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Paola Ventrone

Paola Ventrone, Simonetta Vespucci e le metamorfosi dell’immagine della donna nella Firenze dei primi Medici (II parte)

Data di pubblicazione su web 26/03/2008
copertina

4. La “ninfa”, ovvero l’idealizzazione neoplatonica della donna nella cultura degli anni Settanta-Ottanta: Albiera degli Albizi e Simonetta Cattaneo Vespucci.

I commenti di Alessandra e di Filippo Strozzi sulla Marietta e sulla Lucrezia testimoniano di come, ancora alla fine degli anni Sessanta, alla donna fosse concesso di rivestire il ruolo ancipite di ‘dama’, nella finzione cavalleresca, e di moglie o di fanciulla da marito, nella realtà del vivere quotidiano. Ciò nonostante, quando nel suo ruolo fittizio essa veniva a infrangere i limiti imposti dai mores fino ad allora condivisi da tutti i fiorentini, questa trasgressione non era subìta incondizionatamente dall’oligarchia cittadina più conservatrice, neppure quando era praticata dai più stretti componenti del clan mediceo. In altre parole: l’idealizzazione letteraria dei rapporti fra i due sessi, che era stata elaborata nella cerchia degli intellettuali e dei poeti laurenziani, non era sufficiente a rendere accettabili comportamenti considerati, di fatto, immorali, indipendentemente dalla provenienza sociale dei soggetti che li assumevano, perché quei comportamenti venivano, per allora, ancora notati e commentati in termini negativi.

La situazione mutò radicalmente, sul piano politico e culturale, a partire dal decennio successivo, che diede vita all’ultima metamorfosi femminile: dopo il passaggio da “donna” a “dama”, quello definitivo da “dama” a “ninfa”. Questa trasformazione costituì l’esito più appariscente dell’affermarsi del neoplatonismo non più soltanto come corrente filosofica professata da pochi dotti, ma come linguaggio entrato a far parte della vita quotidiana del ristretto gruppo di eletti raccolti attorno a Lorenzo de’ Medici, per i quali esso costituiva sia uno strumento di conoscenza e di approccio alla vita stessa e alla sua trasfigurazione ultraterrena, sia un codice e un linguaggio di distinzione rispetto a quanti quella linea di pensiero non professavano o condividevano. Il simbolo, sia letterario che figurativo, di quella nuova maniera di vivere il neoplatonismo fu, appunto, la figura della ninfa, della donna ideale la cui fisionomia doveva rappresentare metafisicamente, ma non incarnare concretamente, i contenuti trascendenti di quella filosofia.

Il percorso compiuto nella costruzione della figura della ninfa, in termini non solo antiquari e artistici ma soprattutto filosofici, si può rintracciare, a mio avviso, in una sua iniziale elaborazione letteraria – che sarebbe stata ben presto visualizzata dalla pittura allegorica del Botticelli –, seguendone i progressivi tentativi di definizione in alcune immagini femminili che portarono alla finale e definitiva elezione di Simonetta Vespucci quale modello eccellente di bellezza neoplatonica. La filiera dei gradi di questa costruzione va collocata, ai suoi esordi, nel biennio 1473-74. Sono gli anni nei quali Lorenzo, avendo superato la prima e difficile fase di insediamento alla guida di Firenze come erede del padre Piero, e brillantemente, se pur assai duramente, risolto la delicata situazione della rivolta di Volterra nel ’72 – dalla quale, d’altro canto, trasse un notevole prestigio personale e un rafforzamento della sua egemonia politica –[42], credette di poter finalmente dedicare più tempo allo studio e alle lettere, che sempre rimanevano uno dei suoi interessi più cari, se non il principale[43]. In questo torno di tempo, che vide il Magnifico da un lato impostare la sua nuova veste di “principe civile”[44] poeta e filosofo con l’inizio della composizione del Comento de’ miei  sonetti, dall’altro consolidare il sodalizio politico-culturale con Marsilio Ficino[45], e infine accogliere il giovanissimo Poliziano nella sua casa come suo segretario personale alla fine del 1473, una nuova figura femminile ispirò la penna degli intellettuali di regime: Albiera degli Albizzi.

La fanciulla, fidanzata con il patrizio Sigismondo Lotteringhi della Stufa[46], morì quindicenne di polmonite il 14 luglio 1473, dopo essersi distinta nel ballo organizzato in onore di Eleonora d’Aragona per il suo passaggio a Firenze. Su questa morte, che aveva suscitato grande commozione in tutta la città, si era sviluppato una sorta di certame letterario[47], al quale Poliziano aveva partecipato con un eruditissimo epicedio In Albieram Albitiam, puellam formosissimam, morientem, dedicato allo sposo promesso, anticipando alcuni dei temi di lì a breve sviluppati anche nella Fabula di Orpheo. Fra questi, ciò che qui interessa è la definizione di un modello femminile che, pur collocato in un contesto ormai consueto ai costumi della repubblica fiorentina, quello della cerimonialità di accoglienza degli ospiti illustri, si differenzia significativamente dal prototipo oligarchico rappresentato da Alessandra de’ Bardi, per assumere le fattezze di una ninfa dai tratti idealizzati. Eccone il ritratto:

Candor erat dulci suffusus sanguine, qualem
alba ferunt rubris lilia mixta rosis.
Ut nitidum laeti radiabant sideus ocelli,
saepe Amor accensas rettulit inde faces.
Solverat effuses quoties sine lege capillos,
infesta est trepidis visa Diana feris;
sive iterum adductos fulvum collegit in aurum,
compta Cytheriaco est pectine visa Venus.
Usque illam parvi furtim componere Amores
sunt soliti et facili Gratia blanda manu,
atque honor et teneri iam cana modestia vultus,
et decor, et probitas, purpureusque pudor,
casta fides, risusque hilaris, Moresque pudici,

incessusque decensa, nudaque simplicitas[48].

Rispetto alla sovra esposizione dei concreti atteggiamenti di Marietta degli Strozzi e di Lucrezia Donati Ardinghelli, il profilo che, di Albiera, disegna il Poliziano sembra volutamente rifarsi alla modestia, al pudore, al decoro dei costumi che erano stati propri della donna ai tempi del comune oligarchico – e che abbiamo per l’appunto esemplificato nella persona di Alessandra de’ Bardi –, come a voler differenziare Albiera dagli esempi femminili di cui si era parlato in città, forse fin troppo, negli anni giovanili di Lorenzo. Tuttavia su questo tessuto che ancora aderisce ai mores, si tratteggia e si sovrappone una descrizione estetica ben diversa dalla generica convenzionalità degli apprezzamenti riservati dai poeti alle fanciulle e alle donne fin qui nominate. In questo caso, infatti, vengono sottolineati dettagli intesi a mettere a fuoco un prototipo di bellezza muliebre, a un tempo filosofico e all’antica, destinato a imporsi nella cultura letteraria e figurativa fiorentina negli anni a seguire.

Il senhal di questo nuovo modello è duplice: sul piano filosofico sono gli occhi luminosi come stelle, che alludono all’intelligenza della mente e alla purezza del cuore; su quello antiquario è il fluttuare delle chiome sciolte sulle spalle ad assecondare l’armonico movimento del corpo che, in termini figurativi, verrà ulteriormente rafforzato dall’ondeggiare delle vesti al vento: elementi, questi, già riconosciuti da Aby Warburg, come indizi dell’abbandono dello stile “alla franzese” a favore del recupero del pathos all’antica, o, per dirla con le sue stesse parole, della liberazione della «farfalla antica […] dalla larva burgundia»[49].

Quella individuata dallo studioso tedesco non era, però, una questione solamente stilistica, ma una trasformazione nella mentalità delle élites culturali italiane che ebbe nella Firenze laurenziana di questi anni il suo principale centro di elaborazione e di irradiazione. La concezione ficiniana di una lettura cristiana dei miti classici e della necessità di velare sotto una coltre ermetica le verità filosofiche destinate ad essere comprese da pochi eletti, unitamente alla messe di fonti via via rese disponibili dalle pazienti ricerche e dai commenti degli umanisti, avevano infatti spianato la strada alla costruzione di enigmatiche allegorie dipinte che usavano proprio l’involucro delle fabulae antiche per celare insegnamenti morali e allusioni propiziatorie. L’ovvio riferimento è, e non potrebbe non esserlo, alle tavole botticelliane della cosiddetta Primavera[50], della Nascita di Venere, di Pallade e il Centauro, (fig. 6, fig. 7, fig. 8) che entrarono a far parte dell’arredamento domestico dei patrizi fiorentini, accanto alle tavole religiose, come costante strumento di ripensamento e di sollecitazione filosofica, morale e pedagogica, agevolato dalla forte incisività dell’immagine pittorica, e, nel contempo, come segno di distinzione fra “intendenti”, fra coloro, cioè, i quali si riconoscevano reciprocamente nel possesso della sapienza necessaria a decrittare i geroglifici di quei manifesti culturali iniziatici.

Questa trasformazione culturale squisitamente elitaria, elaborata all’interno della cerchia laurenziana, ebbe un significato eminentemente politico, in quanto introdusse uno scollamento fra il linguaggio reale dei cittadini fiorentini e quello ideale dei loro governanti, che, di fatto, incrinò la pur difforme unità culturale ereditata dal Comune oligarchico più di tanti provvedimenti legislativi filomedicei: e di questa frattura la bella Vespuccia divenne, appunto, l’icona.

La consacrazione della bellezza ideale nel volto etereo di Simonetta fu il frutto – originale a mio avviso – dell’incontro fra le due personalità del Poliziano e del Botticelli «Lauri sub umbra». La messa a punto dei particolari di questa icona si dipana attraverso una serie di approssimazioni che, di volta in volta, e talvolta in parallelo, si svilupparono tanto sul piano letterario quanto su quello figurativo, in un continuo trascolorare di suggestioni che, in questa sede, si potranno solo suggerire attraverso pochi esempi indicativi. Un ulteriore tassello di definizione del modello di ideale bellezza neoplatonica andrà, ad esempio, riconosciuto nella Euridice della Fabula di Orpheo, composta tra la fine del 1473 e l’inizio del 1474[51], e perciò perfettamente in linea con il crinale culturale che fa da sfondo alle osservazioni che vengo conducendo. Il dramma sviluppava, in termini spregiudicatamente innovativi dal punto di vista drammaturgico, un motivo filosofico ricorrente nelle speculazioni di quegli anni e di quelli immediatamente successivi: quello della ineludibile necessità, per il sapiente, del passaggio dalla vita attiva alla vita contemplativa. Così Lorenzo descriveva questo itinerarium mentis in Deum nell’“Argumento” del suo Comento, prendendo a esempio proprio il mito di Orfeo: «E arebbe Orfeo tratto Euridice dello inferno e condottola tra quelli che vivono, se non fussi rivoltosi verso lo inferno: che si può interpetrare Orfeo non essere veramente morto, e per questo non essere agiunto alla perfezzione della felicità sua, di avere la sua cara Euridice. E però il principio della vita vera è la morte della vita non vera»[52].

Così il Poliziano stilizza la ninfa, con rapidissimi cenni, attraverso le parole del pastorello Tyrsi:

Ma io ho vista una gentil donzella
che va cogliendo fiori intorno al monte.
I’  non credo che Vener sia più bella,
più dolce in acto o più superba in fronte:
e parla e canta in sì dolce favella
che i fiumi isvolgerebbe inverso il fonte;
di neve e rose ha ’l volto e d’or la testa,
tutta soletta e sotto bianca vesta[53].


Nella descrizione di Euridice il poeta aggiunge, dunque, un altro dettaglio alla definizione della bellezza ideale: quello della veste bianca, simbolo ovviamente di purezza, che completa l’incarnato candido e rosato e la lunga chioma dorata già appartenuti ad Albiera. Ma sul piano letterario la ninfa – e in particolare l’immagine in movimento della ninfa in fuga descritta nel dramma poche stanze più avanti [54] –, non era certamente una creazione originale del Poliziano, se la troviamo già nel boccacciano Ninfale fiesolano (ottave C e CIX) e poi nella laurenziana Ambra (ottave 27-28) per fare solo due dei molti esempi possibili[55]. Nella poesia di questi anni, tuttavia, essa diventa l’incarnazione di un’ideale femminile non più legato a sentimenti fisici e terreni, come quelli che pur sempre presiedevano alla idealizzazione cavalleresca, ma ad una concezione escatologica nella quale la donna è assurta a simbolo del superamento degli istinti bassamente umani e del raggiungimento dello stato di grazia contemplativo: l’intelletto che doma i sensi, come mirabilmente sintetizza la Pallade botticelliana che ammansisce il Centauro.

Allo stesso modo in cui già prima degli anni Settanta la letteratura fiorentina aveva visto comparire episodicamente la figura della ninfa, così anche nella pittura coeva, i motivi antiquari del recupero del movimento, dell’attenzione all’anatomia dei corpi, del fluttuare arioso dei capelli, non furono una trovata originale del Botticelli, perché erano già stati ampiamente sperimentati da un Antonio del Pollaiuolo e da un Verrocchio (fig. 9, fig. 10), ma la pienezza semantica e simbolica della ninfa, ossia quest’ultima metamorfosi della donna, si verificò soltanto nel momento in cui il linguaggio filosofico, quello letterario e quello figurativo si fusero insieme per attribuire a quel simbolo il medesimo significato e la medesima funzione iniziatica.

L’occasione fu la giostra combattuta da Giuliano il 29 gennaio 1475. La persona che diede un volto a quell’ideale femminile fu Simonetta Vespucci, alla quale il giovane Medici promise prima e dedicò poi la sua vittoria. Gli autori della creazione di questo fortunatissimo mito iconico furono Poliziano, che trasfigurò la giovane nei versi delle Stanze, Botticelli che ne disegnò il ritratto idealizzato, primo di una lunga serie, sullo stendardo del suo cavaliere, e Lorenzo de’ Medici, che ne fece, post mortem, la propria guida verso la conquista della vita contemplativa con il Comento e con i sonetti a lei dedicati.

Ho già avuto modo, in altra sede[56], di porre in rilievo come fin dalla giostra combattuta da Lorenzo nel ’69 si fosse manifestato un divario tra il piano reale, tradizionalmente cittadino, dell’avvenimento e quello ideale delle sovrastrutture ideologiche ad esso sovrapposte, e di come in quella del fratello minore la complessità dei gradi di lettura avesse assunto toni ancor più stratificati e criptici rispetto alla precedente. Il primo livello infatti, quello fenomenologico dell’evento, si ferma a cogliere soltanto la concretezza esteriore del ludo equestre giuliano, esibita dallo sfarzo degli abbigliamenti da “pompa”, dei gioielli e delle armi, attraverso le descrizioni dei contemporanei e i numerosi componimenti encomiastici. Nel resoconto di uno spettatore comune, infatti, la giostra del ’75, fatta salva l’entità inusuale della ricchezza profusa, non sembra dissimile dalle tante altre che si erano giocate a Firenze nel corso del Quattrocento:

Domenica a dì 29 di gennaio in Firenze fecesi il dì doppo desinare una magnifica giostra come s’era ordinata. Furono, tra forestieri e terrazzani, circa 20 giostranti ed entrarono in campo molto magnificamente; e, tra gli altri, Giuliano de’ Medici entrò con gran trionfo, che si stimò che tra egli e i suoi compagni avessino d’adornamenti di perle e gioie il valsente di più di 60.000 ducati, e furonci degli altri ancora con grande apparato. Ebbe il primo onore Giuliano de’ Medici, e meritamente. El secondo onore ebbe Jacopo Pitti. Durò sino a ore 23. Fucci grandissimo popolo[57].

Un secondo grado di lettura, percepibile in un raggio più limitato e intimo di ricezione, fu invece affidato all’intersezione fra il messaggio delle Stanze e quello dello stendardo botticelliano portato in campo dal cavaliere[58]: il poemetto celebrativo del Poliziano, come già aveva fatto il Pulci con la Giostra di Lorenzo, poneva ad antefatto del combattimento di Giuliano l’innamoramento del giovane per la bella Simonetta Cattaneo, moglie del mediceo Marco Vespucci, alla quale alludeva la casta simbologia del vessillo[59]:

Nella sonmità era un sole et nel meço di questo stendardo era una figura grande simigliata a Pallas, vestita d’una veste d’oro fine infino a meço le gambe, et disocto una veste biancha onbreggiata d’oro macinato et uno paio di stivaletti açurri in gamba; la quale teneva i pie’ in su due fiamme di fuocho, et delle decte fiamme usciva fiamme che ardevano rami d’ulivo che erano dal meço in giù dello stendardo, che dal meço in su erano rami sença fuocho. Haveva in capo una celata brunita all’antica e’ suoi capelli tucti atrecciati che ventolavano. Teneva decta Pallas nella mano diricta una lancia da giostra e nella mano mancha lo scudo di Medusa; et apresso a decta figura un prato adorno di fiori di varij colori che n’usciva uno ceppo d’ulivo con uno ramo grande, al quale era legato uno dio d’amore cum le mani dirieto cum cordoni d’oro, et a’ piedi aveva archo, turcasso et saecte rotte. Era conmesso sul ramo d’ulivo, dove stava legato lo dio d’amore, uno brieve di lectere alla françese d’oro che dicevano “la sans par”. La sopradecta Pallas guardava fisamente nel sole ch’era sopra a.llei[60].

Come nel ’69, anche in questa occasione la cifra esteriormente predominante nella simbologia dell’impresa era stata quella cavalleresca di ascendenza settentrionale, che riproponeva l’uso di un motto francese a spiegazione dell’immagine raffigurata nello stendardo. Il significato dell’emblema, nei termini del linguaggio cortese, doveva alludere alla purezza dell’amore di Giuliano per Simonetta che, essendo maritata, non avrebbe potuto corrispondere a sentimenti di altra natura; ella infatti, raffigurata nelle vesti di Pallade e protetta nella sua castità da una corazza e da armi all’antica, distoglie lo sguardo dallo sconfitto Cupido per rivolgerlo al sole della gloria, mentre posa i piedi su un fascio di bronconi di ulivo ardenti ad indicare l’eterno rinnovarsi della gloria conquistata: il motto «la sans par» ne definisce l’incomparabile virtù.

Benché appartenente ad un gusto per l’emblematica che le brigate quattrocentesche avevano reso ormai consueto, questa impresa rimase alquanto oscura per i contemporanei, che faticarono a coglierne anche il senso più evidente se, come scriveva l’umanista Giovanni Aurelio Augurelli in un epigramma celebrativo dell’occasione, le interpretazioni avanzate furono molteplici e tutte fra loro discordanti[61]. Proprio la sua inintelligibilità servirà, perciò, a introdurre al terzo livello di lettura. Il soggetto iconografico doveva essere stato suggerito dal Poliziano, come conferma la non casuale coincidenza con alcuni passi delle Stanze, e, difatti, quest’ultimo grado di comprensione, ancora più sfumato ed esclusivo del precedente, fu interamente affidato al contenuto del poemetto, anzi, pertiene più alla versione trasfigurata che esso offre della giostra che all’avvenimento stesso.

L’operetta polizianea, rimasta, come è noto, incompiuta in seguito alla morte di Giuliano nella congiura dei Pazzi, si discosta, almeno nella parte pervenutaci, dai cliché narrativi di questo genere encomiastico, non solo perché vi è del tutto omessa la descrizione del combattimento, ma perché mancano anche i resoconti sui preparativi della lizza e sulla mostra dei cavalieri, elementi che, delle altre scritture di questo tipo, costituiscono invece la sostanza stessa. Nelle 171 ottave delle Stanze è, infatti, narrata in forma allegorica l’iniziazione di Iulio/Giuliano alle consapevoli responsabilità dell’età matura: durante una battuta di caccia nei boschi il giovane, devoto a Diana perché non ancora provato dal sentimento amoroso, si lancia all’inseguimento di una cerva. Proprio sul punto di essere catturato l’animale scompare lasciando il posto ad una splendida ninfa, esplicitamente identificata con Simonetta Vespucci, della quale Iulio subito s’innamora. Colpito dagli strali di Cupido, responsabile dell’incontro, il giovane apprende che il suo sentimento per la fanciulla non potrà che essere ideale e casto, essendo lei già maritata, cosicché, vinto da Amore, è costretto ad ingaggiare una battaglia nel suo intimo per vincere Amore stesso, un certame che avrà come esito finale l’abbandono della vita attiva a favore della vita contemplativa.

Il significato di questa allegoria, per riprendere l’interpretazione datane da Mario Martelli, si configura quindi così: «per l’intervento della divina misericordia, Iulio […] viene avviato alla difficile e dolorosa strada della perfezione, che, dalla cerva dei sensi, lo conduce alla Simonetta delle virtù civili: mentre in prospettiva si delinea il regno di Venere, che, trasposizione classica del cristiano paradiso terrestre, simboleggia la forma più alta di vita, quella contemplativa»[62]. Allineandosi alla concezione, platonica e ficiniana, dell’amore contemplativo inteso quale massima conquista intellettuale del sapiente, la giostra di Giuliano veniva il tal modo ad assumere, nella simbologia dello stendardo interpretata alla luce delle Stanze polizianee, i caratteri di una psicomachia nella quale, come nella botticelliana Pallade e il Centauro, l’intelletto stabiliva il suo completo controllo sui sensi.

Essendo Giuliano il figlio cadetto di Piero de’ Medici, non aveva bisogno di investitura politica, come era stato per il fratello maggiore, perciò la sua iniziazione cavalleresca servì a rendere pubblico il cambiamento dei gusti culturali che stava avvenendo nella cerchia degli intellettuali e degli artisti raccolti attorno alla famiglia egemone e a mostrare all’oligarchia di opposizione che il vecchio linguaggio cavalleresco e romanzo, condiviso fino ad allora non solo dal patriziato ma anche dalla maggioranza dei fiorentini indipendentemente dall’estrazione sociale, era ormai considerato superato dal nuovo ceto dirigente, tutto proteso a riconoscersi nella filosofia ficiniana e nella riscoperta dell’antico.

Non fu, dunque, la particolare bellezza di Simonetta a conferirle lo statuto di icona neoplatonica. Se, infatti, escludendo quelli idealizzati in veste di ninfa, si allineano in un’ipotetica galleria i ritratti a lei assegnati, ad esempio il busto in marmo attribuito al Verrocchio, o il dipinto in figura di Cleopatra di Piero di Cosimo (fig. 15 e fig. 1), o la serie delle tavole botticelliane (fig. 16, fig. 17, fig. 18, fig. 19), insieme a quelli di altre donne dell’epoca, dalla Marietta e dalle altre dame ignote scolpite da Desiderio da Settignano e dal Verrocchio (fig. 20 e fig. 21), alla Esmeralda Brandini del Botticelli (fig. 22), o, ancora, alla straordinaria varietà di volti raffigurati dal Ghirlandaio sulle pareti della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella (fig. 23, fig. 24), basta un solo sguardo per constatare che il suo viso non presenta tratti così eccellenti rispetto a quelli delle altre fanciulle. Tutte offrono un’immagine femminile raffinatamente domestica, un’avvenenza sorvegliata, nelle acconciature come nelle espressioni, in una sostanziale interscambiabilità che renderebbe difficile anche a Paride assegnare il famoso pomo.

Ciò che fece di Simonetta “la sans par” fu la rapidità della successione degli avvenimenti che la videro, probabilmente suo malgrado, protagonista, dalla idealizzazione iniziatica della giostra alla morte improvvisa poco più di un anno dopo, che ne proiettò l’acerba immagine in un mondo ultraterreno privandola della consistenza umana e della sua stessa personalità. Paradossalmente, potremmo dire che Simonetta diventò un’icona proprio per l’inconsistenza della sua persona reale, e non è un caso che le notizie biografiche su di lei siano così scarse: perfetta per essere solo la rappresentazione di un’idea platonica.

Una conferma di quanto vengo affermando deriva, ad esempio, dal contrasto tra la pudica riservatezza della breve vita fiorentina della bella Vespuccia, e la sua ridondante visibilità postuma. Prima della giostra di Giuliano, infatti, nessuna sua presenza pubblica è ricordata dai documenti o dalle cronache, nessuna festa in suo onore, nulla che possa lontanamente riecheggiare i passatempi esibiti dalla precedente coppia medicea Lorenzo-Lucrezia: neppure del matrimonio con Marco Vespucci rimane qualche traccia. Al contrario, il suo volto, idealizzato a partire dallo stendardo del ’75, rimbalzò come un’ossessione nella pittura del Botticelli, prestando i lineamenti di volta in volta a Veneri, Palladi, allegorie femminili, Madonne (fig. 25), fino alla Beatrice dei disegni per la Commedia dantesca (fig. 26), con una resistenza iconica che, essendo giunta fino a noi, ha superato di gran lunga le speculazioni filosofico-letterarie che avevano generato l’immagine: una breve meteora nella Firenze laurenziana degli anni Settanta.


[I parte]


[42] M. Martelli, Il sacco di Volterra e la letteratura contemporanea: storia di un’operazione di politica culturale, «Rassegna volterrana», LXX (1994), pp. 187-214.

[43] Per questa periodizzazione concordo con Martelli, Studi laurenziani cit., pp. 179-190.

44] P. Larivaille, Nifo, Machiavelli, principato civile, «Interpres», IX (1989), pp. 150-195.

[45] Per il complesso rapporto fra Lorenzo e Ficino, cfr. Martelli, La cultura letteraria cit., pp. 51-62.

[46] Su questo amico del giovane Lorenzo cfr. Rochon, La jeunesse de Laurent de Médicis cit., pp. 90-93.

[47] F. Pattetta, Una raccolta manoscritta di versi e prose in morte di Albiera degli Albizzi, «Atti della R. Accademia della Scienza di Torino», LIII (1917-18), pp. 290-294, 310-328.

[48] Agnolo Poliziano, In Albieram Albitiam puellam formosissimam, morientem. Ad Sismundum Stupham eius sponsum, in Michele Marullo, Poliziano, Iacopo Sannazaro, Poesie latine, a cura di F. Arnaldi e L. Gualdo Rosa, Torino 1976, vv. 29-42, p. 90 (trad. a p. 91: «Il suo colorito era candido e soffuso di lieve rossore, come bianchi gigli misti a rose rosse. Gli occhi sorridevano, brillando come stelle lucenti; spesso Amore accendeva le sue fiaccole al loro fuoco. Ogni volta che lasciava sciolti e liberi i suoi capelli, assomigliava a Diana, nemica delle timide fiere; e quando di nuovo li raccoglieva in un nodo dorato, sembrava Venere pettinata dal pettine di Citera. Anche gli Amorini solevano adornarla furtivi, e con essa le dolci Grazie, con mani affettuose; l’adornavano la fama, la modestia, superiore all’età del suo giovane volto, la dignità, l’onore e il rossore pudico, la casta fedeltà, il riso spontaneo, i buoni costumi, l’andatura signorile, la schietta semplicità»).

[49] Warburg, Delle «imprese amorose» cit., p. 189.

[50] Si veda, infatti, la nuova convincente interpretazione del dipinto secondo la quale esso raffigurerebbe le Nozze di Filologia e Mercurio, vicenda allegorica narrata dal retore africano Marziano Capella, nel V secolo dopo Cristo: G. Reale, E. Sgarbi, Le nozze nascoste o la “Primavera” di Sandro Botticelli, Milano 2007.

[51] Ho avanzato l’ipotesi di questa datazione in P. Ventrone, "Philosophia. Involucra fabularum": la "Fabula di Orpheo" di Angelo Poliziano, «Comunicazioni sociali», XIX (1997), n. 2, pp. 137-180: 160-163, con bibliografia.

[52] Lorenzo de’ Medici, Comento de’ miei sonetti, in Idem, Opere, a cura di T. Zanato, Torino 1992, p. 591 [14-16]. Sul rapporto fra questo passo del Comento e la Fabula si veda Martelli, Angelo Poliziano cit., pp. 85-97.

[53] Cito dall’edizione di Tissoni Benvenuti, L'Orfeo del Poliziano cit., vv. 104-111, p. 146.

[54] Ivi, vv. 128-140, p.148.

[55] Esempi che riprendo da A. Warburg, La «Nascita di Venere» e la «Primavera» di Sandro Botticelli, in Idem, La rinascita del paganesimo antico cit., pp. 1-59: 36-37.

[56] Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Ma­gnifico, saggio introduttivo del cat. “Le tems revient” cit., pp. 21-53, e le sezioni 3. La giostra “romanza” di Lorenzo nel 1469; e 4. La giostra “classica” di Giuliano nel 1475.

[57] Ser Giusto Giusti D’Anghiari, I Giornali (1437-1482), a cura di N. Newbigin, «Letteratura italiana antica», III (2002), pp. 41-246: p. 184.

[58] Riscontri iconografici dello stendardo, tutti raffiguranti Pallade-Simonetta, sono: un disegno attribuito al Filipepi, forse uno studio preparatorio (fig. 11); la tarsia conservata nel Palazzo Ducale di Urbino, di chiara derivazione botticelliana (fig. 12); l’arazzo eseguito per Gui de Beaudreuil, abate di Saint Martin aux Bois nel 1491, a tutt’oggi di proprietà dei discendenti del committente (fig. 13); e la xilografia inserita nell’edizione a stampa delle Stanze del Poliziano (fig. 14).

[59] R.M. Ruggieri, Letterati, poeti e pittori intorno alla giostra di Giuliano de’ Medici, «Rinascimento», X (1959), pp. 165-196; S. SETTIS, Citarea ‘su un’impresa di bronconi’, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXXIV (1971), pp. 135-177.

[60] Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Magliabechiano II.IV.324, c. 122v.

[61] Cfr. Angelo Poliziano, Stanze. Fabula di Orfeo, a cura di S. Carrai, Milano1988, p. 9.

[62] Martelli, Firenze cit., p. 55.


[I parte]




 

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