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Massimo Bertoldi

Massimo Bertoldi, Il manuale della riforma. Il Teatro comico di Carlo Goldoni

Data di pubblicazione su web 25/09/2007
Carlo Simoni e Patrizia Milani nel "Teatro comico" di Carlo Goldoni, regia di M. Bernardi (Teatro Stabile di Bolzano, stagione 2007-2008)

Il presente saggio sarà pubblicato nel Programma di sala di Carlo Goldoni, Teatro comico, regia di Marco Bernardi, Teatro Stabile di Bolzano, stagione 2007-2008.

 

 

Ecco un anno terribile per me, di cui non posso ricordarmi senza provare un brivido. Sedici commedie in tre atti, che dovevano occupare, ciascuna, secondo l’usanza italiana, due ore e mezzo di spettacolo. (Memorie, parte seconda, capitolo settimo)

Il 1750 per Carlo Goldoni fu un anno insidioso, rischioso, probabilmente tra i più importanti della carriera. Dagli esordi con Il buon padre e Pelarina del 1729-1730 alla Vedova scaltra del 1748, che sancì la svolta verso un teatro riformato, aveva sperimentato la commedia, la tragedia, la tragicommedia, l’intermezzo farsesco, il canovaccio, il libretto per melodrammi seri e giocosi. Ora, all’età di 43 anni, si trattava di concretizzare idee e progetti innovativi relativi al ruolo dello scrittore, al mestiere dell’attore e alla funzione dell’opera teatrale, concepiti in modo anche disordinato nel lungo periodo formativo. Il salto di qualità verso il professionismo maturò gradualmente, e iniziò con la nomina a direttore del teatro d’opera di San Grisostomo, per il quale compose tragicommedie, intermezzi e drammi giocosi. Nella stagione 1738-39 venne rappresentato al San Samuele Momolo cortesan, cui seguì Il mercante fallito. Questi testi sono canovacci, con la sola parte del protagonista interamente scritta e gli altri ruoli affidati all’improvvisazione, modellati sulle caratteristiche degli attori principali della compagnia Imer, tra i quali spiccava Antonio Sacchi, celebre Arlecchino, accompagnato dalla moglie, abile “Amorosa”, e dalla sorella nel ruolo della Servetta.

Nel 1743 Goldoni completò La donna di garbo, primo esperimento di commedia interamente scritta e pensata su misura di Anna Baccherini, nota attrice che morì improvvisamente. La rappresentazione venne annullata e, per motivi famigliari, l’autore si trasferì a Bologna, poi a Rimini e dal 1744 al 1748 a Pisa. L’ingresso nel circolo dei pastori arcadi con il nome di Polisseno Fegejo, oltre a costituire un riconoscimento del talento letterario, permise un utile confronto con le idee della riforma arcadica. Nel 1745 Sacchi richiese dei soggetti e per lui Goldoni compose Il servitore di due padroni, in una versione diversa da quella nota, e nel 1746 lo scenario Il figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato. Un altro famoso attore, il Pantalone Cesare Darbes lo contattò per un nuovo testo, Tonin Bellagrazia, poi intitolato Il Frappatore, cui seguì nel 1747, sempre per lo stesso, I due gemelli veneziani. Fu il Darbes nell’autunno dello stesso anno a mettere il drammaturgo in contatto con il romano Gerolamo Medebach, un capocomico alla guida di un gruppo così descritto nelle Memorie:

Era chiamata la compagnia dei saltimbanchi, e le insinuazioni erano tanto più perfide, perché erano fondate su qualche principio di verità. La signora Medebac era figlia di un ballerino da corda. Il Brighella, suo zio, aveva fatto il pagliaccio, e il Pantalone aveva sposato la cognata del capo di questi funamboli. Questa famiglia, tuttavia, per quanto allevata in un ambiente pericoloso e screditato, viveva nella massima morigeratezza, e non andava esente da una buona istruzione e da una buona educazione.

Per Goldoni, Medebach risultò un personaggio decisivo. Questi aveva bisogno di un repertorio adeguato alle esigenze della compagnia, e soprattutto in grado di conquistare quel successo e quella fetta di mercato necessario per spezzare il monopolio detenuto dai teatri San Samuele e San Luca. Lo scrittore in cerca di compagnia incontrò al momento giusto il capocomico in cerca d’autore. Fra i due si stipulò un patto, dal 1748 al 1753, che prevedeva l’affitto del teatro Sant’Angelo da parte del Medebach e l’impegno di Goldoni di fornire in esclusiva otto commedie e due opere l’anno, riadattamenti di vecchi scenari, e di seguire le prove della compagnia, a Venezia e fuori. Nel 1748 lasciò Pisa e definitivamente l’avvocatura, in autunno rientrò a Venezia. Finirono gli anni di apprendistato. Nel ruolo di poeta di compagnia, il drammaturgo avviò concretamente il progetto di riforma del teatro italiano, allora dominato dalla commedia dell’Arte, cioè il teatro delle maschere, dell’improvvisazione e del “recitare a soggetto”. Il genere rappresentava lo svago teatrale per eccellenza, forte di una tradizione radicata a partire dal XVI secolo.

I primi anni al Sant’Angelo furono poco incoraggianti. La compagnia faticava a trovare il giusto assetto espressivo e si affidò a vecchie commedie moralistiche come la Griselda oppure al recupero di testi collaudati come La donna di garbo. La proposta di una novità, Nerone nel dicembre 1748, fallì. Consensi accompagnarono la rappresentazione di due commedie intrise di elementi comici e tragici, L’uomo prudente e I due gemelli veneziani, che risollevarono le sorti e la credibilità di autore e attori ora pronti ad affrontare nel biennio 1748-1749 nuovi e impegnativi testi come La vedova scaltra, La putta onorata, La buona famiglia. La stagione 1749-1750 si concluse “in disagio”, come ricordò in modo piuttosto sbrigativo lo stesso Goldoni nel riferire la messinscena de L’erede fortunata, commedia in tre atti in prosa, “la quale cadde, come io avevo previsto”. Significativamente nelle Memorie dell’opera non si danno altre notizie. Il fallimento indusse la memoria letteraria alla rimozione. A complicare la situazione subentrò l’improvvisa partenza di Darbes, “eccellente Pantalone”, che si trasferì al servizio del re di Polonia.

La perdita era tanto più grave perché non si conoscevano soggetti capaci di sostituirlo; e, negli ultimi giorni di carnevale, ci toccò di vedere i palchi disdetti per il prossimo anno. (Memorie, parte seconda, capitolo sesto)

Fu scritturato il vicentino Antonio Mattiuzzi Collalto, attore di trentatre anni di “compagnie vaganti”, che recitava con disinvoltura con la maschera e all’occorrenza anche senza, possedeva una bella voce e una bella figura. Era un comico in transizione. Lo scrittore capì che il suo potenziale espressivo e il bagaglio tecnico potevano costituire un prezioso pezzo per i meccanismi della riforma “Mi affezionai a lui, me ne presi cura. Egli mi ascoltava con fiducia; e la sua docilità m’impegnava sempre più seriamente” (Memorie, parte seconda, capitolo settimo).

A questo punto scattò l’orgoglio di Goldoni, la determinazione a superare il rischio della paralisi sua e della compagnia con un ambizioso progetto, “sentendomi offeso dal cattivo umore del pubblico e avendo ancora la presunzione di valere qualche cosa”. Elaborò una abile strategia d’attesa alimentando un atteggiamento di curiosità verso un’impresa che aveva il sapore della sfida e del riscatto. Prima affidò, ad un’attrice di prestigio, Teodora Raffi Medebach, prima donna della compagnia, la declamazione di un sonetto in veneziano posto in conclusione della rappresentazione dell’Erede fortunata per annunciare che “s’impegnava a dare nell’anno successivo sedici commedie nuove” (Memorie, parte seconda, capitolo sesto). La stessa attrice ufficializzò in un passo del Teatro comico, dove figurò nel ruolo di Placida, le sedici commedie “tutte nuove, tutte di carattere, tutte scritte” e delle quali vengono elencati i titoli (I, 1). Siamo nel fatidico 1750, l’anno della svolta, del debutto della commedia preceduto di qualche mese dalla pubblicazione da parte dell’editore Bettinelli di Venezia di una selezione di testi teatrali, accompagnati da una prefazione in cui Goldoni si raccontò come scrittore, tracciò le caratteristiche della trama e dettò i principi fondamentali della sua poetica. Con questa operazione, moderna strategia autopromozionale tutta giocata sul nesso teatro-vita, sancì e ufficializzò il mestiere dello scrittore esclusivo di commedie, concepite per le potenzialità espressive dell’attore e le attese dell’opinione pubblica qualificata ed esigente che si identificava con le frange progressiste dell’aristocrazia e con la fascia media degli onorati mercanti. Il Teatro comico fu inserito nel secondo tomo Bettinelli stampato nel 1751 e poi comparve regolarmente in testa a molte altre edizioni settecentesche. Che si trattasse di un’opera particolare e molto importante per i progetti riformistici, Goldoni lo dichiarò nella Lettera dell’autore allo stampatore: “Il Teatro comico, piuttosto che una Commedia, è una Prefazione alle mie commedie”. Precisò inoltre che “s’io l’avessi avuta nel tempo” del primo volume Bettinelli, “l’avrei a tutte preferita” in quanto.

Io ho in essa palesemente notati tutti que’ difetti, che ho cercato di fuggire, e tutti que’ fondamenti sopra i quali ho stabilito il mio metodo nel comporre le Commedie. (…) Io non intesi perciò dare nuove regole altrui; ma solamente di far conoscere, che con lunghe osservazioni, e con essercizio continuo, son giunto ad aprirmi una via, da poter per essa camminare, non senza sicurezza; di che mi fa fede il gradimento che trovano fra gli spettatori le mie Commedie.

Nelle Memorie (parte seconda, capitolo settimo) puntualizzò che “negli annunci e negli affissi l’avevo chiamata commedia in tre atti, ma altro non era che una poetica in azione, divisa in tre parti”. Oltre ad essere manifesto programmatico della riforma, commedia di idee e di riflessioni sull’arte comica, l’opera fu concepita come lavoro drammatico finalizzato alla messinscena, come applicazione dei principi della riforma, affidata agli attori della compagnia del Sant’Angelo che mantennero il ruolo di loro abituale competenza, sulla falsariga della commedia in commedia seguita da Jean Baptiste Molière nelle Impromptu de Versailles del 1633, dove è sfruttato l’espediente metateatrale di portare in scena una compagnia durante le prove, e anticipando la formula dei Sei personaggi in cerca d’autore di Questa sera di recita a soggetto di Luigi Pirandello. Il capitolo delle Memorie, in cui Goldoni espone il contenuto del Teatro comico si conclude con un passo pungente:

Mi manca il tempo per rendere conto delle congratulazioni degli amici e della sorpresa dei nemici. Non si tratta di menar vanto dei miei disegni, ma di farne conoscere l’adempimento. (Memorie, parte seconda, capitolo settimo)

Nell’affermazione si respira il clima di tensioni e scontri che infiammavano la scena veneziana, agitata dallo stesso Goldoni a partire dalla rappresentazione de La vedova scaltra che diventò argomento di roventi polemiche alimentate dall’abate bresciano Pietro Chiari, personaggio eclettico diventato poeta comico della compagnia Sacchi al servizio dei teatri San Giovanni Grisostomo e San Samuele. Lo scontro Goldoni-Chiari, scaturito anche dalle leggi di mercato legate alla concorrenza tra i vari teatri, approfondì il dibattito sullo stato della commedia dell’Arte, dividendo pubblico e uomini di spettacolo in due fazioni contrapposte tra ‘conservatori’ di un genere ormai sclerotizzato e ‘riformatori’ che denunciavano l’inattualità di quelle forme convenzionali.

Due personaggi del Teatro comico delineano la situazione dal punto di vista dell’attore. Ecco le parole di Placida, prima donna della compagnia Medebach:

Se facciamo le commedie dell’Arte, vogliamo star bene. Il mondo è annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e gli uditori sanno cosa deve dir l’Arlecchino prima ch’egli apra la bocca. Per me, vi protesto, signor Orazio, che io pochissime commedie reciterò; sono invaghita del nuovo stile, e questo solo mi piace (I, 2).

Così si rivolge Tonino, Pantalone, al capocomico Orazio:

Caro sior Orazio, buttermo le burle da banda, e parlemo sul sodo. Le commedie de carattere le ha buttà sottosora el nostro mistier. Un povero commediante, cha ha fatto el so studio segondo l’arte, e che ha fatto l’uso de dir all’improvviso ben o mal quel che vien, trovandose in necessità de studiar, e de dover dir el premedità, se el gh’ha reputazion, bisogna, che el ghe pensa, bisogna, che el se sfadiga a studiar, e che el trema sempre ogni volta, che se fa una niova commedia, dubitando, o de no saverla quanto basta, o de no sostegnir el carattere come xè necessario. (I, 4)

Le battute a distanza dei due personaggi esprimono posizioni contrapposte in merito al progetto della riforma e ricalcano lo schema seguito da Goldoni nell’articolazione narrativa del testo. Placida e Tonino stanno infatti dialogando con Orazio, il quale anima, in una sorta di girandola di conversazioni individuali, un confronto con gli attori. Goldoni modellò l’identità dei vari protagonisti della commedia sulle caratteristiche reali degli attori della compagnia del Sant’ Angelo. Il capocomico ricalca il “carattere” dell’impresario quale fu Gerolamo Medebach nello svolgimento reale delle sue funzioni: uomo spesso irascibile, portavoce del nuovo teatro, grande risparmiatore, sostenitore convinto del “buon ordine della compagnia”. Teodora Raffi Medebach, prima donna con il nome di Placida, era moglie del capocomico e militava nella compagnia dal 1740. Era molto nota e apprezzata dal pubblico veneziano. Unanimemente era considerata la migliore attrice del suo tempo:

Nelle commedie all’improvviso riuscì spiritosa, e gran parlatrice aggiustata e concettosa. Motteggiatrice vivace qual’era, ogni comico la temeva sicuro di restar perdente nell’aringo delle scene. Bravissima recitante nelle cose studiate riuscì poi.

Il giudizio di Francesco Bartoli, nel disegnare il profilo di un’attrice in evoluzione artistica, lega con la dichiarazione di Placida nel Teatro comico a favore del “nuovo stile”. La prima donna riconosce che la ritrovata dignità del ruolo sociale e artistico dell’attrice è data dal superamento dei canoni dell’Arte.  La sua partecipazione alla “piccola farsa” de Il Padre rivale del figlio è accettata per una necessità della compagnia - la mancanza di “due parti serie, un uomo e una donna” -, ma soprattutto perché nel testo ha riconosciuto elementi nuovi, in quanto la commedia è “condotta bene, e si sentono ben maneggiati gli affetti.” Tonino, al quale compete nella farsa la parte di Pantalone, è Antonio Mattiuzzi, l’attore subentrato a Darbes, che nella realtà sta imparando il “nuovo stile”, vivendo dubbi e difficoltà. E’ la maschera in cui da sempre si identifica anche come uomo, riproducendo l’antica gestualità e usando il dialetto veneziano nella conversazione con Orazio. La difesa del vecchio sistema teatrale non è persuasiva, si consuma in un lamento, lo sfogo trapassa nella rassegnazione. Accettare i dettami della nuova commedia significa cambiare mentalità, affaticarsi a studiare il testo e aderire alla psicologia del personaggio. Se Tonino incarna il canto del cigno dell’attore dell’Arte, la giovane attrice Vittoria, considerata da Orazio “delle più diligenti”, si rapporta in modo diverso al suo personaggio, riconosce cioè una netta distinzione tra la finzione scenica, che la vede interprete della Servetta Colombina, e la dimensione della sua vita nella società (I, 5).

Caterina Landi, la seconda donna (Beatrice), il marito Luzio Landi (Lelio) e il bolognese Francesco Falchi (Florindo), con la moglie Vittoria Falchi (Eleonora), sono presenze consolidate. Mentre di Petronio (il Dottore), Gianni (Arlecchino), Vittoria (Colombina), non sono noti i nomi. Giuseppe Marliani, cognato di Medebach, che dopo l’impresario era il membro più importante della compagnia del Sant’Angelo era attore di grido nella scena veneziana. Nel Teatro comico è Anselmo, nel Padre rivale del figlio compre il ruolo di Brighella. In uno scambio di battute con Vittoria e Orazio sulla amministrazione del denaro guadagnato con il mestiere dell’attore, sostiene che “El comico pol aver tutte le virtù, fora una. […] L’economia” (I, 6). A queste parole Orazio reagisce con una certa durezza e rovescia l’affermazione, perché la mentalità del risparmiatore, sostiene, è connessa alla stessa arte comica, soggetta com’è ad “infinite peripezie”, poiché “l’utile è sempre incerto, e le disgrazie succedono facilmente”. Fa appello soprattutto alla necessità di riscatto dell’immagine spesso compromessa del comico, di una nuova etica e costume morale in grado di rendere l’attore un cittadino “onorato” e il suo impegno artistico riconosciuto nel consorzio civile. Anche il luogo comune del viaggio inteso come avventura, spasso e delizia viene bersagliato in uno scambio tra Placida e Caterina. “Spasso eh? Si mangia male, si dorme peggio, si patisce ora il caldo, e ora il freddo. Questo spasso lo lascerei pur volentieri” (I, 10).

Gianni, attore reclutato da poco per interpretare Arlecchino, manifesta come Tonino/Pantalone un atteggiamento di difesa del suo personaggio, esprime certa malizia e sottile polemica verso gli imperativi della pratica teatrale rinnovata (I, 8). La gradualità della riforma, per il momento, mantiene in vita un pilastro della tradizione e introduce un nuovo e distinto personaggio, il Suggeritore (III, 4), che compare di tanto in tanto sul palcoscenico offrendo un apporto importante nella concezione e costruzione del nuovo teatro: argina la precarietà della memoria ancora inesperta degli attori alle prese con un testo coerente e unitario, e questo provoca talvolta tensioni spigolose in modo particolare quando, simile ad un moderno direttore di scena, cerca di coordinare i ritmi, di dettare i tempi della prova. Significativo in merito è il battibecco con Tonino quasi in chiusura di commedia (III, 10) in cui chiede rispetto e riconoscimento, perché “se i commedianti si fanno onore, è a cagione della mia buona maniera di suggerire.”

Ritardi, interruzioni e complicazioni della troupe alle prese con la prova del Padre rivale del figlio sono provocati dagli arrivi di Lelio ed Eleonora, un poeta e una cantante entrambi mediocri e miserabili. Oltre ad imprimere sviluppo narrativo alla trama della commedia, la loro presenza permette ad Orazio, Placida ed Anselmo, di affrontare discorsi riformistici espliciti e coerenti, ma dimostra anche quanto la riforma sia ancora debole e contraddittoria all’interno della compagnia, poiché il poeta e la cantante provocano spesso negli attori momentanee ricadute nel vecchio stile, con il rischio di contaminazione della “peste” e delle “imposture” tecniche, artistiche e morali proprie del mondo dell’Arte. Lelio è uno scrittore di testi per la scena, i suoi soggetti “peccano del cattivo gusto dell’antica commedia italiana” (Memorie, parte seconda, capitolo settimo). E’ giovane, ha i modi del cicisbeo, ossequia le donne della compagnia allo scopo di affascinarle e averle come alleate. Con lui si apre una finestra che guarda il sistema teatrale in voga. Dichiara di possedere un ricco repertorio (I, 11), e a titolo dimostrativo legge il soggetto e un frammento di dialogo, che risulta di stampo seicentesco tanto da essere prontamente definito da Orazio “anticaglia, anticaglia”. In modo non dissimile si rapportano gli attori nei riguardi del canovaccio di Lelio. Ascoltano, si annoiano, e uno dopo l’altro lasciano il poeta solo sul palcoscenico. Il gesto è un chiaro rifiuto del “vecchio teatro”, considerato “corrotto” e “senza regola”. Alla debolezza della poetica di Lelio corrisponde via via un maggiore convincimento da parte degli attori dei mezzi espressivi postulati dalla riforma, ma ne esce rafforzata anche l’immagine creativa del drammaturgo Goldoni contrapposto ad un falso poeta di teatro moderno.

La stessa dinamica di contatto di Lelio con la compagnia caratterizza l’impatto di Eleonora, “una virtuosa di musica”, ovvero “un’attrice dell’opera che viene a offrire i suoi talenti” (Memorie, parte seconda, capitolo settimo). Condivide con il poeta l’appartenenza ad un linguaggio e uno stile performativo di tradizione seicentesca. Pure lei è alla ricerca di lavoro, ma il suo repertorio si rivela adatto agli inserti cantati del melodramma non alla commedia riformata.

E’ passato il tempo, signora mia, che la musica si teneva sotto i piedi l’arte comica. Adesso abbiamo anche noi il teatro pieno di nobiltà, e se prima venivano da voi per ammirare, e da noi per ridere; ora vengono da noi per godere la commedia, e da voi per la conversazione (II, 12).

Nella battuta Beatrice allude alla perdita di primato dell’opera in musica nella scena veneziana e il parallelo recupero del teatro comico, che comporta una nuova definizione artistica dell’attore di prosa e del cantante di melodramma. 

A questo punto le tipologie degli attori sono definite e connotate nelle loro diversità sospese tra conservazione dei canoni dell’Arte e superamento degli stessi. Ora si tratta di intervenire nel tessuto testuale del canovaccio, reintroducendo la figura dell’autore il quale, sorta di ombra alle spalle dell’attore, detta il comportamento scenico mediante il “premeditato” imparato a memoria. Questo passo Goldoni lo compie con l’escamotage della prova de Il padre rivale del figlio, la commedia, che la compagnia sta preparando in vista del debutto del giorno successivo. Colpisce la modestia, quasi banale, del contenuto. Lecito chiedersi il motivo della scelta, visto che l’ autore non ha offerto spiegazioni. La trama chiama in causa l’Erede fortunata, la commedia sonoramente fischiata mesi prima dal pubblico del Sant’Angelo. All’insuccesso Goldoni reagì ed escogitò una silenziosa e benevola vendetta: ne Il padre rivale del figlio riabilitò, in forma semplificata e capovolta, l’ Erede fortunata, con la quale condivide il tema centrale della rivalità amorosa tra padre (il vecchio mercante Pantalone) e figlio (Florindo) per conquistare la mano di Rosaura, la figlia del Dottore. L’anziano corteggiatore si reca a casa della ragazza, dove si trovava anche Florindo che in un dialogo con Rosaura mentre si era dimostrato timoroso del padre e aveva avvertito il pericolo e sollevato dubbi circa la fedeltà, prontamente respinti con durezza (“Mi credete voi tanto sciocca, che voglia consentire le nozze del signor Pantalone?” II, 4). Il ragazzo non affronta subito il padre, si nasconde, e perciò sente la dichiarazione e le proposte erotiche. Ad un certo punto Florindo irrompe in scena, Pantalone capisce che il figlio ha sentito tutto, allora cambia registro come destato da un sogno: si vergogna, confessa di essere stato “tropo debole, tropo facile, tropo matto”. Teme lo scandalo sociale. Impone a Florindo di lasciare la casa di Rosaura, che a sua volta si dispera.

In parallelo a questa vicenda amorosa si sviluppa quella relativa al matrimonio di Colombina. Appena apparsa (II, 7), la Servetta presenta la sua situazione di essere contesa tra Brighella, “troppo furbo”, e Arlecchino “troppo sciocco”. La rivalità tra i due pretendenti anima una divertente scena giocata sulla comicità dell’Arte (II, 8). Colombina, all’opposto di Rosaura che rischia di essere abbandonata da due, rifiuta i due corteggiatori dicendo loro di “impastarsi tutti due, facendo di due pazzi un savio”, e allora li sposerà entrambi.

Le prove de Il padre rivale del figlio riprendono nell’atto terzo. È il suggeritore a spronare Rosaura e il Dottore. Il lieto fine sembra raggiunto con l’imminente celebrazione del matrimonio tra i due giovani, testimoniato dall’invidiosa Colombina, ma sopraggiunge Pantalone, incredulo e sbigottito per quanto sta succedendo. Nega le precedenti affermazioni, vuole recuperare Rosaura. Il Dottore lo invita alla ragionevolezza, a compiere “un’azione eroica, da uomo onesto, da uomo savio, e prudente” (III, 10), affinché rinunci alla giovane. La risposta è positiva e malinconica. Lo sconfitto recupera la dignità di “omo d’onor” e abbandona la casa per non “viver continuamente all’inferno”. Esce di scena, cala il sipario sulla favola e il destino teatrale della vecchia maschera che si avvia al tramonto. Pantalone sarà riabilitato con abito nuovo nel Sior Todero brontolon e in altre figure paterne fino al Bourru bienfaisant, ultima commedia goldoniana scritta a Parigi.

Nell’impianto narrativo de Il teatro comico la prova de Il padre rivale del figlio rappresenta la maniera di recitare all’antica, secondo lo stile della commedia dell’Arte; nel programma della riforma diventa per gli attori un esercizio, un test, per verificare la validità del modulo sotteso alla commedia di carattere, che traspare, in forma chiarissima e per contrasto, quando gli interpreti svestono i costumi e ruoli di scena e vivono gli umori, tensioni e problematiche umane secondo la loro condizione professionale e personalità.  E’ significativo rivelare che i consigli e gli insegnamenti rivolti da Orazio ai suoi attori, oltre a correggere gli aspetti più degenerati della commedia dell’Arte, sono lezioni di drammaturgia riformata. Quando Brighella improvvisa battute allegoriche in rima (II, 9), il capocomico lo interrompe immediatamente e provoca un disappunto nella maschera che controbatte dicendo: “E pur quando le se fa, la zente sbate le man.” La replica risponde alla logica della commedia riformata, in quanto “il poeta queste cose non le ha scritte” e, inoltre, “la gente dotta non s’appaga di queste freddure”. E’ lo stesso problema che vive sotto forma di frustrazione anche Arlecchino, il quale si lamenta della piccola parte ne Il padre rivale del figlio (III,11). La risposta di Orazio assomiglia ad una pagina tratta da un manuale di recitazione. Spiega che anche “nelle piccole scene si distingue l’uomo di garbo” e che “l’Arlecchino deve parlare poco, ma a tempo”. A Brighella e Arlecchino viene negato un tratto cardine delle maschere, l’improvvisazione comica (“l’inverisimile”) finalizzata all’applauso e affermata la necessità “di bene allogarle, di sostenerle con merito nel loro carattere ridicolo anco a fronte del serio più lepido, e più grazioso” (II, 10).

La riforma dei personaggi ereditati dalla commedia dell’Arte, oltre che da motivi drammaturgici, è dettata dagli orientamenti e dalle attese degli spettatori goldoniani. A differenza dello spettatore della prima parte del Settecento, che “andava alla commedia solamente per ridere, e non voleva vedere altro che le maschere in scena”, quelli della seconda parte del secolo “godono le parole (…), e gustano la morale, e ridono dei sali, e dei frizzi, cavati dal serio medesimo”. In un altro discorso, Orazio indirizza la riflessione al pubblico italiano e inquadra il problema della riforma, della funzione comunicativa e pedagogica del linguaggio teatrale, nella prospettiva di un teatro nazionale.

I nostri italiani (…) vogliono che il carattere principale [della commedia] sia forte, originale e conosciuto, che quasi tutte le persone, che formano gli episodi siano altrettanti caratteri; che l’intreccio sia mediocremente fecondo di accidenti, e di novità. Vogliono la morale mescolata con sali, e colle facezie. Vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia. Vogliono infinite cose, che troppo lungo sarebbe dirle, e solamente, coll’uso, colla pratica, e con tempo si può arrivare a conoscerle, e ad eseguirle” (II, 3)

Goldoni conosceva per esperienza la varietà del pubblico e sapeva che “le commedie non hanno mai e mai non avranno l’applauso universale”. Bisognava trovare consensi nella “maggior parte”, in quanto, spiega Orazio, “ognuno che va alla commedia pensa in modo particolare, e così fa in lui vario effetto, secondo il suo modo di pensare”. Tuttavia, convocato come parte attiva e costruttiva della rappresentazione, lo spettatore deve modificare il proprio statuto comportamentale. “Taluni sputano dai palchi, e infastidiscono le persone”, altri parlano ad alta voce tanto che “bisogna sfiatarsi per farsi sentire, e non basta”, oppure sbadigliano (III, 9). Come l’attore e il commediografo, anche il pubblico è chiamato a riflettere su di sé, per diventare più “civile” e partecipare in modo diverso alla ricezione dello spettacolo, pur non rinunciando alla componente ludica e di intrattenimento. Goldoni invitava gli spettatori veneziani e italiani ad acquisire, insieme a lui e agli attori, una competenza culturale nuova e comune, che riconosceva il progressivo superamento della predilezione per le maschere e dell’affermazione della commedia di carattere. Alla maschera fissa subentrò la rappresentazione dell’uomo nella società, con la sua morale e virtù, le debolezze e i sentimenti positivi.

Scrisse Goldoni nella Prefazione dell’Autore alla prima raccolta delle commedie del 1750:”(…) I due libri sui quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito furono il Mondo e il Teatro”. Non si tratta di trasferire il “Mondo” a “Teatro”, bensì di ordinare, riformandolo, il Teatro affinché sia in grado di raccontare il Mondo, di rapportarsi alla realtà, in cui tutti gli spettatori si possono riconoscere. Puntualizzò ancora lo scrittore veneziano:

Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose e istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di argomenti curiosi, m’informa de’ correnti costumi,m’istruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni nel nostro secolo e nella nostra Nazione (…); e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi coi quali la Virtù a codeste corrutele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione.

A proposito del Teatro si legge:

(…) mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si deban rappresentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggon: come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendono grati agli occhi dilicati degli spettatori.  Imparo insomma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a desta la meraviglia, o il riso, e quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ‘l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo che non urti troppo offendendo

Riferendosi a Molière e ai suoi successori francesi, il drammaturgo veneziano propose al pubblico la commedia di carattere non per sostituire la commedia dell’Arte con un prodotto d’importazione, bensì per creare una nuova commedia nazionale sulla base di un innesto e di un intreccio unitario in cui anche i personaggi secondari partecipino come ‘caratteri’ allo sviluppo dell’azione. La commedia - spiega una maschera, Brighella - “l’è stada inventada per corregger i vizi, e metter in ridicolo i cattivi costumi, e quando le commedie dai antighi se faceva così, tuto el popolo decideva, perché vedendo la copia d’un carattere in scena, ognun trovava, o in se stesso, o in qualchedun’altro l’original” (II, 1).

Possiamo dire che Il teatro comico sviluppa un movimento continuo di trasformazioni verso la modernità delle forze portanti dello spettacolo, l‘organizzazione teatrale, il drammaturgo e il testo, l’attore e il pubblico, che si intrecciano e creano rapporti di interdipendenza. Oltre allo svolgimento della prova interrotta, ritardata e conclusa de Il padre rivale del figlio, si articola in parallelo la vicenda di Lelio ed Eleonora. Si è detto dell’iniziale rapporto difficile e conflittuale del poeta e della cantante con la compagnia dei comici di Orazio. Tuttavia i due vivono una trasformazione artistica e umana, una sorta di conversione, che porta all’integrazione nel gruppo. Lelio prima confessa ad Anselmo la sua miseria (“non ho denari”, II, 1), poi confida ad Eugenio che non mangia e non dorme da giorni (II, 12). Per la sua assimilazione al gruppo è decisivo l’invito a pranzare alla tavola di Ottavio al termine della prova mattutina, mentre l’accettazione svela il vero motivo della sua insistenza a farsi scritturare. Eleonora si fa invece scudo con il suo staffiere (“Io ho una fame, che non posso più”, II, 15) per sconfiggere gli ultimi sussulti del suo orgoglio. E’ consapevole che il momento conviviale significa rottura di una barriera culturale e avvio di un nuovo percorso artistico. Si interroga la cantante: “Mi lascerò persuadere a fare la comica? Mi regolerò secondo la tavola dei commedianti.” L’urgenza di trovare lavoro di Lelio ed Eleonora coincide con la necessità di Orazio di un Terzo Amoroso e una Terza Amorosa indispensabili per recitare le famose sedici commedie nuove di carattere. L’occasione per entrambi si presenta propizia. Serve la verifica delle loro abilità. Lelio recita una scena in versi con una certa abilità attorale (III, 2). Orazio apprezza (“Questo giovane ha del brio”, III, 3) e perciò lo scrittura. La prova di Eleonora, una scena della Didone bernesca “composta dal signor Lelio” (III, 3), si trasforma in una lezione di recitazione. Le osservazioni di Orazio riguardano la posizione del corpo da assumere in scena, l’impostazione della voce, l’armonia del gesto. Come Lelio, anche Eleonora fa tesoro degli insegnamenti e compie un balzo decisivo, pur non immune di opportunismo, nella prospettiva di essere scritturata (“Per una principiante siete passabile”), che prima presuppone una rapida rinuncia delle vecchie competenze artistiche e della mentalità. “Vadano al diavolo i soggetti, le commedie e la poesia”, dice Lelio (III, 3).

La metamorfosi è quasi completata. Manca l’ultimo, fondamentale, passaggio: la modificazione del costume morale di Lelio ed Eleonora, del loro rapporto con la compagnia, per essere, oltre che comici di mestiere, cittadini “onorati”. Le parole di Ottavio ad Eleonora sono di esemplare umanità e sentimento: “Siate amica di tutti, e non date confidenza a nessuno. Se sentite a dir male dei compagni, procurate di mettere bene” (III, 3). Goldoni, all’interno della riforma, mirò ad educare i comici anche nelle relazioni interpersonali per creare quell’armonia di gruppo basilare indispensabile per un nuovo rapporto dignitoso e costruttivo tra l’autore e l’attore, il quale non deve cercare l’applauso facile e scontato, ma deve sforzarsi a farlo scaturire dalla comprensione e partecipazione del pubblico. Ancora ad Eleonora, Orazio consiglia: “Circa alle parti, prendete quello, che vi si dà: non crediate, che sia la parte lunga quella che onore al comico, ma la parte buona” (III, 3). Sono queste, prescrizioni fondamentali per avviare il tirocinio formativo lungo il quale si articola il percorso che arriva alla commedia nuova, riformata, di carattere.

La fortuna del Teatro comico nel panorama culturale del Settecento veneziano è un attendibile termometro per misurare la febbre dei consensi del progetto di riforma e la loro opposizione. La commedia fu scritta probabilmente durante la Quaresima del 1750, poi fu presentata durante l’estate in forma di lettura a Milano nel palazzo Calderari su invito di Margherita Litta, nobildonna vicina agli ambienti illuministici, cultrice del teatro e attrice dilettante. Inaugurò nel 1750 la stagione d’autunno al teatro Sant’Angelo e fu recitata due sere di seguito. La compagnia Medebach strappò lusinghieri consensi. “Il mio Teatro comico è stato sentito due sere, ed ora fa parlare il popolo sui difetti delle commedie”, scrisse l’autore soddisfatto al conte Arconati Visconti. Come era successo con La vedova scaltra, anche questa messinscena scatenò la reazione dei rivali e difensori della commedia dell’Arte bersagliata da Goldoni. Pietro Chiari replicò nel 1754 con il Poeta comico e difese la poesia di tradizione: “ L’oggetto che presi in essa di mira fu di giustificare, e difendere in generale ogni Scrittor di Commedie; e soprattutto il nuovo gusto Poetico su’ teatro introdotto, che dagli intellettuali più illuminati si chiama Riforma”. Un altro acceso avversario, Carlo Gozzi, derise il Teatro comico ne Il teatro comico all’osteria del Pellegrino. Come il Chiari, contestò che uno scrittore di commedie, in questo caso il personaggio Lelio, fosse declassato e messo alla berlina. Dopo il debutto veneziano la commedia goldoniana fu tradotta in tedesco e recitata a Vienna nel 1752, poi scomparve dai repertori con l’etichetta di manifesto teorico della riforma. Fu recuperata come pièce teatrale nel Novecento. Fu ripresa a Roma nel 1911 dalla compagnia di Ferruccio Benini e nel 1954 a Torino dalla compagnia guidata da Kiki Palmer. Negli anni Sessanta si segnala l’allestimento curato da Eriprando Visconti per il Teatro Stabile di Trieste (1964).

Pochi risultano gli allestimenti del decennio successivo, segnato dalle rappresentazioni di Vincenzo De Toma per la Cooperativa Teatro Insieme nel 1974 e di Giorgio Pressburger. Il Teatro comico fu trascurato anche negli anni Ottanta. Entrò nel repertorio del Teatro Stabile di Pesaro (1980) e nello stesso anno in quello del Teatro Stabile di Bolzano per iniziativa di Augusto Zucchi che manipolò il testo al punto da riscriverlo e titolare lo spettacolo Il Teatro comico di Carlo Goldoni firmato da Augusto Zucchi, calando la vicenda nella compagnia di comici alle prese con la prova di un’altra commedia del Veneziano, Un curioso accidente. Lo stesso espediente fu sperimentato nel 1993 da Nanni Garella che usò il Teatro comico come prologo e contenitore de Gl’innamorati. Il recupero filologico del testo, adagiato in una delicata rappresentazione realista delle fatiche della goldoniana compagnia Medebach, porta la firma di Maurizio Scaparro, in uno spettacolo memorabile applaudito nel Teatro Olimpico di Vicenza ancora nel 1993.

 

 

 

Bibliografia

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Carmelo Alberti, La scena veneziana nell’età di Goldoni, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 106-110

Pietro Cazzani,  Introduzione, a Carlo Goldoni, Il teatro comico, Bologna, Ponte Nuovo, 1973

Guido Davico Bonino, Introduzione, a Carlo Goldoni, Il Teatro Comico e Memorie Italiane, Milano, Mondadori, 1990

Siro Ferrone, Carlo Goldoni. Vita, opere, critica, messinscena, Firenze, Sansoni, 1990, pp. 60-64

Ginette Herry, “Il teatro comico” o il prezzo della riforma, in “Studi Goldoniani”, a cura di Nicola Mangini, Venezia, 1976, Quaderno N. 4, pp. 7-47

Ginette Herry, La poetica della riforma, in Il teatro di Goldoni, a cura di Marzia Pieri, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 231-261

Nicola Mangini, Introduzione a Carlo Goldoni, Il Teatro comico, Roma, Barjes, 1967

Marzia Pieri, in Il teatro italiano, IV, Carlo Goldoni, Teatro, Torino, Einaudi, 1991, tomo primo

Sergio Romagnoli, Nel laboratorio teatrale  di Carlo Goldoni (“Il teatro comico”), in La buona compagnia. Studi sulla letteratura italiana del Settecento, Milano, Angeli, 1983, pp. 129-157

Maurizio Scaparro, Introduzione, a Carlo Goldoni, Il teatro comico, Milano, Ubilibri, 1994

Giorgio Strehler, Lezione goldoniana agli studenti di Firenze, in Giorgio Strehler. Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, a cura di Stella Casiraghi, introduzione di Siro Ferrone, Firenze, Le Lettere,  2005, pp. 275-295





















sopra:
Carlo Simoni e Patrizia Milani
nel Teatro comico
di Carlo Goldoni,
regia di Marco Bernardi
(Teatro Stabile di Bolzano, stagione 2007-2008)


 
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