-erotico del Renzo adulto), nel gran  spettacolo del jazz, del rock, del cinema con i suoi divi. Si poteva riconoscere nei suoi comici − da Totò a Nino Taranto, da Aldo Fabrizi a Renato Rascel e a tanti altri. Una leggerezza che c’era dentro le persone e creava corti circuiti con le leggerezze della radio, del grande schermo, della rivista, dei concerti, dei festival di Sanremo.

Mi fermo qui. Propongo queste basi. Per andare avanti tutta, o almeno in buona parte. La parte che so o che voglio immaginare. Bisognerebbe studiarlo a fondo, lui e il suo lavoro, questo menestrello dal naso fine.
Arbore sa di appartenere alla leggerezza che è il suo partito libertario, scanzonato,  sa di esserne posseduto. La leggerezza trasformata in una fonte di incanti senza età e di stupori a getto continuo. Se la tiene stretta, vi attinge, rielabora, ne ha fatto e ne fa un prodotto sofisticato.
I voli di Renzo non sono mai bassi. Le ali puntano all’alto. Vanno e vengono. Ma non scendono mai veramente giù, troppo giù. Lo dimostra il gusto, direi addirittura il profondo piacere, che l’Arbore − a cui tutti tendono l’occhio e l’orecchio − mostra nel giocare con i doppi sensi, le analogie lievemente impertinenti (il clarinetto ma anche la chitarrina).
Il goliardo jazzrocknapulè è una delle poche ciambelle a cui afferrarsi nel mare del trash, del gossip, del glamour, del brand, del trend…
Arriva, canta o parla, parla o pazzeggia o cazzeggia (alto cazzeggio d’accademia della crusca d’humour). Se si ripete, fa lo stesso. Piace comunque. Dice quel che ha da dire e subito se ne va, senza insistere, senza tirarti per la giacca, senza farla lunga sulla tv di qualità, senza appellarsi ai capi o ai dirigenti.

L’ultimo goliardo. Verniciato di nuovo e di provvisorio. E dopo?
Una ciambella di salvataggio. Un uomo senza messaggio. Un artista che non è di passaggio. 
Un saggio. Che canta questi versi: «Lo diceva Neruda/ che di giorno si suda (ma la notte no)».
E certi giorni, come non preferire le notti?










© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it




 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013