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Francesca Simoncini

Eleonora Duse. Il lavoro dell’attrice sul testo [seconda parte]

Data di pubblicazione su web 02/01/2006
Eleonora Duse interpreta Rebecca West
[leggi la prima parte del saggio]

L’attrice dunque, che già era intervenuta sulle battute, integrando, snellendo e restituendo fedeltà al testo, si appropria ora di Rebecca rendendola viva, mobile, portatrice di una riflessività controllata e padrona di uno spazio che mostra di saper determinare e circoscrivere. Proprio sullo spazio e sui movimenti di scena si orientano, in questa fase, le correzioni appuntate di sua mano, indirizzate quasi esclusivamente alle didascalie (31). A partire da quella iniziale.

Così l’azione, che per Polese «succede nei dintorni di una città della Norvegia» per la Duse è «a Rosmersholm – antica proprietà di Rosmer, situata nei dintorni di una piccola città, sulla riva di un fiord a ponente della Norvegia»; lo spazioso salone su cui si apre la scena non è più «mobigliato con suppellettili di stile antico», ma arredato «con antico stile» e «elegante et confortable»; la porta del fondo non lascia vedere semplicemente «un lungo viale d’alberi», ma «di antichi alberi – che conducono al podere» e Rebecca, che sta lavorando ad uno scialle di lana bianca ormai quasi finito non «di tratto in tratto guarda fuori dalla finestra», ma «nascosta dietro i fiori, essa guarda, di tanto in tanto, brevemente e inquieta al di fuori». E così procedendo l’originaria ansiosa mobilità di Rebecca è ripristinata dalla Duse che ripropone la scansione dei movimenti di scena numerandoli ritmicamente: «1. vivamente»; «2. alzandosi»; «3. nascondendosi dietro la tenda»; «4. in mezzo alla stanza» (ma in questo caso la didascalia si riferisce alla signora Helseth); «5. dopo un istante»; «6. allontanandosi dalla finestra»; «7. ripiegando il suo lavoro».

Pressoché analoga attenzione nei confronti dei movimenti di Rebecca e delle didascalie che li suggeriscono ritroviamo nell’ultima scena del secondo atto, la quarta, quella in cui per la prima volta, misteriosamente, Rebecca rifiuta la proposta di matrimonio di Rosmer. La scena è di capitale importanza per la comprensione del dramma e per la ricostruzione psicologica dei personaggi in scena. La manomissione di Polese, che interviene distorcendo completamente il senso dei movimenti compiuti dai personaggi, è in questo caso davvero fuorviante e la Duse, una volta ancora, reintegra, corregge, potenzia. Analizziamo la scena nel dettaglio facendo attenzione alle didascalie concepite da Ibsen per connotare gli spostamenti dei due protagonisti.

Per la prima volta dall’inizio del dramma, nel finale del secondo atto, Rosmer e Rebecca si fronteggiano, saggiano le loro coscienze, si parlano e si ascoltano seguendo il travaglio della loro interiorità. Le frasi che pronunciano, le azioni che compiono non sono soltanto il risultato degli avvenimenti immediatamente precedenti, ma l’insorgere necessitato di quanto essi hanno vissuto durante il loro comune soggiorno a casa Rosmer. Vi è inscritto il significato e il fallimento di due intere esistenze.

È Rosmer a interrogare per primo. Egli è angosciato. Le accuse di Kroll, confermate prove alla mano da Mortensgard, lo hanno gettato nel dubbio e nello sconforto, gli hanno tolto il senso dell’innocenza, senza il quale è impossibile ogni azione e ogni vittoria: «Allora, Rebecca, che ne pensi? … Mi sembra di non aver mai avuto tanto bisogno di te, come ora?» (32). Rebecca che ha ascoltato di nascosto le dichiarazioni fatte a Rosmer, appare inizialmente più controllata, ma poi agisce 'esplodendo' quando si rende conto che il pastore non abbandonerà mai più quell’opprimente senso di colpa e il pensiero della moglie morta per lui: «Oh! Non parlare di Beate, non pensare più a Beate! Ora che eri quasi riuscito a liberarti da quella morta». Finché anch’essa, vinta dalla colpa e dal rimpianto, non riesce più a controllare il suo crescente nervosismo, la sua irreprimibile angoscia e mentre cammina ‘torcendosi le mani’ si lascia sfuggire un’espressione di rammarico: «Oh! Mai avrei dovuto venire a Rosmersholm». Ma siamo solo all’inizio, il dialogo tra i due continua, sempre più serrato, sempre più soffocante e privo di sbocco.

Rosmer ha appena terminato di rivivere, colpevolizzandosi, il suicidio di Beata e spossato «si abbandona sulla sedia davanti alla scrivania, poggia i gomiti sul tavolo e si copre il viso con le mani». Osserviamo i due personaggi. Rosmer mantiene durante tutto il dialogo un atteggiamento coerente, evidenziato scenicamente da una recitazione uniforme, dove gesti e parole si corrispondono e concorrono a formare il disegno di un animo angosciato e abbattuto, desideroso di trovare motivi di rinnovamento che egli pensa di individuare nel matrimonio con Rebecca. Il comportamento di Rosmer è chiaro e esplicito, ogni suo moto trova in scena immediata e esauriente spiegazione. Ma quanto il comportamento di Rosmer è limpido e manifesto tanto quello di Rebecca appare criptico e incomprensibile, talvolta addirittura contraddittorio. Accade infatti che i suoi gesti smentiscano le parole e tradiscano sensazioni nascoste anticipando inevitabili soluzioni. È come se in Rebecca si manifestasse il contemporaneo insorgere di due tendenze contrastanti: una, controllata e consapevole, si fa luce attraverso l’articolazione verbale; l’altra, inquieta e irrazionale, si esprime attraverso la mimica e i movimenti in scena. La mancata coincidenza tra queste due diverse, ma contemporanee, dimensioni recitative ne rende difficile l’interpretazione. È lo stesso Ibsen a farlo presente quando, il 25 marzo 1887, scrive all’attrice Sofie Reimers: «Non mi sembra che il personaggio di Rebekka sia difficile da penetrare e capire. Ci sono però difficoltà nel renderlo e rappresentarlo a causa della sua stratificazione» (33).

Ma torniamo ad osservare i personaggi in scena. Rebecca, dopo aver dominato la propria esitazione, comincia a interrogare cautamente Rosmer. Ha paura delle possibili risposte, sa di essere vulnerabile, eppure non esita a innescare il meccanismo della chiarificazione. Il desiderio di verità ha vinto in lei l’istinto di sopravvivenza. Rebecca, quindi, interroga, ma ciò che non traspare, ricacciato indietro dalle sue parole impietosamente indagatrici, rimane incancellabile nei suoi gesti. Le didascalie di Ibsen sono in questa fase del dramma estremamente precise. Rebecca scruta le sensazioni di Rosmer riguardo a Beata e affronta coraggiosamente un interrogatorio penoso per entrambi, ma non osa stabilire un contatto diretto, preferisce evitare di fronteggiare il compagno e di guardarlo negli occhi.

Le risposte di Rosmer velano di rammarico le parole di Rebecca che però si colorano subito di trepida rievocazione quando la donna si sofferma a percorrere nostalgicamente le fasi della loro vita in comune, della loro unione spirituale. Ma stavolta Ibsen, per smentire la corrispondenza e l’unione dichiarata, pone un ostacolo fisico tra i due, quasi a impedire un effettivo contatto e evidenziare la natura sterilmente cerebrale del loro rapporto: Rebecca parla «dietro a lui, le mani sulla spalliera della sedia». E la sedia rimane, insopprimibile barriera tra i due. Ibsen è particolarmente attento a sottolinearne la continua presenza con puntuali didascalie. Poche battute più avanti Rebecca parla a voce bassa, «chinandosi sullo schienale della sedia» e incalza ancora Rosmer con le sue domande al punto che egli è costretto a volgersi "in sù" per guardarla. Sempre da «dietro la sedia» Rebecca, racimolando le energie residue e cambiando tono alle sue parole passa a esortare il pastore con atteggiamento fermo e risoluto. Poi «respira con fatica», mentre cerca di comprendere il ragionamento di Rosmer, fino a quando, «come colta da vertigini si afferra allo schienale della sedia», tradendo un nervosismo divenuto incontenibile e provocato dalle sibilline domande di Rosmer che preparano la finale proposta di matrimonio, insieme desiderata e temuta, da Rebecca.

Nelle indicazioni volute da Ibsen, dunque, la sedia, segno iniziale di una messinscena naturalisticamente intesa, finisce con lo sforzare il proprio originario significato in direzione di un’oltranza simbolica e allusiva con la funzione di marcare una concreta frattura, una materiale divaricazione tra i due protagonisti e sottolineando scenicamente il loro isolamento, in contrasto con il senso delle battute pronunciate.

Polese e Rindler, oltre a sfrondare con tagli inopportuni la scena, tendono a rimuovere molti degli elementi che rivelano la lontananza e il distacco interiore dei due personaggi. L’angoscia evidente, ma trattenuta e interiorizzata di Rebecca, che la porta a rimpiangere la sua venuta a Rosmersholm, nella versione di Polese viene esteriorizzata più o meno con le stesse parole, ma con diversa attitudine; ella infatti qui non parla ‘torcendosi le mani’, ma «stringendo le mani a Rosmer» con un atteggiamento di comunicatività fisica, non solo sconosciuto, ma reso spazialmente impossibile, nella versione originale.

Spariscono inoltre, in questa versione, le importanti e rivelatrici didascalie riguardanti le posizioni di Rosmer e Rebecca nei confronti della sedia, tra loro interposta con la funzione di affermare visivamente un distacco tenuto nascosto dal contenuto delle parole che li mostrano invece in affettuosa confidenza. Nello stesso modo ogni positura di Rebecca, durante questa scena con Rosmer, tende a sottolineare la vicinanza tra i due personaggi anziché il loro sostanziale isolamento. Se dunque, nella versione originale – come abbiamo visto – Rebecca «esitante» si avvicina a Rosmer e con fare trepidante e timoroso parla dietro di lui con «le mani sulla spalliera della sedia», nella traduzione di Polese ella conversa «avvicinandosi» a Rosmer e, «appoggiandosi al braccio sulla sedia», ascolta, tranquilla e desiderosa le parole che portano Rosmer alla formulazione della richiesta di matrimonio. Siamo in tal modo molto lontani dalla Rebecca nervosa e spaventata che cerca di comprendere le dichiarazioni di Rosmer mentre «come colta da vertigine si afferra allo schienale della sedia».

Eleonora Duse nel riproporre questa scena abbandona completamente il testo di Polese le cui tracce sono invece, a tratti, ancora rinvenibili in altre parti del copione relativo al secondo atto che ne riproduce letteralmente alcune battute. Il contenuto e l’esatta scansione delle didascalie ibseniane sono ripristinate nella versione dell’attrice. Ritroviamo qui le contrastanti varietà di toni e di posizioni ideate dall’autore per Rebecca che, nuovamente in preda al nervosismo, si muove in scena «torcendo le mani», interroga pronunciando le sue parole «con spavento»; dialoga con Rosmer «venendo dolcemente a collocarsi dietro di lui»; lo interroga «piano – sottovoce, curvandosi sullo schienale»; lo ascolta «respirando con pena»; fino a quando, prostrata, «come presa da vertigine si appoggia alla seggiola».

Il copione dusiano recupera e registra con attenzione, la prossemica dei personaggi e la forte valenza di un gioco scenico compiuto con gli oggetti e sugli oggetti di cui, sappiamo, Eleonora Duse era splendida interprete (34). Quello che il personaggio ha in più, in questa rinnovata proposizione dusiana, è semmai una dolce capacità seduttiva che Rebecca mantiene anche nei momenti di sconforto e che sembra costantemente caratterizzarla. Prima però di cogliere più profondamente questo aspetto attraverso la ricostruzione della messa in scena, scorriamo le battute finali di questo atto, mettendo direttamente a confronto la versione di Polese e quella di Eleonora Duse per misurare, nel concreto, l’effettiva distanza che le separa. È il momento in cui Rosmer chiede a Rebecca di sposarlo:



Edizione Polese Copione Duse
ROS. Rebecca, vuoi diventare la mia seconda moglie?

REB. (con gioia). Io?…io tua moglie?!…

 

ROS. Sì, noi vivremo sempre uniti. Occuperai il posto lasciato vuoto dalla mia povera morta.

REB. Al posto di Beata?

ROS. Solo in codesto modo potrei cancellarla per sempre dalla mia mente.

REB. (tremante). Lo credi possibile, Rosmer?

ROS. Deve essere così. Non posso, non voglio combattere le battaglie che mi attendono con cariche le spalle di un cadavere. Aiutami a levarmelo d’addosso, Rebecca: con la libertà, la gioia e la passione uccidiamo i tristi ricordi. Tu diventerai mia moglie, la sola moglie che io abbia amato.

REB. (procurando dominarsi). No, non ci pensare neppure, io non sarò mai tua moglie.

ROS. Mai? Credi dunque di potermi ancora amare come una volta? Non hai capito dunque che sotto la nostra apparente amicizia, divampa un vero amore?

REB. (turandosi le orecchie). Non parlarmene, Rosmer, non parlarmene.

ROS. Ed ora comprendo che anche tu te n’eri accorta.

REB. Taci, taci, e se persisti in questo proposito ti avverto che io abbandonerò la fattoria Rosmer.

ROS. Tu?…tu?… è impossibile

REB. Ciò che è impossibile è il matrimonio in cui confidi. Non potrò mai divenire tua moglie, non lo potrò mai.

ROS. (guardandola meravigliato). In qual modo dici quel non lo potrò!! Per qual ragione?…

REB. (prendendogli le mani). Amico mio: per cagion tua e mia: non domandarmi altro (s’avvia a sinistra).

 

ROS. Fino a che avrò vita ti chiederò sempre "Perché".

REB. (voltandosi). Allora tra noi tutto è finito.

 

ROS. Non lo credo: non sarà mai finita tra noi due. Tu non abbandonerai la fattoria Rosmer.

REB. (aprendo l’uscio). Speriamolo; ma se tu mi costringi a parlarti, allora sì, tra noi la sarà finita per sempre!

ROS. Ma perché?

 

 

REB. Perché anch’io dovrei seguire il cammino di Beata. Ora lo sai Rosmer!

ROS. (tra sé). Ora lo sai! (guardando l’uscio) Ma che cosa avrà voluto dire?!

ROSM. Rebecca (avvicinandosi a lei) Se io ti domando: vuoi essere mia moglie?

REB. (resta un istante senza poter parlare. Poi con un’esplosione di gioia). Tua moglie? Di te? Io?…

ROSM. Così sia! Proviamo questo mezzo. Formiamoci in uno solo; tu ed io – non vi sia più un vuoto dopo la morta (35).

REB. Io? Al posto di Felicita?

ROSM. Così ella sparirà per sempre nel tempo e nell’eternità.

REB. (con debole voce paurosa). Tu lo credi, Rosmer?

ROSM. Bisogna che sia così! Bisogna! Non posso, non voglio traversare la vita con un cadavere sulle spalle. Voglio sbarazzarmene. Aiutami Rebecca! – E poi soffochiamo tutti i ricordi nella libertà, nel piacere, nella passione. Tu sarai per me la sola sposa ch’io abbia avuto.

REB. (con fermezza). Non parlar più. Mai sarò tua moglie.

ROSM. Che dici? Mai!? Non potrai tu dunque imparare ad amarmi – forse che un fermento d’amore non si nasconde sotto la nostra amicizia.

REB. (Quasi spaventata le mani alle orecchie, non volendo udire). Non parlare così. Non dir questo Rosmer!

ROSM. Sì – sì – vi è una corrente – una tensione… Ah! Io vedo che tu la senti come me, non è vero Rebecca?

REB. (dominandosi riprende la sua calma). Ascoltami, Rosmer, se tu persisti in questa idea, io parto da Rosmersholm.

ROSM. Tu partire? Non lo potresti ; è impossibile!

REB. È ancora più impossibile diventare tua moglie. Non potrò essere tua moglie!

ROSM. (guardandola colpito). Tu dici non potrò – e tu lo dici così stranamente…perché non lo potrai?

REB. (prendendogli la mano). Amico, nel tuo interesse e nel mio, non domandarmi perché. Basta Rosmer (lasciandolo si dirige verso la porta a sinistra).

ROSM. Da questo momento in poi, non v’è per me, che una sola domanda: Perché?

REB. (voltandosi e guardando Rosmer). In questo caso … tutto è finito!

ROSM. Fra te e me?

REB. Sì.

ROS. Mai saremo divisi l’uno dall’altro. Mai tu lascerai Rosmersholm.

REB. (tenuta alla maniglia della porta). No!? È ben possibile. Ma se tu m’interroghi ancora tutto sarà finito per me.

ROSM. Finito? Come?

REB. Sì – poiché in tal caso dovrò seguire Felicita.

ROSM. Rebecca!

REB. (sempre alla porta, scrolando la testa). Ora, tu lo sai (esce).

ROSM. (fissando la porta che si è richiusa). Che intende di dire?….



Dopo aver restituito poesia al testo ibseniano, aver ricomposto l’originario e inquieto protagonismo di Rebecca West, aver ridisegnato le sfumature dei rapporti fra i personaggi in scena e dopo aver compiuto l’ultima revisione del copione durante il volontario esilio elvetico di Lucerna, Eleonora Duse era finalmente pronta per andare in scena e incarnare un personaggio evidentemente da lei accolto e sentito con inconsueta intensità. Prima volle però dare al suo pubblico un segno della piccola rivoluzione drammaturgica compiuta. Per formularne l’annuncio ufficiale scelse, con sottile cinismo, «L’Arte drammatica» e il suo incorregibile direttore, Enrico Polese Santarnecchi. Il quale non fece una piega:

«Eleonora Duse, la Maggiore Artista, delle diverse traduzioni inglesi, francesi ed italiane di Rosmersholm non ne volle alcuna e da sé si è tradotto il forte lavoro di Ibsen. Tale traduzione fu riveduta e approvata dal conte Prozor, rappresentante di Ibsen per i paesi latini, e di questa sua traduzione ha ottenuto il permesso esclusivo di rappresentazione. La Maggiore Artista ed Intelligentissima Signora ha creduto di non tradurre il titolo perché holm è una parola dell’antico sassone, che equivale al latino culmen, in italiano culmine, ma intraducibile tanto in italiano come in francese, quanto in inglese. Avrebbe il significato di poggio, di culmine, non certo di fattoria. E’ il culmine su cui sta questa famiglia Rosmer: tale il senso ed ecco perché Eleonora Duse nella sua traduzione ha lasciato il titolo immutato e cioè Rosmersholm» (36).

Usò la figura retorica della sineddoche, Eleonora Duse, e si affidò alla forza del titolo per sottolineare la portata e il senso del suo integrale intervento sul testo. Peccato – sia detto per inciso – che di tale accurato, profondo e originale lavoro di ‘drammaturgia d’attore’, soltanto quindici anni più tardi sia stata persa ogni memoria e un critico, preparato e avvertito come Silvio d’Amico, recensendo, il 4 maggio 1920, una rappresentazione di Rosmersholm abbia così potuto scrivere:

«Venerdì sera Emma Gramatica ci ha dato al Valle la Fattoria Rosmer di Ibsen. Sarebbe meglio tradurre Casa Rosmer, perché l’idea della nostra fattoria non ha niente a che vedere con quella specie di ridotto della virtù austera e tradizionale ch’è il vecchio nido dei Rosmer, preso d’assalto e diroccato dalla gioiosa e colpevole furia di Rebecca. Sarebbe anzi necessario ritradurre tutto il dramma, e tutto Ibsen; perché è incredibile di che miserevole strumento si trovino oggi a disporre i nostri disgraziati attori, quando alla loro buona volontà non si offre che la vecchia edizione ibseniana di Treves» (37).

Un’occasione perduta del teatro italiano.

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NOTE

31) Per una approfondita analisi dei movimenti di Rebecca in questa scena rimando a Roberto Alonge, "Rosmersholm". Prologo, in «Studi nordici», VII, 2000, pp. 231-250.

(32) Questa e le successive battute che riporto in italiano sono tratte da Henrik Ibsen, Rosmersholm, trad. it. di Marcella Rinaldi, Genova, Edizioni del Teatro di Genova, n.47, aprile 1984, pp. 158-163.

(33) Henrik Ibsen, Vita dalle lettere, cit., p. 139.

(34) Sulla capacità di Eleonora Duse di lavorare con gli oggetti e su altri aspetti della sua recitazione (utilizzo delle controscene, rapporto con i partners in scena, ecc.) rimando a Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit., pp. 55-100.

35) Le parole evidenziate in neretto sono state inserite a mano dalla Duse sopra la battuta di Rosmer. Impossibile leggere al di sotto delle correzioni.

36) «L’Arte drammatica», 2 dicembre 1905.

(37) Silvio d’Amico, "Rosmersholm" di Henrik Ibsen, al Valle in Silvio d’Amico, La vita del teatro. Cronache, polemiche e note varie, cit., p. 372. Singolare anche notare come Silvio d’Amico rivolga critiche alla esecuzione e all’allestimento scenico del dramma molto simili a quelle, da noi riportate, a suo tempo rivolte alle prime rappresentazioni del dramma di Ibsen. 

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[leggi la prima parte del saggio]







 
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