6. Goldoni, Zorzi e la regia
Per chi di voi, invece, voglia farsi unidea di Zorzi recensore di teatro rammento, per esempio, un suo scritto del 1958. Si legga la recensione a una regia teatrale di Luchino Visconti del 1957: Limpresario delle Smirne di Goldoni (fig. 4). In quelle pagine Zorzi, oltre a rintracciare puntualmente i riscontri figurativi («Canaletto per il cortile della locanda e la stupenda aria veneziana che vi circola, Guardi per le capricciose scene di massa, Pietro Longhi per gli interni del secondatto, nei colori e nelle improvvise distribuzioni delle figure»), individuava linteresse principale dello spettacolo nella viscontiana «rinnovata e inevitabile messa a fuoco del complesso rapporto esistente fra il teatro goldoniano e la Commedia dellArte»; ponendo tempestivamente sul tappeto il contributo innovatore della regia italiana di quegli anni alla storicizzazione della drammaturgia del Goldoni. Si pensi, oltre che al Visconti della Locandiera (1952) e del citato Impresario, ai celeberrimi allestimenti di Strehler (1947 e ss.). E si pensi inoltre, proseguendo lesemplificazione dellinterscambio tra palcoscenico e ricerca scientifica, alla consulenza storica data da Zorzi dapprima a Squarzina per la mirabile messinscena nel 1968 per il Teatro Stabile di Genova di Una delle ultime sere di carnovale (fig. 5); e poi a Strehler per un irrealizzato sceneggiato televisivo, commissionato dalla RAI nel 1969, intitolato Memorie di Carlo Goldoni e rielaborato per il palcoscenico dal regista sino agli anni Novanta. Lasciamo la parola a Strehler:
Fu Tullio [Kezich] ad avere la formidabile idea di far venire con noi Ludovico Zorzi che io conoscevo dai tempi di Venezia. Tuttavia non avevamo mai lavorato insieme. Tullio era molto più legato a Zorzi di me. Zorzi arrivò e stemmo quasi una settimana a lavorare e a far finta di non lavorare, a parlare delle nostre pigrizie: «Ma a te non vengono mai dei giorni in cui non vuoi far niente? E stai lì soltanto ad aspettare che passino le ore». Qualche volta non ci vedevamo per tutta una giornata e magari lavoravamo la sera».
Il ricordo di Kezich ha un diverso registro, sospeso comè tra latmosfera di una tela del Longhi e di una commedia del Goldoni:
non posso dimenticare i giorni di Portofino nel 1970 quando ebbi loccasione di propiziare uno straordinario incontro goldoniano, portando Ludovico su per lerta collina fin nella villa San Sebastiano dove era locato Giorgio Strehler. Mentre Strehler e Zorzi parlavano dellavvocato Carlo Goldoni, di Gozzi e di Medebach avevo limpressione che questi signori stessero fuori in giardino a sorbire la cioccolata […]. Ecco io credo di aver assistito allincontro fra i due più grandi goldoniani del momento, due grandi goldoniani che si riconobbero di primo acchito e cominciarono a parlare in termini talmente stretti e vicini da sembrare due veneziani del Settecento che conoscevano alla perfezione la propria città. È stato uno dei momenti di studio, di amicizia e di teatro più straordinari di tutta la mia vita.
Si sa che quella inedita sceneggiatura «a più mani» (Strehler Zorzi Kezich) era frutto di un serrato lavoro documentale. È che, lo ha ben osservato Siro Ferrone,
prima di tutto veniva il “fare storia”. La generazione del dopoguerra (a cui appartennero Strehler come Zorzi come Squarzina) non aveva potuto esimersi, anche a teatro e attraverso il teatro, dal “fare storia” e dal misurare ogni biografia con il metro della Storia più grande della società, delle sorti più generali dei popoli e della loro vita materiale.
Si legge in uninedita lettera di Zorzi a Gianfranco Contini scritta da Padova (via Altinate 18), su suggerimento di Giovanni Comisso, il 29 maggio 1953 (fig. 6):
Il mio lavoro fondamentale è lo studio storico del Ruzante, sul quale sto preparando una monografia, specialmente in rapporto alle forme della drammaturgia e allo sviluppo dellintera letteratura pavana.
Uno studioso venticinquenne in via di formazione, ma con le idee chiare, a peculiare vocazione storica; e che, di lì a tre anni, angustiato da provincia e pregiudizio e dalla chiusura del teatro universitario patavino, si sarebbe trasferito in una nuova diversa realtà tragittando dal mondo delluniversità a quello dellindustria. Insoddisfazione, curiosità, capacità di rimettersi sempre in gioco sempre alzando la posta, lo accompagnarono del resto per tutta la vita. Furono il propellente del suo modo di fare ricerca, cultura, didattica. E, si è detto, non era reticente. Si guardi allultimo Zorzi che stigmatizzava
i contrapposti ma comodi cuscini della storiografia ideologica o politica, che si richiama da una parte al marxismo dogmatico (o più francamente, diciamolo pure, alla storiografia controllata dal partito comunista) e dallaltra parte al cattolicesimo più integralista».
7. Mestiere di storico e delusioni teatrali
Si prenda atto intanto, ad amara conclusione delle esperienze teatrali zorziane, della disillusione finale dello studioso. Ferdinando Taviani ha ricordato che «Zorzi negli ultimi anni constatava sconsolato che il lavoro culturale accanto ai teatri ordinari era necessariamente umiliante e fallimentare». È vero, ma la delusione era iniziata anni prima. Si prenda una lettera da lui scritta nellautunno 1969 ad Alessandro dAmico: «Ti giuro che appena riesco a infilarmi in una facoltà che mi vada, non sentirete più parlare di me “(e intendeva: nellambiente teatrale)”». Perché questo ‘ripudio del teatro nel 69 nonostante la fortunata collaborazione con Squarzina nel 1968? Si trattava, anzitutto, di rigore (e non solo scientifico). Del rifiuto di compromessi: «stanchezze, incomprensioni, conflitti con i poteri pubblici, carenze nella gestione finanziaria, divismo e accademismo sono, oggi come ieri, i mali che tarlano la vita della scena», asseriva nel 68 Zorzi il quale, sul finire degli anni Sessanta, stava inquietamente vivendo a Ivrea, che ormai gli andava stretta, non solo il «dilemma teatro-università, spettacolo-ricerca», ma anche quello fabbrica-università. Una testimonianza di dAmico aiuta a capire meglio la delusione di cui parla Taviani.
Sappiamo bene cosa abbia rappresentato per Zorzi la ricerca di un metodo su cui fondare lo studio del teatro; metodo quasi inafferrabile per la sempre più complicata e proliferante interdisciplinarità della materia. È probabile che lo scoraggiamento sia venuto di lì. Dalla constatata impossibilità di trasferire alla scena il frutto di anni di ricerche su un autore, su un testo, nei tempi e nei modi di produzione delle nostre stabili e delle nostre grandi compagnie private. Lidea che […] una settimana o poco più di colloqui tra filologo e teatranti potesse risolvere il problema fu una volta definita da Zorzi «sindrome dellintellettuale tardo-capitalistico.
Parole polemiche questultime, ma lucide; che si chiariscono in unaltra lettera zorziana dellautunno 1969 (sempre a dAmico):
Dopo ventanni di polveroni e rumori, ci accorgiamo che Goldoni dobbiamo ancora incominciare a leggerlo […]. Così Ruzante, la nostra personale scoperta, è “passato” in teatro sì e no per un quarto di ciò che valeva e significava. Facciamoci i conti addosso, stiamo zitti e impariamo una buona volta, sul serio, a contestarci.
Uno storico del teatro che, a quella data, prendeva atto dei limiti e dei fallimenti della cosiddetta regia critica. Ma, soprattutto, un intellettuale inquieto. Incline al pessimismo. Mai pago degli esiti raggiunti, si è accennato; pronto a rimetterli in discussione, anche con toni polemici proiettandosi con energia verso nuovi obiettivi stimolando i propri interlocutori a non accontentarsi. In quel momento, ormai, il far teatro era per lui parabola discendente, a fronte delle ascendenti esperienze culturali e scientifiche che aveva vissuto e stava vivendo.
Ancora. «Polveroni», «rumori». Come non pensare allo Zorzi storico poi in sintonia con la nuova storia braudeliana? Si pensi al tempo breve dellavvenimento alias della «novità rumorosa». E quindi al progetto zorziano dei primi anni Ottanta (il periodo dellemblematico Parere tendenzioso sulla fase) di dar vita, per la einaudiana serie di Annali della Storia dItalia, a un antievenemenziale volume dedicato a oltre quattro secoli del nostro antico teatro: dalla trecentesca Frottola di Francesco di Vannozzo al Don Giovanni di Da Ponte-Mozart. Volume che, finalmente, avrebbe contestualizzato fasi salienti del teatro italiano, con le loro molteplici problematiche specificità, tra i caratteri originali del paese Italia. Mestiere di storico. Meglio, di storico dello spettacolo (e della cultura). Si pensi, inoltre, alla rivista, ideata nel medesimo periodo con Siro Ferrone, destinata a intitolarsi «Annali di teatro», di cui ho avuto il privilegio di parlare con lui (a quella sede aveva destinato, con la consueta generosità, la pubblicazione della mia tesi di laurea).
Queste coordinate spiegano, credo, la sua convintissima adesione allEnciclopedia diretta da Ruggiero Romano. Un viatico per il nuovo millennio. Sorta di computer cartaceo di fine secolo che, nellorganizzare acentricamente le reti dei moderni saperi, mediante una selezione di «pacchetti» di concetti chiave concatenati tra loro da una serie di articolati rinvii, indica, al lettore partecipe e curioso (cioè capace di costruire attivamente in base ai propri interessi altri percorsi oltre a quelli suggeriti), la «logica che sottende i vari concetti e che migra dalluno altro e che li penetra ed avvolge reciprocamente». Unopera innovativa, dinamica e ‘scomoda. Non adatta a lettori dal fiato corto. Più da leggere che da consultare, inseguendo i molteplici flussi della cultura. Si guardi allora al «grafo» dellEnciclopedia (fig. 7). Unimmagine-simbolo cara a Zorzi e alla sua Weltanschauung:
Limmagine più aggiornata di questa nozione di cultura è offerta sinteticamente, e non solo in Italia, dallEnciclopedia Einaudi, impresa alla quale mi onoro di aver partecipato nella esigua schiera dei collaboratori italiani […]. Limmagine che abbiamo cercato di dare nellEnciclopedia e a cui ci riferiamo in questa organizzazione concettuale della conoscenza (per concetti e non per nozioni) non è più la figura arborescente di una cultura distribuita secondo una scala di valori (appunto la figura di un albero con le sue diramazioni centralizzate: prima viene questo, poi questo, poi questo); quanto piuttosto quella relativistica (la forma lenticolare delluniverso di Einstein) di un insieme matematico; anzi di un insieme di insiemi – un grafo di struttura, appunto, lenticolare a-centrata, collegata da rimandi concettuali, privi di rapporti gerarchici o di dipendenza.
Inoltre, lo si sarà notato, torna nella sopra citata lettera del 1969, la dura autocritica che abbiamo avuto modo di rilevare nel consuntivo stilato da Zorzi per Meldolesi nellestate del 76 a proposito dellesperienza del Teatro universitario di Padova. Eppure in quel teatro Alvise aveva lavorato con passione, su più versanti. Non solo Ruzante (in scena e in libro), ma anche la traduzione di un testo di Marcel Achard (Loyal Circus), i burattini, numerose regie di pubbliche letture drammatiche e altro. Si pensi in particolare alla sua «Direzione», così nella locandina ingiallita che conservo tra le mie carte (fig. 8), di Assassinio nella cattedrale (dicembre 1951). Scelta registica che rinvia a sperimentazioni pregresse. Alludo alla messinscena del testo di Eliot prodotta nel 1940 dal Teatro dellUniversità di Roma per la regia di Giulio Pacuvio. E non dimentico le postille apposte dal giovane Strehler a una copia di Assassinio nella cattedrale. Si sa che fu proprio quel testo che portò questultimo «a vagheggiare una regia di coralità poetica e musicale». Libri di teatro ed esperienze di scena. Ricorda De Bosio:
Le collezioni del Teatro dellUniversità di Roma ebbero influenza allora sulla formazione dei giovani che si avvicinavano al teatro; non ci era sfuggita la tragedia di T.S. Eliot Assassinio nella Cattedrale, con cui si era aperta la collana dalla copertina gialla degli autori stranieri; in quel teatro facevano apprendistato giovani teatranti colti, da Enrico Fulchignoni a Gerardo Guerrieri.
8. 1956-1983 (e oltre)
Dal 1956 Zorzi visse a Ivrea. Vi era giunto, desideroso di cambiamento, leggendo su un quotidiano uninserzione della Olivetti. Cercava lavoro. Padova laveva deluso. Fu Comisso a presentare in azienda le opportune referenze. Qui studiò in solitudine e lavorò dapprima nel movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti; indi come bibliotecario e organizzatore, e poi come dirigente dei Servizi Culturali Olivetti. Per un giro danni, è noto, industria e cultura si coniugarono in quel movimento progressista in una sintesi democratica capace di conciliare fabbrica e umanesimo perseguendo un mondo più civile. Più libero e tollerante. Morale e coerente. Lindustria e la città a misura duomo. Non sponsorizzazioni venali. Una nobile utopia. Al pari della città ideale rinascimentale cardine degli studi zorziani. NellIvrea pervasa dalla illuminata passione civile (e urbanistica) di Adriano Olivetti, egli compì unesperienza di straordinario valore umano, culturale e scientifico; che andrebbe ricostruita e interpretata compiendo minuziose indagini darchivio in loco. Altro lavoro che manca e che consentirebbe, credo, di mettere meglio a fuoco aspetti rilevanti della biografia intellettuale zorziana, decisive aperture culturali e umane incluse.
La «fabbrica» fu per lui il momento della «messa a fuoco» e dell«autocoscienza». Non si scordi il suo incontro con Cesare Musatti. In breve: se Bentley, studioso e uomo di teatro, fu il primo personaggio di riferimento del giovane Zorzi, il milieu dellinquieto anticonformista dinamico sperimentatore Adriano Olivetti fu la fucina innovativa dei primi anni della sua pienezza duomo. Fu Ivrea la sua ‘finestra sul Novecento europeo. A Ivrea entrò in diretto contatto con i venti di rinnovamento della cultura internazionale non accademica (non sempre, si sa, laccademia è cultura vera, vitale). Si ricordino i memorabili incontri da lui organizzati per i Servizi Culturali Olivetti: Pier Paolo Pasolini (1966, 1971, fig. 9), Alberto Moravia (1967), Umberto Eco e Roland Barthes (1970, fig. 10). O le stagioni cinematografiche e musicali (i concerti di Maurizio Pollini e di Severino Gazzelloni, per esempio). Oppure si ricordi lorganizzazione tra il 57 e il 58, con Luciano Codignola, di mostre dopere darte (Rosai, Casorati, Licini). Un impegno culturale a tutto tondo. Vissuto in parallelo alla personale assidua frequentazione della Biennale di Venezia. Maturò così in Zorzi la ‘scoperta della cultura figurativa contemporanea che, miscelandosi con le esperienze sopra rubricate, gli conferì quelle aperture dorizzonti così rare nella cultura nostrana. Un innovativo animatore di cultura. Calato nella realtà. Aperto al mondo. Ironico e melanconico (citava a mente ai suoi scolari il Montale della prima delle Due prose veneziane: «Ma ora lì tra piccioni, / fotografi ambulanti sotto un caldo bestiale, / col peso del catalogo della biennale / mai consultato e non facile da sbarazzarsene». Amava Montale. Un giorno espresse il desiderio di riposare nella quiete appartata del cimitero di San Felice a Ema ove è sepolta anche Mosca, lamatissima compagna del poeta: «Piove / sulla tua tomba / a San Felice / a Ema / e la terra non trema»).
Il periodo eporediese fu per lo studioso veneziano ricco di esperienze culturali sulle quali per brevità non posso indugiare ulteriormente. Aggiungo solo unultima, ineliminabile ‘scheda: il Convegno per un nuovo teatro che nel 1967 schierò a Ivrea, come in unantica ‘veglia darmi, giovani esponenti della neoavanguardia italiana (fig. 11).
Al medesimo anno si àncora uno snodo basilare dellitinerario scientifico zorziano. Nel 1967 vedeva luce ne «I millenni» Einaudi la prima edizione completa del Teatro del Beolco (premio Terenzio 1970). Unimpresa scientifica (testo, traduzione a fronte e note a cura di Ludovico Zorzi) condotta, è stato notato da un critico partecipe, con «implacabile, sorridente e insieme furente costanza». Frutto di personali esplorazioni in biblioteche e archivi. Di ricerche appassionate esperite anche durante le vacanze estive nellamatissima Venezia (penso al ‘rifugiarsi di Alvise in Marciana lasciando gli amici sulle spiagge del Lido). L«esplorazione è uno scavare», dichiara il Lévi-Strauss di Tristi tropici. «So, con Lévi-Strauss, che la terra è nata senza luomo e che morirà senza di lui; che le istituzioni, le idee, le forme artistiche che per tutta la vita ho catalogato e ho cercato di comprendere e che cercherò di studiare e di comprendere fino alla fine dei miei giorni sono, come gli uomini che le trasportano e le esprimono, niente altro che lefflorescenza passeggera di una creazione», dichiara Zorzi nel citato Parere rivelando, infine, il significato umbratile del suo febbrile lavoro di scavo. Nel 1967 si coronava, dunque, il lavoro di edizione dei testi e di messinscena del Ruzzante iniziato negli anni Cinquanta. La collaborazione editoriale tra Zorzi e la casa editrice Einaudi iniziò invece negli anni Sessanta (con i contributi per la «Collezione di teatro»). Anchessa andrebbe meglio studiata.
Ledizione di tutto il teatro del Beolco segna tuttoggi, a quarantanni dalla sua uscita, un punto fermo. Un saldo bastione di storia dello spettacolo. Penso anzitutto, al di là dei trascorsi filologici che sono stati rilevati (di cui lo studioso era consapevole, tanto che si riprometteva di dar vita a una nuova edizione), penso allilluminante storicizzazione a tutto tondo del Beolco e del suo teatro compiuta sia nellIntroduzione, sia nelle ricchissime note (oltre 350 pagine) che dotarono il corpus drammaturgico del Ruzante di un apparato critico a mio avviso insuperato. Una miniera di notizie (anche bibliografiche) per il lettore non frettoloso. Un esempio di ermeneutica capace di governare complesse questioni dordine filologico, estetico, storico (e così via), palesando puntualmente i debiti contratti con gli studiosi precedenti: dagli straordinari perlustratori di archivi Paolo Sambin ed Emilio Menegazzo al benemerito Emilio Lovarini tra tutti, già ventenne laborioso scolaro di un ventottenne Guido Mazzoni suo «provvido» maestro allUniversità di Padova. Non si dimentichi lammirato rispetto di Zorzi per lo scavo documentale compiuto dai maestri della scuola storica (Alessandro DAncona in primis con le sue Origini del teatro italiano): «dopo un cinquantennio di elusive esercitazioni intorno alle “categorie dello spirito”, riappare nei nostri studi la necessità di rifarsi allinventario dei documenti […], ricollegandosi alla feconda stagione aperta dai maestri positivisti».
Non si trattava di feticismo documentale ‘di ritorno, bensì del ripudio di una critica fondata sulla ‘chiacchiera. Su lambicchi formali introflessi. Su esibite compiacenze letterarie. Su mere esercitazioni estetico-testuali di matrice idealistica. Istanze di fondazione documentale della disciplina. Occorreva, anzitutto, tornare alla storia. Tornarvi per tentare di capire il teatro storicizzandolo in più ampie prospettive. Da qui il richiamo a praticare la via impervia della ricerca documentaria per dare alla nostra materia solide rinnovate fondamenta. Nel 1968, daltronde, vedeva luce il primo numero dellofficina dell«Archivio del teatro italiano» diretto da Giovanni Macchia, e veniva pubblicato un capitale saggio di Cesare Molinari incentrato in primis sullinterrogatorio di fonti iconografiche del magniloquente spettacolo barocco (e intanto si concludeva la benemerita Enciclopedia dello spettacolo). Quindi, lanno seguente, usciva il primo volume della collana, a cura di Ferruccio Marotti, «La Commedia dellArte. Storia testi documenti». Nel 1971, infine, restando a quel vivace giro danni della storiografia teatrale, iniziava la pubblicazione di «Fuentes para la historia del teatro en España».
Istanze di fondazione, si diceva. Ancora attuali. Fatte proprie e praticate da tempo anche da colleghi, collaboratori e scolari di Zorzi, poi coagulatisi attorno a Siro Ferrone, suo successore sulla cattedra fiorentina, dando vita a un tessuto di referenze, basato su indagini di prima mano di storia dello spettacolo, che sarebbe poco elegante (e dunque poco zorziano) qui convocare o, peggio, vantare. Basti allora ribadire che lo storico dello spettacolo (teatrale e non) deve privilegiare lanalisi delle fonti originali siano esse da scoprire o già note (comunque da verificare direttamente e interrogare con domande nuove). In breve, occorre praticare con pazienza e coraggio, umiltà e fiducia quello che mi piace chiamare il ritorno alle fonti. Non esiste nuova storia senza nuova erudizione, scrive Braudel. Un ritorno alle fonti, sintende, né di stampo positivista, né maniacale ma criticamente affilato e contestuale.
[III parte]
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