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Cristina Jandelli

Le dive italiane nel cinema degli anni Dieci

Data di pubblicazione su web 11/12/2006
Lyda Borelli
Estratto da Cristina Jandelli, Le dive italiane del cinema muto, L'Epos, Palermo, 2006, pp. 16-26. ISBN: 88-8302-311-0
 


Il primo divismo
 
 
 
Solo un giorno si saprà che bisognava studiare le opere di Francesca Bertini.

Louis Delluc


Così appare oggi il cinema italiano degli anni Dieci, attraversato da meteore luminose splendide ed effimere. Il divismo italiano a cavallo della Grande Guerra è fulgido quanto caduco: nascita e morte di una pioggia d’astri in una manciata d’anni.

In Italia verso la metà degli anni Dieci con il divismo cinematografico dell’interprete femminile prende vita un fenomeno spettacolare di vaste proporzioni. Vi trasmigrano i modelli legati alla tradizione ottocentesca dei grandi attori teatrali: la volontà autoriale e l’impegno profuso nel forgiare l’immagine divistica accomunano le attrici del cinematografo alle più acclamate interpreti di prosa del secondo Ottocento, capocomiche di fama internazionale come Adelaide Ristori ed Eleonora Duse. Le pretese economiche e il rapporto della diva con la figura del produttore rimandano alla tradizione ottocentesca delle cantanti d’opera, alcuni modelli figurativi verranno ripresi dalla pittura e dalle arti  grafiche del primo e secondo ottocento, i soggetti vengono calcati sul repertorio teatrale di fine secolo.  In Italia la prima attrice di prosa eredita dalla primadonna dell’opera una serie di articolati privilegi professionali. La diva cinematografica italiana si inserisce consapevolmente in questo solco, perseguendo in molti casi il modello dell’impresariato artistico già presente nel teatro di prosa: Lyda Borelli a teatro fu capocomica, Francesca Bertini e Diana Karenne dettero il proprio nome a case di produzione, divennero cioè un marchio di fabbrica, la stessa Eleonora Duse partecipò all’impresa produttiva del suo unico film.

Dal punto di vista della progettazione dell’immagine filmica cui partecipano attivamente, le dive italiane definiscono alcuni canoni che si affermeranno nello star system hollywoodiano degli anni Venti (forte tipizzazione, centralità narrativa, influenze sulla moda e sul costume). Alla produzione degli anni Dieci manca invece un’efficace costruzione mediatica della figura pubblica della diva: la stampa a larga diffusione, medium prioritario dell’epoca, in Italia non intende sostenere una produzione come quella cinematografica non ancora legittimata a livello culturale e tantomeno si cura di blandire queste donne sospette di amoralità. Solo interrogando le notizie e gli articoli pubblicati delle riviste di cinema si può trovare testimonianza indiretta dei fenomeni di passione collettiva che le dive suscitarono nei contemporanei. «Francesca Bertini, Lyda Borelli, Leda Gys, Soava Gallone potevano camminare per strada senza essere assalite da turbe di gente scatenata», scrive Giulio Cesare Castello. «Ci si contentava di andare a vederle sullo schermo. I giornali le ignoravano. Solo le riviste di cinema pubblicavano le loro fotografie ma a pagamento»[1]. Negli anni Dieci l’editoria cinematografica in Italia intrattiene legami diretti con le principali attività produttive a Torino, Milano, Napoli e Roma: le riviste di cinema rappresentano un comparto editoriale agguerrito, predisposto ad accogliere innovazioni grafiche, attento alla partecipazione dei lettori e sensibile alle esigenze della nascente industria pubblicitaria. Le riviste di settore svolgeranno un ruolo essenziale nel definire la popolarità e amplificare il fascino del nuovo medium[2].

La lingua italiana resta il più prodigioso testimone dell’avvenuto incontro fra queste donne e il loro pubblico: il termine borelleggiare entrerà nel dizionario Panzini della lingua italiana, ma gli estensori degli articoli coniano termini analoghi come bertineggiare e menichelleggiare[3]. Una delle fonti più utili per ricostruire il divismo italiano degli anni Dieci vanno anche considerate le fotografie che, nelle loro specifiche forme comunicative - dal libretto di sala realizzato sul modello teatrale per le fastose première alla cartolina da collezione autografata -, diffondono l’immagine della diva con enorme capillarità in Italia e fuori dai suoi confini: si tratta di strumenti di costruzione divistica in grado di mettere in relazione i testi filmici con l’immagine pubblica della donna. Dai fotoritratti delle dive del cinematografo degli anni Dieci si sprigiona un magnetismo allarmante. Le dive escono dall’ombra, la pelle luminescente, levigata, argentea. Gli occhi scintillano, enormi. L’espressione è altera per effetto dello sguardo e del mento, sempre leggermente sollevato. Le dive sfidano chi le osserva. Incarnano la seduzione del cinema.

Le attrici cinematografiche più famose dettavano moda, esercitavano la loro influenza sui comportamenti giovanili, spadroneggiavano sui set, sceglievano accuratamente i collaboratori, supervisionavano i soggetti quando non ne scrivevano di propri; tiranneggiavano i produttori e arrivarono a estendere il loro dominio perfino sulla regia, non fosse che utilizzando lo strumento formale dell’inquadratura come elemento di verifica del loro statuto divistico o allontanando registi sgraditi.

Il “diva film”[4] è anzitutto un’esplorazione delle potenzialità del cinema: per la prima volta si intende fare di una pellicola il supporto promozionale di un’immagine divistica. L’immagine filmica della diva deborda fino a espandersi oltre lo schermo, nel tentativo di compensare una costruzione mediatica di minimo spessore ed entità quantitativa (lo star system hollywoodiano costituisce invece attraverso di essa un’indispensabile risorsa per la definizione dell’immagine pubblica della star che si riflette a sua volta nei film). È la vita l’arte della diva, e il “diva film” il suo veicolo comunicativo privilegiato. Ma l’amor mio non muore! del 1913 con Lyda Borelli e Mariute del 1918 con Francesca Bertini rappresentano due esempi di intertestualità e coscienza metalinguistica ancora oggi sorprendenti. La costruzione dell’immagine pubblica della diva è affidata al film stesso. Il cinema delle dive è anche il luogo dell’affermazione di una nuova arte della recitazione che ognuna di loro, a suo modo e a vari livelli di consapevolezza, intende affermare e difendere per confrontarsi con un inarrivabile modello di riferimento culturale, l’attore del teatro italiano.

Una studiosa, a proposito degli anni della prima guerra mondiale, ha scritto: «È ancora da analizzare la sostanza psicologica su cui si costruì l’interazione fra le donne più in evidenza sulla scena sociale e le più oscure». Fra le «personalità fuori scala rispetto alla norma dei ruoli femminili e delle loro competenze» vanno annoverate le dive del cinematografo. Se ci interessa «conoscere la funzione svolta dalle nuove tipicizzazioni al femminile, rispetto alle donne che in queste avrebbero dovuto identificarsi», dobbiamo analizzare il fenomeno del divismo cinematografico italiano degli anni Dieci[5]. Dovremmo anche definire il termine “proto-divismo” inappropriato: il divismo cinematografico italiano degli anni Dieci fu invece un fenomeno “primo”, una nuova emergenza; costituì un sistema archetipico, agendo però all’interno di una struttura industriale debole e impossibilitata a sostenerlo in modo duraturo. Fu un primo e luminoso esempio di divismo cinematografico, non va letto deterministicamente come una declinazione arcaica del “vero” divismo, cioè lo star system hollywoodiano. A livello produttivo lo sfruttamento del fenomeno si concentra su due tattiche definite dall’operato dei produttori italiani di terza generazione: da una parte il controllo dell’esclusiva e la competizione affannosa per il consolidamento del patrimonio divistico, dall’altra la serializzazione del repertorio teatrale tardo ottocentesco che ha contribuito a rendere le grandi attrici dei personaggi pubblici, delle celebrità. Le dive soffrirono, nel sistema produttivo del cinema italiano, rivalità esplosive e le risolsero legandosi per lo più a una sola casa di produzione e affidando ad essa la loro consacrazione cinematografica.

La Diva è il primo ruolo del cinema italiano dopo che il Comico si dimostrò incapace di affermarsi nella nuova stagione del lungometraggio. Condensa in una tipologia definita i due principali ruoli presenti del teatro di prosa, quelli di prima e di seconda donna[6]. La Diva assume i caratteri di entrambi, e in più intende venir riconosciuta come artista, si ritiene depositaria di un sapere che poggia su secoli di pratica scenica. Ci sono diversi documenti – scritti e opere grafiche – realizzati dalle Dive che attendono di essere analizzati come dichiarazioni in cui si afferma l’equazione Diva=Artista, cioè donna intellettuale e donna emancipata, letteralmente: gli altissimi compensi percepiti trasportano le principali attrici del cinematografo in quegli stessi paradisi dannunziani che hanno decretato sullo schermo il loro successo, determinandone un repentino innalzamento sociale.

La diva delinea l’esistenza di una nuova figura di donna: è una bellezza particolarmente fotogenica lautamente remunerata dalla nascente industria cinematografica per le sue performance spettacolari. Le dive italiane hanno volti belli e irregolari, magnetici ed espressivi, aggressivi. Hanno grandi occhi, resi più profondi dal bistro. Hollywood imporrà di lì a poco nuovi canoni di bellezza.

Il legame del divismo italiano con i temi dell’emancipazione femminile del periodo è testimoniato dalle amicizie che le attrici vantano in ambito intellettuale (Lyda Borelli e Amalia Guglielminetti, Francesca Bertini e Matilde Serao, Eleonora Duse e Grazia Deledda). Nel 1908, durante il Primo Congresso delle Donne Italiane è fra i punti dell’ordine del giorno il riconoscimento della morale unica fra i due sessi, la riforma della patria potestà, il riordino giuridico in materia di adulterio che per le donne è punibile con il carcere mentre per l’uomo solo il concubinato è reato. Il 17 luglio 1919 viene abolito l’istituto dell’autorizzazione maritale che apre l’accesso delle donne alle professioni liberali. Le dive sono spesso, sullo schermo, delle adultere, affrontano l’uomo ingaggiando serrati corpo a corpo, sfidano il maschio con il loro fascino irresistibile e dettano legge in materia d’amore: così si propongono al pubblico femminile come modello di un’emancipazione che investe soprattutto la sfera dei comportamenti privati mentre gli uomini restano soggiogati dalla loro seduzione disinibita.

Nella vita le cose vanno diversamente. Le grandi attrici del cinema italiano alla fine optarono per matrimoni aristocratici professionalmente distruttivi. Di tutta la nutrita schiera di dive, solo Leda Gys e Soava Gallone continuano a lavorare dopo il matrimonio: le altre, sul modello di Bertini e Borelli, dopo aver convolato a nozze con blasonati sono costrette a rinunciare alla carriera. In questa parabola, che coincide cronologicamente con la crisi del cinema italiano degli anni Venti, è designata una doppia sconfitta storica: mentre l’industria cinematografica italiana non sopravvive all’avvento del monopolio produttivo, il sogno dorato di un’emancipazione dai ruoli sociali svanisce con la restaurazione del ventennio fascista.

Francesca Bertini, Lyda Borelli, Pina Menichelli e Diana Karenne sono le dive più rappresentative in un panorama assai più vasto che comprendeva, fra le più note, almeno Leda Gys, Maria Jacobini, Hesperia e Italia Almirante Manzini ma anche altre che, magari per poche interpretazioni di successo, s’impressero nella memoria del pubblico e ne conquistarono l’ammirazione.

Eleonora Duse è il perno su cui ruota il divismo cinematografico italiano degli anni Dieci: la sua figura è il crocevia delle tensioni artistiche che animano le attrici italiane, ma la Duse andrebbe piuttosto definita un’autorità morale e un modello a cui, per motivi diversi, non possono sottrarsi le giovani dive coetanee di Chaplin. Cenere di Febo Mari (1916), l’unico film interpretato dalla Duse, solitario e luminoso esempio di cinema d’arte, va quindi ricollocato nel ruolo che gli spetta cioè posto all’apice della breve parabola disegnata in Italia dal “diva film”. Cenere rappresenta il voto di povertà che la massima gloria del teatro italiano pronuncia davanti al pubblico negli anni del conflitto, quando il clima bellico le renderà odioso fare spettacolo come se nulla fosse accaduto: costringe gli spettatori affamati di evasione a guardare dentro il dramma della maternità e intanto allude alle madri di guerra rassicurandole circa la provvida grandezza del loro sacrificio. Il pubblico non capirà e lei, dopo l’insuccesso, si ritirerà in disparte ma anche in seguito il film le apparirà una tappa fondamentale del suo cammino artistico. Lo proseguirà tornando a teatro nel 1921 ne La donna del mare di Ibsen che stava già provvedendo a ridurre per lo schermo quando la scure del fiasco economico di Cenere si abbatté definitivamente sulle sue ambizioni cinematografiche.

Francesca Bertini fu appena meno longeva di Lilian Gish, ma altrettanto combattiva. Accettò di recitare l’ultimo cameo per una grande produzione internazionale nel 1976: di fatto non ha mai abbandonato il cinema e soprattutto, a differenza delle altre dive, ha voluto gelosamente custodire la memoria della sua grande impresa, quella di trasformare la propria vita – dannunzianamente - in un’opera d’arte. È il divismo la più grande creazione di Francesca Bertini. Ogni giorno veniva sommersa di lettere provenienti da tutta Italia e dal resto del mondo, era la più desiderata dal pubblico maschile, la più ambita dai produttori, era lei che dettava moda mentre appariva in pubblico solo per autocelebrarsi in opere caritatevoli che ispessivano la sua immagine di donna desiderata ma moralmente irreprensibile. La sua figura artistica è più complessa. Mentre la recitazione della Bertini appare ancora oggi misurata e per i canoni dell’epoca quasi realistica, il suo repertorio è fortemente orientato verso il dramma ottocentesco e il suo modo di porgersi all’obiettivo si rivela incapace di sottrarsi alla teatralità presente nel cinema delle attrazioni. Non amava il primo piano cui preferiva l’inquadratura a figura intera e la ripresa in continuità. Il sodalizio stretto con il produttore Giuseppe Barattolo, decisivo per la sua affermazione divistica, pone i registi in posizione subordinata, costretti com’erano a dirigere film che a Hollywood prenderanno correttamente il nome di star veichle. Come una vera star hollywoodiana, la Bertini stringerà una collaborazione decisiva con l’operatore, il tecnico cui chiedeva di mettersi al suo servizio per rendere più soggiogante l’immagine della propria bellezza.

Il “diva film” nasce con Lyda Borelli. È lei, nel 1913, a inaugurare il genere con Ma l’amor mio non muore! che segna il passaggio al cinema dell’acclamata primadonna del teatro di prosa italiano. Poco dopo stringerà il definitivo sodalizio con la maggiore casa di produzione, la romana Cines che in quegli anni esporta i suoi film in tutto il mondo. L’immagine che Lyda Borelli vuole accreditare di sé è quella di artista e donna moderna, amante dei nuovi mezzi di trasporto (macchine e aeroplani) e della libertà espressiva del corpo (si copre di veli e indossa i delphos di Mariano Fortuny che veste anche la Duse). Il suo divismo è un’amplificazione consapevole e lineare della fama conquistata come attrice teatrale anche perché molti suoi film non sono altro che riduzioni per lo schermo di testi da lei precedentemente portati al successo in palcoscenico. Il più vistoso fenomeno emulativo del divismo italiano la riguarda: le giovani ne imitano vistosamente le pose stanche, languide, assorte. Certo in questi atteggiamenti è presente un riflesso della recitazione cinematografica di Lyda Borelli, personalissima declinazione del simbolismo dalle venature preespressioniste ma anche “maniera” teatrale ben definita: la sua appartenenza alla generazione dei mattatori della scena di prosa certifica questo lascito stilistico nella sua recitazione meditativa, assorta e posatrice ma anche caricata, sovresposta, esplosiva. Contemporaneamente Lyda Borelli tenta di appropriarsi del linguaggio filmico e lo farà in modo assai più spregiudicato rispetto alla “cinematografica” Bertini: domina il primo piano e se ne serve per sprigionare, attraverso occhi e mani, una formidabile carica di energia che si irradia dal suo corpo. Alcune testimonianze definiscono la sua performance una rappresentazione euritmica, secondo la definizione poi adottata dall’antroposofia steineriana per designare l’espressione della spiritualità che si manifesta attraverso il corpo umano. Nel 1918 la parabola artistica della Borelli si conclude: il matrimonio con l’industriale e conte Vittorio Cini la sottrarrà per sempre dalle scene ma, sugli schermi, i film da lei girati in un solo quinquennio continueranno ancora a lungo a riverberarne lo splendore.

Pina Menichelli è la donna fatale del cinema italiano. Il modello consolidato nel teatro italiano con il ruolo della seconda donna trova in lei, giovane scritturata della compagnia di Emma Gramatica, un’interprete ideale: l’immagine divistica è quella di una donna soggiogante, tenebrosa, rapace, peccatrice, vendicatrice, ferina (nella vita aveva abbandonato il primo marito in Argentina per tornare a fare l’attrice). La sua configurazione divistica è particolarmente interessante perché appare imprigionata nel tipo ideato per lei da Pastrone, in qualità di proto producer e di regista, alla Itala Film: ancora negli anni Venti l’immagine di Pina Menichelli verrà identificata con l’archetipo dannunziano de Il fuoco e Tigre reale. Questa immagine peccaminosa di donna non può far altro che cadere sotto la scure della censura che in Italia perseguita le sue pellicole. Passata alla Rinascimento Film creata per lei dal futuro secondo marito, il barone Carlo Amato, cerca di affrancarsi dal “diva film” per avventurarsi nella commedia ma le testimonianze sono concordi nell’indicare nel dittico pastroniano la matrice del suo tipo che pure ne limita, sclerotizzandole, le capacità di interprete. È quanto accadrà a Marlene Dietrich a Hollywood in seguito al sodalizio con Sternberg: non si libererà più del suo tipo. Il pubblico giovanile però ammira incondizionatamente Pina Menichelli. Gli uomini restano folgorati dalla sua sensualità mentre le donne la imitano riproponendone l’inedita aggressività erotica. Anche Pina Menichelli nel 1924 si ritira e in seguito continuerà a difendere strenuamente il suo diritto a dimenticare.

Diana Karenne, di origine polacca, è l’unica, autentica diva autrice del cinema italiano: interpreta, sceneggia, dirige e produce in proprio i suoi film. Anche quando la via dell’autarchia realizzativa si rivelerà impraticabile continuerà a forgiare la sua immagine in totale autonomia portando sullo schermo personaggi di donna emancipata che si scontra contro la morale borghese a rischio della vita, propria e altrui. In lei l’immagine di donna fatale si lega a quella di intellettuale e artista: sono documentati i suoi rapporti con il futurismo e i suoi disegni mostrano inequivocabile il segno delle avanguardie tedesche. Il pubblico giovane l’ammira e la eleva a modello di comportamento. Come interprete si mostra particolarmente misurata e incline alla stilizzazione espressiva, secondo il nuovo stile di recitazione che in Italia verrà successivamente identificato con l’arte scenica di Tatiana Pavlova. Purtroppo dell’affascinante diva venuta dall’est e morta sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale restano pochissimi film e nessuno di quelli da lei diretti. Solo il ritrovamento di pellicole oggi perdute potrà portare a nuove scoperte.        




[1] Castello 1957, p. 14.

[2] «La cinematografia italiana ed estera» ebbe larga diffusione insieme alla «Cine-fono», «Film» e «La vita cinematografica». «Il Tirso al cinematografo», «Apollon» e «L’arte muta» erano più ricche di illustrazioni ed editorialmente curate. «Contropelo» e «Filmando» avevano taglio satirico. «In Penombra» fu una rivista di non trascurabile rilievo nel panorama delle pubblicazioni letterarie.

[3] «Il sesso gentile ora “bertineggia” come tempo fa aveva “borelleggiato” o domani “menichellerà”, e la facilità colla quale in breve tempo le regine della scena muta acquistano notorietà e ricchezza è il tema preferito ai suoi discorsi». Romano 1916, p. 18.

[4] «In entrambi i paesi [Italia e Francia] si trovano attori che si rivolgono al pubblico nelle commedie ed assumono una postura frontale nei drammi storici. Ma in alcuni film italiani la frontalità è più appariscente e la mimica più forzata che in qualsiasi altro film che io abbia visto. Come appare ormai appurato, il solo contributo veramente originale del cinema italiano in questo campo è consistito nel dare a questa interpretazione eccessiva una nuova dimensione nei “diva film”». Salt 1991, p. 52.

[5] De Giorgio 1986, p. 309.

[6] Cfr. Jandelli 2002.





 

multimedia Indice del volume

multimedia Diana Karenne

multimedia Francesca Bertini

multimedia Francesca Bertini (cartolina)

multimedia Lyda Borelli

multimedia Pina Menichelli, Alberto Nepoti



Francesca Bertini
in Mariute
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Francesca Bertini
in Assunta Spina
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Francesca Bertini
in La signora dalle camelie
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