logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Roberto Alonge

Il teatro dei registi secondo Roberto Alonge

Data di pubblicazione su web 08/01/2007
Tadeusz Kantor

Quello che si pubblica qui di seguito è il capitolo conclusivo (pp. 179-183) del libro che Roberto Alonge ha dedicato al Teatro dei registi, Roma-Bari, Laterza, 2006, di cui si può leggere la recensione nella rubrica Libri.


 

13. Breve epilogo sul dito di Dio


La sconcertante e ossessiva presenza del regista sulla scena non ha potuto non attirare a Kantor qualche strale polemico. L'hanno accusato non solo di narcisismo, ma decisamente di megalomania. Denis Bablet racconta, a questo proposito, di un grande scoppio di riso del nostro personaggio: "Certo che sono megalomane, ma, a differenza degli altri, io sono un megalomane che sa servirsi della sua megalomania!..." [1]. L'aneddoto è di grande interesse. Kantor, Grotowski, Barba hanno inventato un teatro diverso (come direbbe Franco Quadri), un teatro che fa a meno del testo, o, meglio, in cui è il regista stesso a scrivere il testo. Lo stesso teatro che, forse, avrebbe voluto fare Ronconi. Il peccato di megalomania, di hybris è qui, nel rifiuto del drammaturgo, dell'autore, nell'uccisione del padre. Ho già accennato a una strana coincidenza esistenziale: Ronconi perde il padre quando è bambino, e così pure Barba. Ma, detto, così, è detto male. Non è nemmeno questione di perdere il padre; è questione del tipo di rapporto. Meglio leggere un'intervista rilasciata da Ronconi a Dacia Maraini agli inizi degli anni Settanta:

- Che mestiere faceva tuo padre?
- Mio padre? Mah! Andava in giro per il mondo.
- A far che?
- Boh, vendeva delle cose.
- Quali cose?
- Sai, con mio padre non ci ho vissuto affatto. La mia famiglia è solo mia madre. Appena nato io, mio padre e mia madre si sono divisi.
[...]
- Hai fratelli?
- No, sono figlio unico.
- E perché si sono divisi i tuoi genitori? Te l'hanno detto? Gliel'hai mai chiesto?
- Non gliel'ho mai chiesto
[...]
- Cosa sai di tuo padre? Com'era fisicamente?
- Mio padre l'ho visto un paio di volte in tutto. Una volta è venuto a casa a trovarci, un'altra volta abbiamo fatto una gita a Firenze insieme. Una terza volta dovevamo vederci ma poi non ci siamo visti. Eravamo partiti per la Svizzera: lui in un vagone e io con mia madre in un altro. A Milano hanno staccato il suo vagone mentre lui dormiva e così quando ci siamo svegliati ci siamo trovati soli senza di lui. Non ci siamo più visti.
- Tua madre ti parlava mai di lui?
- No.
- Com'era di carattere tuo padre? Ti sarai informato com'era, no?
- Pare che fosse uno abbastanza allegrotto.
- Cioè?
- Gli piaceva vivere. Viaggiava sempre. Aveva sempre una donna diversa.
[...]
- E tu hai mai provato rancore verso di lui per queste cose che sentivi?
- No, non provavo niente.
- Non lo giudicavi tuo padre?
- No. Non mi sono mai occupato di lui.
[...]
- Pensi di avere avuto un'infanzia felice o infelice?
- Né felice né infelice. E' stata un'infanzia atona, senza emozioni. Prima dei dieci anni non ricordo niente. Ero molto estraneo a me stesso [2].

 

Il padre di Ronconi muore nel '43, quando il figlio ha dieci anni, e Ronconi dichiara di non avere ricordi "prima dei dieci anni". Il problema non è la morte del padre, ma piuttosto la rimozione del padre, l'assenza del padre. Anche Grotowski ha vissuto qualcosa del genere: quando scoppia la seconda guerra mondiale, Jerzy ha sei anni, e suo padre si allontana dalla famiglia, va in Paraguay, da cui non rimpatrierà più. E la stessa cosa accade al padre di Kantor: parte per il fronte, durante la prima guerra mondiale, e scompare. Non è che muoia, ma non rientra. Lo dice lo stesso Kantor, con puntigliosa precisazione, in un'intervista che abbiamo già citato: "Mio padre non è tornato dalla prima guerra mondiale; non è morto, solo non è tornato". Kantor è nato nel 1915; anche lui è colpito, bambino, dal trauma della perdita. Tanti grandi registi orfani, ma che vivono questa scomparsa come abbandono, o che successivamente elaborano come sfida. Ronconi Grotowski Barba Kantor: tutti registi che respingono (o tentano di respingere, come è il caso di Ronconi) l'ipotesi di operare al servizio dello scrittore di teatro. Mi pare suggestivo pensare che il loro rifiuto dell’autore del testo, del padre della scrittura, sia in qualche misterioso legame con questa loro difficile relazione biografica con la figura paterna.

Perché il testo, non c'è dubbio, è in connessione diretta con Dio Padre, promana dalla divinità, almeno nella visione giudaico-cristiana. La cultura greca (penso al Fedro di Platone) può anche nutrire una certa diffidenza nei confronti della scrittura. Ma sul Monte Sinai il Signore diede a Mosè "duas tabulas testimonii lapideas scriptas digito Dei" (Esodo, 31, 18), le due tavole della testimonianza, di pietra, scritte con il dito di Dio. E' il dito di Dio che scrive la Legge, che fissa il primo testo. E' di qui che il testo comincia ad assumere, e per sempre, la sua valenza sacrale. In francese texte significa originariamente "evangeliario", cioè il libro liturgico che contiene i brani dei Vangeli letti o cantati durante la messa. Solo successivamente passa al senso moderno. La radice latina, textum, è un neutro sostantivato del participio passato texere, dunque "tessuto", "che è stato tessuto, che è stato intrecciato". Bisogna insistere su questa dimensione passiva, su questa condizione dell'essere tessuto (da qualcuno). Il textum, il testo, porta il segno della docilità, ha subito l'azione del tessere, si è piegato, ha accolto in sé - come oggetto passivo, ma non per questo passivamente, e vedremo perché - il soffio vivificatore della divinità. L'idea stessa di textura - tessuto, intreccio, legame - certifica l'esistenza di un rapporto fondamentale, religioso, perché etimologicamente religio viene da re-ligare, vincolo che unisce l'uomo alla divinità. L’autosufficienza del testo, al di qua della caduta nella precarietà della Scena, allude proprio a questo, alla sua impronta sovrumana. L’attore scrive sull’acqua, ma il testo è scritto sulle tavole di pietra.

La nascita della regia, nella sua valenza più alta, quando smette di essere una banale professione dell’industria dello spettacolo e si fa esercizio artistico, pratica creativa (e, con essa, la nascita di un attore nuovo, al servizio del piano registico) è la grande scommessa che si consuma fra Otto e Novecento. E' il tentativo di ristabilire un collegamento con l'antica radice divina che è nel testo [3]. E' lo sforzo disperato e titanico di tenere insieme ciò che è diviso per statuto ontologico, di trasportare sul terreno friabile, labile, della Scena il principio ispiratore del logos e dell'ordo che caratterizzano il Testo [4]. Il regista (insieme all’attore del teatro di regia) è l’instancabile sacerdote della religione del testo, che legge e rilegge continuamente le tavole della legge, in un lavorio incessante di interpretazione, di adattamento, di aggiustamento, che non ha il segno della ripetizione, della pura oggettiva spiegazione, ma che è sempre, a suo modo, originale, poetico. Il teatro - come avrebbe detto Claudel - è il luogo di una connaissance del testo che è co-naissance. Il teatro è il luogo geometrico in cui la creazione del testo è continuamente ri-creata dagli operatori della scena. Ma la possanza autenticamente inventiva dei teatranti è legittimata proprio e soltanto dal fatto che essi guardano alle tavole della legge, che si ispirano a quel sedimento della divinità che è la scrittura. Il regista (e il suo attore), nella misura in cui si riconoscono anello docile della catena, filo paziente che si inserisce organicamente nella textura divina, vedono esaltate la propria soggettività, la propria potenzialità creativa. Si cresce e ci si realizza nel confronto, nell'affrontamento con il padre, entrando nella dialettica dell'intenerimento e dell'odio, per citare Barthes. Ho insistito sul fatto che la scrittura contiene sempre un enigma, e che è il regista - con la sua fantasia e la sua genialità - a scoprire l’enigma.

Certo, è lecita un’altra idea di regia. Proprio una serie di spettacoli su cui ci siamo soffermati - da Il principe costante a Min Fars Hus a La classe morta - hanno, a loro modo, la complessità e la forza poetica di un testo; è giusto rinvenire in essi il filo di un discorso, di una narrazione perfettamente leggibile. Ma sono testi che non hanno vita al di fuori di quella che viene loro dalla scena. Non possiamo leggerli (e rileggerli). Ci può anche essere, il testo. E' possibile sfogliare il copione di Wielopole-Wielopole pubblicato da Ubulibri, ma è un testo inerte. Non è leggendo quel copione che capirete Kantor, se Kantor non l'avete mai visto. E nessuno va mai a rimetterli in scena, quei capolavori che ho ricordato. Se la regia è sorta nel momento in cui l’autore si è fatto regista, il cerchio si chiude nel momento in cui il regista si fa autore. Grotowski Barba Kantor sono però poeti della scena che non lasciano traccia della loro poesia. Quei loro testi particolarissimi sono nati per la scena, nella scena, con la scena, ma sono anche inesorabilmente morti per la scena, nella scena, con la scena. Non hanno forza di sollecitare un processo di ri-animazione. Non è possibile ri-animarli, perché in essi non c'è vero autentico soffio divino. Ho ricordato le tavole della legge, ma è interessante sottolineare il nesso: "duas tabulas testimonii", due tavole delle testimonianza. Le tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, testimoniano dell'alleanza fra Dio e il popolo di Israele, e l'arca dove dovranno essere conservate viene chiamata l'arca della testimonianza. Spettacoli-capolavori come Il principe costante, Min Fars Hus, La classe morta sono la testimonianza del genio dei nostri uomini di teatro, ma sono testimonianza senza tavole, sono grida che si levano al cielo, a testimoniare tutta la febbre e la sofferenza della propria soggettività. Che è poi la megalomania che rivendicava con orgoglio Kantor.

 


[1] Denis Bablet, Présences de Tadeusz Kantor, cit., p. 189.
[2] L’intervista è riportata in Franco Quadri, Il rito perduto, cit., pp. 266-268.
[3] Anche De Marinis, sia pure con parole più laiche delle mie, riconosce questo snodo storiografico: "Contrariamente a quel che si pensa, e si dice, ancora spesso, il teatro del testo non sopravvive nel Novecento (provenendo da chissà quale tradizione) malgrado l'avvento della regia teatrale ma, per quanto possa sembrare strano a prima vista, esso si afferma soltanto nel Novecento, anche e soprattutto grazie all'apporto della regia" (Marco De Marinis, In cerca dell'attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Bulzoni, Roma, 2000, p. 53).
[4] Cfr. Roberto Alonge, Testo, testimone, testamento, in AA.VV., Specchio delle mie brame. Teatro e letteratura, Guerini, Milano 1991, pp. 107-111.

 














Vedi la recensione
al volume

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013